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Il patto di famiglia. Dubbi, limiti e alternative alla figura codificata nella gestione del passaggio generazionale dell'attività d'impresa

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Indice

Premessa

1. Il

patto

di

famiglia:

fondamento,

genesi,

lineamenti, rapporto con altri istituti

1.1 L’esigenza di una nuova disciplina

1.2 Le differenze tra l’originaria proposta di

riforma e la versione definitiva

1.3 I soggetti del patto di famiglia

1.4 L’oggetto del patto di famiglia

1.5 La compatibilità del patto di famiglia con

l’impresa familiare

1.6 Segue: …e con le differenti tipologie societarie

2. Il patto di famiglia a confronto con il sistema

successorio del Codice Civile. La questione di

legittimità costituzionale

2.1 Il divieto di patti successori

2.1.1 Segue. Gli elementi accidentali del patto

di famiglia

2.2 Costituzione e patto di famiglia

3. Natura e causa del patto di famiglia

3.1 La struttura del patto

3.1.1 Segue. Il patto di famiglia quale struttura

semplice

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3

3.2.1 Il rifiuto della tesi del contratto a favore

di terzi e della donazione modale

3.2.2 La tesi del patto di famiglia come

negozio divisorio

3.2.3 Negozio multifunzionale?

3.3 Il formalismo negoziale

3.3.1 La scelta dell’atto pubblico

3.3.2 La questione dell’applicazione della

disciplina

formale

della

donazione

4. La disciplina del Capo V-bis

4.1 La partecipazione dei legittimari

4.2 La liquidazione dei legittimari

4.3 L’imputazione ex se. L’esenzione da collazione

e riduzione

4.4 I rapporti con i terzi

4.5 La fase patologica del patto di famiglia

4.5.1 I vizi del consenso

4.5.2 Scioglimento e modifica

4.5.3 La devoluzione delle controversie agli

organismi di conciliazione

5. Gli altri strumenti di trasmissione dell’impresa

5.1 Il family buy out

5.2 Il trust

5.2.1 Segue. La trascrivibilità del trust e gli atti

di destinazione

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Conclusioni

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Premessa

La presente trattazione si propone di analizzare l’istituto introdotto dalla l.14 febbraio 2006, n. 55 allo scopo di agevolare il passaggio generazionale nella titolarità delle imprese evitando che da tale fase possa derivare la frammentazione dei beni produttivi fra più successibili e la conseguente crisi aziendale. Si tratta di una disciplina fortemente attesa per garantire la continuità delle imprese, in particolare di quelle a carattere familiare che rappresentano la grande maggioranza dell’impresa italiana, e, in senso ampio, l’economia nazionale. Pur essendo una normativa di cui, da tempo, si sentiva estremo bisogno, l’iter che ha portato alla sua approvazione si è rivelato decisamente lungo e complicato a causa della difficoltà di trovare una soluzione agli stringenti vincoli imposti dal nostro sistema successorio. Il tormentato cammino verso l’approvazione della novella si è riflettuto sul testo definitivo che per molti aspetti (se non tutti) si rivela ambiguo, e, a tratti, lacunoso ed oscuro. Da qui, la necessità di un approccio elastico dell’interprete che dovrà avvicinarsi al testo consapevole della difficoltà di dare un significato univoco alle disposizioni che regolano il nuovo contratto. Non solo. Dovrà trattarsi di un approccio disincantato e il più possibile fedele al testo normativo, senza che si lasci prevalere un interpretazione volta a dichiarare ciò che è conveniente all’operatore giuridico del caso ma che non risulta dalla lettera della legge.

L’analisi dell’istituto prende le mosse dalle esigenze che il legislatore intendeva soddisfare con la sua introduzione evidenziando i profili essenziali del negozio. Dopo aver inquadrato l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione del patto, passerò a trattare dell’incidenza che il nuovo istituto ha avuto nel sistema del diritto successorio italiano, rivolgendo particolare attenzione alla ricostruzione del significato della deroga al divieto di patti successori

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introdotto contestualmente al patto di famiglia. In proposito, verranno selezionate le ricostruzioni dottrinali maggiormente convincenti e verrà proposta una personale opinione di tale apertura nei confronti di un sistema successorio che si rivela molto spesso troppo rigido e inadeguato alle esigenze economiche della nostra epoca. Prima di addentrarmi nelle asperità della disciplina normativa, verrà fatta chiarezza sul tema della causa di questo contratto, la quale, non essendo indicata dalla legge, impone all’interprete un notevole sforzo ermeneutico al fine di individuare il giusto punto di incontro tra le diverse funzioni che il patto si propone di svolgere; punto di incontro che verrà trovato in un qualcosa di nuovo e di non riconducibile agli schemi legali già conosciuti.

Un’importanza centrale nel complesso della disciplina riveste certamente la norma dell’art. 768-quater c.c., dall’esegesi della quale dipende non solo il funzionamento dell’istituto ma anche la struttura che a questo contratto si intende attribuire, anch’essa oggetto di notevole dibattito in dottrina, quale argomento connesso al profilo causale del patto. Norma essenziale per il raggiungimento degli scopi che il legislatore si era prefissato è, poi, l’ultimo comma del suddetto articolo, che stabilisce la dispensa per i legittimari dai meccanismi della collazione e dell’azione di riduzione: viene così impedito che quanto stabilito dal patto di famiglia grazie al consenso di tutti i legittimari possa essere nuovamente messo in discussione all’apertura della successione dell’imprenditore. Si tratta di una scelta legislativa preordinata a garantire la definitività dell’attribuzione patrimoniale operata con il patto di famiglia, la quale potrà venir meno solo in casi particolari ed entro brevi limiti di tempo.

Al termine dell’analisi della disciplina codicistica, verrà fatta una ricognizione dei più frequenti strumenti utilizzati dalla prassi per la trasmissione delle imprese prima dell’introduzione del patto di famiglia. Attraverso un confronto obiettivo si tenterà di comprendere i

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7

vantaggi, se vi sono, del nuovo negozio giuridico rispetto ad altri aventi il medesimo scopo, per dimostrare se l’introduzione del patto sia stata realmente utile e in che misura, e per comprendere quali modifiche apportare al fine di rendere l’istituto adeguato a raggiungere gli scopi per i quali è stato introdotto.

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8

1. Il patto di famiglia: fondamento, genesi, lineamenti,

rapporto con altri istituti

1.1 L’esigenza di una nuova disciplina

Uno dei momenti più delicati e importanti della vita di un'impresa è costituito dal passaggio generazionale, in quanto nelle piccole e medie imprese l'assetto organizzativo sconta una forte dipendenza della persona del fondatore-titolare1. L’efficienza gestionale può essere compromessa da un eventuale ampliamento del numero dei titolari, che, determinando un frazionamento della

governance potrebbe condurre alla disgregazione del complesso

aziendale2. Ed è a questo problema che tende a ovviare la legge sul

patto di famiglia, l. 14 dicembre 2006, n.55 denominata “Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia”, la quale ha come obiettivo quello di favorire la continuità delle aziende in uno dei momenti in cui si mostrano più fragili: quello, appunto, della successione nell'impresa.

