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L’EVOLUZIONE DELLA CONCESSIONE NELLA TEORIA DEI BENI PUBBLICI: MERCATO, TUTELA E VALORIZZAZIONE

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Dipartimento di Giurisprudenza

Dottorato in Scienze Giuridiche

Indirizzo di Diritto Pubblico e dell’Economia

L’

EVOLUZIONE DELLA CONCESSIONE

NELLA TEORIA DEI BENI PUBBLICI

:

MER-CATO

,

TUTELA E VALORIZZAZIONE

.

Settore scientifico disciplinare: IUS/10 – Diritto Amministrativo

Tutor

Chiar.mo Prof. Alfredo Fioritto

Dottoranda Dott.ssa Ilde Forgione

(2)
(3)

INTRODUZIONE

Lo studio relativo ai beni pubblici passa necessariamente per l’analisi degli instrumenta che l’ordinamento predispone per consentire al privato di ottenere delle utilitas, pur in necessario contemperamento con l’interesse pubblico. Nell’attuale tensione fra strumenti autoritativi e consensuali, si pone il problema dell’uso dei beni pubblici e, segnatamente, quello della loro valorizzazione mediante assegnazione al privato in ragione del premi-nente interesse pubblico.

La concessione è stata uno dei moduli di cui, in relazione a tale assetto di interessi, si è fatto largo uso. Nella sua disciplina, fin dal principio, si è ricercato un equilibrio tra finalità pubbliche e utilità economica per il privato.

Di recente, si è registrata una crescente critica svalutativa delle impostazioni pubbli-cistiche, secondo una tendenza incoraggiata sia dalla rinnovata valorizzazione del ruolo del privato nel più ampio campo del diritto amministrativo, sia dalla penetrante incidenza del diritto europeo relativamente all’utilizzo dei moduli contrattuali per la gestione di beni di proprietà pubblica.

Oggetto del presente studio è l’analisi critica dell’evoluzione dell’istituto della conces-sione, da una parte in relazione alla teoria dei beni pubblici, e dall’altra ai principi discen-denti dal diritto europeo. Da un lato si è infatti notato che l’intento del legislatore europeo sembra essere quello di consentire una progressiva unificazione della nozione di conces-sione tra i paesi membri, come era stato per gli appalti pubblici. Da una diversa prospettiva a livello nazionale, nel quadro di ampia privatizzazione dei beni pubblici e dei servizi di interesse generale ad essi collegati e del passaggio della titolarità dei beni agli enti territo-riali si è notata una transizione verso una nozione oggettiva di bene pubblico, senza però riuscire a definire in modo chiaro ed unitario in cosa essi consistano. In conseguenza della

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natura non ben delineata del loro oggetto, non è chiaro quale sia la natura di quel peculiare strumento di gestione dei beni che è la concessione.

La ricerca ha quindi preso le mosse dall’esigenza di approfondire tendenze e problemi attuali della disciplina dell’istituto concessorio, prestando particolare attenzione alla fun-zione assolta da essa in relafun-zione al carattere pubblico del bene. Infatti, nello studio di questo modulo non è possibile non prendere in considerazione l’eterogeneità dei caratteri dei beni pubblici suscettibili di affidamento in uso esclusivo, dal momento che le caratte-ristiche proprie dell’oggetto della concessione influiscono sulla stessa disciplina applicabile allo strumento con cui il bene viene gestito. In altri termini, è la peculiarità dell’oggetto della concessione che induce a considerare lo strumento concessorio in modo differente rispetto all’appalto ed a negare che la disciplina di questi ultimi possa essere applicata alle prime.

Le due tematiche sono state affrontate in modo congiunto, analizzando la teoria dei beni pubblici nella sua evoluzione storica e con particolare riguardo agli usi dei beni, in quanto si ritiene che sussista un legame inscindibile tra concessione ed uso dei beni, anche se proprio la contraddizione tra il carattere pubblico del bene e l’appropriazione a titolo particolare delle utilità del bene stesso ha condotto ad espungere la concessione dalla teo-ria dei beni pubblici. E difatti, giova puntualizzare che la riflessione degli studiosi in ma-teria di beni pubblici è sempre stata volta a interrogarsi sulla ragione e sul significato del carattere pubblico dei beni – che costituisce anche il presupposto logico della concessione – piuttosto che sugli usi degli stessi.

A tal fine nel Capitolo I si è proceduto ad una rilettura dello sviluppo storico della dottrina sui beni pubblici, dalle interpretazioni sorte durante la vigenza del Codice del 1865 ad oggi, prestando anche attenzione al ruolo attribuito alla tematica degli usi dei beni nell’elaborazione dei diversi autori. Nello specifico, si è provato ad individuare il quid che la singola teoria assume essere la ragione propria della pubblicità dei beni, cercando allo stesso tempo di chiarire il legame tra natura pubblica dei beni ed i modi di uso di essi, anche con riferimento al fondamentale cambio di paradigma che si è avuto con l’avvento della Costituzione repubblicana.

La ricostruzione della dinamica dei rapporti tra proprietà ed interesse pubblico si è incentrata sull’analisi della combinazione tra la dimensione dell’appartenenza e quella della destinazione, l’una di natura soggettiva e l’altra di natura oggettiva, che nel corso del tempo hanno influenzato il regime giuridico dei beni pubblici. E, sebbene il regime dei beni pub-blici sia stato tradizionalmente caratterizzato dalla destinazione di essi all’uso pubblico o alla realizzazione di interessi propri dello Stato e degli enti territoriali (specie attraverso la

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sottoposizione dei beni ad un regime derogatorio rispetto a quello di diritto comune, con esclusione dal commercio giuridico e tutela amministrativa) tale regime speciale nella mo-derna impostazione sembra essere divenuto recessivo. Al contempo, l’elemento della fun-zione sembra aver acquisito progressivamente un ruolo predominante nella definifun-zione dell’assetto normativo dei beni, di tal che si è venuta a delineare una nozione oggettiva di bene pubblico, caratterizzata dalla presenza di un vincolo reale di destinazione, a cui il bene è assoggettato a prescindere dalla sua titolarità, in ragione della finalità di interesse pubblico a cui esso è strumentale.

Se è vero che la struttura e l’articolazione della proprietà sono da porre in stretta connessione con il tessuto sociale specifico di un dato momento storico, ciò vale a spie-gare la perdita di rilievo dei rapporti tra i beni e la collettività avvenuta negli ultimi decenni del 1900. I beni, cioè, hanno progressivamente iniziato ad essere considerati per il loro valore economico e per la loro capacità di produrre reddito, piuttosto che per la loro destinazione all’uso pubblico o al raggiungimento delle finalità istituzionali dei pubblici poteri. Di conseguenza, in questo nuovo scenario hanno acquisito un ruolo centrale le imprese che svolgono le attività economiche in regime di concorrenza.

Da questa premessa prende le mosse il Capitolo II, nel quale si è analizzata la margi-nalizzazione dell’impianto codicistico avvenuta a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso; marginalizzazione causata anche dai mutamenti all’assetto generale della proprietà pub-blica indotti dalla normativa di origine comunitaria in materia di rapporti economici e dalle leggi speciali, le quali sono andate nella direzione della dismissione e della valorizzazione economica dei beni degli enti pubblici.

I processi di liberalizzazione e di privatizzazione degli enti pubblici hanno quindi comportato l’alienazione degli stessi beni pubblici a privati o a soggetti giuridici avente veste societaria, ancorché rimaste sotto il controllo pubblico. L’alienazione, a sua volta, ha comportato l’estensione ai rispettivi beni delle regole di diritto comune.

Pertanto si è notato che le discipline del mercato e della concorrenza hanno condotto all’emersione di nuove fattispecie di beni pubblici, considerati tali in senso oggettivo, cioè per la funzione che essi svolgono nei processi produttivi, piuttosto che per il profilo della loro imputazione a soggetti pubblici.

In questo stesso filone ma, allo stesso tempo forse in controtendenza, si muove la legislazione sul federalismo demaniale, là dove riemerge il nesso tra bene, territorio e col-lettività di riferimento nell’esigenza di recuperare un autonomo rilievo giuridico al rap-porto tra alcune categorie di beni, specialmente quelli naturali e culturali, e le collettività cui essi sono più vicini, soprattutto al fine di favorire lo sviluppo economico locale, tanto che si è parlato di federalismo di “valorizzazione”.

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Dal Capitolo III si sviluppa la ricerca sulla natura delle concessioni e sulla disciplina ad esse applicabile, analisi che, condotta in ottica evolutiva, si conclude nel capitolo suc-cessivo con uno studio critico sull’impostazione attualmente maggioritaria.

