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Natura e ruolo dei fluidi e delle rocce incassanti nei processi al contatto con intrusioni magmatiche nella crosta superficiale (Isola d'Elba, Toscana).

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(1)

UNIVERSITA’ DI PISA

FACOLTA’ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E

NATURALI

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE E

TECNOLOGIE GEOLOGICHE

Natura e ruolo dei fluidi e delle rocce incassanti nei processi al

contatto con intrusioni magmatiche nella crosta superficiale (Isola

d’Elba, Toscana).

Candidato: Relatore:

Martini Marco Prof. S. Rocchi

Correlatore:

Dott. Andrea Dini

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[1]

Alla mia famiglia e A Francesca

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[2]

INDICE

1. INTRODUZIONE 4

2. BACKGROUND 6

2.1 INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELL’ISOLA D’ELBA 6

2.1.1 Evoluzione geodinamica del bacino del mar Tirreno settentrio 7 nale

2.1.2 Struttura geologica dell’isola 10

2.1.3 Attività ignea dell’isola 16

2.2 PORFIDO DI PORTOFERRAIO 23

2.3 BRECCE E SISTEMI-BRECCIA 26

2.3.1 Osservazioni e componenti fondamentali delle brecce 26

2.3.2 Classificazione delle brecce 27

2.4 MESSA IN POSTO DI INTRUSIONI SUPERFICIALI PER PULSI

SUCCESSIVI DI MAGMA 37

2.4.1 Messa in posto, assemblaggio ed evoluzione termica dei

plutoni 38

2.5 IDROBRECCIATURA DELLE ROCCE 45

2.5.1 Origine dei fluidi idrotermali 45

2.5.2 Fratturazione delle rocce 49

3. METODI ANALITICI 60

3.1 PREPARAZIONE DEI CAMPIONI 60

3.2 MICROSCOPIO OTTICO 60

3.3 SCANNING ELECTRON MICROSCOPE (SEM) 60

3.4 DIFFRATTOMETRIA A RAGGI X (XRD) 65

3.5 GAS CROMATOGRAFIA/SPETTROMETRIA DI MASSA (GC/MS) 70

4. DATI 74

4.1 LAVORO DI CAMPAGNA 74

(4)

[3]

4.1.2 Breccia con clasti di Porfido 86

4.1.2a Breccia masses 86

4.1.2b Breccia dykes 93

4.2 PETROGRAFIA 96

4.2.1 Porfido layered 97

4.2.2 Brecce con clasti di Porfido 149

4.2.2a Breccia masses 149

4.2.2b Breccia dykes 160

4.3 CHIMICA DELLE FASI 173

4.3.1 Porfido layered 173 4.3.2 Breccia masses 176 4.3.3 Breccia dykes 178 4.4 Geochimica 181 4.4.1 Isotopi (idrogeno) 181

5. DISCUSSIONE DEI DATI 183

5.1 PORFIDO LAYERED 183

5.2 BRECCE CON CLASTI DI PORFIDO 197

5.2.1 Breccia masses 198

5.2.2 Breccia dykes 202

5.3 MODELLO FISICO-GEOLOGICO DELLA MESSA IN POSTO DEL MAGMA

PORFIRICO 205 6. CONCLUSIONI 210 BIBLIOGRAFIA 212 APPENDICE 219 RINGRAZIAMENTI

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[4]

CAPITOLO 1: INTRODUZIONE

La messa in posto di magmi felsici nella crosta superficiale è un fenomeno importante perché associato alle deformazioni non tettoniche delle rocce incassanti sovrastanti l’intrusione, alla formazione di giacimenti minerari di interesse economico e allo studio dell’evoluzione delle camere magmatiche. Questo lavoro indaga con particolare attenzione il ruolo giocato dai fluidi e dalle rocce incassanti durante questo processo. La nostra cognizione di come i corpi ignei si intrudono nella crosta, recentemente, è cambiata radicalmente con l’introduzione del concetto di assemblaggio. Questa teoria, ben documentata da Horsman et al. (2010) riconosce che i plutoni possono non derivare da un singolo grande corpo magmatico, ma crescono progressivamente attraverso l’amalgamazione di livelli che si intrudono sequenzialmente. Questo nuovo modello è stato concepito in risposta alla crescente mancanza di evidenze della risalita di magma attraverso la crosta come diapiri, e ha trovato conferma in diversi lavori recenti (Saint-Blanquat et al. (2011), Rocchi et al. (2010) e Luthold et al. (2012)). Il processo di messa in posto di un magma può essere definito come la dislocazione delle rocce incassanti che permette all’intrusione di ottenere la sua forma tridimensionale (Horsman et al., 2010) e, per questa ragione è strettamente connesso ai meccanismi di fatturazione delle rocce, mentre l’assemblaggio è considerato il meccanismo vero e proprio di costruzione dell’intrusione per aggiunte di pulsi di magma (Horsman et al., 2010). Anche la tematica riguardante la fatturazione meccanica delle rocce viene ampiamente affrontata in questo lavoro facendo riferimento all’esaustivo lavoro di Bons et al. (2012) sulla formazione e propagazione delle fratture e sull’origine delle vene tettoniche. Queste strutture sono molto comuni nelle rocce e risultano estremamente utili nel determinare l’orientazione del campo di stress subiti dalle rocce e la temperatura, la composizione e l’origine dei fluidi da cui si sono formate. Infine, l’ultimo argomento considerato tratta la formazione delle “breccia pipes ipoabissali” e i processi che avvengono al suo interno, come la