Tali pericoli sono ancora più frequenti nel caso di imprese familiari, che rappresentano ben il 92% delle imprese italiane. Dati statistici rivelano la difficoltà di tali imprese a sopravvivere alla seconda generazione: infatti, secondo AIdAF, l'Associazione Italiana delle Imprese Familiari, il 50% delle imprese familiari scompare alla seconda generazione e solo il 30% delle restanti supera la terza3. Ciò dimostra come gli strumenti tradizionali di diritto successorio non siano più adeguati a far fronte a una realtà come quella odierna, in cui

1 M. Imbrenda, Patto di famiglia, solidarietà familiare e family business, in Rassegna

di diritto civile, diretta da Pietro Perlingieri, Napoli, 2007, p. 418

2 M. Imbrenda, Patto di famiglia, solidarietà familiare e family business, in Rassegna

di diritto civile, diretta da Pietro Perlingieri, Napoli, 2007, p. 419

3 Comunicato della Fondazione Italiana per il Notariato, Il patto di famiglia

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peraltro si tende ad ereditare in un’età compresa fra i 30 e i 50 anni a causa del prolungarsi della vita media, e in cui frequentemente si verifica il fenomeno della cd. successione anticipata, cioè la trasmissione del patrimonio ai figli quando l’ascendente è ancora in vita.

La necessità di coordinare il potere dell'imprenditore nella scelta del soggetto che proseguirà la sua attività economica e il sistema della successione necessaria del Codice Civile trovano oggi un punto d'incontro nella disciplina dettata dagli artt. 758-bis e ss.

L’avvicendamento nella direzione dell’impresa consiste in un complesso fenomeno giuridico-economico che in parte coinvolge interessi privati ed in parte coinvolge interessi, per così dire, superindividuali, ovvero interessi che non appartengono solo al singolo imprenditore o possessore di azioni/quote, ma che appartengono anche alla intera collettività4. La nuova normativa, se da un lato ha come fine principe quello di agevolare la sostituzione della guida dell'azienda, dall'altro non si può negare che sia suscettibile di risolvere anche altri problemi di rilievo economico e giuridico che investono tutti i tipi di imprese. In primo luogo, l’esigenza di consentire al titolare dell'impresa di scegliere quale fra gli aspiranti sia il più idoneo ad assumerne la direzione5, allo scopo di evitare una frammentazione del

complesso aziendale fra più soggetti in grado di generare conflitti che possano condurre a una crisi d'impresa. In secondo luogo, vi è la necessità di evitare la polverizzazione dei patrimoni e di assicurare la stabilità occupazionale e la continuità delle imprese, attraverso meccanismi idonei a ridurre i costi ed i rischi dell’avvicendamento

4 A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di successione

nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 2

5 M. Imbrenda, Patto di famiglia, solidarietà familiare e family business, in Rassegna

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generazionale nella titolarità della ricchezza6: in sostanza evitare che il sistema economico italiano veda fallire più imprese di quanto l’attuale fase di recessione non stia già facendo, quantomeno non a causa dell’incompetenza manageriale dei titolari. A ciò si aggiunga che, nelle moderne società capitalistiche, l’efficienza del diritto successorio è direttamente collegata al consolidamento della ricchezza prodotta, la quale rischia di andare perduta se non si istituiscono strumenti idonei a realizzare il passaggio generazionale dei beni7, nella fattispecie di beni aziendali per i quali si rende necessario conservarne la destinazione economica e massimizzarne il valore.

1.2 Le differenze tra l’originaria proposta di riforma e

la versione definitiva

La realizzazione degli obiettivi enunciati doveva essere coordinata con la disciplina codicistica (e non solo) esistente in materia di successioni e impresa. In particolare l'esistenza nel nostro ordinamento di un sistema di successione necessaria e del divieto di patti successori rendeva più difficile l'attribuzione all'imprenditore del potere di disporre in vita dei beni aziendali in favore di uno o più dei propri discendenti. La successione necessaria garantisce che la titolarità di determinate quote del patrimonio del defunto vengano obbligatoriamente destinate a soggetti aventi rapporti di parentela particolarmente stretti col de cuius, ovvero il coniuge, gli ascendenti e i discendenti in linea retta. Il divieto di patti successori, invece, preclude ogni convenzione con la quale le parti intendano: regolare la propria successione (patti istitutivi), o disporre dei diritti che possono derivare da una successione non ancora aperta (patti dispositivi) o, infine,

6 L. Carota, Il contratto con causa successoria. Contributo allo studio del patto di

famiglia, CEDAM, 2008, p. 2

7 L. Carota, Il contratto con causa successoria. Contributo allo studio del patto di

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rinunciare a diritti derivanti da successioni future (patti rinunciativi). Il motivo di tale divieto è quello di evitare che risulti pregiudicato il potere del futuro de cuius di disporre dei propri beni usque ad

extremum exitum vitae.

La necessità di aggiornare il sistema successorio in materia di beni produttivi fu proclamata già nel dicembre 1994 dalla Commissione Europea, con la raccomandazione 94/1069, che invitava gli stati membri nei quali era presente il divieto di patti successori di adottare provvedimenti idonei per consentire agli imprenditori di disporre in vita della propria azienda in favore di uno o più dei loro discendenti8, in modo tale da “assicurare la sopravvivenza e il

mantenimento dei livelli occupazionali nelle piccole e medie imprese”

dato che “ogni anno diverse migliaia di imprese sono obbligate a

cessare la loro attività a causa di difficoltà insormontabili inerenti alla successione”. La Commissione invitava, dunque, ad adottare misure

definite “patti di impresa” e “accordi di famiglia”, strumenti già utilizzati in altri paesi europei fra cui la Spagna9.

Il problema da affrontare prima di vagliare la possibilità di configurare un sistema di delazione contrattuale era la definizione di atto mortis

causa. La definizione comunemente accettata era quella di “atto avente

la funzione di regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto, per il tempo in cui avrà cessato di vivere e inidoneo a produrre effetti prodromici a tale evento”10. Dal momento che il patto

che si voleva introdurre avrebbe dovuto determinare il trasferimento dei beni aziendali immediatamente, senza cioè attendere

8 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 7 e ss.

9 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009, p.

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10 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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morte, la più grande novità introdotta dal patto consisteva nella stabilità che caratterizzava tale assetto patrimoniale, determinata dalla disattivazione degli strumenti di tutela che il diritto privato offre ai legittimari, ovvero la collazione e l’azione di riduzione. Il primo istituto consente di riequilibrare la posizione di alcune categorie di coeredi (ascendenti, discendenti e coniuge) attraverso l’imposizione, a coloro fra questi che avessero ricevuto donazioni dal de cuius, dell’obbligo di conferire agli altri quanto già conseguito al fine di formare una sola massa ereditaria da dividere. L’azione di riduzione consente ai legittimari (o ai loro eredi o aventi causa) di reagire ad una lesione dei propri diritti cagionata dal testatore, il quale, mediante disposizioni testamentarie o donazioni fatte in vita, non abbia attribuito ai legittimari la quota di legittima loro dovuta oppure ne abbia attribuita una inferiore.

