UNIVERSITÀ DI PISA
F
ACOLTÀ DI
L
ETTERE E
F
ILOSOFIA
D
OTTORATO DI
R
ICERCA IN
S
TUDI
I
TALIANISTICI
ciclo XXV
(L-‐Fil-‐Let/12 L
INGUISTICAI
TALIANA)
Studi sul Dizionario Moderno
di Alfredo Panzini e Bruno Migliorini (1905-1963).
Supplementi, deonomastica, linguaggio di cucina.
PRESIDENTE DEL CORSO DI DOTTORATO Chiar.ma Prof.ssa Maria Cristina CABANI
CANDIDATA RELATORE
Dott.ssa Marianna FRANCHI Chiar.mo Prof. Mirko TAVONI Maggio 2012
A Radiana e a Paolo Giacomo,
che non dovranno più cercare la
loro mamma fra i “grossi libri”
INTRODUZIONE
Gli studi qui raccolti (per il cui contenuto dettagliato rimando ai singoli abstract) sono una tappa della mia lunga frequentazione con l’opera di Alfredo Panzini, e in particolare con il Dizionario Moderno, che ho iniziato a maneggiare nel lontano 1996 durante il tirocinio al Lessico Etimologico Italiano.
Da quell’esperienza nacque il mio interesse per la lessicografia, e per quel
Dizionario così diverso dagli altri, e non solo perché Moderno. Ebbi poi modo di
conoscere e apprezzare la narrativa di Panzini in occasione di un seminario di Letteratura Moderna e Contemporanea del compianto professor Piero Cudini. Panzini mi fu subito congeniale, forse in quanto mio quasi-conterraneo, o forse per quella forma mentis un po’ vecchiotta, un po’ dimessa, che è comune a tanti professori di liceo, in particolare ai professori di lettere (non lo ero ancora, ma la vocazione c’è sempre stata).
Per completare l’edizione critica del Dizionario Moderno, avviata con la guida autorevolissima del professor Stussi, quel che restava del triennio di perfezionamento alla Scuola Normale non fu sufficiente: Panzini e le fotocopie di otto edizioni del Dizionario
Moderno mi accompagnarono letteralmente in giro per il mondo, dalla Francia, a Roma,
agli Stati Uniti, all’Olanda. Nel frattempo, cominciavo ad indagare tematicamente la ricchezza e la estrema varietà delle voci del Dizionario Moderno, a partire dal linguaggio enogastronomico, oggetto di un articolo e di una comunicazione ad un convegno1, e poi del confronto con la Scienza in cucina artusiana (cap. I).
L’edizione critica del Dizionario Moderno è stata completata nell’agosto 2009, un anno dopo la nascita di mia figlia, e pochi mesi dopo l’avvio del dottorato di ricerca all’Università di Pisa.
Un’occasione determinante per ampliare i miei orizzonti di ricerca è stato l’incontro con gli attivissimi appassionati della giovane Accademia Panziniana di Bellaria-Igea Marina: a loro e a Marco Antonio Bazzocchi va il merito di aver reso nuovamente disponibili moltissimi libri, appunti, schede, lettere, fotografie, abbozzi panziniani, che dopo un ventennio di passaggi di mano e contese legali sono ora custoditi nella biblioteca comunale di Bellaria. Del prezioso materiale che ho schedato all’archivio panziniano, in particolare dall’esemplare postillato a più mani da cui fu tratta l’ottava edizione postuma del Dizionario Moderno, qui sono stati sfruttati solo pochissimi appunti. Mi riprometto di integrare presto questi dati nella mia edizione on-line del Dizionario
Moderno.
Durante il convegno Bellaria per Panzini. Panzini per Bellaria (18-19 aprile 2009), per i settanta anni della morte di Panzini, ho presentato le mie ricerche in interventi dal titolo Dall’albana allo zampone: Panzini gastronauta e Il Dizionario
1 M.F., «Linguaggio di cucina» e vini «da pasto e da bottiglia»: trent’anni di lessico gastronomico nel Dizionario Moderno di Panzini, in «Lingua e Stile», 1, 2006 (XLI); M.F., «Arte culinaria» e forestierismi
nel Dizionario Moderno di Panzini, in CECILIA ROBUSTELLI e GIOVANNA FROSINI (a cura di), Storia della
lingua e storia della cucina. Parola e cibo: due linguaggi per la storia della società italiana (Atti del VI
Moderno: guida semiseria all’Italietta del primo Novecento2. E soprattutto, ho avuto l’onore e il piacere di conoscere il professor Sergio Raffaelli, che rimpiango solo di avere conosciuto così tardi. Grazie ad un’indicazione del prof. Raffaelli e all’incoraggiamento della professoressa Angela Guidotti, una ricerca sulla commedia da svolgere per il corso di dottorato è diventata un volumetto che ripubblica l’unico dramma di Panzini, La
giovinezza di Giacomo, con commento e appendici (la seconda delle quali riporta la
trascrizione di materiali leopardiani dell’archivio bellariese)3.
Il capitolo II, sui termini deonomastici nel Dizionario Moderno, è un altro esempio della ricchezza quantitativa e qualitativa di quest’opera, fonte importante per ricostruire la realtà quotidiana e l’orizzonte culturale della piccola borghesia italiana del primo Novecento. Per questa ricerca, ho costantemente tenuto presente il volume miglioriniano Dal nome proprio al nome comune, ed è anche per questa piacevolissima riscoperta (oltre che per il desiderio di completare il lavoro sul Dizionario Moderno) che è maturata la decisione di mettere a punto l’edizione critica delle tre Appendici miglioriniane, in base ai criteri di edizione già messi a punto per la parte panziniana. Il Migliorini che emerge da un sistematico studio delle Parole nuove e della loro evoluzione, l’atteggiamento “neopurista” con cui si pone nei confronti delle parole (e delle cose) di cui tratta, ha parecchi tratti che ricordano Panzini, come è sinteticamente delineato nel cap. III.
Desidero ringraziare il professor Mirko Tavoni per la disponibilità e l’interesse con cui ha seguito questo mio lavoro. Ringrazio i miei antichi maestri, Vincenzo Di Benedetto, Alfredo Stussi e Max Pfister. Ringrazio gli amici dell’Accademia Panziniana, coi quali sono già in previsioni interessanti iniziative per il centocinquantenario della nascita dello scrittore. Ringrazio mio marito, che mi ha spronato a continuare e terminare il lavoro, e i miei suoceri, Paolo e Grazia, per il loro determinante aiuto e sostegno. La mia riconoscenza va infine ai Bee Gees, che sono stati la mia compagnia preferita in queste ultime settimane di studio notturno.
Nuenen, maggio 2012
2
Nel 2010, in occasione del successivo anniversario panziniano e poi dell’inaugurazione della Casa Rossa, la casa-museo che fu di Panzini, ho presentato due comunicazioni dal titolo Panzini, la politica e la storia e
Panzini gourmet fra pietanze e parole.
3
ABBREVIAZIONI
Saranno usate le seguenti sigle, già approntate per l’edizione critica da me messa a punto e che sarà presto consultabile sul sito www.dizionariomoderno.it:
DM = ALFREDO PANZINI, Dizionario Moderno, Milano, Hoepli;
DM1 = prima edizione (1905); DM2 = seconda edizione (1908); DM3 = terza edizione (1918); DM4 = quarta edizione (1923); DM5 = quinta edizione (1927); DM6 = sesta edizione (1931); DM7 = settima edizione (1935);
DM8 = edizione postuma (1942) a cura di ALFREDO SCHIAFFINI e BRUNO
MIGLIORINI, comprendente anche la prima edizione dell’Appendice a c. di BRUNO MIGLIORINI (poi pubblicata a parte col titolo Parole nuove)
DM9 = seconda edizione (1950) dell’Appendice di Migliorini; DM10 = terza edizione (1963) dell’Appendice di Migliorini.