fluidizzazione, basandosi sui lavori di Baker et al. (1986), Burnham (1979) per quanto

riguarda le brecce e McCallum (1985) per la fluidizzazione. Il lavoro ha lo scopo di identificare i processi che avvengono quando un magma a composizione granitica si mette in posto all’interno di rocce ofiolitiche, in sezioni superficiali della crosta e di determinare la natura e il ruolo che i fluidi hanno avuto nella genesi di particolari brecce contenute nelle rocce magmatiche e nelle rocce incassanti circostanti. Il caso di studio si occupa del layering nel Porfido di Portoferraio al contatto con le rocce incassanti e il ruolo che i fluidi hanno avuto nei processi che hanno generato le brecce con clasti di Porfido presenti all’interno delle porzioni marginali del Porfido e all’interno dell’incassante all’Isola d’Elba. Questa tipologia di struttura e le brecce sono presenti solo negli affioramenti lungo la costa settentrionale dell’isola dove il Porfido si è intruso in rocce

(6)

[5]

ofiolitiche, mentre in quelli meridionali mancano. Per raggiungere questi obbiettivi sono state eseguite analisi petrografico-mineralogiche (microscopia ottica, SEM-EDS e XRD) e isotopiche (rapporto isotopico dell’idrogeno) su campioni prelevati da queste litologie. Rocce porfiriche con un così marcato layering ad oggi non sono ancora state descritte in letteratura e quindi l’Isola d’Elba rappresenta un importante caso, il cui studio approfondito può integrare e aiutare a migliorare la comprensione dei processi che si verificano al contatto tra un intrusione superficiale e particolari litologie di rocce incassanti come le ofioliti.

(7)

[6]

CAPITOLO 2: BACKGROUND

2.1 INQUADRAMENTO GEOLOGICO DELL’ISOLA D’ELBA

Fig. 2.1: Immagine dell’Isola d’Elba, da Google Earth.

L’isola d’Elba (fig. 2.1) è la più vasta isola dell’Arcipelago toscano e la terza più grande d’Italia (223 km2 di superficie), è posta a circa 10 km dalla costa toscana e insieme alle altre isole dell’arcipelago (Pianosa, Capraia, Gorgona, Montecristo, Giglio e Giannutri) fa parte del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano (fig. 2.2). Il suo rilievo maggiore è il Monte Capanne (1019 m) che è anche il più elevato di tutto l’Arcipelago. L’isola ha una storia millenaria grazie alle risorse minerarie presenti sul suo territorio ed era già conosciuta dagli antichi Greci con il nome di “Aethalia” (fuligginosa) per i fumi che si alzavano dai forni in cui si riducevano gli ossidi di ferro. I primi abitanti dell’isola furono gli Ilvati, un popolo di origine ligure da cui deriva il nome che i Romani dettero in seguito all’isola: Ilva. Proprio questo popolo iniziò lo sfruttamento delle miniere che fu proseguito, in maniera sempre più intensiva dagli Etruschi e dai Romani. Le miniere dell’isola attualmente non sono più sfruttate e si possono dividere in due aree, quella orientale con minerali di ferro e quella occidentale con silicati. Nella parte orientale i

(8)

[7]

giacimenti sono di origine sin-sedimentaria e diagenetica, con miniere di ematite (Fe2O3)

a Rio Marina e miniere di magnetite (Fe2+Fe23+O4) nella zona di punta Calamita/Ginevro e

Porto Azzurro (Terra Nera). Nella parte occidentale le mineralizzazioni a silicati sono legate alla messa in posto di un plutone granitico e al metamorfismo di contatto che ha interessato le rocce in posto nelle immediate vicinanze di questo. Nei dintorni di S.Ilario si trovano siti dove si rinvengono nelle ofioliti cristalli di tormalina, epidoto e berillo, mentre nel porfido granitico di capo S.Andrea (Marciana Marina) sono ben visibili grossi cristalli di ortoclasio. Per valorizzare le aree degradate dell’estrazione del Ferro è stato fondato recentemente il Parco Minerario dell’Isola d’Elba, che coinvolge i comuni di Capoliveri, Rio Marina e Rio nell’Elba, e attraverso i musei mineralogici, dell’archeologia e dell’arte mineraria e la possibilità di visitare, accompagnati dalle guide del Parco Minerario, le miniere a cielo aperto di Rio Marina e Rio Albano, permette di scoprire la suggestione sotterranea della galleria del Ginevro nella penisola del M. Calamita.