L’indagine è partita dalla considerazione per cui sebbene l’istituto della concessione amministrativa sia storicamente presente nel nostro ordinamento sin dall’Unità d’Italia, tuttavia la sua natura giuridica continua ad oscillare tra profilo pubblicistico e profilo pri-vatistico, in ragione dell’evoluzione storica dei rapporti tra atti di impero di diritto pub-blico e atti di gestione di diritto privato. La dottrina ha studiato il mutamento di tali rapporti finendo per propendere talvolta per l’impostazione pubblicistica, talaltra per quella privatistica.

Se l’orientamento tradizionale aveva definito la concessione come lo strumento me-diante il quale la pubblica amministrazione amplia la sfera giuridica del destinatario, attri-buendo al medesimo poteri, diritti e facoltà riservati ad essa riservati e, per tale motivo, sottratti alla circolazione giuridica comune ed individuava l’ubi consistamdella concessione nel provvedimento amministrativo volto a curare interessi pubblici affidati ad un soggetto che opera come autorità, tale impostazione è stata contestata dalla dottrina successiva.

Le influenze della teoria del contratto di diritto pubblico hanno portato alcuni studiosi a sostenere l’esistenza di ambiti scevri da poteri di ingerenza pubblicistici, nei quali il cit-tadino si trova in posizione paritaria con lo Stato. Altri hanno osservato come nella prassi la concessione subisca delle contaminazioni, in quanto all’atto di natura provvedimentale viene affiancato un contratto “accessivo”, qualificato in chiave privatistica ed assoggettato a regole civilistiche. Di conseguenza è stata elaborata la figura della concessione contratto caratterizzata, appunto, dalla compresenza di un atto amministrativo unilaterale e di un contratto di diritto privato, concluso tra l’ente concedente e il privato.

Altri ancora hanno inquadrato le concessioni tra i provvedimenti di “amministrazione indiretta”, mediante i quali il privato si sostituisce all’amministrazione nell’esercizio di fun-zioni o servizi pubblici. Infine, vi è chi ha proposto di assimilare le concessioni alla figura degli accordi pubblici di cui all’art. 11 della legge n. 241 del 1990.

In questo quadro complesso e variegato, si è innestato il processo di liberalizzazione promosso dal legislatore europeo, il quale ha distinto le attività caratterizzate dall’esercizio di potestà sovrane e sottratte al libero mercato dalle attività aventi carattere economico, che vengono sottoposte al gioco della concorrenza, pur promanando da pubblici poteri. Ciò ha influenzato enormemente le categorie giuridiche, tra l’altro, imponendo di aprire

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al mercato attività fino ad allora sottoposte a regime di monopolio o riserva, oppure im-ponendo di eliminare le barriere all’esercizio dell’attività economica, incoraggiando le pre-stazioni di alcuni servizi da parte dei privati in regime concorrenziale.

Da questa analisi si prendono le mosse per affrontare, in chiave critica, il difficile rapporto tra l’istituto tradizionale della concessione di beni e la nuova figura europea, o meglio, quella che sembra delinearsi dall’interpretazione delle norme europee proposta dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti. Si è quindi ritenuto necessario affrontare la tematica relativa al rapporto tra le scelte dei pubblici poteri sull’uso dei beni e i principi del diritto comunitario, senza alcuna propensione ideologica, nel Capitolo IV, che costi-tuisce un punto di arrivo ma anche una proposta per il futuro, ciò quanto si ritiene di poter suggerire una ricostruzione dell’istituto della concessione dei beni – l’unica che il legislatore europeo non disciplina puntualmente – in base ai canoni di imparzialità e buon andamento, piuttosto che seguendo i ben più rigidi parametri della tutela della concor-renza e della ragion di mercato.

E dal momento che è lo stesso legislatore europeo a chiarire che alle concessioni di beni si applicano solo i principi in materia previsti dal Trattati, ciò non può che significare che le concessioni di beni si differenziano in maniera sostanziale dalle altre (servizi e la-vori) in ragione dell’innegabile e concreto valore pubblico di ciò che hanno ad oggetto. La particolarità dell’oggetto, che risulta strumentale a curare una molteplicità di interessi pubblici, non può che far propendere per una visione più elastica dell’istituto, che porta ad individuare il criterio attraverso cui misurarne la legittimità o illegittimità nei canoni classici dell’imparzialità e del buon andamento.

Difatti, si ritiene che sussista un livello delle scelte in ordine agli usi dei beni pubblici che appartiene necessariamente alla valutazione discrezionale dei pubblici poteri e che non può essere lasciato all’autonomia privata, in quanto comporta scelte aventi rilevanti impli-cazioni a carattere generale, soprattutto per ciò che riguarda il modo di curare gli interessi affidati all’amministrazione. Per cui, siccome le scelte riservate ai pubblici poteri riguar-dano essenzialmente gli effetti a carattere generale degli usi individuali in sé considerati, si dubita della compatibilità con i rilevanti interessi pubblici coinvolti nei modi di uso dei beni pubblici di un’impostazione pienamente privatistica e volta essenzialmente a garan-tire il rispetto delle regole di concorrenza e parità di trattamento tra operatori economici.

Se pur non si dubita del fatto che le concessioni di beni siano soggette ai principi generali dell’ordinamento europeo, in quanto attraverso di esse la risorsa pubblica viene assegnata ad un operatore economico, ciò che astrattamente può costituire un fattore di

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inquinamento del mercato, tuttavia, un simile approccio finisce con l’inscrivere le conces-sioni di beni nell’ambito di un paradigma di valori in cui la promozione della concorrenza assume un ruolo assolutamente preminente.

Per tale via si finisce con lo svilire il valore dell’interesse pubblico sotteso all’affida-mento in concessione, ponendo tutta l’attenzione sul vantaggio economico del concessio-nario. Tale prospettiva, secondo l’opinione di chi scrive, è errata, in quanto le concessioni di beni si differenziano nettamente dagli appalti in virtù del diverso modo in cui, nei ri-spettivi ambiti, viene declinato il concetto di fabbisogno pubblico, dal momento che nell’ambito della concessione sono centrali l’utilità (il bene pubblico) a cui i soggetti privati aspirano e la loro attitudine a valorizzarlo.

In questo quadro, la discrezionalità, pur bilanciata dai criteri di imparzialità e buon andamento, può rappresentare lo strumento mediante il quale svolgere una riflessione in merito al bilanciamento tra le richieste dei privati, la necessità di valorizzare i beni pubblici e gli interessi generali che spetta all’amministrazione di assicurare.

La riflessione su questi interessi si sviluppa mostrando i problemi specifici sollevati dalle concessioni di beni a livello legislativo, dottrinale e giurisprudenziale, allo scopo di mostrare attraverso quali percorsi si è arrivati al momento presente, in una concezione evolutiva diritto, pur senza rinunciare a fornire una lettura critica dell’assetto attuale. Non si tratterà, invece, il suggestivo tema dei beni comuni, in quanto non pienamente colli-mante con l’iter logico e argomentativo seguito dal presente lavoro.

In tale ottica le considerazioni che seguono saranno articolate in una triplice direzione: 1. Ricostruzione dell’esistente, con specifico riguardo all’evoluzione storica dei mo-delli teorici e culturali sottesi ai diversi approcci al tema dei beni pubblici e delle conces-sioni di beni, con particolare attenzione al modo in cui i sistemi considerati abbiano reagito ai mutamenti nel tempo intervenuti. Questo esame è essenziale per comprendere i pre-supposti teorici che informano l’approccio degli studiosi al tema e che si riflettono nella disciplina positiva.

2. Analisi dei problemi emergenti, con particolare attenzione ai fenomeni correlati alle privatizzazioni ed alla loro incidenza sulla stessa concezione di bene pubblico e, indiretta-mente, agli strumenti per la gestione di questi, inclusa la concessione, nonché al favor mo-strato dal legislatore europeo per la gestione contrattualistica dei rapporti tra pubblici poteri e soggetti privati e per il regime concorrenziale.

3. Intento di fornire alcuni spunti propositivi e soluzioni ricostruttive, a partire da uno studio svolto, in riferimento all’istituto della concessione dei beni e alla luce del modello

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europeo, sia al punto di vista della disciplina applicabile sia dal punto di vista della coe-renza di sistema.

Il lavoro, nel suo complesso, mira a “fotografare” il rapporto attuale tra i beni e gli strumenti attraverso cui vengono gestiti, cercando di fornire delle risposte, in via tenden-ziale e propositiva, a talune delle numerose questioni correlate alla mutata visione dello strumento della concessione amministrativa, derivante dai principi europei.

In tal senso, si intende seguire l’indicazione di Pototschnig, secondo cui occorre ve-rificare «come le diverse componenti del sistema di economia mista si tengano in equili-brio», senza accontentarsi di ricavare «soltanto la regola secondo cui quelle componenti devono poter in qualche modo convivere»I.