Solo nel cap. IV, ovvero nell’apparato all’edizione critica e nei Criteri d’edizione, per uniformità con l’ edizione critica, DM8, DM9, DM10 sono rispettivamen abbreviati 8, 9,
10.
Se le sigle sono accompagnate da una A (es: DM3A), ci si sta riferendo alle Aggiunte e
correzioni di quell’edizione. Tutti termini in corsivo e con iniziale maiuscola
corrispondono ad altrettante voci di DM. I termini riportati in corsivo ma con iniziale minuscola compaiono all’interno di altre voci, sempre indicate. Tutte le citazioni dal DM, in mancanza di indicazioni diverse, si intendono prese da DM7 sotto la voce citata. Le parentesi quadre, che precedono le voci riportate in corpo minore, indicano da quale anno una voce entra in DM; le parentesi quadre all’interno delle voci indicano da quale anno viene inserita la parte della voce che segue.
Le correzioni all’edizione postuma sono state indagate ricorrendo a due esemplari della settima edizione, postillati da Migliorini e (in buona parte) da Panzini e rispettivamente conservati nella biblioteca dell’Accademia della Crusca (segnatura FM 271) e nell’archivio panziniano del Comune di Bellaria-Igea Marina.
CAPITOLO I
«Banchiere, cuoco, bizzarro, caro signore, e molto benefico»;
Artusi secondo Panzini
1ABSTRACT – Panzini conosce e apprezza La scienza in cucina almeno dal 1905, anno in cui la cita nel suo Dizionario Moderno. Artusi continuerà ad essere presente nella miscellanea panziniana, e addirittura nel 1931 il suo nome verrà lemmatizzato come sinonimo antonomastico di «libro di cucina».
Oltre all’origine romagnola e alla passione per la buona tavola, i due scrittori hanno in comune l’esperienza diretta della vita (e delle cucine) in diverse regioni italiane, la lunga fortuna presso il pubblico (che offre suggerimenti non di rado dichiaratamente recepiti nelle due opere), l’attenzione alla proprietà della loro scrittura e in particolare delle diverse designazioni delle pietanze, per cui si impegnano a proporre nomi italiani, pur accettando talvolta le designazioni correnti, specie francesi, «per farsi intendere». A questo proposito, Panzini si dimostra molto meno “purista” di Artusi, e include nella sua miscellanea –che pure non è un testo dedicato alla culinaria- molti dialettismi e forestierismi gastronomici che il predecessore non cita.
La presenza di Artusi nel Dizionario Moderno è indagata partendo dall’analisi delle dieci voci in cui egli è citato, proseguendo con la comparazione fra il DM e il corpus artusiano, in particolare le Spiegazioni di voci premesse al ricettario e i titoli delle 790 ricette (parecchi sono lemmatizzati,
in toto o in parte, anche in DM, altri compaiono negli interpretamenta), poi rintracciando altri
termini e espressioni gastronomiche che a vario titolo tornano nella Scienza e nel DM. È particolarmente significativa una piccola campionatura di riscontri non gastronomici bensì letterari, che conferma la matrice culturale comune dei due autori.
Tutte le opere di Alfredo Panzini (1863-1939) testimoniano il grande interesse dello scrittore per la buona tavola2. È quindi del tutto naturale la stima per il conterraneo Artusi,
1 Il presente capitolo è costituito dalla rielaborazione dell’intervento presentato al convegno Artusi 100. Il
secolo artusiano (Firenze-Forlimpopoli, 30 marzo-2 aprile 2011), i cui atti sono in corso di stampa.
Le citazioni artusiane, indicate con il numero della ricetta, o (per le altre parti) con il solo numero di pagina, sono prese da PELLEGRINO ARTUSI, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, a cura di ALBERTO CAPATTI, Milano, Rizzoli, 2010 (d’ora in poi citato solo col cognome del curatore), a cui si rimanda senz’altro per la ricca introduzione e le puntualissime note al testo. Il testo è stato inoltre indagato con l’aiuto del DBT messo a punto dall’Istituto di Linguistica Computazionale “Antonio Zampolli” del CNR – cfr. http://serverdbt.ilc.cnr.it/Sito488/startDBT_ITA.html / -, che si è basato sull’edizione a cura di PIERO CAMPORESI, Torino, Einaudi, 1970 e sgg.
2
Sugli interessi enogastronomici di Panzini mi permetto di rimandare a MARIANNA FRANCHI, «Linguaggio
di cucina» e vini «da pasto e da bottiglia»: trent’anni di lessico gastronomico nel Dizionario Moderno di Panzini, in «Lingua e Stile», 1, 2006 (XLI), pp. 27-60 (a p. 28 vengono ricordate le critiche di Croce ai
romanzi panziniani, fra le altre cose per l’eccesso di «merende e […] desinari in mezzo ai campi e nelle osterie»). Apprezzamenti sul vino e sui cibi trovano posto persino in opere che si prestavano poco a simili divagazioni, come il dramma su Leopardi, cfr. MARIANNA FRANCHI, introduzione a ALFREDO PANZINI, La
che ha la sua massima manifestazione nel 1931, con l’inserimento della voce omonima nella sesta edizione di quella grande miscellanea storica e di costume che era il
Dizionario Moderno3:
[1931] Artusi: per antonomasia libro di cucina. Che gloria! Il libro che diventa nome! A quanti letterati toccò tale sorte? Era l’Artusi di Forlimpopoli (1821-91), banchiere, cuoco, bizzarro, caro signore, e molto benefico, come dimostrò nel suo testamento; e il suo trattato è scritto in buon italiano. E non era letterato né professore […].
La voce documenta (e si tratta di un unicum)4 la fortuna antonomastica di questa metonimia che trasferisce il nome dell’autore alla sua opera più celebre, che addirittura ha la «gloria» di diventare sinonimo di «libro di cucina» tout court5. La scienza in cucina è lodata anche in quanto testo «scritto in buon italiano», per giunta da un autore che non era «letterato» né per studi né per professione.
Infine, in una sola riga (con un’imprecisione sull’anno di nascita e un colossale abbaglio sull’anno di morte, mai corretto nemmeno dai curatori delle edizioni postume del DM) ci informa sull’idea che le persone di media cultura avevano di Artusi a una ventina di anni dalla sua scomparsa («cuoco, bizzarro, caro signore, e molto benefico», con l’erronea ma diffusa opinione che egli fosse stato un «banchiere»)6. Questa telegrafica descrizione e il cenno al testamento compaiono solo in DM7: in DM6 l’intero brano si limitava a «Era l’Artusi un caro signore di Forlimpopoli»; evidentemente Panzini aveva poi ritenuto necessario specificare meglio perché Artusi meritasse di essere considerato un «caro signore»: per le sue iniziative filantropiche, per la vivacità culturale un po’ sopra le righe, e naturalmente anche per la sua passione per la cucina.
giovinezza di Giacomo, Lucca, Pacini Fazzi editore, 2010, pp. 19-20 e GIAN LUIGI BECCARIA, Misticanze:
parole del gusto, linguaggi del cibo, Milano, Garzanti, 2009, in particolare pp. 22-23.
3
«Tutto quello che [Panzini] non è riuscito a ficcare nei libri, lo ha messo nel Dizionario»; ne risulta «un
bazar di parole, di modi di dire, di frasi proverbiali della storia, dello sport, della scienza, della guerra, etc.»
(GABRIELE BALDINI, Alfredo Panzini, Brescia, Morcelliana, 1942, pp. 172 e 175). Cfr. anche FABIO MARRI,
Le gioie di un lessicografo artista, in Fra Bellaria, San Mauro Pascoli e Savignano, a cura di MARIO PAZZAGLIA, Scandicci, La Nuova Italia, 1995, pp. 55-85, in particolare a p. 65: «il repertorio panziniano diventa una sorta di enciclopedia del primo Novecento dove l’ordine alfabetico accomuna senza gerarchie frasi celebri, pubbliche istituzioni, episodi memorabili, spesso insaporito dallo humour del lessicografo» (MARRI, p. 65).