Fig. 2.2: Localizzazione dell’Arcipelago Toscano, da Google Earth.

2.1.1 EVOLUZIONE GEODINAMICA DEL BACINO DEL MAR TIRRENO

SETTENTRIONALE

La storia evolutiva dell’isola d’Elba è strettamente connessa all’apertura e sviluppo dell’area tirrenica. Le catene orogeniche ed i bacini estensionali dell’area mediterranea

(9)

[8]

hanno iniziato a formarsi a partire dal Mesozoico superiore in un ambiente tettonico dominato dalla migrazione verso Nord della Placca africana, verso quella euroasiatica (fig. 2.3). Nel sistema orogenico appenninico la litosfera oceanica della Neotetide è stata subdotta lungo il sistema tirreno-calabro, mentre nel sistema tirrenico settentrionale l’evidenza della subduzione della litosfera oceanica è frammentaria e i limiti di placca non sono facilmente individuabili a causa della presenza della microplacca Adria (fig. 2.4). La fase di collisione continentale, in cui si ha l’impilamento dei complessi tettonici che formano l’Isola d’Elba, si sviluppa a partire dall’Eocene medio fino al Miocene superiore.

Fig. 2.3: Mappa tettonica della regione mediterranea che mostra le catene collisionali Meso-Cenozoiche e i bacini estensionali Neogenici. In rosso è mostrato il limite tra le placche eurasiatica e africana. (Platt, 2007).

L’isola d’Elba è situata nel mar Tirreno settentrionale, una regione interessata, a partire dal tardo Mesozoico fino a 20 Ma circa da una tettonica compressiva che ha portato alla formazione della catena orogenica appenninica e, successivamente, da un processo distensivo che segue la migrazione verso Est del fronte collisionale, che prosegue tutt’ora. Questa migrazione ha provocato l’apertura di un bacino di retro-arco ensialico: il bacino del mar Tirreno (figg. 2.3 e 2.4), all’interno del quale è situata l’Isola d’Elba. Questo bacino è costituito da crosta continentale assottigliata a Nord e da crosta oceanica Neogenica a Sud, dove l’entità dell’estensione è stata maggiore ed è stato necessario la produzione di nuova crosta oceanica per compensare il movimento tettonico relativo delle placche. Nel

(10)

[9]

Miocene superiore, il processo estensionale che interessa l’area dell’Isola d’Elba determina la messa in posto di numerosi laccoliti, un grande plutone e un estensivo sciame di dicchi all’interno dei complessi tettonici.

Fig. 2.4: Schema dell’evoluzione del sistema tirrenico dall’Oligocene al Miocene (Faccenna et al.,

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[10]

2.1.2 STRUTTURA GEOLOGICA DELL’ISOLA

La struttura dell’isola d’Elba è costituita da 5 Unità tettoniche (Trevisan, 1950; Barberi et

al., 1969) (complesso I, II, III, IV e V) impilate durante la fase di collisione continentale

appenninica tra il blocco Sardo-Corso e la microplacca Adria, avvenuta tra l’Eoceno medio e il Miocene superiore (fig. 2.5).

Fig. 2.5: Carta geologica dell’isola d’Elba impostata su DEM (Digital Elevation Model) (Rocchi et

al., 2010).

I Complessi I, II e III, situati a livelli strutturali inferiori, hanno affinità con il dominio continentale della placca Adria e sono costituiti da un basamento metamorfico e rocce clastiche di mare basso e di piattaforma carbonatica, mentre i Complessi superiori IV e V hanno caratteristiche tipiche di litosfera oceanica (Unità Liguri) (fig. 2.6).

Il Complesso I (fig. 2.7) ha affinità continentale e presenta alla base una successione paleozoica di Scisti a muscovite e biotite e livelli anfibolitici e quarzitici. La parte sommitale è caratterizzata da Quarziti (analoghe al Verrucano dei Monti Pisani) e Argilliti dolomitiche del Trias-Lias. La successiva messa in posto del Monzogranito di Porto Azzurro ha prodotto un metamorfismo di contatto con sviluppo di Hornfels e blastesi di andalusite e plagioclasio nelle litologie più pelitiche e dicchi aplitici (soprattutto nelle porzioni più sommitali).

(12)

[11]

Il Complesso II (fig. 2.8) include una sequenza metamorfica ad affinità toscana simile a quella presente sulle Alpi Apuane. Alla base si trovano scisti, spesso grafitici, interessati da un metamorfismo di contatto che ha prodotto crescita locale di biotite e andalusite (Scisti Macchiettati).

Fig. 2.6: Relazioni strutturali tra i 5 Complessi tettonici dell’isola d’Elba. (modificato da Trevisan

et Marinelli, 1967).