I U. POTOTSCHNIG, Poteri pubblici ed attività produttive, in AA.VV., La Costituzione economica a quarant’anni

dall’approvazione della Carta fondamentale, Milano, 1990, p. 99 ss., ora anche in ID., Scritti scelti, Padova, 1999, p. 644.

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L’

EVOLUZIONE DELLA CONCESSIONE NELLA TEORIA DEI BENI PUB-BLICI

:

MERCATO

,

TUTELA E VALORIZZAZIONE

.

INTRODUZIONE CAPITOLO

I

L’evoluzione della teoria dei beni pubblici tra appartenenza e desti-nazione

Le coordinate dell’indagine sui beni pubblici e sul loro uso. Appartenenza e funzione in una

pro-spettiva storica: una premessa 1 1. Le appartenenze pubbliche nella prospettiva dello Stato liberale 9

1.1 Il demanio come mezzo per soddisfare i bisogni della collettività ed il ruolo dello

Stato nell’impostazione di Oreste Ranelletti 16

1.2 La centralità della pubblica amministrazione nella nozione di proprietà pubblica

elaborata da Santi Romano 22

1.3 La demanialità come condizione giuridico-formale dei beni, nelle ultime

elabora-zioni nel vigore del Codice del 1865 28

2. La riapertura della riflessione nella seconda metà del 20° secolo, tra superamento

delle categorie codicistiche e modello costituzionale della proprietà 38 2.1 La categoria Sandulliana dei beni di interesse pubblico 46 2.2 La scomposizione della categoria dei beni pubblici e l’approccio realista e

proble-matico nell’opera di Massimo Severo Giannini 52

2.3. La nozione di riserva ed il vincolo pubblicistico nella sistematica della proprietà

pubblica di Sabino Cassese 62

3. Alcuni punti di approdo e l’elaborazione della dottrina successiva tra tendenze

ordinatrici e tendenze privatistiche 70

4. La scomposizione della nozione di proprietà pubblica nel pensiero di Cerulli Irelli

73

C

APITOLO

II

Verso una nozione oggettiva di beni pubblici: valorizzazioni e privatizza-zioni

1. Introduzione:le innovazioni di fine secolo in merito alla titolarità e alla funzione dei

beni 79

2. Del rapporto tra attribuzione di funzioni amministrative e titolarità dei beni

(12)

2.1. Il regime dei beni degli enti locali precedente alla riforma costituzionale del 2001 85 2.2. Segue: i principi ispiratori della disciplina dei beni degli enti locali dopo la riforma

del Titolo V della Costituzione 90

2.3. Il federalismo demaniale 95

3. I beni pubblici tra diritto ed economia: le privatizzazioni come modalità di mise en valeur 103

3.1. L’influenza del diritto europeo 119

4. Il dibattito intorno alle privatizzazioni dei beni pubblici, tra insoddisfazione per il

regime tradizionale e dubbi di costituzionalità 123

4.1 Segue: le posizioni critiche 134

5. Osservazioni riepilogative 139

C

APITOLO

III

Evoluzione dell’istituto della concessione amministrativa dei beni pubblici

Sezione I – moduli consensuali ed autoritativi a confronto nel percorso dottrinale e giurisprudenziale

1. Introduzione: la concessione tra diritto pubblico e privato 142 2. Evoluzione degli studi sul tema: tendenza contrattual-privatistica ottocentesca 149

2.1. Segue: l’affermazione dell’«ondata panpubblicistica» nelle opere di Orlando e

Ra-nelletti 152

2.2. Ulteriori sviluppi del dibattito sul crepuscolo del secolo XIX: Cammeo e Santi

Ro-mano 155

2.3. Una voce fuori dal coro: Forti e la teoria del contratto di diritto pubblico sulla

scorta delle suggestioni germaniche 157

2.4. Le tendenze giurisprudenziali della prima fase 159 2.5. Il contratto ad oggetto pubblico: lo schema del contratto accessivo 163 2.6. Categorizzazione in ambito contrattuale e l’elaborazione delle c.d. convenzioni

pubblicistiche 166

2.7. Ritorno ad una soluzione pubblicistica: la natura di atto amministrativo “con

cor-rettivo” nella tesi di Sorace e Marzuoli 170

3. Mutamento del quadro normativo: la legge 7 agosto 1990, n. 241 ed incidenza del

diritto europeo 171

4. Contenuto e nozione di concessione 174

5. Disciplina comune attualmente applicabile alle concessioni: ragioni della distinzione

dall’autorizzazione 178

6. L’interpretazione dell’atto amministrativo 183

Sezione II – Oggetto del modello concessorio, regolamentazione dei beni pubblici ed utilizzo di schemi privatistici

7. Tripartizione dell’oggetto: concessioni di lavori pubblici, di servizi e di beni pubblici 187 7.1. Evoluzione della normativa sulle concessioni di beni pubblici: autostrade, beni

cul-turali, risorse idriche 187

(13)

8. Osservazioni riepilogative e prime parziali conclusioni: una proposta di lettura

evolu-tiva delle categorie gianniniane 203

C

APITOLO

IV

Ultime evoluzioni derivanti dall’incidenza del diritto europeo

1. Introduzione: tutela del mercato e giustizia distributiva 210 2. Il diritto europeo: appalti, servizi e concessioni di beni 218

2.1 Segue: il concetto di interesse transfrontaliero certo come punto di equilibrio tra promo-zione della concorrenza e rispetto del regime interno di proprietà pubblica 233 3. Il diritto interno: suggestioni europee e rattrappimenti concettuali “apparenti” 236

3.1. Segue: l’oggetto e l’obbligo di gara. Dialogo fra principi europei e principi di diritto

domestico 247

4. Aspetti di tensione rispetto alle alterazioni dei principi in tema di affidamento delle concessioni: questioni di diritto amministrativo e di diritto penale 256

C

ONCLUSIONI 271

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(15)

Capitolo I

L’evoluzione della teoria dei beni pubblici tra

appartenenza e destinazione

SOMMARIO. Le coordinate dell’indagine sui beni pubblici e sul loro uso. Appartenenza e funzione in una prospettiva

storica: una premessa; 1. Le appartenenze pubbliche nella prospettiva dello Stato liberale; 1.1 Il demanio come mezzo per soddisfare i bisogni della collettività ed il ruolo dello Stato nell’impostazione di Oreste Ranelletti; 1.2 La centralità della pubblica amministrazione nella nozione di proprietà pubblica elaborata da Santi Romano; 1.3 La demanialità come condizione giuridico-formale dei beni nelle ultime elaborazioni nel vigore del Codice del 1865; 2. La riapertura della riflessione nella seconda metà del 20° secolo, tra superamento delle categorie codicistiche e modello costituzionale della proprietà; 2.1 La categoria Sandulliana dei beni di interesse pubblico; 2.2 La scomposizione della categoria dei beni pubblici e l’approccio realista e problematico nell’opera di Massimo Severo Giannini; 2.3. La nozione di riserva ed il vincolo pubblicistico nella sistematica della proprietà pubblica di Sabino Cassese; 3. Alcuni punti di approdo e l’elaborazione della dottrina successiva tra tendenze ordinatrici e tendenze privatistiche; 4. La scomposizione della proprietà pubblica nel pensiero di Cerulli Irelli.

Le coordinate dell’indagine sui beni pubblici. Appartenenza e funzione in una prospettiva storica: una premessa.

L’espressione beni pubblici contiene un’ambiguità di fondo, indicando sia le catego-rie di cose che sono pubbliche perché in propcatego-rietà dei pubblici poteri, sia quelle che sono tali perché i pubblici poteri ne condizionano l’uso in ragione del fatto che esse, offrendo delle utilità ai singoli membri delle collettività, sono oggetto di diritto di uso pubblico. In generale, è possibile fin da subito affermare che la disciplina dei beni (materiali e imma-teriali) risulta diretta espressione dell’organizzazione sociale ed economica della società. La disciplina giuridica dei beni pubblici, invero, si è tradizionalmente sviluppata in-torno ai due nuclei concettuali, che costituiscono anche i punti di riferimento dai quali ha mosso questa ricerca. Ovvero, ci si è accostati «a quel nodo aggrovigliato che è la pro-prietà»1 nel tentativo di ricostruire la dinamica dei rapporti tra questa e l’interesse

pub-blico attraverso la combinazione delle due dimensioni dell’appartenenza e della

1 P.GROSSI, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in ID., Il dominio e le cose, Milano, 1992, p. 613; ID., in Proprietà (dir. Intermedio), Enc. Dir., Milano, 1988, ad vocem.

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destinazione, l’una di natura soggettiva e l’altra di natura oggettiva, che nel corso del tempo hanno influenzato il regime giuridico dei beni pubblici2.

Un bene3 può appartenere ad un soggetto pubblico o privato e può essere destinato

ad un uso pubblico, privato o misto, e ciò in ragione della sua importanza sociale, la quale dipende a sua volta dall’attitudine del bene stesso a soddisfare l’interesse pubblico, anche in modo non esclusivo.