Al termine di uno studio finanziato dal CNR e condotto dalla commissione Masi-Rescigno, si ebbe la prima stesura di norme sul trasferimento dei beni produttivi. Si prevedeva l’introduzione nel c.c. di un art. 734-bis, per disciplinare il “Patto di famiglia”, concernente la trasmissione dell’azienda dell’imprenditore individuale e di un art. 2355-bis, recante la disciplina del “Patto d’impresa”, avente ad oggetto le clausole di predisposizione successoria per il trasferimento di partecipazioni societarie.

Il “patto di famiglia” permetteva di tramettere l’azienda a uno o più discendenti attraverso un contratto, quindi un atto inter vivos, al quale avrebbero dovuto partecipare i “discendenti che sarebbero

legittimari ove in quel momento si aprisse la successione”. Il patto

aveva sostanzialmente natura divisoria laddove vi fossero legittimari non assegnatari11 ma niente si diceva circa la natura del patto. Si

11 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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poteva escludere che si trattasse di un contratto a prestazioni corrispettive, in quanto l’assegnatario non attribuiva un corrispettivo al dante causa12.

Il “patto di impresa”, invece, era previsto come una clausola dell’atto costitutivo di una s.p.a. , che obbligava i successori del socio venuto a mancare ad alienare la partecipazione che era loro pervenuta “a favore della società, dei soci o dei terzi”13 consentendo una

regolazione contrattuale della destinazione post mortem della società, operante al momento dell’apertura della successione. I risultati del lavoro della commissione Masi-Rescigno confluirono nel disegno di legge Pastore, il quale promuoveva l’introduzione di una deroga al divieto di patti successori, sanciva l’impossibilità per i legittimari di avvalersi degli istituti di collazione e riduzione e qualificava espressamente il patto come donazione. Per raggiungere tale risultato il d.d.l. prevedeva l’introduzione di tre articoli: uno riferito al trasferimento di azienda e gli altri al trasferimento di partecipazioni societarie, distinguendo fra società di persone (s.n.c. e s.a.s.) e società di capitali14. L’art. 734-bis qualificava espressamente il patto come donazione, diversamente da quanto farà successivamente la p.d.l. Buemi che parlerà di contratto come nella versione definitiva. Allo stesso modo della proposta elaborata dai proff. Antonio Masi e Pietro Rescigno, era previsto che tutti coloro che sarebbero stati legittimari al momento dell’apertura della successione avrebbero dovuto partecipare al patto e che i discendenti-assegnatari dell’azienda o delle partecipazioni sociali avrebbero dovuto “liquidare gli altri

12 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 16

13 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

p. 5

14 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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partecipanti al contratto […] con il pagamento di una somma corrispondente al valore delle quote previste dagli artt. 536 e ss. c.c.;

liquidazione che poteva avvenire anche in natura. A differenza della stesura definitiva, qui, del coniuge si parla solo al comma 6, dal quale si deduce come la sua partecipazione non sia affatto necessaria, ma solo possibile, in qualità di legittimario non partecipante al patto che può chiedere, al momento dell’apertura della successione, il pagamento della quota spettante, aumentata degli interessi legali15. Il d.d.l. Pastore prevedeva, inoltre, che nel contratto venisse stabilito che ai beni attribuiti ai legittimari non assegnatari fosse attribuito un valore sul quale doveva sussistere l’accordo di tutte le parti del patto. Per l’ipotesi in cui tale valore, che doveva essere proporzionato al quello dell’azienda, potesse non essere immediatamente individuato, il comma 4 prevedeva la possibilità di stipulare un successivo contratto dichiaratamente collegato al primo che risolvesse l’incertezza circa l’entità economica dei beni con cui liquidare i legittimari16. Al quinto

comma era prevista la necessaria e fondamentale rinuncia dei non assegnatari alla azione di riduzione e alla collazione.

La proposta Pastore comprendeva anche l’introduzione nel codice di un art. 2284-bis denominato “Patto d’impresa” che, sulla scorta di quanto già elaborato dal progetto del CNR, prevedeva la possibilità che le partecipazioni cadute in successione potessero essere acquistate da altri soci, da terzi (fra cui gli eredi) o, solo per la s.p.a., dalla società medesima17. Tale possibilità doveva essere inserita nell’atto costitutivo e, salvo diversa pattuizione, tale diritto doveva

15 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 23

16 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 22 e ss.

17 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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essere “esercitato entro sessanta giorni dalla comunicazione alla

società dell’apertura della successione”18. Il prezzo di acquisto

doveva corrispondere al valore delle quote ed “essere corrisposto

contestualmente all’esercizio del diritto” (art.2284-bis, comma 3)19.

Anche qui si sarebbe potuto verificare un disaccordo sul valore della quote, ma in questo caso il comma 3 disponeva la nomina di un perito da parte del presidente del tribunale del luogo in cui la società aveva sede, affinché procedesse alla stima della quota sociale o delle azioni.

Infine, avrebbe completato il quadro normativo un art. 2355-bis che estendeva la normativa del 2284-bis alle società di capitali, con la sola differenza che abilitata all’acquisto delle azioni cadute in successione fosse anche la società stessa, oltre a soci o terzi20. Il sen. Pastore ripropose il d.d.l. nel 2002 che riproduceva il testo del precedente, tranne che per l’art. 2284-bis, venuto meno. L’anno successivo l’on. Buemi presentò un’ulteriore proposta sostanzialmente identica a quella del d.d.l. del 97, ma con alcune novità non trascurabili: innanzitutto, il patto di famiglia veniva qualificato come contratto, e non più come donazione21; il coniuge veniva inserito fra i contraenti necessari del “nuovo negozio giuridico”22; infine era affidata

ad un arbitro individuato in “uno degli organismi di conciliazione

previsti dall’art. 28 del d.lgs. 17 gennaio 2003,n. 5” la risoluzione di

possibili controversie intorno al patto stesso23.

18 Relazione al d.d.l. n. 2799/1997 19 Relazione al d.d.l. n. 2799/1997

20 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 27

21 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

p. 9

22 Relazione alla Camera del 23 settembre 2003

23 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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La Seconda Commissione Giustizia della Camera dei deputati, alla quale era stata trasmessa la p.d.l. Buemi, apportò alcune modifiche optando, da un lato, per la collocazione sistematica del nuovo istituto all’interno di un nuovo Capo V-bis del Libro II del c.c. (cioè fra le successioni e le donazioni)24, e dall’altro per l’introduzione di due nuove norme relative ai vizi del consenso e allo scioglimento del patto. Quest’ultima è stata mantenuta identica nella versione definitiva della norma. La prima, invece, richiamava i vizi del consenso ex artt. 1427 e ss. c.c. che permettono alle parti di impugnare il contratto, prevendendo un termine di prescrizione di un anno dalla conoscenza del vizio: termine che era, sì, breve ma di certo non escludeva la possibilità che, anche dopo diversi anni dalla stipulazione, potesse essere fatto valere il vizio con ovvie conseguenze in termini di stabilità del patto25. A seguito del dibattito alla Camera si scelse di omettere l’inciso “dalla conoscenza del vizio” nella versione definitiva della norma, stabilendo come termine a quo quello della formazione del contratto26.