Fig. 2.7: Stratigrafia del Complesso I (modificato

(13)

[12]

Al di sopra di questi si trovano porfiroidi e scisti porfirici passanti verso l’alto a quarziti e scisti quarzitici di probabile età Permo-Carbonifera. Poi si incontra una sequenza di calcari dolomitici e dolomie giallastre a cellette del Norico-Retico (corrispondenti al

Calcare Cavernoso

nell’Appennino settentrionale), sormontata da una sequenza tipica di un margine in graduale approfondimento con marmi alla base che passano verso l’alto a calcescisti. La porzione sommitale di questo Complesso è costituita da Filladi calcaree con livelli di

calcescisti del Dogger,

sormontate da un livello tettonizzato di serpentiniti.

Fig. 2.8: Stratigrafia del Complesso II (modificato da Trevisan et Marinelli, 1967).

Il complesso III (fig. 2.9) corrisponde alla successione toscana non metamorfica affiorante nell’area di La Spezia ed è costituito, alla base, da quarzo-areniti, scisti arenacei e conglomerati quarzitici (Carbonifero Superiore). Al di sopra di questi, in discordanza, si trovano arenarie quarzitiche che possono essere correlate con il Verrucano (Norico-Retico) dei Monti Pisani (Formazione della Verruca e Formazione delle Quarziti del monte Serra). Ad un livello superiore ci sono i calcari dolomitici a cellette, corrispondenti al Calcare Cavernoso nell’Appennino settentrionale, che passano lateralmente ad una successione di calcilutiti e marne correlabili con la Formazione dei Calcari e Marne a

Rhaetavicula contorta della Falda Toscana. Ancora più in alto sono presenti calcari massivi

bianchi, grigi e rosati (Hettangiano) analoghi al Calcare Massiccio della Falda Toscana. Nei livelli più superficiali si trovano calcari selciferi scuri, rosati e nocciola del Lias sormontati da argilliti poco marnose con livelli varicolori e rare intercalazioni di calcari selciferi (Dogger).

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[13]

I complessi IV e V (fig. 2.10) sono analoghi alle Unità Liguri. Il complesso IV è costituito da una tipica sequenza ofiolitica composta da Peridotiti serpentinizzate, Gabbri, complesso vulcanico mafico e dalla copertura sedimentaria. Le Serpentiniti sono Lherzoliti senza

Fig. 2.9: Stratigrafia del Complesso II (modificato da Trevisan et Marinelli, 1967).

clinopirosseno e Harzburgiti a spinello

che mostrano una estensiva

contaminazione di fusi mafici.

L’olivina e l’ortopirosseno sono spesso serpentinizzati, mentre il clinopirosseno è occasionalmente ricristallizzato. Lo spinello è massivo o si può trovare in cristalli relitti nei plagioclasi indicando un parziale riequilibrio della Peridotite da facies a spinello ad una a plagioclasio. Le rocce magmatiche hanno caratteristiche MORB e la copertura sedimentaria è costituita da Radiolariti (Malm), Calcari a

(15)

[14]

Calpionella (Titoniano Sup. – Cretaceo Inf.) e Argille a Palombini (Cretaceo Inf. – Medio). La formazione dei Calcari a Calpionella è composta da una successione abbastanza monotona di calcilutiti biancastre o grigio chiare, più o meno silicee, a granulometria molto fine e con tipiche fratture concoidi, Sono ben stratificate, con letti spessi alcuni decimetri; i piani di stratificazione sono spesso marcati da strisciate millimetriche di argillite grigio scura o nerastra. I rari noduli o lenti di selce sono marrone chiaro. Verso il limite superiore, passando alla formazione delle Argille a Palombini, i letti sono separati da sottili intercalazioni di argilliti grigie. La base di questa formazione è coeva con quella trovata nella Toscana meridionale. Verso l’alto stratigrafico questa formazione passa gradualmente a quella delle Argille a Palombini attraverso un progressivo aumento dei livelli argillitici a discapito di quelli calcare. Le argilliti di questa formazione hanno un colore grigio scuro o nerastro e si alternano con livelli più o meno silicei di calcilutiti di colore grigio, con uno spessore di 10 – 20 cm.

Il complesso V rappresenta il continuo della copertura sedimentaria della crosta oceanica del complesso IV ed è formato da due Unità sovrapposte tettonicamente. Alla base si trova la formazione di Colle Reciso (Paleocene – Eocene Medio), costituita da argilliti grigie con scarse intercalazioni calcareo-marnose, calcarenitiche, arenacee e localmente anche di brecce carbonatico-ofiolitiche. Questa Unità rappresenterebbe una successione oceanica sintettonica (epiligure) sul tipo della formazione di Lanciaia della Toscana meridionale. L’Unità soprastante è formata da una base di scarsi lembi di una successione analoga a quella dell’Unità ofiolitica (ofioliti, vulcaniti e copertura sedimentaria) che passano ad argilliti varicolori di età cretacica ed infine ad una potente sequenza torbiditica da arenaceo-conglomeratica (arenarie di Ghiaieto) a calcareo-marnoso-arenacea (formazione di Marina di Campo) di età Cretacico superiore. Entrambe queste Unità contengono numerose ed estese intrusioni di filoni e laccoliti, spesso porfirici, a composizione acida.