4
Sorprende che la voce “Artusi” non sia altrove attestata, né nei dizionari dell’uso, né in quelli storici, e nemmeno nel contemporaneo saggio di BRUNO MIGLIORINI, Dal nome proprio al nome comune, Firenze/Génève, Olschki, 1968 (rist. fotostatica dell’ed. 1927, con supplemento). Per un ulteriore uso estensivo del nome di Artusi, cfr. MARIANNA FRANCHI, Deonomastica panziniana fra antonomasia e
tendenze enciclopediche, in Lo spettacolo delle parole. Studi di storia linguistica e di onomastica in ricordo di Sergio Raffaelli, Roma, Società Editrice Romana, 2011, pp. 545-58, a p. 549, nota 14.
5 Era talmente comune dire “l’Artusi” che il DM non rammenta mai il titolo dell’opera, pur rimandando ad essa quattro volte (voci Brodetto, Pasta matta, Quenelle, Tagliatelle verdi) con l’indicazione «Artusi, op.
cit.». È però vero che i rimandi sommari erano un’abitudine del DM, che p. es. – sempre per restare in
ambito culinario –parla diverse volte del «citato libro» o «citata opera» dello Scappi, di cui ugualmente non indica mai il titolo.
6
Artusi non fu mai titolare di una banca, bensì visse di rendita dopo aver accumulato una fortuna coi commerci (cfr. CAPATTI, p. XLI); il suo nome è però registrato fra i banchieri italiani nel volume di CORIOLANO BELLONI, Dizionario storico dei banchieri italiani, Firenze, Marzocco, 1951, S.V..
Artusi è uno dei non molti “cuochi” presenti nel DM,7 assieme ai più antichi Apicio e Vatel8; sono citati, pur senza costituire l’oggetto di specifiche parole-lemma, anche Bartolomeo Scappi, «cuoco benemerito dello stomaco di Sua Santità Pio V»9, e il «cuoco di nome Close», inventore del foie gras10.
Dunque, Artusi è il «cuoco» nominato più spesso nel DM: in 8 voci di DM7 (voci
Artusi, Béchamel, Brodetto, Entremets, Glassare, Pasta matta, Quenelle, Tagliatelle verdi) e altre due volte in DM5 (nelle voci Menu in DM3-DM5 e Risotto in DM1-DM2).
Oltre alla “romagnolità” e all’amore per la buona tavola, Panzini e Artusi avevano altri tratti in comune, e così pure le loro opere più celebri.
Come La scienza in cucina, il DM è stato un’opera longeva e di grande successo commerciale, arrivando a dieci edizioni. A differenza del predecessore, il volume panziniano dopo sei decenni ha esaurito la sua stagione e non è diventato un classico della tradizione nazionale, ma in compenso a suo tempo aveva goduto di immediata fortuna (Panzini ha dovuto fare anticamera con gli editori, ma non ha mai pagato per pubblicare, cfr. Prefazione a DM2, p. X) e di una storia editoriale lineare, senza edizioni non autorizzate.
Ancora, è stato autorevolmente dimostrato che La scienza è un’«opera evolutiva e collettiva», fatta anche di «compartecipazione e quasi di coautorialità» da parte dei lettori e soprattutto delle lettrici, di un pubblico che «attivamente partecipa, suggerisce, critica,
7
Come gli altri personaggi citati, Artusi è “cuoco” non in quanto diretto manipolatore di «cazzaruole» e vivande, «uno di quegli uomini panciuti e sorridenti con una mitria bianca in testa» (da ALFREDO PANZINI,
La valigetta misteriosa, Mondadori, 1944, p. 18), bensì come sovrintendente, sperimentatore e giudice: «in
cucina, accanto ad un cuoco e ad una serva, Artusi si dilettava con carta e penna» (CAPATTI, p. XIII); sulla cuoca e governante Marietta, cfr. GIOVANNA FROSINI, Parole in casa. I domestici scrittori di Pellegrino
Artusi, negli Atti del convegno Artusi 100. Il secolo artusiano, in stampa.
8
Apicio è citato nella v. omonima, con un richiamo nella v. Vatel; analogamente, nella v. Vatel c’è un richiamo alla v. Apìcio. Al celebre suicidio del «maggiordomo» del Grand Condé allude anche la fine della
Prefazione alla seconda edizione: «non è il caso di fare come il coscienzioso Vatel se qui non sono allestite
tutte le parole richieste» (in DM2 p. XV, mantenuto anche in DM3).
9 La perifrasi proviene dalla v. Coque (Uova à la), dallo Scappi dette «uova da bere» (Artusi dice «uova a bere», n. 139). L’«illustre cuoco del ’500» è citato in DM1-DM6 in altre sei voci, sempre per traduzioni di termini stranieri, come «brodo ristretto o brodo consumato» (v. Consumé, da cui proviene anche la citazione precedente), «servizio di credenza» (v. Dessert, ma la designazione è usata anche per l’antipasto), «fiadoncelli» (v. Flan), «mezzo capretto di dietro» (v. Gigot), «servizio di cucina» (v. Menu), «brodetto» (v.
Potage).
10 Del cuoco alsaziano, più comunemente ricordato con la grafia Clause, il DM parla nella v. Foie gras
d’oie. Artusi invece non usa il francese foie gras – come non usa pâté - e parla solo di «fegato d’oca», pur
ricordando l’eccellenza dei «pasticci di Strasburgo di fegato d’oca», cfr. nn. 274 e 548; anche in DM6 la v.
Pâté («parola [...] da noi usata abusivamente») ricorda che sono «celebri quelli di Strasburgo».
È un cuoco anche il personaggio letterario Chichìbio, il «gaglioffo cuoco veneziano della novella del Boccaccio». Non è chiamato «cuoco», ma è citato per quattro volte come auctoritas culinaria (nelle voci
Bavaresa, Minestrone, Risotto, Piccato; «nel linguaggio della cucina alcune carni diconsi piccate invece di lardellate, steccate»), Francesco Cherubini, autore del Vocabolario milanese-italiano, presente in
accompagna il libro con la pratica e con l’affetto»11; anche il DM è stato un’opera corale, amichevolmente seguita dal pubblico, che spontaneamente offriva suggerimenti e integrazioni; ce lo testimonia l’autore fin dalla seconda edizione:
il publico acquistava il libro ed aveva la cortesia di informarmi che lo aveva letto «da cima a fondo», «con vero piacere», che lo considerava «come un nuovo amico»; e dopo ciò seguivano proposte di aggiunte, spesso in forma di elenchi; e spesso persone tecniche correggevano le mie spiegazioni con fraterna benevolenza.
Questo pubblico che si complimentava e «domandava ancora parole, spiegazione delle parole, valore delle parole»12, non viene mai meno: Panzini conclude l’ultima prefazione da lui curata ringraziando – oltre a diversi amici, che lo assistono da anni in questa fatica – «quelli ignoti che per lettera mi mandavano o suggerimenti o rimproveri, o [...] nuova merce [...] da registrare»13.
Come nella Scienza in cucina (cfr. gli incipit del n. 54: «Una signora di Parma, che non ho il bene di conoscere, mi scrive: “Mi prendo la libertà d’inviarle la ricetta di una minestra che a Parma [...] è di rito nelle solennità famigliari [...]”» e del n. 652: «Un signore di Barga di onorevole casato, che non ho il bene di conoscere personalmente, invaghito (com’egli dice), per bontà sua, di questo mio libro, ha voluto gratificarsi meco, mandandomi la presente ricetta»), gli anonimi lettori lasciano talora traccia all’interno delle voci del DM, come la ditta che offre lo spunto per una v. di DM7:
[1935] Cioccolata: una Ditta di Torino mi scrive: «cioccolato? ciocolato? cioccolatto? Cioccolatte?
cioccolatta? insomma, una vera Babilonia nella qualifica del prodotto». Allora fra le cinque scritture, si
consiglia la sesta: cioccolata14,
o il «signore» che rimprovera Panzini di dimenticare che «il Piemonte […] è produttore di riso e consumatore di risotto. Non solo! ma anche di tartufi che con il risotto vanno tanto d’accordo!» (v. Risotto [1], parte aggiunta da DM6)15.