Resta da vedere se la nuova disciplina sia in grado di far fronte a quelle esigenze che ne hanno incoraggiato l’introduzione nel nostro ordinamento. Ciò che invece è certo è che la normativa in esame si presenta per molti versi equivoca e lacunosa, dimostrando come ancora una volta il nostro legislatore non si sia dimostrato all’altezza del compito che gli era stato assegnato commettendo errori e imperfezioni tecniche tali da richiedere agli operatori del diritto un sforzo ermeneutico notevole per dare attuazione a certe prescrizioni

24 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 33

25 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 34

26 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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normative27. Basti pensare che la disciplina del patto di famiglia è stata introdotta nel Codice Civile con la tecnica dell’inserimento dando alla luce un Capo V-bis invece che un Capo VI, come sarebbe stato logico avendolo collocato alla fine del Titolo IV del Libro II del codice civile. Questa svista del legislatore, sebbene qui risulti innocua, è segno di scarso tecnicismo che in altre zone della normativa da luogo a dei

rebus interpretativi di non sempre agevole soluzione. In realtà

analizzando da vicino gli artt. 768-bis e ss. ci accorgiamo come ogni profilo dell’istituto sia stato disciplinato in modo tale da dar adito a una molteplicità di interpretazioni: dalla natura all’efficacia, dalla struttura all’oggetto ed alla patologia, ovunque troviamo norme suscettibili di diverse interpretazioni.

L’art. 768-bis c.c. qualifica il patto di famiglia come quel contratto, mediante il quale l’imprenditore individuale o il titolare di partecipazioni societarie, individuato l’ascendente (o gli ascendenti) che, per attitudine, meglio si presta a ricoprire il ruolo svolto dal trasferente, attribuisce loro i suddetti beni e contemporaneamente dispone che vengano liquidati gli altri soggetti che avrebbero diritto alla quota ereditaria secondo gli artt. 536 e ss., se in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore o del titolare delle partecipazioni. Si tratta, dunque, e lo dice la lettera della norma, di un contratto. Le ragioni che hanno indotto il legislatore del 2006 a definire tale contratto in termini di “patto” vanno probabilmente ricercate nel legame che i progetti di legge facevano con il divieto di patti successori, costituendo esso una deroga al divieto. Sarebbe poi stato “di famiglia” in quanto caratterizzato dal necessario coinvolgimento di tutta la famiglia28, come afferma l’art. 768-quater,

27 S. Delle Monache, Spunti ricostruttivi e qualche spigolatura in tema di patto di

famiglia, in Riv. notariato, fasc.4, 2006, pag. 889

28 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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1°comma c.c. Inoltre, l’esplicita qualificazione del negozio in parola in termini di contratto consente di affermare l’autonomia del nuovo istituto e di escludere che possa essere inteso come semplice clausola contrattuale29. La collocazione all’interno del Codice Civile e la definizione di tutti gli elementi dello stesso inducono a ritenere il patto un contratto tipico, anche se alcuni l’hanno definito come contratto nominato, in quanto sottratto alla disciplina generale del contratto per la particolarità della settore di riferimento30. È inoltre un contratto formale poiché l’art. 768-ter c.c. stabilisce come “a pena di nullità il

contratto deve essere concluso per atto pubblico” e ad effetti reali,

poiché l’effetto traslativo avviene nell’immediatezza e contestualmente al patto, senza la possibilità di ipotizzare che si producano effetti relativi ad un momento futuro rispetto a quello della sua conclusione, al contrario del testamento con il quale il testatore dispone “per il

tempo in cui avrà cessato di vivere”31.

Due diverse ricostruzioni sono, invece, state prospettate circa la partecipazione alla formazione del patto dei legittimari non assegnatari sulla base dell’art. 768-quater c.c. Infatti, la differente lettura di tale norma può portare a considerare il patto come un contratto bilaterale (fra disponente e assegnatario) oppure plurilaterale (fra disponente, assegnatario e non assegnatari). Chi32 ha affermato il carattere bilaterale del patto ha ritenuto che l’art. 768-quater, comma 1 c.c. andasse interpretato non come una norma imperativa che, se violata,

29 L. Carota, Il contratto con causa successoria. Contributo allo studio del patto di

famiglia, CEDAM, 2008, p. 72

30 Andrini, Il patto di famiglia: tipo contrattuale e forma negoziale, in www.

filodiritto.com, la quale, sul punto, rinvia al proprio Andrini, La scelta del tipo contrattuale, in Riv. Dir. Priv., 2004, p.707.

31 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 56

32 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

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avrebbe determinato la nullità del patto, ma come elemento idoneo a rendere vincolante il contratto nei confronti di coloro che sarebbero legittimari, ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore. Il carattere vincolante del patto nei confronti dei legittimari attuali consisterebbe nell’impedire a costoro la possibilità di esperire efficacemente l’azione di riduzione o la collazione. Così ricostruendo, sarebbe possibile stipulare il patto anche in caso di rifiuto o assenza di un legittimario che, tuttavia, non essendo legato al patto, potrà utilizzare i rimedi della riduzione e della collazione con riferimento ai beni aziendali o alle partecipazioni societarie33. Chi34, al contrario, ha ritenuto il patto di famiglia come contratto plurilaterale presuppone la necessaria presenza al momento della formazione dell’atto anche dei discendenti non assegnatari e del coniuge. Tale duplicità di opinioni deriva essenzialmente dall’utilizzo poco oculato da parte del legislatore dei termini “contraenti” e “parti” riferendoli in sostanza agli stessi soggetti.

Venendo ora al profilo causale del contratto, nessuna indicazione esplicita è contenuta nel testo definitivo della legge, diversamente, ad esempio, dal d.d.l. Pastore che parlava di donazione. La dottrina inizialmente aveva ritenuto il patto un negozio caratterizzato da causa donativa sulla base del mancato richiamo ad un qualsivoglia corrispettivo del trasferimento dell’azienda (o delle partecipazioni societarie), mentre sarebbe stato ben presente il cd.

animus donandi35. Tale ricostruzione sembra ormai superata e si preferisce pensare al patto come ad un contratto caratterizzato da causa mista: da un lato la causa di liberalità continuerebbe a esser presente

33 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

2006, pag. 401 e ss.

34 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 56

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connotando il trasferimento dei beni produttivi, dall’altra, vi sarebbe anche una causa solutoria36 relativa alla liquidazione dei legittimari

non assegnatari, ma l’argomento verrà trattato approfonditamente più oltre.