La successiva tettonica di assottigliamento crostale, attiva dal tardo Miocene fino al Pliocene Inferiore, ha prodotto (Serri et al., 1993):

1. La messa in posto di plutoni, dicchi e laccoliti di dimensioni, composizione ed età diversa.

2. Lo sviluppo di faglie estensionali che interessano le 5 Unità tettoniche precedentemente impilate ed alcuni corpi intrusivi.

L’isola d’Elba è geologicamente e geomorfologicamente suddivisa da tre faglie a grande scala in tre zone principali: Elba Occidentale, Centrale e Orientale (figg. 2.11 e 2.12). L’Elba Occidentale comprende il plutone del monte Capanne e il suo carapace termometamorfico di rocce del Complesso IV che contengono intrusioni porfiriche

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ipoabissali. E’ separata dalla zona Centrale dalla “Eastern Border fault” (EBF), una faglia estensionale ad alto angolo immergente verso Est posizionata lungo il bordo orientale del plutone ed attiva in seguito alla messa in posto del plutone stesso (Miocene sup.). Questa faglia mette in contatto le rocce termo-metamorfiche del Complesso IV con la torbidite non metamorfica del Complesso V.

Fig. 2.11: Schema geologico dell’isola d’Elba con evidenziate le tre grandi faglie. (Rocchi et al.,

2010).

Questa faglia ha avuto una tettonica “East-side-down” e giustappone rocce della parte occidentale profonde 4-5 km a rocce sedimentarie superficiali che contengono Porfidi di quella orientale (fig. 2.13). L’Elba Centrale è delimitata a Ovest dall’EBF ed a Est dalla “Central Elba fault” (CEF), una detachment fault tardo Miocenica con cinematica “top-to-the-East” che porta in affioramento, nella zona centrale dell’Elba, scaglie tettoniche di rocce dei Complessi IV e V. Questi melanges sono costuiti da Basalti, Serpentiniti termometamorfosati e Marmi a granato e wollastonite, identiche alle rocce dell’aureola di contatto del plutone del monte Capanne, e da un Porfido aplitico senza tormalina e uno con fenocristalli di K-feldspato.

Nell’Elba Orientale si formano delle faglie simili alla CEF che dislocano le rocce del tetto verso Est e, durante il Pliocene Inferiore, la faglia dello Zuccale (ZF), una detachment fault con cinematica “top-to-the-Est”, taglia tutte le strutture e le trasla di 5-6 km.

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[16]

2.1.3 ATTIVITA’ IGNEA DELL’ISOLA

L’attività ignea dell’isola d’Elba, particolarmente sviluppata nella zona Occidentale, inizia quando termina la fase compressiva che ha impilato i 5 Complessi tettonici e comincia quella distensiva dovuta all’arretramento dello slab della catena appenninica (Miocene Medio). Le porzioni del complesso igneo dell’isola che affiorano nell’Elba Occidentale e Centrale non hanno preservato la loro geometria originaria ma sono state dislocate dalle faglie estensionali. Tutte le Unità intrusive si sono messe in posto all’interno dei Complessi IV e V quando sono stati staccati dall’attuale zone Occidentale dell’isola. La sequenza ignea dell’Elba Centrale-Occidentale è iniziata con la messa in posto di un Complesso laccolitico multistrato (detto a “Christmas tree” per la sua forma caratteristica che lo rende simile ad un albero di Natale) formato, in primis dalla messa in posto dell’Aplite di Capo Bianco e del Microgranito di Nasuto (> 8 Ma) tra i Complessi IV e V, seguiti in successione dal Porfido di Portoferraio (∼ 8Ma) e, in fine, dal Porfido di San Martino (∼ 7.4 Ma) che si intrude all’interno del Complesso V (fig. 2.13). Le tre principali strutture intrusive sono sub-parallele alle rocce incassanti ed hanno la tipica forma a Laccolite, con base piana e tetto convesso. L’intrusione più antica è il laccolite di Capo Bianco (> 8 Ma) il cui livello più profondo si è messo in posto in una forte discontinuità all’interno del Complesso IV, mentre il livello più alto all’interfaccia tra i Complessi IV e V. Il quasi coevo Microgranito di Nasuto è stato smantellato dalla successiva messa in posto del Laccolite di Portoferraio (∼ 8Ma). Questo è costituito da due sottili livelli all’interno del Complesso IV e da altri due livelli con maggiore spessore, uno contenuto all’interno del Complesso IV e l’altro lungo l’interfaccia tra i Complessi IV e V. I due corpi più importanti hanno inglobato durante la loro formazione il precedente Laccolite di Capo Bianco. La successiva intrusione è rappresentata dal Laccolite di San Martino (∼ 7.4 Ma), i cui dicchi alimentatori sono visibile nella zona Occidentale dell’Elba, mentre il corpo principale si trova nell’Elba Centrale all’interno del Complesso V. Le profondità di messa in posto dei singoli livelli del complesso laccolitico, che sono state ricavate con approssimazione prendendo in considerazione l’attuale tasso erosivo medio per l’Italia (circa 0.1 mm/anno), variano tra 1.9 e 3.7 km. Lo sviluppo di corpi intrusivi con questa forma è dovuto alla variazione di flusso del magma, da verticale ad orizzontale, quando questo raggiunge un livello in cui la spinta verso l’alto si annulla (neutral buoyancy level) (fig. 2.14). Il problema principale di questa teoria è la progressiva messa in posto di magmi con densità simile a livelli strutturali più superficiali. Per superare questa difficoltà è stato assunto che il magma in ascesa mantiene una pressione residuale superiore allo stress verticale quando cambia la sua direzione da verticale ad orizzontale. Tuttavia il magma inizia ad espandersi lateralmente quando incontra una superficie di discontinuità sub-orizzontale. Dopo la messa in posto di questo complesso laccolitico, circa 6.9 Ma si intrude al di sotto di esso il Plutone del monte Capanne, costituito da tre facies diverse