11
GIOVANNA FROSINI, La Scienza degli italiani. Storie di un libro fortunato, introduzione alla recentissima ristampa anastatica della princeps della Scienza in cucina (Firenze, Giunti, 2011); citazioni da p. 12. Cfr. anche CAPATTI, pp. 836-39.
12
Tutto da DM2, Prefazione, p. XI. Il primo passo è significativamente simile alle parole di Leonardo Mordini, lettore-corrispondente di Artusi, al quale scrive di aver «già letto due o tre volte da capo a fondo il suo libro, e, noti bene, non come un trattato tecnico [...], ma come si potrebbe leggere un romanzo» (p. 837). 13
DM7, Dichiarazioni, p. XIV. Nell’archivio panziniano, come in quello artusiano di Forlimpopoli, ci sono tracce di questa corrispondenza; ad esempio le due lettere di Santi Muratori conservate nel faldone 2 (per inciso, si osserva che nella stessa p. XIV della Prefazione a DM7 Panzini parla del «dotto amico Santi Muratori», esattamente come Artusi parlava nella sua introduzione -p. 9- del suo «dotto amico Francesco Trevisan»). Panzini continuerà a tenere in considerazione le lettere dei lettori fino ai suoi ultimi giorni: si parla di una «lettera da Bergamo» anche in una postilla manoscritta (s.v. Sculettare) ad un esemplare della settima edizione, preparatorio all’ottava, conservato nell’archivio panziniano di Bellaria.
14
Ovviamente i pareri richiesti e le osservazioni sono soprattutto di tipo linguistico e grammaticale, cfr. anche la v. Vostra Eccellenza e lei, presente solo in DM6A.
15
Un’altra abitudine che Panzini ha in comune con Artusi è la tendenza alle digressioni narrative, anche se di estensione molto minore rispetto a quelle, p. es., dei nn. 7, 235, 548; cfr. le voci Lasagne e Pois e FRANCHI, «Linguaggio di cucina…, cit., p. 38 e note.
Tornando agli elogi per la Scienza in cucina, essi si leggono fin da DM1, nelle voci
Entremets
Il signor P. Artusi, romagnolo e toscano, il quale per suo diletto publicò un pregevolissimo ed accurato manuale di scienza culinaria tanto poco noto quanto meritevolissimo di essere noto
(il passo verrà poi progressivamente ridotto, secondo la generale tendenza del DM a ridurre l’estensione delle voci) e Glassare
Pellegrino Artusi, nel citato manuale di culinaria, scritto con grazia nostrana e purezza di lingua da far arrossire molti testi scolastici, propone in tal senso le voci crosta e crostare16.
Dunque, il «pregevolissimo» «manuale di scienza culinaria», nel 1905 ancora «poco noto», va apprezzato sia per la materia, trattata con «accuratezza» e autorevolezza (la v.
Béchamel ribadisce da DM4 che «l’Artusi […] fa testo in fatto di culinaria»), sia per lo
stile e la «purezza di lingua», che ne fanno un modello di «grazia nostrana», risultato forse anche della doppia cittadinanza di Artusi, «romagnolo e toscano»17.
Infatti il DM ricorre ad Artusi (oltre che a Scappi) quando cerca equivalenti italiani per espressioni culinarie straniere che non vede di buon occhio in quanto segno di snobismo e di sudditanza nei confronti dell’«imperialismo culinario francese» (v. Chef)18.
Anche nella critica all’esterofilia verbale Panzini si pone sulle orme di Artusi, che in diversi punti del suo ricettario lascia trasparire un simile fastidio per lo «spirito di
stranieromania»19 fine a se stesso e le designazioni forestiere come Salsa alla maître
d’hôtel («sentite che nome ampolloso per una briccica da nulla! Ma pure i Francesi si
sono arrogati il diritto in questo e in altre cose di dettar legge; l’uso ha prevalso, ed è giocoforza subirlo», n. 123) o Rossi d’uovo al canapè («come mi ripugna di dare alle
16
E si tratta proprio di una proposta, avanzata con modestia: «mi fo lecito di tradurre così i due francesismi comunemente usati di glassa, glassare, lasciando ad altri la cura d’indicare termini italiani più speciali e più propri» (n. 789, Crosta e modo di crostare; molto opportunamente, Capatti rimanda al n. 586, dove per la prima volta Artusi si pone il problema della versione del tecnicismo; cfr. CAPATTI, p. 579 nota 48). 17
Panzini intuisce la duplice base della lingua artusiana: nella Scienza vale «la fondamentale opzione per il fiorentino contemporaneo – affrontato con l’umiltà dello “straniero” che aveva relegato il dialetto originario a un episodico e limitato uso domestico, e studiato anche attraverso repertori di pronto uso, come [...] il Vocabolario domestico di Giacinto Carena, inesauribile fonte di parole» (GIOVANNA FROSINI, «Lo
studio e la cucina, la penna e le pentole». La prassi linguistica della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi,
in CECILIA ROBUSTELLI e GIOVANNA FROSINI (a cura di), Storia della lingua e storia della cucina, Firenze, Cesati, 2009, pp. 311-30, citazione da p. 326.
18 In realtà, più che «la accuratissima cucina di Francia», la v. Chef ne critica la «sapiente ed eclettica derivazione», anche e soprattutto verbale, secondo Panzini imperante «in gergo mondano e degli alberghi di lusso» (v. Broche) e nel «ceto della gente che crede nobilitare il parlare con vocaboli stranieri» (v.
Corsetière). Cfr. anche in DM1 nella v. Menu le riserve a proposito delle «goffaggini […] di termini
culinari, appartenenti ad un linguaggio che non è più di alcuna nazione, ma che pompeggiano sicuramente anche in banchetti solenni ed ufficiali»; cfr. FRANCHI, «Linguaggio di cucina..., cit., pp. 39-42.
19
L’espressione proviene dall’introduzione alla ricetta dei Krapfen (n. 182), un po’ scetticamente definiti «piatto che porta questo nome di tedescheria». Qui Artusi, che non ha preclusioni nazionalistiche per quanto riguarda la ricerca dei sapori, invita a non entusiasmarsi acriticamente per ciò che è forestiero solo perché nuovo e diverso: «andiamo pure in cerca del buono e del bello in qualunque luogo si trovino; ma per decoro di noi stessi e della patria nostra non imitiamo mai ciecamente le altre nazioni per solo spirito di
pietanze questi titoli stupidi e spesso ridicoli! Ma è giuocoforza seguire l’uso comune per farsi intendere», n. 142)20.
L’«uso comune», da Artusi seguito «per farsi intendere», sarà punto di riferimento anche per Panzini fin da DM1, per ogni tipo di vocaboli, non solo per quelli culinari: egli dichiara di avere osservato come «leggi supreme» della sua prassi lessicografica «la necessità e l’evidenza» dei termini, seguendo l’«autorità dell’uso», in chiave –almeno inizialmente- antipuristica:
giacché più delle ragioni di analogia, di logica, di provenienza, hanno forza e valore le radici che le parole hanno messe21.
Per quanto riguarda i termini culinari, il DM, nella v.