1.3 I soggetti del patto di famiglia

L’art. 768-bis c.c., nel definire il patto di famiglia, stabilisce che con esso “l’imprenditore” trasferisce in tutto o in parte l’azienda e “il titolare di partecipazioni societarie” trasferisce in tutto o in parte le proprie quote. In merito al trasferimento d’azienda, parte della dottrina ha sostenuto l’idea che la norma intenda riferirsi all’imprenditore in senso tecnico-giuridico descritto dall’art. 2082 c.c. come colui che “esercita un’attività economica organizzata al fine della produzione o

dello scambio di beni o di servizi”, in quanto la peculiare ed

eccezionale disciplina del patto di famiglia dovrebbe trovare applicazione solo quando sia renda necessario garantire un sicuro e durevole passaggio generazionale nell’impresa: quando, cioè, debbano essere soddisfatte le esigenze dell’impresa piuttosto che quelle semplicemente patrimoniali del cedente37. Altra dottrina, sicuramente

maggioritaria, ha invece affermato come il termine utilizzato dal legislatore debba essere inteso in senso ampio e atecnico, tale da ricomprendere tutti coloro che siano titolari di un’azienda (ad esempio, il disponente che abbia affittato l’azienda al futuro legittimario-assegnatario38). Inoltre, che il legislatore volesse intendere la parola imprenditore in senso ampio è dimostrato dal fatto che al successivo art. 768-quater c.c. si riferisca genericamente alla successione nel

36 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 21

37 F. Volpe, Patto di famiglia, in Il Codice civile Commentario, P. Schlesinger – D.

Busnelli, Giuffrè Editore, 2012, p. 27

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patrimonio dell’imprenditore, senza effettuare alcuna distinzione fra questo e il titolare delle partecipazioni sociali39. L'interpretazione

meramente letterale della parola "imprenditore" determinerebbe una disparità di trattamento assolutamente ingiustificabile: non vi sarebbe, infatti, alcuna ragione per escludere l'applicazione della suddetta disciplina a chi vanta diritti di legittima sulla successione del titolare di partecipazioni sociali40. Sarebbe stato forse più opportuno riferirsi anche in questo caso al titolare dell’impresa così come è stato fatto per le partecipazioni sociali. In ogni caso, il riferimento alla qualità di imprenditore del disponente comporta l’attualità dell’attività di impresa, con la conseguenza che non rientrano nella disciplina in esame né la cessione di un’azienda in fase organizzativa, né quella effettuata chi abbia cessato la propria attività41.

Dal testo della norma emerge subito come soltanto colui che trasferisce l’azienda sia qualificato espressamente come imprenditore. Ciò ha fatto sorgere dubbi circa la necessità o meno che anche il titolare di partecipazioni societarie debba rivestire tale qualifica. Una tesi più restrittiva, basandosi sulle intenzioni che emergono dai lavori preparatori della legge e sulla volontà di favorire la continuità dell’attività produttiva nel passaggio generazionale, tende a limitare l’applicabilità del patto alle sole partecipazioni che attribuiscano un potere gestionale della società, tale da far acquistare ai titolari delle stesse la qualifica di imprenditori42. Inoltre, a sostegno di questa teoria, con la quale concordo, vi sarebbe anche l’eccezionalità di una

39 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 36-37

40 A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di

successione nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 43

41 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

2006, pag. 401 e ss.

42 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

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disciplina come quella del patto di famiglia che, ponendosi come derogativa del divieto di patti successori, troverebbe giustificazione solo nell’agevolare il passaggio di mano di un impianto produttivo. Contrapposta a questa, vi è una tesi estensiva la quale, facendo leva sul fatto che la legge non menziona alcuna differenza circa la qualità e quantità delle partecipazioni, consente di far ricadere nell’ambito di applicazione del patto qualunque partecipazione societaria del disponente, quindi anche quelle che rappresentano un mero investimento economico-finanziario43. Mi riservo di approfondire questi argomenti nei paragrafi dedicati alla compatibilità del patto con le disposizioni in materia di impresa familiare e societaria.

Un ultimo argomento da affrontare prima di concludere l’analisi del profilo soggettivo del patto di famiglia è certamente quello riguardante i soggetti che, una volta concluso il contratto, diventeranno titolari dei beni aziendali o delle partecipazioni societarie.

Se è vero che la nozione del patto di famiglia di cui all’art.

768-bis c.c. da luogo a diverse possibili interpretazioni circa la

qualificazione del soggetto cedente, minori problemi crea con riferimento ai soggetti che saranno beneficiari dell’assegnazione. La norma è chiara nell’attribuire la qualità di beneficiario dell’azienda o delle partecipazioni societarie “ad uno o più discendenti”, escludendo così il coniuge, gli ascendenti, fratelli e sorelle. Conseguenza immediata di tale scelta legislativa è che non potrà utilizzare il patto di famiglia chi non abbia prole: perciò, qualora voglia trasferire i suddetti beni a un soggetto diverso dovrà ricorrere ad altri strumenti che, però, non offrono il vantaggio di impedire il ricorso alla collazione o all’azione di riduzione44.

43 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di U. La Porta, UTET, 2007, p. 113

44 F. Volpe, Patto di famiglia, in Il Codice civile Commentario, P. Schlesinger – D.

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Sembra ormai pacifico come l’espressione discendenti sia idonea a comprendere tanto i discendenti legittimari, e quindi i figli legittimi, naturali e adottivi (distinzioni, queste, venute meno a seguito della recente riforma della filiazione che ha affermato il principio dell’unicità dello stato di figlio), quanto i discendenti non legittimari, come il nipote nel caso in cui l’ascendente non sia a lui premorto. Lo si deduce dal fatto che l’art. 768-bis c.c. parla genericamente di discendenti, mentre l’art. 768-quater c.c. richiede che costoro debbano rivestire la qualità di legittimari: se il legislatore avesse voluto limitare il trasferimento dei beni produttivi ai soli discendenti legittimari avrebbe dovuto menzionarli nell’art. 768-bis c.c.45 Maggiormente

discusso è se fra i nipoti del disponente debbano essere compresi soltanto quelli in linea retta oppure anche quelli in linea collaterale. Attribuire la possibilità ai nipoti ex frate di divenire beneficiari del trasferimento, se da un lato sembra essere in linea con la ratio della norma di garantire il passaggio generazionale nell’impresa, dall’altro si scontra con i principi generali di diritto successorio: dato che i discendenti in linea collaterale succedono solo per rappresentazione ex art. 468 c.c., sarebbe assurdo che i fratelli del disponente non possano essere beneficiari, mentre potrebbero esserlo i loro figli4647.

La posizione degli altri partecipanti al patto, quali il coniuge e gli altri legittimari non assegnatari, verrà ampiamente esaminata nel paragrafo dedicato al commento dell’art. 768-quater.

45 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 37

46 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

p. 134

47 Vedi in senso contrario B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto

successorio con la legge 14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 103-104

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1.4 L’oggetto del patto di famiglia

In base alla disposizione contenuta nell’art. 768-bis c.c., il patto di famiglia è “il contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni

in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”.

Oggetto del trasferimento sono quindi l’azienda e le partecipazioni societarie, nel loro complesso o per quote.

L’azienda è definita dall’art. 2555 c.c. come “il complesso di

beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.