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associate ad impulsi di nuovo magma dal basso. Il primo apporto di magma (facies San Andrea) forma il tetto del corpo intrusivo e viene spinto verso l’alto dai due successivi apporti di magma, raggiungendo la base del Complesso laccolitico sovrastante. Il successivo impulso di nuovo magma genera la facies San Francesco che spinge verso l’alto il livello precedente. Infine l’ultimo apporto di magma dal basso (facies San Piero), che è anche il più abbondante, assesta il tetto del Plutone al livello della base del Complesso laccolitico e il piede lungo la discontinuità tra i Complessi IV e III ovvero tra la litosfera oceanica e quella continentale (fig. 2.16).

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Fig. 2.13: Complesso laccolitico a Christmas – tree. (Rocchi et al., 2010).

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Infine, quando il plutone non si era ancora del tutto raffreddato, uno sciame di circa 200 dicchi mafici (Dicchi di Orano) ha tagliato l’intero corpo intrusivo (∼ 6.8 Ma). Questo rappresenta l’ultimo evento igneo verificatosi nell’Elba Centro-Occidentale. Tuttavia l’ultimo impulso di magma del Plutone del monte Capanne ha reso instabile la parte superiore del Complesso igneo-sedimentario che è stato tettonicamente traslato verso Est dalla Central Elba Fault (∼ 6.8 – 7 Ma) causando l’affioramento di porzioni di Laccoliti nella parte centrale dell’isola (fig. 2.17 a, b e c). Successivamente l’erosione progressiva della porzione restante “in loco” del Complesso laccolitico ha portato in affioramento il Plutone del monte Capanne nell’Elba Occidentale (fig. 2.17 d).

Fig. 2.15: Illustrazione schematica dei tre principali episodi di messa in posto del Complesso laccolitico dell’Elba Centro – Occidentale. (Rocchi et al.,

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Fig. 2.16: Illustrazione schematica della costruzione del Plutone del monte Capanne. (Rocchi et al.,

2010).

In circa 1 Ma, una sezione tetto-stratigrafica spessa 2700 m è stata gonfiata dall’intrusione del Complesso laccolitico multi-strato fino a raggiungere uno spessore complessivo di circa 5000 m. In superficie si è formato un duomo con un diametro di 10 km, un altezza di 2500 m e una pendenza dei fianchi di circa 25° (assumendo un originaria superficie piatta). Perciò la messa in posto del Plutone del monte Capanne al di sotto di questo duomo ha provocato una instabilità strutturale di questo ed ha innescato la traslazione verso Est della sua parte superiore. Una volta iniziato il movimento principale, il trasferimento del carico da sopra il monte Capanne verso l’Elba Centrale è stato effettuato lungo la Eastern Border Fault quando il Putone, ormai senza più il carico del soprastante duomo, è risalito e la più spessa sezione dell’Elba Centrale ha subito subsidenza. Il movimento finale lungo la Eastern Border Fault è avvenuto interamente in regime fragile ed ha troncato e ruotato la Central Elba Fault, che è stata erosa nell’Elba

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Centrale e giace quasi completamente sepolta nell’Elba Centrale (fig. 2.18). Nell’Elba Orientale, invece, l’attività magmatica si è sviluppata circa 5.9 – 5.8 Ma fa ed è rappresentata da un Plutone, alcuni dicchi mafici e una diffusa associazione di intrusioni tabulari felsiche e vene idrotermali contenuti principalmente negli scisti del Calamita. Il Plutone di Porto Azzurro è costituito da un monzogranito megacristallino ed è esposto solo nella parte centro-meridionale dell’Elba Orientale (fig. 2.5).