[1931] Confiture: voce francese invece di conserva di frutta o marmellata. Se in un albergo di lusso non dite confiture, il cameriere vi considererà per provinciali22,
testimonia ironicamente una diversa motivazione nel conformarsi all’«uso comune», non più per «farsi intendere» bensì per “farsi apprezzare” come uomini di mondo.
La necessità di seguire l’«uso comune» non impedisce ad Artusi –come abbiamo visto- di proporre equivalenti italiani per certe designazioni straniere; Panzini nel DM approva che Artusi traduca il gallicismo Glassare con «crosta e crostare», la v.
Entremets «con tramesso, cioè posto in mezzo alle vivande del pranzo; la qual parola si
20 Cfr. anche il preambolo al n. 443, Passato di patate: «ormai in Italia se non si parla barbaro, trattandosi di cucina, nessuno v’intende; quindi per esser capito bisognerà ch’io chiami questo piatto di contorno non passato di… ma purée di… o più barbaramente ancora patate mâchées» (cfr. infra nota 74). Più accondiscendente il commento al Gâteau à la noisette (n. 564): «a questo dolce diamogli un titolo pomposo alla francese, che non sarà del tutto demeritato». In altri casi, Artusi pare quasi voler svelare la realtà semplice che si nasconde dietro i «nomi ampollosi», come per le ricette n. 223 e n. 190: «a me queste ciambelline furono insegnate col nome di beignets; ma la loro forma mi suggerisce quello più proprio di ciambelline, e per tali ve le offro». Anche Panzini adotterà un atteggiamento analogo, con i termini gastronomici (come la v. Rostbraten: «non è a credere che sia un piatto speciale e raro: vuol dire
braciuola e nulla più»), e non solo, cfr. ad es. Lapin: «in francese vuol dire coniglio, ma è certo che il
pellicciaio elegante vi dirà che il tale manicotto, la tal collarina è di lapin e non di coniglio: ciò avviene un po’ anche per la ragione per cui Fra Cristoforo, dicendo omnia manda mundis, chiuse la bocca a Fra Fazio, che non sapea di latino». Ma proprio Panzini, pur leggendo in Artusi lingue di gatto (n. 635), ne lemmatizzerà da DM1 il «nome dato francesemente », Langue de chat.
Capatti ricorda che «particolarmente in area toscana, l’emancipazione della lingua culinaria dai gallicismi è condivisa» da ben prima della Scienza e cita, fra gli altri, Il cuoco pratico ed economo (Livorno, Rossi, 1864), che tollera il francese solo occasionalmente «al fine di farsi comprendere dalla generalità» (CAPATTI,
Pellegrino Artusi…, cit., p. 25).
21 DM1, Prefazione, pp. XIV-XV. Sul purismo panziniano, cfr. LUCA SERIANNI, Panzini lessicografo tra
parole e cose, in GIOVANNI ADAMO, VALERIA DELLA VALLE (a cura di), Che fine fanno i neologismi? A
cento anni dalla pubblicazione del Dizionario moderno di Alfredo Panzini, Firenze, Olschki, 2006, pp.
55-78, alle pp. 59-63. 22
Sulla parola confettura (di cui il DM registra solo la versione francese) e la critica ai forestierismi mondani, cfr. MARGHERITA QUAGLINO, «E non cominceremo a trasformare il menu in saporosa godenda?». Autarchia linguistica e cucina nella stampa quotidiana e periodica», in ROBUSTELLI – FROSINI,
avvalora con un antico esempio del Boccaccio»23, la v. Béchamel con «balsamella» (che da DM2 è anche v. autonoma). Ne dichiara invece la sconfitta – nonostante tutto il «buon volere» impiegato per servirsi di termini italiani - per la v.
[1908A] *Quenelle: voce fem. francese dell’arte culinaria, dedotta dal tedesco Knödel = gnocco, polpetta. Specie di polpettina di fine preparazione. […] L’Artusi […], che pure è pieno di buon volere, non vi trova termine nostro corrispondente e dice tali polpette inventate da un cuoco il cui padrone non avea denti24, e implicitamente anche quando commenta l’uso persistente della v. Menu («scriviamo almeno menù», è la rassegnata conclusione della v. in DM7), nonostante che l’italiano disponga di lista, che è «parola che vi risponde precisamente, ed ha esempi antichi in tale senso»; Panzini stranamente non rammenta le artusiane Note di pranzi o «distinte di pranzi» (p. 817; solo nella v. Rostbraten parla dei nome di piatti letti «su le note») ma si lascia sfuggire, alla fine della v. in DM3, l’esclamazione un po’ sconsolata «e sì che abbiamo l’ottimo libro dell’Artusi!»25.
Si riferiscono più specificamente al contenuto delle ricette artusiane i richiami – anche letterali - delle voci Béchamel («l’Artusi […] avverte che una buona balsamella e un sugo di carne tirato a dovere, sono la base e il segreto della cucina fine», con ripresa non dichiarata dalle ultime righe del n. 137) e Pasta matta («sfoglia di semplice farina e acqua, usata “a far la parte di stival che manca” (Artusi, op. cit.) in diverse vivande»; la ripresa dal n. 153 è evidenziata da Panzini fra virgolette)26.
La lunga v. Brodetto inizia riportando il proemio alla ricetta del Cacciucco I (n. 455); poi in un certo senso dà una dimostrazione pratica dell’affermazione artusiana «la confusione di questi e simili termini fra provincia e provincia in Italia, è tale che poco manca a formare una seconda Babele» ricordando che la «specie di umido di pesci», detto in Romagna brodetto, «ha qualche parentela», oltre che col cacciucco, «col bouille
abaisse marsigliese, con la zuppa alla marinara a Roma».
Di questa «seconda Babele» gastronomica, fra dialettismi e forestierismi, Panzini ci offre un vasto panorama, senza limitazioni volte a preservare la «purezza di lingua»:
23
L’esempio pare piuttosto essere tratto dall’Ottimo commento alla Divina Commedia; cfr. GDLI s.v.
Tramesso, nell’accezione n. 4, che rimanda direttamente al Tommaseo-Bellini, il quale riporta «li tramessi
di Cicilia» da «Com. Inf. 20», indicazione erroneamente interpretata da Panzini come riferentesi al commento boccacciano.
24
Passi dal prologo della ricetta delle Quenelles (n. 317) sono ripresi alla lettera: il nome «non ha corrispondente nella lingua italiana», e il piatto «fu inventato forse da un cuoco il cui padrone non aveva denti». Artusi usa anche l’adattamento «chenelle» (cfr. CAPATTI, p. 337 nota 103).
25
Sull’evoluzione e frequenza d’uso dei sinonimi menu, menù, minuta, lista, distinta, cfr. CAPATTI, p. 814 e CHIARA COLLI TIBALDI, Un menu a misura d’ospite: evoluzione della terminologia gastronimica tra
Unità d’Italia e periodo fascista, in ROBUSTELLI – FROSINI, Storia della lingua e..., cit., pp. 259-67, alle pp. 259-60.
26
Invece, la v. Tagliatelle verdi è conclusa da un semplice rimando a «Artusi, op. cit.»; qui Panzini sintetizza un po’ troppo (o varia volutamente?) rispetto ad Artusi, perché afferma trattarsi di tagliatelle «colorite con sugo di spinaci», mentre la ricetta n. 70 prescrive di includere nell’impasto «un pugno» di spinaci lessi tritati «colla lunetta». Anche le successive informazioni «più riccamente condite (Bologna)» non trovano riscontro nella Scienza. Generica anche la citazione artusiana nella v. Risotto in DM1-DM2: «la varietà è così grande nella unità che ad es. Parma ammannisce e condisce diversamente da Bologna, Bologna da Ravenna. V. a questo oggetto il bel libro citato dell’Artusi».
rispetto ad Artusi, il DM amplia i riferimenti alla cucina internazionale, specie francese, e anche alle cucine regionali, che Panzini (un po’ come Artusi mezzo secolo prima) ha occasione di conoscere non solo grazie ai suoi viaggi, ma anche in virtù di lunghe permanenze in diverse parti d’Italia: romagnolo d’origine, Panzini fu liceale convittore a Venezia, studente universitario a Bologna, professore ginnasiale di prima nomina a Castellammare di Stabia, poi a lungo docente a Milano, e infine a Roma, dal 1918. Tutte queste esperienze si riflettono, tra le altre cose, in voci del DM, che - pur non essendo un testo dedicato alla cucina - presenta un campionario di termini culinari forestieri, dialettali e regionali addirittura più ricco di quello artusiano, che aveva scelto di privilegiare i termini toscani ma nel contempo di rifuggire dai toscanismi più marcati27. Il
DM diventa così lo specchio, anche nella gastronomia, di una società italiana che conosce
una prima piccola “globalizzazione”, prima di tutto interna, e poi internazionale.