Con l’intensificarsi dell’idoneità del bene al soddisfacimento dell’interesse pubblico tale nesso implica un limite alla proprietà, rispetto alle prerogative del soggetto proprie-tario – limite che può essere più o meno intenso – oppure può porsi come vincolo di scopo. La destinazione, infatti, dipende dal fatto che le molte e mutevoli utilità che una cosa può esprimere devono essere riferibili ad interessi attratti nella sfera pubblica. Ciò in quanto le utilità debbono essere rivolte alla soddisfazione di un bisogno e, dal mo-mento che il bene deve essere in grado di soddisfare interessi giuridicamente rilevanti, ciò implica che la scelta della destinazione da imprimere al bene sia preceduta da una sele-zione degli interessi che esso è chiamato a realizzare.

Il fatto che i beni non siano rilevanti di per sé, ma in quanto strumento per lo svol-gimento di attività, emerge chiaramente dalla stessa sistematica della Costituzione, la quale colloca significativamente la proprietà nell’ambito del Titolo III della Parte Prima, dedicato ai rapporti economici. In ciò la Costituzione si differenzia nettamente dalle scelte compiute dal Codice civile del 1865 il quale, influenzato dal Code Napoléon francese, po-neva il diritto di proprietà al centro dell’ordinamento dello Stato liberale. Ancora diversa è la scelta del Codice civile del 1942, il quale si è trovato a regolare il non facile passaggio da una società basata sulla rendita, in cui la ricchezza era costituita quasi esclusivamente da patrimoni immobiliari e terrieri, ad una società basata sull’industria, in cui la ricchezza è prodotta tramite l’attività, da imprenditori e lavoratori subordinati e autonomi4. Difatti,

2 La combinazione dell’interesse pubblico con quello privato è alla base della creazione di ogni posizione giuridica soggettiva in qualsiasi ordinamento e della relativa tutela giuridica. Al legislatore è affidato il compito di determinare l’estensione della protezione accordata, rispettivamente, all’interesse pubblico e all’interesse privato entro una specifica cornice che ne definisce il potere conformativo. Cfr. S. PUGLIATTI, Interesse pubblico e interesse privato nel diritto di

proprietà, in La proprietà nel nuovo diritto, Milano, 1964, p. 49.

3 I beni in senso giuridico sono cose che costituiscono oggetto di diritti, le quali non appartengono necessariamente in modo esclusivo a singoli individui, ma possono appartenere anche ad un soggetto di natura collettiva, rappresentativo di una determinata comunità o di diverse comunità (città, Regione etc.). Difatti, il bene giuridico è «entità relazionale», e «risposta che una certa civiltà storica ha inteso dare a quella dialettica soggetto/oggetto che ha dominato la cultura giuridica dell’occidente», P. GROSSI, I beni: itinerari tra “moderno” e “post-moderno”, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 4, 2012.

4 G.B. FERRI, La formula «funzione sociale» dalle idee del positivismo giuridico alle scelte del legislatore del 1942, in Riv. dir. priv., 2003, p. 681.

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il Codice attualmente in vigore «non è più imperniato sulla proprietà immobiliare e ter-riera ma pone al centro dell’attenzione l’impresa, l’attività produttiva, la regolamentazione del lavoro, la necessità di organizzare la produzione»5.

Sia il Codice civile del 1942 che la Costituzione pongono le regole dell’attività a guida della disciplina dei beni, come si evince dalle disposizioni del Codice che regolano l’im-presa e i rapporti di lavoro6; inoltre, esse assumono una rilevanza del tutto peculiare

rela-tivamente all’attività della pubblica amministrazione, per ciò che le disposizioni costituzionali hanno segnato il definitivo tramonto della concezione proprietaria legata alla tradizione giuridica del periodo borghese, anche attraverso l’introduzione di un nuovo statuto della proprietà pubblica. Infatti, per i pubblici poteri viene posto il princi-pio della funzionalizzazione della disciplina dei beni all’attività amministrativa, dal mo-mento che questi risultano in rapporto di strumentalità rispetto allo svolgimo-mento di funzioni latu sensu amministrative.

In questo capitolo e nel successivo si analizzerà l’evoluzione teorica della nozione di proprietà pubblica, seguendo l’integrazione e l’interazione dei due elementi dell’apparte-nenza e della destinazione, tra di loro e rispetto all’interesse pubblico. Ebbene, il variare di queste combinazioni definisce le varie componenti dello statuto giuridico dei beni, come la facoltà di godimento, il potere di disposizione e gli strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento. Invero, secondo un illustre insegnamento, siccome la struttura e la fun-zione di un istituto giuridico si condizionano reciprocamente, per tracciare i tratti salienti di una determinata disciplina occorre procedere preliminarmente alla identificazione degli interessi che attraverso di essa il legislatore ha inteso tutelare7.

Fin da ora occorre avvertire, dipoi, che non si tratterà il tema, seppur suggestivo, dei beni comuni in quanto la trattazione specifica di tale tipologia di beni non risulta

5 P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1984, p. 66.

6 Cfr. S. PUGLIATTI, il quale afferma che quando il lavoro si innesta sulla proprietà, quest’ultima «cede in parte la sua virtù espansiva al soggetto che presta il lavoro; e il lavoro cede in parte la sua capacità produttiva e il risultato di essa al soggetto che mette a disposizione la proprietà; [...] la proprietà diviene produttiva e si realizza la condizione dell’estensione del diritto del proprietario ai frutti che ne derivano. Ma quello stesso contratto che lega alla proprietà il lavoro limita la capacità di espansione della proprietà medesima. Il lavoro diviene, in virtù del contratto che lo impegna, nella cornice del rapporto che vincola il lavoratore al proprietario, titolo che legittima l’acquisto (di parte) dei frutti in favore del lavoratore, e correlativamente limite all’acquisto (di corrispondente parte) dei frutti a carico del proprietario». S. PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà, cit., p. 271.

7 In tal senso S. PUGLIATTI, il quale sottolinea che «la base verso cui gravita e alla quale si collegano le linee strutturali di un dato istituto è costituita dall’interesse al quale è consacrata la tutela. L’in-teresse tutelato è il centro di unificazione rispetto al quale si compongono gli elementi strutturali dell’Istituto: esso, dunque, funge da principio d’individuazione». Cfr. S. PUGLIATTI, La proprietà e

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mente collimante con il fil rouge delle argomentazioni che hanno guidato il presente stu-dio8. Pur tuttavia, la discussione attuale intorno ai commons assume un rilievo significativo

in ordine alle complesse vicende di alienazione/dismissione in atto nel nostro e in altri paesi, e riguardante la necessità di una loro gestione efficiente9.

8 Per una definizione di beni comuni si veda E. Ostrom in E.OSTROM,R.GARDNER,J.M.WALKER,

Rules, Games and Common-Pool resources, Ann Arbor, 1994, p. 369: «common-pool resource, such a

lake or ocean, an irrigation system, a fishing ground, a forest, or the atmosphere, is a natural or man-made resource from which it is difficult to exclude or limit users once the resource is provided, and one person’s consumption of resource unit makes those unit makes those unit unavailable to others».

Volendo includerli in un’ideale tassonomia, i commons dovrebbero essere indicati come un tertium

genus rispetto alla proprietà pubblica e privata, così come indicato da M.HELLER, Minima Cura si

Maxima vis: the key to Anticommons, relazione al convegno Gestione del patrimonio pubblico,

proprietà pubblica e proprietà privata, Roma, Accademia dei Lincei, 6 giugno 2006, il quale distingue «a trilogy of private, commons and state property. For the private property, the most enduring description we have is William Blackstone’s image of “sole and despotic dominion”, that is, a single autonomous decision-maker who authoritatively direct use of scarce resources. Second, with state property, resources are in principle answerable to the purposes of society as a whole, rather than to anyone individual’s need. Third we have commons property. The commons has no single authoritative decision-maker. In principle, anyone may use a commons, no one may be excluded. In a common field, every shepherd may graze cattle, each may add cows to the point where all suffer from the costs of overgrazing. The sum of individual rational choices may be the field’s destruction, a dilemma captured by the phrase “tragedy of the commons”».

Nel nostro ordinamento un primo e fondamentale tentativo di razionalizzare della categoria si deve a M. S. GIANNINI, I beni pubblici, Roma, 1963, p. 33, il quale ne ravvisa il tratto saliente «non nell’appartenenza della cosa, ma nel godimento di servizi che la cosa rende o è idonea a rendere se convenientemente impiegata».