L’espressione dell’art 768-bis c.c. lascia intendere che il disponente possa scegliere discrezionalmente di trasferire o l’intera azienda o il cd. ramo d’azienda, inteso come “un complesso organizzato di beni

costituente una unità produttiva di una più ampia struttura aziendale, dotato di autonomia funzionale e strutturale”48. Le possibilità del

disponente aumentano ancora se si considera che questo può essere a capo di più aziende: sarebbe allora possibile trasferire col patto di famiglia soltanto una delle aziende, oppure trasferire un’azienda ad un discendente e una ad un altro, oppure ancora trasferire un'unica azienda attribuendo rami diversi della stessa a discendenti diversi49. È tuttavia più probabile che non vi siano tanti successori capaci e volenterosi di ricoprire il ruolo dirigenziale nelle diverse aziende o nei diversi rami dell’azienda del disponente, perciò sembra più verosimile e più aderente ai motivi che hanno indotto il legislatore ad introdurre

48 Così A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di

successione nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 48, il quale cita C. Ferrentino-A. Ferrucci, Dell’azienda, Giuffrè, 2006.

49 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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l’istituto che l’imprenditore scelga quello che fra i suoi discendenti reputi più idoneo a proseguire adeguatamente l’attività produttiva. L’unico limite che incontra consiste nella necessità che sia mantenuta l’idoneità produttiva ed organizzativa del complesso dei beni costituenti l’azienda ai fini della continuazione dell’attività d’impresa. Il che consente di affermare che, ai fini del trasferimento, non sia rilevante se l’azienda sia solo nata, cioè abbia una capacità produttiva almeno potenziale, oppure produca già ricchezza. Se, da un lato, l’intento della legge del 2006 era quello di salvaguardare la stabilità e la continuità degli impianti (già) produttivi, dall’altro non mi sembra si possano escludere dall’ambito di applicazione del patto quelle aziende (si pensi, ad esempio, ad un albergo) che, pur non avendo ancora intrattenuto rapporti con clienti né concluso contratti col personale o fornitori, dispongano di un’organizzazione economica funzionale all’esercizio, nell’immediato futuro, di attività di impresa50.

Una volta risolti i problemi circa il trasferimento parziale di azienda, mi sembra ora opportuno esaminare la sorte dei rapporti aziendali che facevano capo al trasferente. Ex art. 2558 c.c. l’acquirente dell’azienda, in questo caso il discendente, subentra nei relativi rapporti che facevano capo al soggetto alienante, sia nei contratti a prestazioni corrispettive, ancora in corso o ancora da eseguire e che non abbiano carattere personale; sia nei crediti e debiti aziendali. Tale effetto automatico della disciplina legale può essere escluso dalle parti tanto per i contratti (coi limiti dell’art. 2558 c.c.), quanto per i crediti o i debiti aziendali e altri beni mobili, purché non sia compromessa l’idoneità del complesso produttivo all’esercizio di una determinata attività imprenditoriale51. Se ciò non si verifica e vi

50 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 133 e ss.

51 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

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sono debiti di una certa consistenza, si possono prospettare diverse possibilità in cui l’autonomia privata ha un ruolo fondamentale: se è vero che i debiti passano all’acquirente automaticamente, è anche vero che costui in tal caso potrebbe non essere d’accordo a concludere il patto e quindi o se li accolla il disponente (probabile visto che spesso il beneficiario è giovane e non ha di un patrimonio adeguato a sopportarli) o, se passano al discendente, potrebbe essere opportuno procedere a un ricalcolo (proporzionale e ovviamente in diminuzione) delle quote da liquidare ai legittimari non assegnatari52.

Vediamo ora cosa accade quando il disponente e/o il beneficiario del trasferimento d’azienda operato ai sensi degli artt. 768-bis c.c. e ss. sia coniugato. Dalla situazione patrimoniale e coniugale dei due protagonisti della vicenda negoziale derivano conseguenze diverse in ordine ai soggetti che devono partecipare al patto nonché al regime cui sarà sottoposta l’azienda dopo il trasferimento.

52 Mi trova perfettamente concorde B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del

diritto successorio con la legge 14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 136-137, in quanto un’azienda oberata di debiti è certamente un’azienda di minor valore; un valore del quale è necessario tener conto con proporzionali riduzioni delle somme oggetto di liquidazione a favore dei non assegnatari. In altri termini, non vedo il motivo per cui un discendente debba acquistare un’azienda gravata da debiti considerevoli e contemporaneamente non ottenere una proporzionale riduzione delle somme dovute ai non assegnatari: è chiaro che il “beneficiario” del patto non solo otterrebbe un’azienda carica di passività che egli dovrà estinguere col proprio patrimonio, ma, se addirittura venissero sottaciute, sarà tenuto a versare una somma non corrispondente a quella effettivamente dovuta agli altri legittimari, bensì superiore. Mi sembra più che opportuno che l’autonomia privata debba venire in soccorso in questa ipotesi consentendo a padre, figlio e altri legittimari di farsi reciproche concessioni per pareggiare eventuali squilibri patrimoniali.

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Iniziando dal disponente, è necessario distinguere due possibilità, cioè quella in cui vi sia un unico imprenditore, da quella dell’azienda coniugale dove la qualità di imprenditore spetta ad entrambi i coniugi. Laddove l’unico soggetto titolare dell’azienda sia coniugato in regime di comunione legale dei beni, costui potrà liberamente disporne anche senza il consenso dell’altro coniuge in quanto i beni aziendali sono ricompresi fra quelli che cadono in comunione de residuo ex art. 178 c.c.53

Se, invece, ad esercitare l’impresa siano congiuntamente il disponente e il coniuge, trattandosi di azienda coniugale, cioè quella gestita da entrambi i coniugi e sorta dopo il matrimonio, sarà necessario che entrambi prestino il proprio consenso alla formazione dell’atto54. Dal lato del beneficiario, se accogliamo la tesi per cui il

patto di famiglia da luogo ad un trasferimento non oneroso assimilabile alla donazione, troverà applicazione l’art.179, lett b), c.c., per cui l’azienda sarà considerata come bene personale dell’assegnatario e solo gli eventuali incrementi cadranno in regime di comunione legale55.

Per concludere l’esame del trasferimento di azienda, è interessante notare come il legislatore non faccia alcun riferimento al diritto oggetto del trasferimento ma, appunto, indica soltanto i beni su cui il trasferimento incide: si deve, perciò, ritenere che nella nozione di trasferimento si possa ricomprendere ogni fattispecie di acquisto a titolo derivativo. Se la ratio dell’istituto è quella annunciata di agevolare il passaggio generazionale nell’impresa, potremmo dedurre che il legislatore si sia voluto riferire a quello che fra i diritti meglio

53 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di U. La Porta, UTET, 2007, p. 123-124 54 A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di

successione nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 52

55 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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garantisce il raggiungimento di tale fine, ovvero il diritto di proprietà piena. Non va, tuttavia, sottovalutata l’ipotesi che anche altri diritti possano essere trasferiti attraverso il patto, dato che la lettera della norma non impone alcun vincolo in tal senso. Sicuramente ammissibile è il patto di famiglia con cui il disponente trasferisce il diritto di usufrutto, e quindi la gestione dell’impresa, a uno dei suoi discendenti e la nuda proprietà ad un altro56, evitando in tal modo la frammentazione dell’impresa e operando una scelta precisa circa il soggetto più idoneo a proseguire l’attività economica. Si può anche configurare un patto che trasferisca l’azienda in comproprietà a più assegnatari dato che l’art. 768-bis c.c. stabilisce che questa può essere attribuita “ad uno o più discendenti”57. Da escludere, invece, la

possibilità di trasferire un diritto reale di godimento diverso dall’usufrutto in quanto: l’enfiteusi, la superficie e la servitù hanno natura immobiliare, il diritto di uso e il diritto di abitazione sono commisurati alle esigenze della persona e perciò difficilmente compatibili con la natura produttiva del bene58.