I forestierismi gastronomici del DM, in grandissima parte assenti in Artusi, comprendono lemmi da Crème renversée a Gulash, da Ochsenmaulsalad a Zakuski28. Per i dialettismi più o meno adattati basti citare lemmi come Barbajada, Codino (Arrosto di),
Cervellata (Lombardia), Bagna càuda, Grissini, Giandùia, Gianduiotto (Piemonte), Fondi di carciofi, Risi e bisi, (Veneto), Brazadèl, Casatello o casadello, Spongata, Polpetta di mare (Emilia-Romagna), Cantucci, Nèccio, Panzanella, Pinzimonio
(Toscana), Maccheroni alla chitarra, Matriciana (Spaghetti alla), Rigatoni, Carciofi alla
giudìa (Roma e Italia centrale), Calzone, Mozzarella in carrozzella, Mesticanza, Pastiera, Strùffoli (Campania), Arancina, Cassata (Sicilia), tutti termini che Artusi non cita. Anche
la Sardegna, grande assente nella Scienza in cucina, è ricordata nel DM per i vini
Campidàno, Ogliastra, Vernaccia e nelle voci Pecorino e Yoghurt (per la locale variante
«gioddu»), nonché – in un appunto manoscritto nel già citato esemplare bellariese (cfr.
supra nota 13) – per un’aggiunta alla v. Galani, che completa il panorama dei diversi
nomi regionali: «meraviglie (Sardegna)».
Si esaminano ora le restanti tracce artusiane nel DM, quelle per cui Panzini non rimanda apertamente alla Scienza in cucina.
In pochi casi, gli accenni alla preparazione dei cibi sembrano riprendere passi delle ricette artusiane (specie dei preamboli), come nelle voci Fiorentina e Tòtano29. Sono più
27
Cfr. CAPATTI, pp. XVII-XXI e gli studi di GIOVANNA FROSINI, di cui troviamo una sintesi (con bibliografia) in La Scienza degli italiani. Storie…, cit., in particolare alle pp. 26-28.
Non meraviglia che il DM, «una «raccolta di [...] mostri e mostriccini», una «collezione di anomalie e di brutture, germinate sul bellissimo idioma in cui Dante scolpì la sua Commedia» (Prefazione a DM2, pp. IX e XI) si differenzi da un trattato che si sforza di mettere a punto uno «strumento espressivo [...] all’insegna dell’equilibrio e del buon gusto», con particolare attenzione a «un terreno particolarmente sensibile, quello del trattamento dei forestierismi e dei neologismi» (FROSINI, «Lo studio..., cit., pp. 320-21). Sull’atteggiamento panziniano nei confronti dei toscanismi, abbastanza simile a quello di Artusi, cfr. SERIANNI, Panzini lessicografo…, cit., p. 61.
28
Per cui cfr. MARIANNA FRANCHI, «Arte culinaria» e forestierismi nel Dizionario Moderno di Panzini, in ROBUSTELLI - FROSINI, Storia della lingua e..., cit., pp. 331-48.
29
Cfr. l’esordio del n. 556, Bistecca alla fiorentina («da beef-steak […] è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella»), e l’inizio della v. Fiorentina («chiamano in Romagna ed in Bologna la bistecca alla
interessanti certe consonanze a livello di classificazioni generali: a parte termini troppo diffusi per essere significativi (come umido, lesso, bollito, brodo, dolce, gnocchi, salsa, castrato, etc.; ma sulle definizioni di “pranzo” e “colazione”30 e di “minestra” ci sarebbe qualcosa da dire…)31, Panzini approva l’artusiano «tramesso» come equivalente di
entremets e usa «rifreddo» sia come aggettivo («un piatto rifreddo», v. Insalata alla
russa; «noto piatto rifreddo», v. Galantina)32 sia come sostantivo (v. Buffet in
DM1-DM6: «è chiamato altresì il caffè delle stazioni dove c’è tavola pronta con rifreddi e
ristori»). Mentre, senz’altro per evitare ambiguità, preferisce a «principio» la parola «antipasto», peraltro non ignota ad Artusi (cfr. il preambolo ai Principii, prima del n. 108,
fiorentina, per indicare la braciola col suo osso, tagliata nella lombata»; qui ed in seguito si sottolineano le
riprese letterali o quasi letterali). Tuttavia, molte informazioni artusiane (a partire dalle dettagliate modalità di cottura) non sono riprese da Panzini, né qui né nella v. Beef-steak; viceversa, il DM include dettagli diversi, specie a proposito dell’origine della ricetta, presumibilmente presi da altri «trattati dell’arte della cucina»: («i francesi ne disputano il vanto agli inglesi, e in alcuni trattati dell’arte della cucina si osserva che quella che nel continente è chiamata beef-steak all’inglese, in Inghilterra chiamano alla francese», in
DM1-DM5).
Anche molti elementi dell’incipit del n. 485, Totani in gratella («i totani (Loligo) appartengono all’ordine de’ cefalopodi e sono conosciuti nel litorale adriatico col nome di calamaretti. Siccome quel mare li produce piccoli, ma polputi e saporiti, cucinati fritti, sono giudicati dai buongustai un piatto eccellente») tornano nella v. Tòtano («lat. tautilus: è il nome toscano e registrato della Loligo vulgaris, squisito mollusco di mare, del gruppo dei cefalopodi (cioè aventi il capo coronato da tentacoli o piedi), il quale sul litorale adriatico è più noto col nome di calamaro o calamaretto, dal nero che secerne. Senonchè questo è più piccino, ma più polputo e saporito di quello») e in una variante presente in DM1-DM4: «Ben lo sanno i buongustai, pei quali un piatto di calamaretti fritti è di gran pregio».
30
Nel DM per «colazione» si intende prevalentemente il pasto del mattino (cfr. voci Breakfast e Déjeuner, ma s.v. Lunch si dice che «vuol dire colazione (del mezzodì)»). Artusi invece nelle Norme d’igiene parla a lungo di una «colazione» fatta «allo svegliarvi la mattina», che può anche essere «scarsa o liquida», distinta dalla «colazione solida delle 11 o del mezzogiorno», «secondo l’uso moderno», da assumersi «dopo quattr’ore circa», e che non deve essere troppo abbondante: «non conviene levarsi del tutto la fame, se volete gustare il pranzo» della sera, «che è il pasto principale della giornata e, direi, quasi una festa di famiglia», dopo un «intervallo di sette ore» dalla colazione di mezzogiorno (pp. 26-28). E un paio di pagine dopo, traducendo il Proverbio francese, raccomanderà di «alzarsi alle sei, far colazione alle dieci / pranzare alle sei» (p. 31). Anche a giudicare dalle ricette consigliate «per / da colazione» (dalla Braciuola di manzo
alla sauté – n. 262 - allo Stoccafisso in umido, n. 513), è chiaro che Artusi con questo termine intende quasi
sempre il pasto di mezzogiorno. Non così però per le ricette n. 719 (in cui come «leccornia per colazione» per i bambini consiglia l’uovo sbattuto con lo zucchero), n. 776 (il caffè «preso […] la mattina a digiuno pare che sbarazzi lo stomaco […] e lo predisponga a una colazione più appetitosa»), n. 778 («per chi lavora assai col cervello e non può stancare il ventricolo di buon mattino con una succolenta colazione, il caccao [sic] offre un eccellente cibo mattutino»).