Fig. 2.17: Collasso e traslazione del Complesso laccolitico (a, b, c) e scoperchia mento del Plutone del monte Capanne (d). (Rocchi et al., 2010).

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Tuttavia questo corpo igneo ha una notevole dimensione, come suggerito dalla notevole estensione dell’aureola termometamorfica contenuta negli scisti verso Sud. L’età di messa in posto del Plutone è circa 5.9 Ma fa, mentre dicchi shoshonitici, simili a quelli di Orano, si sono intrusi nell’Elba Orientale 5.8 Ma fa. Numerose generazioni di dicchi felsici e sills affiorano nella parte orientale della penisola Calamita e nell’area di Porto Azzurro. Hanno direzione N40E – N160E, con attitudine da sub-orizzontale (sills) a sub-verticale (dicchi) e relazioni geometriche con la foliazione delle rocce incassanti da para-concordante a discordante. Hanno composizione leucogranitica e contengono tormalina e muscovite o biotite primaria. Vene idrotermali con quarzo e tormalina tagliano questi corpi ignei e testimoniano la circolazione idrotermale che ha interessato le rocce intrusive e l’incassante.

Fig. 2.18: Schema riassuntivo dell’attività delle faglie tardo mioceniche all’isola d’Elba. (Rocchi et

al., 2010).

L’area dove affiora il Complesso intrusivo dell’Elba Orientale è significativamente sovrapposta con un area interessata da Depositi di Fe. Questi si trovano lungo una stretta cintura (con orientazione N-S) parallela alla costa Orientale dell’Elba. Le due principali zone minerarie sono state per quasi tre millenni vicino al villaggio di Rio Marina (ematite) e la parte meridionale della penisola del monte Calamita (magnetite). L’evoluzione

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tettonica del Complesso intrusivo dell’Elba Orientale ha seguito una sequenza di eventi simili a quelli avvenuti nell’Elba Occidentale, portando ad una rapida esumazione del Plutone principale. Inizialmente il movimento sub-orizzontale dominante lungo la faglia dello Zuccale con senso di taglio Top-to-the-Est ha traslato le rocce sovrastanti verso Est tagliando parte dell’aureola di contatto del Plutone di Porto Azzurro e scoperchiandolo. Successivamente si è attivata una faglia normale ad alto angolo lungo il bordo orientale del Plutone a largo della costa dell’Elba Orientale che ha causato l’uplift del Plutone di Porto Azzurro (fig. 2.18).

Fig. 2.19: Dicco leucogranitico con layering di Tormalina. Cala Stagnone (penisola del monte Calamita). (Rocchi et al., 2010).

2.2 PORFIDO DI PORTOFERRAIO

Il Porfido di Portoferraio ha composizione monzogranitica – sienogranitica (fig. 2.21) ed ha una tessitura porfirica (indice di porfiricità: 40 – 50%) con fenocristalli di sanidino, quarzo, plagioclasio e biotite in una pasta di fondo olocristallina e molto fine (< 100 μm) costituita dalle stesse fasi. Questo Porfido si è messo in posto in più livelli laccolitici interconnessi da numerosi dicchi (fig. 2.20) e nelle zone vicino al contatto con il plutone del monte Capanne possiede una importante foliazione milonitica nella pasta di fondo evidenziata da fenocristalli di quarzo con bordi ricristallizzati, plagioclasio con tessitura

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micrografica e aggregati policristallini di biotite isorientati. Inoltre il Porfido è sempre alterato idrotermalmente. L’intrusione si è messa in posto in 4 livelli laccolitici interconnessi da numerosi dicchi circa 8 Ma fa (fig. 2.20) (Dini et al., 2002). I tre livelli maggiori, con spessori di 700 m circa ciascuno, affiorano nell’Elba Occidentale mentre il quarto di dimensioni leggermente inferiori (spessore 400 m circa) si trova nell’Elba Centrale diviso in cinque lembi affusolati verso Sud. I laccoliti di Portoferraio si sono messi in posto tra i Complessi tettonici IV e V, a una profondità media di circa 2,6 km, ed hanno inglobato quelli precedenti di Capo Bianco. Successivamente sono stati tagliati dai dicchi che hanno alimentato i livelli successivi del laccolite di San Martino che si è intruso a livelli più superficiali all’interno del complesso V (fig. 2.20). Il magma monzogranitico che ha formato il Porfido di Portoferraio è stato generato da processi anatettici senza alcun contributo di magmi primari (Dini et al., 2002). Perciò la sorgente del Porfido di Portoferraio è abbastanza omogenea.

Fig. 2.20: Illustrazione schematica del complesso laccolitico multistrato dell’Elba Centrale – Occidentale con età di messa in posto delle varie facies (Tesi dottorato Roni).