Sul tema dei beni comuni si rimanda, senza pretesa di esaustività, a E. OSTROM, Governing the

Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge, 1990, trad. it., Governare i beni collettivi, Venezia, 2006; G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, Science, 1968, p. 1243 ss.; M. BOMBARDELLI (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi. Nuove risorse e nuovi modelli

di amministrazione, Napoli, 2016; G. NAPOLITANO, I beni pubblici e le tragedie dell’interesse comune, in U. MATTEI,E. REVIGLIO,S. RODOTÀ, Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica,

Bologna, 2007; U. MATTEI, Beni comuni. Un Manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011 e ID., Proprietà

(nuove forme di), in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, p. 1127 ss., ove descrive i beni comuni come

«una nuova significativa forma di proprietà, capace di erodere terreno tanto alla proprietà privata quanto a quella pubblica». Inoltre, afferma che «la sovranità pubblica e la proprietà privata, strutturalmente identiche come forme di concentrazione del potere e di esclusione degli altri rispetto ad un oggetto del mondo fisico, furono tra loro alleati strettissimi nel recintare e stritolare i beni comuni escludendoli di fatto dalla dignità proprietaria (non a caso in Italia essi si chiamano ‘usi civici’ e non proprietà collettive)».

9 Essendo i beni comuni liberamente accessibili a tutti, questo nel lungo periodo conduce ad uno sfruttamento eccessivo della risorsa (overuse) che può comportare un deterioramento o addirittura la distruzione del bene. Ciò avviene perché chi utilizza la risorsa non ha interesse ad investire su di essa o a prendersene cura, quanto piuttosto a trarre da essa la massima utilità. E siccome ciò «brings ruin to all» (G. HARDIN, The Tragedy of the Commons, cit., p. 244) ne discende la necessità di limitarne il libero accesso e lo sfruttamento indiscriminato e, ancor prima, di stabilire a quale soggetto pubblico o privato attribuirne la titolarità. Un simile argomento rientra pertanto nel qua-dro della discussione relativa alla valorizzazione o privatizzazione dei beni pubblici.

Un tentativo di collocazione sistematica dei beni comuni è avvenuto ad opera della “Commissione Rodotà” (istituita con Decreto del Ministero della Giustizia del 21 giugno 2007), la quale non solo ha incluso nella definizione di bene anche le cose immateriali, ma ha anche incluso nella proposta di legge i beni comuni come tertium genus. Tali beni sono stati indicati come suscettibili di apparte-nere sia a soggetti pubblici che privati e sottoposti ad una disciplina particolarmente garantistica, al fine di assicurarne la fruizione collettiva nonché la conservazione in favore delle generazioni future.

Nello specifico, l’art. 1, co. 3, lett. c) del disegno di legge delega elaborato dalla Commissione individua un elenco non tassativo di beni comuni, tra cui figurano: i fiumi, i torrenti e le loro

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L’indagine sarà inoltre condotta muovendo dalla premessa per cui la proprietà appare sempre caratterizzata da una certa variabilità10. In primo luogo, occorre fare riferimento

alla variabilità storica della materia dei beni, la quale discende dal fatto che la struttura e l’articolazione della proprietà, come disciplinata in un dato momento storico, rispecchia il tessuto sociale di un determinato ambiente. Ciò fa sì che non possa discutersi di pro-prietà in termini generali ed astratti, ma occorre riconoscere che il termine ha assunto vari significati nel corso del tempo11. Di conseguenza, se su un medesimo bene nel tempo

possono succedersi differenti regimi giuridici a prescindere dalle sue caratteristiche in-trinseche, le conclusioni cui può pervenire l’analisi del relativo regime giuridico saranno anch’esse connotate da un’ineliminabile relatività storica. In questo senso può essere letta la formulazione dell’art. 822 c.c., il quale contiene un elenco aperto dei beni demaniali, rendendolo in tal modo disponibile all’implementazione da parte dal legislatore ordinario, riconoscendo la rilevanza di ulteriori interessi della collettività meritevoli di tutela da parte dei pubblici poteri.

Consapevole di ciò, Giannini affermava che «la materia dei beni, pubblici e privati, ha costituito e costituisce uno dei più affascinanti capitoli della storia delle istituzioni giuridiche»12. Ebbene, della difficoltà di una collocazione sistematica, dovuta al continuo

mutamento che interessa l’oggetto di siffatta indagine sembra essere consapevole anche Pugliatti, il quale affermava che «non si possono tracciare linee troppo marcate e rigorose, e d’altra parte si ha appena il tempo di segnare un tratto, che la legislazione in moto continuo lo cancella»13.

Altrettanto variabile sotto il profilo storico è poi la combinazione dei due termini della questione (titolarità e funzione), essendo mutevole la rilevanza giuridica degli inte-ressi coinvolti, la loro collocazione all’interno della sfera pubblica, nonché le modalità organizzative attraverso cui vengono realizzati. In particolare, l’elemento della funzione sembra aver acquisito nel tempo un ruolo predominante nella definizione dell’assetto

sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria, i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone bo-schive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate.

10 Cfr. A. GAMBARO, Il diritto di proprietà, in A. CICU,F.MESSINEO, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1995, p. 3; L. MILITERNI, Proprietà privata, in Il diritto. Enciclopedia giuridica del Sole 24 ore, 2007, Milano, ad vocem.

11 Cfr. U. MATTEI, Proprietà privata (nuove forme di), in Enciclopedia del diritto, Annali V, p. 1118, il quale afferma che «le tendenze trasformative oggi in atto possono apparire contraddittorie [...] sicché, per coglierne il senso, occorre rinunciare a modelli interpretativi monistici cercando di cogliere l’istituto della proprietà nella viva storicità del nostro momento».

12 Cfr. M.S.GIANNINI, I beni pubblici, cit., p. 5.

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normativo dei beni, al punto che si è venuta a delineare una nozione oggettiva di bene pubblico contraddistinta da un vincolo reale di destinazione14.

D’altronde, il continuo sviluppo e l’incessante trasformazione dei beni che possono formare oggetto di diritto danno luogo alla moltiplicazione degli statuti proprietari, giac-ché il mutamento dell’oggetto genera indefettibili conseguenze con riferimento alla fisio-nomia del diritto stesso, ai suoi modi di acquisto e di godimento, nonché ai suoi limiti. In ultima analisi, la proprietà è un nodo di convinzioni e interessi grezzi, proprio perché espressione di una precisa ideologia, con la inevitabile conseguenza che la dinamica dell’appartenenza e dei rapporti giuridici sulle cose si presenta come estremamente di-scontinua15.

Una seconda componente di variabilità della materia è data dall’incapacità del Codice civile di svolgere una funzione ordinatrice nella ricostruzione dei rapporti tra proprietà ed interesse pubblico. I criteri distintivi prescelti dal Codice per distinguere tra le varie categorie di beni pubblici delineate appaiono infatti incoerenti e, dunque, del tutto inap-propriati a delineare in modo chiaro la disciplina generale e le caratteristiche delle diverse tipologie di beni.

A ciò si aggiunge il fatto che le disposizioni codicistiche relative ai beni pubblici, invece di dettare la disciplina ordinaria, negli ultimi anni hanno assunto una funzione di regolazione residuale, vista l’emanazione di numerose norme dettate dalle leggi speciali, che finiscono per prevalere su di essa.

In funzione delle diverse combinazioni della declinazione pubblica o privata di tito-larità e destinazione, sul piano descrittivo è possibile distinguere quattro tipologie domi-nicali. Innanzitutto, possono fare riferimento all’ambito pubblicistico sia l’appartenenza della res che la sua funzione; tale combinazione costituisce il fondamento della categoria unitaria dei beni pubblici cui la dottrina ha ricondotto sia i beni del demanio che i beni del patrimonio indisponibile, prendendo atto della incoerenza della classificazione codi-cistica16. Di conseguenza, l’espressione “beni pubblici” ha assunto uno specifico

signifi-cato normativo indicando una categoria caratterizzata da una disciplina tendenzialmente unitaria e contraddistinta dallo scopo di assicurare l’integrità del bene e la sua permanenza allo svolgimento della funzione per cui è dichiarato pubblico17. E la concezione della

14 Cfr. M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Milano, 2004.

15 Cfr. P. GROSSI, La proprietà e le proprietà nell’officina dello storico, in Il dominio e le cose: percezioni medievali

e moderne dei diritti reali, Milano, 1992, p. 387, nonché ivi, p. 14, ove l’Autore afferma che la

pro-prietà nella nostra cultura giuridica è sempre stata concepita come “potere su”: «La propro-prietà, le proprietà, come potere su un bene, talora unitario, talora illimitato, talora frazionato, talora limi-tato o limitatissimo, ma sempre potere su […]».

16 Cfr. A.M. SANDULLI, Beni pubblici, in Enciclopedia del diritto, Milano, 1959, p. 277.

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proprietà pubblica come situazione di natura obbligatoria, piuttosto che di diritto sogget-tivo, si è spinta fino al punto che, secondo parte della dottrina, il vincolo pubblicistico alle prerogative proprietarie connotanti i beni pubblici segnerebbe la prevalenza delle po-sizioni di obbligo su quelle di potere18.