31 Artusi distingue le minestre in brodo (ricette nn. 7-54, comprendenti diverse zuppe, preparazioni a base di riso, il Minestrone e il Cuscussù) dalle minestre asciutte e di magro (nn. 55-107, che includono risotti, gnocchi, maccheroni, spaghetti, altri tipi di paste, ripiene e non, e nove ricette di zuppe; cfr. le considerazioni di CAPATTI, pp. 62-63). Panzini nella v. Minestra (che in generale «è cosa italiana, varia, ottima. Costituisce il fondamento della nutrizione del popolo: è ragione della sua economia familiare e sobrietà») distingue diverse accezioni della parola in base alle macroaree geografiche: «nell’alta e media Italia la minestra è asciutta o in brodo: da Roma in giù, dicendo minestra, si intende in brodo, o verdura o legumi; altrimenti si dice maccheroni, spaghetti, fettuccine, ecc., non minestra» (in DM2-DM3 aggiungeva che «a Napoli è nome generico di zuppa, fatta di verdure», cfr. anche v. Maccherone).
32
Artusi usa la parola galantina solo per il nome del Cappone in galantina (n. 366), preferendo di solito il sinonimo gelatina (che, secondo il n. 3, «ordinariamente si serve col cappone in galantina»; cfr. CAPATTI, p. 57 nota 5 e p. 380 nota 11).
e la v. Hors-d’oeuvre). Quanto alle Colazioni alla forchetta, il cui esame conclude il ricettario, il DM lemmatizza l’espressione
[1905] Forchetta: la frase: colazione alla forchetta, e talora à la fourchette (cioè piatti freddi senza minestra), è tolta dal francese ed oramai è comune, da assai tempo.
Panzini riprende da Artusi altre categorizzazioni, come «di famiglia», che nella Scienza indica un piatto semplice, “da tutti i giorni”, opposto al «piatto fine» (cfr. n. 322, o nn. 475, 525, 642, etc., con gli equivalenti «da famiglia» -n. 572- o «per famiglia», n. 321), mentre in Panzini ha una connotazione piuttosto negativa, che sta fra la frugalità e la fregatura, cfr. la v. (da DM6A):
[1931A] Famiglia (Tipo): attenti a questa scritta nei negozi! Indica merce, commestibili scadenti.
Cioccolata di famiglia, non mangiabile. La famiglia è la gran cirenea!,
e le considerazioni del protagonista-narratore di una novella:
è piena di interesse la concezione che l’industria si deve essere formata della famiglia. Certi prodotti alimentari di qualità inferiore, sono chiamati “di famiglia”; il vino artificiale è vino “di famiglia”, il marsala di fichi secchi è “marsala per famiglia”; la cioccolata con la fecola è “cioccolata di famiglia”33.
Il DM riprende da Artusi anche la definizione di «vino da bottiglia», cioè pregiato (cfr. nn. 210 e 570 e voci Barbèra, Sangiovese, Sassella), e vi oppone quella di «vino da pasto» (voci Bardolino, Bordeaux, Dolcetto, etc.), di conio non artusiano (forse Artusi avrebbe detto «da famiglia»)34.
Molti riscontri riguardano le Spiegazioni di voci premesse da Artusi al ricettario35. A distanza di decenni, Panzini considera parecchi dei 40 termini o locuzioni in elenco
33 Le avventure di un ‘paterfamilias’ in Le fiabe della virtù (pubblicate in volume nel 1918); si cita da ALFREDO PANZINI, Opere scelte, a cura di GOFFREDO BELLONCI, Milano, Mondadori, 1970, p. 789. Un po’ peggio degli articoli «di famiglia» dovevano essere quelli scherzosamente detti «di guerra»: «nel 1917-18, difettando un po’ tutto, si convenne con familiare stoicismo di chiamare di guerra tutto ciò che era un po’
micragnoso (direbbe un romano): pane di guerra, pranzo di guerra, libro di guerra, ecc.» (v. Guerra, da DM3A).
34
Migliorini nella sua Appendice s.v. Méscita proporrà la distinzione fra «vino da méscita, robusto» e «vino da pasto». Il DM non registra invece la divisione artusiana fra «selvaggina di penna» e «selvaggina di pelo» (p. 48); da un attento cacciatore di «mostri e mostriccini» ci si sarebbe aspettata la registrazione di espressioni come arrosto morto (n. 526), bue garofanato (n. 329), broccioli fritti (n. 484), sparnocchie (n. 489), anguilla scorpionata (nel n. 458). Sorprende un po’ che gli aneddoti a proposito dell’àrista (n. 369) e del Pollo alla Marengo (n. 268) non vengano ripresi nelle voci Àrista e Marengo del DM e che non venga in qualche modo riusata da Panzini la lunga disquizione sugli «anaci di Romagna» che «per grato sapore e forte fragranza sono, senza esagerazione, i migliori del mondo», con tanto di invettiva contro gli «scellerati» che frodano sul peso aggiungendo della «terra cretacea […] ridotta in granelli della grossezza medesima» dei semi; «qui verrebbe opportuna una tiratina di orecchi a coloro che adulterano per un vile e malinteso guadagno, i prodotti del proprio paese, senza riflettere al male che fanno, il quale ridonda il più delle volte a danno di loro stessi. Non pensano allo scredito che recano alla merce, alla diffidenza che nasce e al pericolo di alienarsi i committenti» (n. 748).
35
Sulla «rivoluzione copernicana» insita nell’apertura con un glossario toscano-italiano anziché francese-italiano, cfr. FROSINI, «Lo studio..., cit., p. 321. Capatti osserva che il DM, che tanto «contribuì dal 1905 alla fama di Artusi», sarà per le «cuoche-lettrici» «guida erudita» «fra un francese scorretto e dei gallicismi
(tranne quattro, tutti presenti fin dall’edizione 1891) ancora meritevoli di essere spiegati e analizzati. Sono infatti voci del DM (che -ripetiamolo- non era un libro di culinaria)36
Carnesecca (con i sinonimi «rigatino, pancetta, ventresca»; solo il secondo è presente
nella Scienza), Cotoletta37, Frattaglie38, Fumetto, Mestolo39, Sauté40, Scaloppine,
Tritacarne (da DM3, «specie di macinino che supplisce alla mezzaluna e al mortaio
nell’arte culinaria»), Vitella41.
Compaiono invece negli interpretamenta di altre voci del DM i termini, evidentemente ormai ben noti, bietola (s.v. Cappelletti)42, cipolla (s.v. Maghetto, «in romagnolo indica il ventriglio dei polli, […] in Toscana buzzo o cipolla»), costoletta (s.v.
Costata, Cotoletta e Entrecôte), filetto (s.v. Beef-steak e Tournedos), lardone (s.v. Quagliette), lunetta (s.v. Malfattini), matterello (s.v. Cannella e Lasagnòlo), mezzaluna
(s.v. Pestata), odori (s.v. Erbetta, ma con un significato più ristretto, cfr. n. 42), scaloppe (s.v. Escalope), staccio (come termine generico in diverse voci, ad es. Semola), zucchero
a velo (s.v. Biuta o biuda e Galani).
strampalati» che permangono in diverse delle ricette artusiane (ALBERTO CAPATTI, Pellegrino Artusi
editore casalingo, in ROBUSTELLI – FROSINI, Storia della lingua e..., cit., pp. 19-28, citazioni da p. 25). 36
Infatti, da DM 3 in poi, la culinaria non compare nel telegrafico sommario presente nel frontespizio; le «parole [...] della cucina» sono presenti solo in DM1 e la «cucina» compare fra gli ambiti contemplati solo fino a DM2, fra le «parole nuove, di nuova accezione e di altre lingue, entrate nell’uso (sport, moda, teatro, cucina, gergo giornalistico, politico, burocratico, amministrativo, commerciale, etc.)».