Maggiori problemi interpretativi emergono dall’ipotesi in cui l’imprenditore trasferisca la nuda proprietà dei beni produttivi a uno o più discendenti assegnatari riservandosi al contempo il diritto di usufrutto sull’azienda, per un tempo limitato o per tutta la vita. Questa soluzione, che prevede il mantenimento dei poteri di governance del complesso aziendale in capo al disponente, consentirebbe di smorzare l’aleatorietà del trasferimento quando l’imprenditore non sia certo del soggetto cui assegnare l’impresa e/o delle sue capacità gestionali.

56 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

2006, pag. 401 e ss.

57 F. Volpe, Patto di famiglia, in Il Codice civile Commentario, P. Schlesinger – D.

Busnelli, Giuffrè Editore, 2012, p. 58

58 G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato, fasc.2,

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L’incertezza sulla possibilità che l’assegnatario non sia in grado di attuare un passaggio felice dell’impresa mettendo in pericolo quella stabilità e continuità che il patto di famiglia si propone di realizzare, ha fatto ipotizzare ad alcuni commentatori59 l’opportunità di inserire nel contratto una cd. clausola di reversibilità, collegata all’ipotesi di mala

gestio dell’assegnatario. Per evitare che l’imprenditore possa abusare

del potere di riottenere la titolarità dei beni aziendali ogni volta che lo ritenga opportuno e che quindi la clausola sia oggetto di uso distorto, è necessario verificare di volta in volta la meritevolezza dell’esercizio di tale condizione risolutiva da parte del disponente60.

Terminata l’analisi del primo fra i possibili beni che possono costituire oggetto del patto di famiglia, veniamo adesso all’esame delle partecipazioni sociali. Il legislatore del 2006 ha opportunamente previsto questa fattispecie, per fornire un trattamento paritario a chi esercita personalmente attività d’impresa e a chi, invece, ha alle spalle una struttura societaria, vista la frequenza con cui gli imprenditori, nel contesto economico attuale, utilizzano organizzazioni di questo tipo. Con riferimento alle definizione di “partecipazioni societarie” sono state diverse interpretazioni, dando rilievo talvolta al profilo qualitativo, talaltra a quello quantitativo. Una prima e più estensiva interpretazione farebbe rientrare all’interno di tale espressione qualunque tipo di partecipazione, anche quelle che si risolvono in un mero investimento economico-finanziario61. Una simile interpretazione non sembra perfettamente in linea con la ratio dell’istituto di promuovere e conservare l’attività di impresa, né con la deroga al divieto dei patti successori che trova un limite nella natura produttiva

59 F. Volpe, Patto di famiglia, in Il Codice civile Commentario, P. Schlesinger – D.

Busnelli, Giuffrè Editore, 2012, p. 60 e ss.

60 F. Volpe, Patto di famiglia, in Il Codice civile Commentario, P. Schlesinger – D.

Busnelli, Giuffrè Editore, 2012, p. 63

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dei beni oggetto del patto di famiglia. La dottrina dominante, infatti, ritiene che oggetto del patto di famiglia possano essere solo quelle partecipazioni che garantiscano l’esercizio di un potere gestionale sull’impresa, o per lo meno, di influire sulle decisioni societarie. Si è obiettato62 che una frammentazione del controllo e dei beni aziendali può verificarsi non solo quando vengano trasferite partecipazioni quantitativamente insufficienti ad assicurare il controllo sull’impresa, ma anche quando venga assegnata solo parte dell’azienda, magari non ad uno solo bensì a due discendenti. È evidente che anche in questo caso viene meno l’unitario potere di direzione e controllo che sarebbe richiesto dalla ratio della norma. Mi sembra, comunque, che questa osservazione non sia sufficiente a far prevalere un tesi diversa da quella che afferma la necessità che la partecipazione societaria sia qualificata e idonea ad attribuire poteri di gestione, in quanto verrebbe sconfessata la ratio della deroga al divieto di patti successori a favore dei discendenti.

Anche in merito al significato letterale dell’espressione contenuta nell’art. 768-bis c.c. sono state proposte interpretazioni contrastanti. A causa della scarsa precisione con cui il legislatore si è espresso nella suddetta disposizione, alcuni fra i primi commentatori della legge avevano ritenuto che il termine “quote” facesse riferimento alle sole società di persone (e al massimo alle s.r.l., stante il carattere personalistico che le caratterizza), escludendo quindi dall’applicazione dell’istituto i pacchetti azionari delle società per azioni e società in accomandita per azioni63. Se si considera che il successivo art.

768-quater c.c. fa riferimento alle “partecipazioni societarie” senza

menzionare “le quote” possiamo intuire che il legislatore abbia voluto

62 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 140

63 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

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utilizzare i due termini come sinonimi, altrimenti avrebbe dovuto nuovamente riferirsi anche alle quote64.

1.5. La compatibilità del patto di famiglia con

l’impresa familiare

Altra questione di notevole interesse è quella relativa alla compatibilità del nuovo istituto con la disciplina dell’impresa familiare. L’inciso “compatibilmente con le disposizioni in materia di

impresa familiare” contenuto nell’art. 768-bis c.c. impone

all’interprete di verificare i limiti che devono essere rispettati nell’applicazione del patto di famiglia in tema di impresa familiare. Questa, introdotta con la riforma del diritto di famiglia del 1975 all’art 230-bis c.c., può essere definita come l’impresa in cui prestano il proprio lavoro il coniuge, i parenti entro il terzo grado, e gli affini entro il secondo dell’imprenditore, qualora non sia configurabile un diverso rapporto giuridico, quale, ad esempio, di lavoro subordinato oppure un rapporto societario65. Al fine di tutelare la posizione di quei soggetti che lavorano all’interno dell’impresa, la riforma ha reso costoro titolari di una serie di diritti indicati dalla stessa norma, quali il diritto al mantenimento secondo le condizioni economiche della famiglia, alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi di azienda in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

Se oggetto del patto di famiglia fosse, dunque, un’impresa familiare, sarebbe opportuno coordinare il trasferimento del complesso produttivo con l’eventualità che nello stesso prestino il proprio lavoro anche soggetti diversi dagli assegnatari. Ora, mentre sembra pacifico