Il tentativo di rendere coerente la disciplina della proprietà pubblica, che dottrina e giurisprudenza hanno portato avanti già nell’immediatezza dell’entrata in vigore del Co-dice civile, ha condotto al progressivo annullamento delle differenze di regime giuridico tra beni demaniali e patrimoniali indisponibili. Per tale via il patrimonio disponibile è stato progressivamente “demanializzato”, mediante l’estensione dei tratti caratterizzanti la di-sciplina del demanio, come l’incommerciabilità, l’autotutela, nonché della didi-sciplina sull’inizio e la cessazione della pubblicità del bene.

A partire dagli anni 90 del secolo scorso, al contrario, si è registrata l’opposta ten-denza rappresentata dalla “patrimonalizzazione” del demanio, dovuta all’esigenza, di na-tura finanziaria, di una mise en valeur dei beni pubblici. Tale esigenza ha portato il legislatore sostituire il dogma dell’incommerciabilità del bene, proprio del regime demaniale, con il meno rigido vincolo dell’incommerciabilità della destinazione, caratteristico del patrimo-nio indisponibile. Invero, le privatizzazioni hanno portato raramente ad una applicazione incondizionata del diritto comune mentre spesso esse sono state meramente formali in quanto, a fronte del cambiamento del soggetto proprietario, si è registrata l’invarianza della disciplina applicabile. Pertanto, nonostante ci si trovasse di fronte ad un proprietario privato – anche solo formalmente – i beni hanno conservato una disciplina pubblicistica, giustificata dalla permanenza della loro destinazione pubblica.

Tuttavia, nella ricostruzione della fisionomia dei beni pubblici, l’elemento dell’appar-tenenza non risulta del tutto recessivo ma, al contrario, accanto a beni pubblici in pro-prietà di soggetti privati è configurabile un insieme di beni a necessaria appartenenza pubblica. Ciò in quanto la dimensione soggettiva della titolarità risulta comunque idonea

già all’indomani dell’approvazione del Codice civile del 1942, i commentatori più autorevoli sostennero che la disciplina dedicata ai beni pubblici in generale e demaniali, in particolare, trovasse la propria ragion d’essere «nella diversa funzione che di regola è propria di tali beni in confronto di quella dei beni appartenenti a privati». Infatti, «i beni degli enti pubblici, salvo limitate eccezioni, sono applicati in modo immediato alla soddisfazione dei bisogni generali», mentre i beni appartenenti a privati sono espressione di un vero e proprio diritto soggettivo e, per la maggior parte, sono volti alla produzione di altri beni. G. ZANOBINI, Dei beni appartenenti allo

Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici, in M. D’AMELIO (diretto da) Commentario del Codice civile,

Libro della Proprietà, Firenze, 1942, p. 82.

18 In tal senso si veda V. CAPUTI JAMBRENGHI, Premesse per una teoria dell’uso dei beni pubblici, Napoli, 1979; ID., Beni pubblici (uso dei), in Digesto delle Discipline Pubblicistiche, Torino, 1987, ad vocem; ID.,

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a fondare un nocciolo duro di beni insuscettibili di appartenenza privata. Altresì, in rela-zione ai beni di soggetti privati connotati da una destinarela-zione pubblica, il medesimo ele-mento soggettivo rappresentato dall’appartenenza non può agire come fattore di resistenza loro disciplina in termini sostanzialmente pubblicistici. Infatti, se in tale se-conda tipologia la finalità pubblica viene realizzata per il tramite della proprietà privata, ciò implica che le utilità che il soggetto proprietario ritrae dalla res debbono coesistere con quelle che la medesima apporta alla collettività. In tal caso dunque l’interesse pubblico viene ad agire come vincolo di scopo, dall’interno, conformando la proprietà; di conse-guenza il diritto di proprietà diviene uno dei possibili strumenti per l’attuazione di inte-ressi pubblici, pur mantenendo la sua qualificazione come diritto soggettivo.

Stante la funzione sociale della proprietà privata, esplicitata dalla Carta costituzionale, questa si traduce nell’imposizione di limitazioni all’estensione di tale situazione giuridica soggettiva, pur senza implicare una disciplina speciale della cosa in sé19. L’imposizione del

limite è infatti espressione della funzione equilibratrice svolta dall’ordinamento e, in par-ticolare, nel caso della proprietà il limite rappresenta il punto di equilibrio tra due opposti interessi, ovvero quello proprio del proprietario e un interesse ulteriore, anch’esso rite-nuto meritevole di tutela, pubblico o privato che sia20.

Tuttavia, mentre il soggetto privato dispone liberamente di interessi di cui è egli stesso titolare, ciò non avviene quando il proprietario è pubblico. Infatti pur essendo vero che lo Stato e gli altri enti pubblici possono essere proprietari di beni secondo il diritto comune, tuttavia è altrettanto vero che il soggetto pubblico amministra interessi di cui non può liberamente decidere, perché appartenenti alla comunità di riferimento. Da ciò consegue che le scelte del proprietario pubblico nell’amministrazione dei propri beni non possono dirsi libere, ma, al limite, discrezionali, soprattutto quando i beni in questione sono inclusi nelle categorie del demanio o del patrimonio indisponibile. In tale ottica si collocano le deroghe al diritto comune che interessano la categoria residuale del c.d. pa-trimonio disponibile, ossia quel complesso di beni in titolarità pubblica che concorre in

19 Cfr. S. PUGLIATTI, La definizione della proprietà nel nuovo Codice civile, ora in La proprietà nel nuovo diritto, cit., p. 137, il quale osserva in proposito che quello che viene considerato come strumento tecnico‐ giuridico per la tutela dell’interesse pubblico, è il limite legale, il quale sorge immediatamente dalla legge, a prescindere dalla volontà del proprietario ed anche contro la stessa. In ciò si distingue dal limite convenzionale, il quale non costituisce effetto della tutela di un interesse ulteriore in conflitto con quello del proprietario, bensì una forma di esercizio del diritto, che viene compresso dal tito-lare in modo volontario.

20 A. M. SANDULLI, Beni pubblici, cit., ad vocem.

In ogni caso, l’idea di un limite è implicita in qualsiasi diritto soggettivo (inclusa la proprietà), dal momento che non è possibile immaginare un diritto che sia assolutamente illimitato.

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via mediata alla realizzazione delle finalità pubbliche per ciò, che assicura all’amministra-zione i mezzi e le risorse necessarie mediante la produall’amministra-zione di reddito21.

In altre parole, rispetto a tali beni la ragione delle deviazioni dal diritto comune risiede nella natura pubblica del soggetto proprietario e nel particolare regime da cui è connotata la sua azione, il quale espande la sua efficacia anche sul bene. Pertanto, la mala gestio di beni di proprietà pubblica assume comunque rilevanza sotto il profilo della responsabilità erariale, anche se i beni sono destinati semplicemente a produrre un utile e non a realiz-zare un interesse pubblico.

Difatti, il soggetto pubblico non è libero nella scelta tra alienazione e gestione, in quanto i beni del patrimonio disponibile, al pari degli altri beni pubblici, si caratterizzano per la «costante inerenza dell’evidenza pubblica»22. Sicché, l’ente pubblico deve esibire

continuamente le ragioni di interesse pubblico sottese agli atti con cui dispone del bene23;

da ciò consegue che l’interesse pubblico incide sul diritto di proprietà, dando origine ad un regime speciale, sol ove imponga alla cosa una specifica destinazione, orientandone così in modo determinante l’utilizzazione. Qualora ciò non accada, il bene viene sotto-posto alla disciplina codicistica.

1. Le appartenenze pubbliche nella prospettiva dello Stato liberale.

Le moderne concezioni hanno inteso la proprietà come un concetto unitario che esprime l’idea di un dominio escludente ed esclusivo di un soggetto su di una res. Il sog-getto proprietario può avere natura pubblica o privata, ma il contenuto del diritto è sem-pre lo stesso, ovvero un potere esclusivo su una cosa24. Si dovrà attendere la rivoluzione

21 Cfr. E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2018, p. 222 ss.: «Si noti che tutti i beni appartenenti in proprietà privata ad un qualunque soggetto sono per lo stesso disponibili, in quanto il relativo potere è contemplato dall’art. 832 c.c.: la locuzione “patrimonio disponibile”, qui impiegata, non indica quindi una peculiare categoria di beni sottoposti al diritto privato, limi-tandosi a sottolineare un ovvio profilo ricavabile dall’art. 832 c.c., ma vuole piuttosto rimarcare la differenza del regime di questi beni appartenenti a soggetti pubblici rispetto ai beni del patrimonio indisponibile e del demanio, sottratti al potere di disposizione dell’ente proprietario».