37
Cotoletta (in DM1 Coteletta) «invece di costoletta» per Panzini «è manifesto ed inutile francesismo, usato anche dal popolo». Il giudizio era già del Rigutini: «così dicono coloro che mangiano e parlano alla francese. Chi parla italianamente dice costoletta» (GIUSEPPE RIGUTINI, Neologismi buoni e cattivi, Firenze, Barbèra, 1891, s.v.).
38 Le analogie fra la v. Frattaglia («comunemente al plurale, le frattaglie: le interiora dell’animale macellato spiccate dal corpo») e la spiegazione artusiana («Frattaglie: Tutte le interiora e le cose minute dell’animale macellato») non necessariamente sono dovute ad una voluta ripresa: possono semplicemente derivare dalla necessità di dare una chiara e sintetica definizione della parola.
39
Il lemma Mestolo, a differenza della spiegazione, non dà una definizione ed è costituito unicamente dal modo di dire «avere il mestolo in mano, familiarmente vale far da padrone», che registra uno sviluppo metaforico dell’espressione da Artusi usata letteralmente nel celebre «basta si sappia tenere un mestolo in mano», unico requisito richiesto per «annaspar qualche cosa» in cucina (pp. 10 e 14).
40 Solo nella redazione di DM2 il termine Sauté contempla anche l’accezione di «teglia» (in Artusi molto più dettagliatamente «quel vaso di rame in forma di cazzaruola larga, ma assai più bassa, con manico lungo, che serve per friggere»); in tutte le altre edizioni indica solamente «quella viva cottura che si fa della carne, ponendola senz’altro e per breve tempo nella teglia con burro od olio».
41
Oltre alle Spiegazioni, cfr. l’accenno nel n. 556 («i macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno nonche le altre bestie bovine di due anni all’incirca»); ancora nel 1935 (come del resto adesso) questo femminile creava stupore nel nord Italia: «perchè da Firenze in giù il vitello macellato diventa vitella? C’è chi dice che queste povere bestiole (tacchina, agnella, pollastrina, vitellina) sono più saporite se femmine. Più probabilmente perchè in Lombardia e Valle Padana i sacrificati al ventre umano sono i vitellini perchè, o l’aratura è fatta anche coi cavalli, o perchè i maschi delle lattifere sono poco atti al lavoro. Nel centro montuoso e nel sud d’Italia il vitellino deve diventar bue da lavoro, almeno finchè l’aratro a motore non lo soppianterà interamente» (v. di DM7; cfr. CAPATTI, p. 45 nota 33).
Sono da considerarsi a parte i termini bianchire e imbiancare, «lessare a metà». Il DM lemmatizza due termini simili: il verbo francese Blanchir, chiosato «v. Sbianchire» e appunto Sbianchire, «deforme termine di culinaria che traduce il francese blanchir (imbiancare) cioè scottare in italiano», sinomimo di sbollentare. 42
Non ha invece riscontro nel DM l’uso di «erbe o erbette» come sinonimo di bietola (sempre nelle
Spiegazioni); per il DM «erbe o erbette» possono nell’Italia centrale indicare il prezzemolo, cfr. voci Erbetta ed Erbucce.
Viceversa, mistrà43 e rognone44, che compaiono all’interno delle Spiegazioni diventano nel DM voci autonome.
Quanto ai lemmi delle Spiegazioni di voci che non trovano riscontro nel DM, si tratta di espressioni divenute comuni e non più bisognose di spiegazioni (Crema
pasticcera, Fagiuoli sgranati, Tagliere, Zucchero vanigliato) o, al contrario, ormai rare
perché troppo tecniche o perché di ambito esclusivamente regionale (Caldana,
Frattagliaio, Farina d’Ungheria, Imbiancare, Lardatoio, Mazzetto guarnito, Panare, Spianatoia, Pasto nel senso di «polmone dei quadrupedi», Pietra ‘rognone’).
Per quel che riguarda le 790 ricette artusiane, non pochi dei titoli si ritrovano nel
DM, in toto o più spesso in parte, eventualmente con qualche variazione. Queste massicce
sovrapposizioni sono ancora una volta indicative dell’interesse (linguistico, storico, o semplicemente… culinario) con cui Panzini guarda a queste voci, ai loro designata e al testo che ne fu probabile fonte. Quest’interesse risulta ancora maggiore se consideriamo -ricordandolo per l’ultima volta- che il DM non è né vuole essere un libro di gastronomia.
Sono titoli artusiani totalmente o parzialmente lemmatizzati le voci Agrodolce (con significato sia letterale, «detto di salsa», sia metaforico, «riferito a discorso»; cfr. n. 408),
Àrista (fin da DM1 registrata come «voce fiorentina», curiosamente non riportando il
gustoso aneddoto storico-etimologico del n. 369, senz’altro congeniale a Panzini; cfr.
supra nota 34), Arsella (come i nn. 498-99, il DM le distingue dalle telline; inoltre, cita
sinonimi «adriatici» in Artusi assenti: «peòcio, dàtolo de mar, capa, calcinello»), Babà (ha in comune col n. 565 la presenza fra gli ingredienti dell’«uva di Corinto»), Baccalà (cfr. v. Làbrador, e infra nota 81), Balsamella, Bavaresa (limitatamente all’aggiunta di
DM7, «specie di dolce in ghiaccio»; cfr. la Bavarese lombarda di n. 674, semifreddo a
base di savoiardi da tenere «per tre ore almeno nel ghiaccio» prima di servirlo), Beignet (cfr. nn. 190 e 631)45, Biscuit (limitatamente all’aggiunta di DM5, «nome di gelato»)46,
Bistecca, Blanc-manger (cfr. n. 681)47, Bomba48, Brigidini, Brioche, Bròccoli di rape (cfr.
43
Ricordato nelle Spiegazioni come sinonimo di Fumetto, «liquore con estratto di anaci chiamato mistrà in alcune province d’Italia». In entrambe le voci Fumetto e Mistrà, presenti fin da DM1, si mette in rilievo che il primo, «dall’aspetto di fumo che dà all’acqua in cui si versa», è termine toscano.
44
Nelle Spiegazioni il toscano pietra è chiosato «rognone, arnione»; la v. Rognone, da DM2, informa che «per somiglianza di suono con altro vocabolo significante altra glandola, propria del sesso maschile, è preferita la parola arnione. Avere gli arnioni sani vale esser forte, sicuro di sè, pronto. Cfr. Avere il fegato
sano».
45
In realtà le ciambelline del n. 190 (che ad Artusi «furono insegnate col nome di beignets») non corrispondono perfettamente alla descrizione panziniana dei Beignets (da DM1 «frittella, e si dice specialmente di pesche o mele»; solo da DM4 l’aggiunta «o anche le ciambelline rigonfie, o i bomboloni con la crema») o Bigné (da DM2 «nota specie di dolce, fatto di pasta rigonfia ed imbottita di crema. In Firenze dicono al pl., bomboloni»), cfr. CAPATTI, p. 229 nota 32.
46
Nell’interpretamentum di Biscuit, in DM8, compare l’unica attestazione nel DM di «semifreddo», assente in Artusi.
47
Panzini definisce il Blanc-manger o Bianco-mangiare «piatto dolce da credenza»; in Artusi non è attestata la categoria dei «dolci da credenza», che però sicuramente gli era nota, poiché per il Salame
inglese parla di «piatto d’alta credenza» (n. 618); viceversa, il DM non cita i «dolci al cucchiaio», presenti