64 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 146-147

65 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

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che questi soggetti debbano conservare il diritti suddetti66, più difficile è stabilire con certezza quale conseguenza abbia il trasferimento d’azienda mediante patto di famiglia sul diritto di prelazione menzionato al comma 5 dell’art. 230-bis c.c. Se l’avverbio “compatibilmente” deve essere inteso come un avvertimento a riconoscere prevalenza alla disciplina dell’impresa familiare in caso di contrasto con quella del patto, non si può aderire all’opinione di chi67 nega in radice la possibilità di mantenere il diritto di prelazione affermando che questo può aversi solo in caso di trasferimento a titolo oneroso, cosa che mancherebbe nel patto di famiglia. È necessario, allora, distinguere il caso in cui i familiari che partecipano all’azienda siano gli stessi assegnatari previsti dal patto, dal caso in cui tale circostanza non si verifichi. Se all’impresa familiare partecipano solo legittimari che diverranno assegnatari dell’azienda, in sede di patto di famiglia nessun diritto di prelazione potrà essere vantato. Se, viceversa, nell’impresa collaborano anche familiari a cui il titolare non intende trasferire l’azienda (siano essi discendenti o meno), a costoro dev’essere consentito di esercitare il diritto di prelazione che la legge riconosce loro, con la conseguenza che nessuno patto di famiglia potrà essere validamente concluso se non decidono di rinunciare alla prelazione68.

A conclusione dell’esame sulla compatibilità fra impresa familiare e patto di famiglia, mi sembra opportuno soffermarsi sulle varie ipotesi cui si va incontro nel caso in cui, a seguito del

66 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 29

67 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 153

68 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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trasferimento aziendale, i familiari continuino a prestare il proprio lavoro nell’azienda oppure cessino la loro collaborazione.

Nel caso in cui l’attività di impresa sia proseguita dal disponente, il che può accadere quando, ad esempio, venga trasferita solo la nuda proprietà e l’imprenditore mantenga l’usufrutto69,

continuerà ad applicarsi integralmente la disciplina dell’impresa familiare. Nel secondo caso, invece, essi dovranno essere liquidati dall’imprenditore ai sensi dell’art. 230-bis, comma 4 c.c., con una somma del valore corrispondente al diritto di partecipazione di ciascuno70(comprensivo del diritto agli utili, ai beni acquistati con gli stessi ed agli incrementi dell'azienda). Si tenga presente, infine, che se vi fossero altri discendenti non assegnatari dell’azienda, sarà necessario corrispondere a costoro non solo l’equivalente monetario della quota di partecipazione, ma anche, in quanto legittimari, la somma di cui agli artt. 768-quater e 768-sexies c.c.71.

1.6. Segue: … e con le differenti tipologie societarie

La compatibilità che richiede l’art. 768-bis c.c. non si limita alle norme in materia di impresa familiare. Il trasferimento di azienda o delle partecipazioni societarie deve avvenire anche “nel rispetto delle

differenti tipologie societarie”. Anche qui è evidente come il rispetto

delle normativa in materia societaria si traduca in una prevalenza della disciplina di diritto societario, legale e convenzionale, su quella del

69 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 152-153

70 A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di

successione nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 31

71 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009,

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patto di famiglia72. È opportuno precisare fin da subito come la deroga al divieto di patti successori si giustifichi nell’intento di agevolare la continuità delle imprese, per cui solo le partecipazioni che, per qualità o quantità, garantiscono un potere di gestione dell’attività sociale siano idonee a costituire oggetto di patto di famiglia; diversamente si rischierebbe di ledere il principio della parità di trattamento sancito dall’art. 3 Cost., in quanto si ammetterebbe l’utilizzo di un istituto che deroga al divieto dell’art. 458 c.c. solo per il trasferimento di particolari categorie di beni e non per qualsiasi bene presente nel patrimonio del disponente73.

Tuttavia, il legislatore non si è preoccupato di fare distinzione fra le diverse partecipazioni societarie, per cui si deve dedurre che il patto di famiglia si applichi a ogni tipologia societaria, laddove non entri in contrasto con la specifica normativa legale o convenzionale che regola il trasferimento inter vivos (alla cui categoria il patto di famiglia appartiene, secondo la dottrina maggioritaria)74 delle partecipazioni sociali; cosa che sarebbe confermata anche dalla formulazione dell’art. 734-bis c.c. del p.d.l. Buemi, nel quale veniva estesa l’applicabilità del patto di famiglia alle società “di qualsiasi

specie”75.

In ogni caso, il trasferimento delle partecipazioni mediante patto di famiglia ha presupposti diversi a seconda che si prenda in considerazione una società di persone o una società di capitali.

72 A. Angrisani, Salvatore Sica, Il patto di famiglia e gli altri strumenti di

successione nell'impresa, G Giappichelli Editore, 2007, p. 33

73 Aa. Vv., Il patto di famiglia, a cura di G. Palermo, G. Giappichelli Editore, 2009 74 B. Inzitari, Il patto di famiglia: negoziabilità del diritto successorio con la legge

14 febbraio 2006, n.55, G. Giappichelli Editore, 2006, p. 153

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Per le prime, stante il carattere dell’intuitus personae che colora la partecipazione societaria, l’art. 2252 c.c. prevede che, salvo diversa pattuizione, la modifica della composizione sociale deve essere approvata all’unanimità; quindi, a meno che l’atto costitutivo non contenga una clausola che preveda la libera trasferibilità delle partecipazione, sarà necessario il consenso dell’intera compagine sociale. L’unica eccezione a questa regola potrebbe essere data dall’art. 2322 c.c. che prevede, per il solo socio accomandante di s.a.s., che sia sufficiente la maggioranza e non l’unanimità dei soci76, ma, a parere di

chi scrive, questa opinione non convince in quanto l’acquisto delle partecipazioni non può risolversi in una mera utilità patrimoniale ma deve determinare anche l’attribuzione di un potere gestorio del complesso societario77. In tutte queste ipotesi, quindi, alla formazione del patto devono necessariamente partecipare anche soggetti estranei al nucleo familiare, in quanto si rende necessario procedere alla modifica dell’atto costitutivo.

Per le società di capitali la situazione cambia in quanto non sono rilevanti i requisiti personali dei soci, né il trasferimento di partecipazioni sociali comporta modifica dell’atto costitutivo, perciò queste sono liberamente trasferibili, salvo che lo statuto non disponga diversamente. Tuttavia anche qui va garantito “il rispetto delle

differenti tipologie societarie” e quindi è opportuno distinguere i

diversi limiti che l’applicazione del patto incontra con riferimento alle società a responsabilità limitata, alla società per azioni e alla società in

76 C. Bauco, V. Capozzi, Il patto di famiglia. Profili civilistici e fiscali, Giuffrè

Editore, 2007, p. 32

77 Così anche G. Petrelli, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. notariato,

fasc.2, 2006, pag. 401 e ss., il quale sostiene che il patto di famiglia non possa trovare applicazione laddove alla partecipazione non si accompagni anche un potere di gestione, ma questa si esaurisca in un semplice investimento di capitali come appunto accade per il socio accomandante, salvo che sia stato autorizzato a compiere atti di amministrazione ex art. 2320 c.c.

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