In tal senso sono da considerare appartenenti al patrimonio disponibile dello Stato o di altro ente pubblico i beni non assoggettati ad una destinazione effettiva ed attuale ad un servizio pubblico o ad una pubblica funzione e che sono, invece, utilizzati dalla p.a. come beni economici concessi in godimento a privati al semplice fine rappresentato dal procacciamento di proventi patrimoniali (cfr. Cass. Civ., sentenza 5 ottobre 1994, n. 8123).

22 M.S. GIANNINI, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995, p. 90.

23 Cfr. F. CAMMEO, Demanio, in Digesto Italiano, Torino, 1898, ad vocem: «questi beni vanno alienati ogni qualvolta sembri che il farli rientrare nel patrimonio dei privati e il ritrarne ed utilizzarne il prezzo in contanti sia vantaggioso all’economia generale del paese, ed all’economia finanziaria degli enti pubblici».

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francese per avere una prima razionalizzazione della disciplina dei beni soggetti alla pro-prietà pubblica25.

Nell’idea dei rivoluzionari, infatti, occorreva ridurre il numero dei beni soggetti alla regola dell’inalienabilità, regola che nell’Ancien Regime caratterizzava tutti i beni della Co-rona, in forza della mera appartenenza al sovrano, senza che a tale scopo rilevasse la destinazione all’uso pubblico o di pubblico interesse, nonché a prescindere dai caratteri strutturali dei beni stessi26. La dottrina moderna del demanio nasce proprio

dall’indivi-duazione di una categoria particolare nell’ambito dei beni appartenenti al sovrano e poi trasferiti alla Nazione; i beni appartenenti a tale categoria erano ritenuti non suscettibili di appropriazione privata in quanto strettamente connessi ad un pubblico interesse o in quanto destinati all’uso pubblico27.

Il passaggio arrivò però a compimento solo nel 1804, con l’emanazione del Code Na-poléon28, all’interno del quale era netta la contrapposizione tra l’istituto della proprietà

pri-vata, indicata come potere esclusivo di un singolo individuo sul bene, e della proprietà pubblica, riferita esclusivamente a beni di uso pubblico o necessari per l’esercizio di una funzione. La proprietà pubblica, dunque, veniva limitata in relazione agli usi a cui essa poteva essere adita, ferma restando la possibilità per lo Stato di diventare proprietario al pari di qualsiasi soggetto privato, in ragione della sua natura di persona giuridica. Perciò, i concetti di demanio e di proprietà pubblica in questa fase vengono utilizzati in contrap-posizione al regime della proprietà privata disciplinato dal diritto civile, anche in ragione della convinzione che lo Stato, sui beni del domaine public, esercitasse una funzione di tipo pubblicistico, il cui scopo principale consisteva nella conservazione di beni attribuiti per l’esercizio di determinate funzioni o che, per le loro caratteristiche naturali, risultavano funzionali all’utilizzo diretto da parte dei cittadini29.

Nel momento in cui nasce il concetto di proprietà privata come diritto fondamentale caratterizzato dal potere assoluto sulla cosa, anche e soprattutto nei confronti dello Stato, esso si separa dalla proprietà pubblica, tendenzialmente aperta a tutti30. Significative

con-seguenze sull’approccio degli studiosi alla tematica del demanio sono state prodotte

25 V. CERULLI IRELLI, I beni pubblici, Digesto Discipl. Pubbl., 1987, p. 5.

26 Per approfondimenti si rimanda a P. GROSSI, L’inaugurazione della proprietà moderna, Napoli, 1980, p. 27 ss.

27 V. CERULLI IRELLI, I beni pubblici, cit., p. 6 s.

28 A. LALLI, I beni pubblici, cit., p. 13, per il quale nel Code si troverebbe la prima affermazione del concetto unitario di proprietà come proiezione del soggetto sui beni posti sotto il suo controllo. Contra P. GROSSI, Proprietà, (dir. Interm.), Enciclopedia del Diritto, Milano, p. 252 ss., per il quale la cesura netta con il modo antico di concepire la proprietà si avrà solo con la dottrina Pandettistica, acquisendo quella astrattezza e unità che caratterizzano la visione moderna.

29 A. LALLI, I beni pubblici, cit., p. 14 s.; cfr. A. SANDULLI, Costruire lo Stato. La scienza del diritto

amministrativo in Italia (1800-1945), Milano, 2009, p. 26 ss.

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dall’ulteriore presupposto teorico in base al quale vi sarebbe contrapposizione tra diritto pubblico e diritto privato. In conseguenza di questa impostazione la dottrina italiana ot-tocentesca ha finito per tratteggiare la proprietà pubblica come istituto distinto dalla pro-prietà privata.

Da un simile modello generale emerge innanzitutto la caratteristica della incommer-ciabilità, che viene definita in termini soggezione dei beni al regime pubblicistico, da cui discende l’inapplicabilità della disciplina della circolazione di diritto comune. Tale conce-zione produce un’ulteriore ripercussione rispetto alla natura del diritto di appartenenza sui beni demaniali, che viene concepito come un diritto avente contenuto, caratteri e struttura diversi dalla proprietà privata in quanto l’una appartiene al diritto pubblico, l’al-tra diritto privato31.

Inoltre, l’aver seguito una impostazione in base alla quale la proprietà pubblica è fun-zionale all’esercizio dell’autorità dello Stato e l’aver individuato nella inalienabilità32 il

ca-rattere tipico della proprietà pubblica ha comportato la negazione della presenza di un valore di scambio nei beni del demanio, con una conseguente “cristallizzazione” del bene nel suo valore d’uso, statico, limitato all’uso collettivo e a quello riservato alla pubblica amministrazione. La volontà di circoscrivere l’analisi ai soli aspetti puramente pubblici-stici della materia ha comportato vieppiù l’esclusione dall’analisi dei temi ritenuti privati-stici, in particolare per quanto riguarda i beni patrimoniali e il profilo gestionale.

Se ne ricava una visione dello Stato come autorità che agisce secondo il diritto pub-blico con l’esclusione di ogni logica economica in materia gestionale. E, siccome lo Stato nello svolgimento di funzioni pubbliche si differenzia dagli operatori economici privati, allora al demanio non si riteneva attribuibile alcun valore economico finanziario. Si affer-mava cioè che il demanio fosse in generale non fruttifero, non potendo ricavarsi da esso alcuna rendita patrimoniale sotto forma di corrispettivi per l’utilizzazione dei beni33.

Per-tanto, mentre i beni demaniali sono goduti dalla collettività per il loro valore d’uso, i beni

31 A. FERRARI ZUMBINI, I beni pubblici e la scienza del diritto amministrativo, in L. TORCHIA,E.CHITI,R. PEREZ,A.SANDULLI (a cura di), La scienza del diritto amministrativo nella seconda metà del XX Secolo, Napoli, 2008, p. 359 ss. Per una ricostruzione degli interpreti che hanno aderito a questa ricostruzione si veda E. GUICCIARDINI, Il demanio, Padova, 1934, p. 8.

32 In riferimento all’inalienabilità e alla non usucapibilità come caratteri dei beni demaniali si veda Tar Salerno, Campania, 6 febbraio 2012, n. 174 ove si specifica che «i beni di uso civico, avendo natura demaniale, sono assolutamente inalienabili, incommerciabili e non suscettibili di usucapione o espropriazione forzata». In tal senso, ex multis, Consiglio Stato, 10 febbraio 1998, n. 148 e Cassazione, 13 giugno 1983 n. 4051.

La giurisprudenza ha anche affermato il principio per cui ogni volta in cui si discute dell’espletamento di una funzione amministrativistica che ha oggetto un bene pubblico la competenza a decidere spetta al giudice amministrativo, anche se il rapporto alla base è regolato dal Codice Civile. Cfr. Cass. Civile, Sezioni Unite, 16 settembre 2009, n.15381.

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patrimoniali sono goduti dallo Stato per il loro valore di scambio, motivo per cui il profilo gestionale viene preso in considerazione soltanto rispetto a questa ultima categoria di beni, in quanto ritenuti riconducibili al diritto privato34.

Tra l’altro, sostenere che i beni demaniali non potevano essere fonte di rendita moniale per lo Stato, rispondeva all’esigenza di far venire meno quella motivazione patri-moniale che nei secoli precedenti aveva causato il predominio della concessione d’uso esclusivo, a cui era corrisposto il sacrificio dell’uso pubblico. Tale impostazione, sebbene superata dalla dottrina successiva, ha continuato comunque ad influenzare le riflessioni degli studiosi, incidendo sulla elaborazione di strumenti efficienti per la gestione dei beni35.

In seguito, iniziò ad affermarsi la tendenza a riconoscere l’autonomia della nozione di proprietà pubblica. Tale nozione non venne indicata come incompatibile rispetto alla proprietà privata ma, piuttosto, si pose l’accento sulla peculiarità delle regole pubblicisti-che pubblicisti-che caratterizzano il regime del godimento, della circolazione e della protezione nei confronti dei terzi. Invero, un primo filo conduttore riscontrabile negli scritti sul demanio è costituito dal fatto che esso veniva ritenuto una categoria universale, tramandata dal diritto romano e valida nei suoi elementi essenziali. In linea di continuità con la tradizione, il demanio veniva considerato in modo unitario e ritenuto caratterizzato da elementi di-stintivi tali da consentirne l’individuazione e la differenziazione rispetto gli altri beni36.

La dottrina infatti sviluppò una nozione «sufficientemente compiuta e condivisa del regime della proprietà pubblica, dividendosi essenzialmente in relazione ai criteri di iden-tificazione dei beni demaniali»37. Le ricostruzioni proposte, sebbene variassero nella

iden-tificazione delle caratteristiche distintive del demanio, erano accomunate dal presupposto secondo cui era possibile definire tale categoria in base a coordinate fondamentali, non-ché dalla convinzione per cui essa fosse dotata di una validità perdurante e a-storica. Tra l’altro, occorre rilevare come la proprietà pubblica venisse declinata al singolare e con-cordemente ritenuta un istituto facente parte della sfera pubblicistica dell’ordinamento, nonostante alcune sfumature tra le varie ricostruzioni38.

34 L. MEUCCI,Istituzioni di diritto amministrativo, Roma, 1879, p. 338; cfr. B. TONOLETTI, Beni pubblici

e concessioni, Padova, 2008, p. 133.

35 A. LALLI, I beni pubblici, cit., p. 20.

36 A. FERRARI ZUMBINI, I beni pubblici e la scienza del diritto amministrativo, cit., 359 ss. 37 A. LALLI, I beni pubblici, cit., ibidem.

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Si è affermato in tal senso che nel nostro ordinamento non è mai stata accolta in modo asettico l’impostazione per cui il demanio sarebbe composto da beni non suscetti-bili di costituire oggetto di proprietà privata; piuttosto, il demanio si intendeva come ca-ratterizzato per la peculiare disciplina che si applicava ai beni in esso ricompresi39.

Dunque, i contributi in questa fase storica erano focalizzati sulla ricerca di qualità intrinseche e peculiari attinenti alla cosa, provando a dare una definizione del regime de-maniale e individuando gli elementi distintivi della proprietà pubblica rispetto al corri-spondente istituto di diritto privato. Lo scopo della ricerca finiva quindi con il coincidere con l’individuazione di categorie in grado di ricondurre ad unità concettuale e ad un or-dine sistematico la realtà disomogenea. Il che portava all’adozione di un metodo dedut-tivo, per ciò che gli autori si cimentavano nell’elaborazione di definizioni e nozioni generali capaci di condurre ad unità le varie sottocategorie, sviluppando cioè il ragiona-mento giuridico dal generale al particolare. Il punto di partenza era dunque costituito dalla definizione di concetti, da cui muovere la successiva analisi, allo scopo ultimo di costruire un sistema coerente, in grado di “incasellare” le numerose variabili presenti nella realtà positiva40.

In ordine alla definizione e all’identificazione dei beni demaniali, la dottrina liberale esprimeva consenso unanime sul principio per il quale sarebbero riconducibili al demanio pubblico i beni destinati all’uso pubblico41. In particolare, si affermava che i beni del

de-manio stradale, idrico e marittimo fossero destinati per natura all’uso pubblico per ciò, che in relazione a simili beni l’uso pubblico «viene dalla natura della cosa, la quale non può essere destinata ad un uso privato, senza mutar di natura». Ciò comporta che la legge e l’atto amministrativo fossero sprovvisti del potere di creare e di far venire meno la destinazione del bene all’uso pubblico. Di contro, la destinazione dei beni adibiti a pub-blico servizio si riteneva fosse creata da tali atti. Da una simile premessa discendeva che per i primi la demanialità era considerata necessaria, mentre per i secondi era considerata accidentale, essendo condizionata dal «fatto libero del potere pubblico, che ne sancisce la destinazione»42.

39 E. GUICCIARDINI, Il demanio, cit., p. 29.

40 A. FERRARI ZUMBINI, I beni pubblici e la scienza del diritto amministrativo, cit.

41 Nel primo periodo dello Stato unitario il significato giuridico della distinzione tra demanio e patrimonio è fatto dipendere dalla diversa natura del rapporto di appartenenza allo Stato, alle Province e ai Comuni delle cose facenti parte dell’una o dell’altra categoria. In particolare, mentre l’appartenenza dei beni patrimoniali era unanimemente riconosciuta come rapporto di proprietà privata, molto si discusse sul titolo di appartenenza dei beni demaniali allo Stato o agli enti territoriali minori. Cfr. B. TONOLETTI,Beni pubblici e concessioni, cit., p. 129.

42 L.MEUCCI,Istituzioni di diritto amministrativo, cit., p. 345 «la destinazione all’uso pubblico può essere necessaria o accidentale, secondoché venga dalla stessa natura delle cose o dal fatto libero dell’autorità che destina o sancisce la destinazione». Le opinioni tuttavia divergevano sui caratteri

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Nella maggioranza degli autori la concezione per la quale il carattere distintivo della demanialità era da individuare nella destinazione naturale all’uso pubblico si accompa-gnava, poi, alla tesi secondo cui lo Stato non vanta sui beni demaniali alcun diritto di proprietà, ma esercita soltanto un diritto di sovranità43. Peraltro, dal momento che l’uso

comune si riteneva esaurisse l’intera destinazione della cosa e che allo Stato residuasse soltanto il potere di regolare e amministrare le cose assoggettate all’uso di tutti, ciò impli-cava la marginalità dello strumento concessorio come modo di uso dei beni pubblici, in netta contrapposizione con il sistema vigente nello Stato patrimoniale, nel quale i beni venivano normalmente attribuiti mediante una concessione. In tal modo i beni venivano utilizzati da singoli soggetti privati come fonte di rendita, a fronte del pagamento di un corrispettivo.

Nel pensiero liberale, invece, la pubblica amministrazione non veniva ritenuta titolare di un diritto di proprietà sui beni pubblici, non potendo né goderne né disporne in alcun modo; piuttosto, in capo ad essa si appuntava il dovere conservarli e mantenerli all’uso cui venivano destinati. L’uso pubblico infatti comporta la soppressione dell’uso patrimo-niale del bene come fonte di rendita da parte di un concessionario44. In tale contesto,

l’emergere della categoria del patrimonio indisponibile ha permesso di rafforzare il nesso tra demanialità e destinazione naturale all’uso pubblico, in quanto l’attribuzione al patri-monio indisponibile dei beni destinati a pubblico servizio consentiva di affermare che «nel demanio l’uso pubblico dipende sempre dalla natura dei beni», mentre nel patrimonio indisponibile la destinazione «non è connaturata coi beni che vi si addicono» ma «deriva

dell’uso pubblico in quanto alcuni consideravano tale sia l’uso immediato e diretto della cosa da parte dei singoli, sia l’uso indiretto dei beni destinati a servizi pubblici; altri ritenevano che le cose destinate ad un pubblico servizio non potessero essere considerate beni demaniali. Nel primo senso F. CAMMEO, Demanio, cit., p. 841 ss.: «l’uso pubblico deve essere immediato e non basta la destinazione al pubblico servizio».

In amplius si rimanda a O. RANELLETTI, Concetto, natura e limiti del demanio, Torino, 1898, ora in

Scritti Giuridici Scelti, Napoli, 1992, p. 328; A. SANDULLI, Costruire lo Stato, cit., p. 36 ss., nonché a B. TONOLETTI,Beni pubblici e concessioni, cit., p. 130.

43 G. DE GIOANNIS GIANQUINTO, Corso di diritto amministrativo, Firenze, 1877, p. 331 «lo Stato non ne ha vera proprietà: desso non vi esercita che un potere di amministrazione, di sorveglianza, di giurisdizione nell’interesse di tutti, per garantirne il libero godimento comune»; G.MANTELLINI,

Lo Stato e il Codice civile, II, Firenze, 1882, p. 11. Cfr. A. SANDULLI, Costruire lo Stato, cit., pp. 30 ss. e 40 ss.

44 F. PERSICO, Principii di diritto amministrativo, cit., p. 17 «il demanio pubblico non è, a vero dire, proprietà per nessuno, neanche per lo Stato. […] Il potere che lo Stato esercita su questa sorta di beni è un potere di vigilanza e di amministrazione, per il quale conserva, protegge e regola la destinazione pubblica e comune conferita alla cosa dalla legge». Cfr. B. TONOLETTI,Beni pubblici

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