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Unità Porfido di Portoferraio

Posizione Occidentale Occidentale Occidentale Centrale Centrale

Campione PP-164 PP-701 PP-707 PP-128 PP-221 Media campioni SiO2 71.21 70.64 69.70 69.21 70.74 70.3 TiO2 0.28 0.25 0.31 0.32 0.24 0.28 Al2O3 15.29 15.13 16.53 16.02 15.47 15.69 Fe2O3 0.53 0.49 0.44 0.41 0.60 0.49 FeO 1.32 1.35 1.25 1.29 0.99 1.24 MnO 0.04 0.03 0.03 0.02 0.04 0.03 MgO 0.72 0.63 0.91 1.06 0.64 0.79 CaO 1.68 1.50 1.50 1.72 1.32 1.54 Na2O 3.61 3.70 3.56 3.83 3.12 3.56 K2O 4.34 5.15 4.40 4.45 4.54 4.58 P2O5 0.10 0.10 0.10 0.11 0.07 0.10 LOI 0.88 1.03 1.29 1.55 2.23 1.40

Tab. 2.1: Analisi degli elementi maggiori e LOI (espresse in concentrazioni in peso %) di 5 campioni del Porfido di Portoferraio e loro media aritmetica. Il campione PP-128 rappresenta il Porfido fresco (Dini e al., 2002).

Fig. 2.21: Diagramma Q’ – ANOR. Le abbreviazioni dei nomi delle rocce sono: afG: Granito a feldspati alcalini; SG: Sienogranito; MG: Monzogranito; GD: Granodiorite; QM: Quarzo-Monzonite; QMD: Quarzo-Monzodiorite (Dini e al., 2002).

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2.3 BRECCE E SISTEMI-BRECCIA

2.3.1 OSSERVAZIONI E COMPONENTI FONDAMENTALI DELLE BRECCE

La geologia d’esplorazione ha sempre riconosciuto l’importanza del processo di brecciatura, soprattutto in relazione alle mineralizzazioni che si formano all’interno delle brecce in seguito alla circolazione di fluidi mineralizzanti. Gli esempi più importanti dei sistemi-breccia sono le breccia pipes (come a Kidston e Mt Leyshon in Australia) che sono corpi a grande scala, ma perfino le vene di solito contengono frammenti rotti e occupano un sistema che fa parte di un sistema-breccia a scala più grande. Quindi la brecciatura è un processo che può essere osservato a varie scale. Tuttavia i geologi moderni, che sono ben consapevoli dei potenziali siti di mineralizzazione, sono sorpresi di quante brecce e sistemi-breccia siano sfuggiti all’attenzione o siano male interpretati. Negli anni ’70 c’erano solo una manciata di breccia pipes documentate in Australia mentre attualmente ci sono numerosi esempi, in particolare nell’Australia orientale. Molti giacimenti minerari, come i depositi a Au di Kidston e Mt Leyshon, quello a Pb di Ardlethan, a Cu di Mt Isa e lo spettacolare deposito a Cu-U-Au-Ag di Olympic Dam, sono stati reinterpretati come sistemi-breccia o breccia pipes; e ne esistono molti altri simili in diverse parti del mondo. Per chi non è abituato a confrontarsi con questi corpi risulta difficile capire come un così ovvio tipo di roccia possa essere frainteso. Tuttavia l’esperienza palesa rapidamente che può essere estremamente difficile identificare le brecce, e perfino più complicato interpretare la loro origine. Quindi le brecce e i sistemi-breccia devono essere esaminati con particolare attenzione e cura in quanto risultano essere corpi molto più complessi di quello che sembrano a prima vista. Infatti, già il termine breccia stesso, è abbastanza difficile da definire ed è molto facile rimanere imbrigliati in argomenti semantici. Per esempio, una roccia che è solo leggermente fratturata può essere chiamata breccia? Dal punto di vista pratico questo problema può essere evitato, in quanto tutte le masse di roccia che sono intensamente fratturate possono essere considerate come parte di un potenziale sistema-breccia. Tuttavia la definizione più corretta di breccia, anche dal punto di vista teorico, è quella roccia di cui si possono identificare e provare a isolare due componenti fondamentali delle brecce: frammenti e matrice. Naturalmente nei casi più semplici questo procedimento risulterà poco più di una formalità ma, in altre circostanze, è facile che almeno uno dei componenti sfugga all’attenzione di un osservatore inesperto. I frammenti di una breccia sono i clasti di una roccia fratturata e il loro riconoscimento permette immediate osservazioni di caratteristiche base come la loro tessitura, composizione, forma e dimensioni che consentono di ricavare informazioni sui processi che hanno generato le brecce. La matrice di una breccia è il materiale a granulometria più fine fra i frammenti di roccia e può avere un’abbondanza variabile, per questo vengono

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usati i termini “matrix-supported” e “clast-supported” per indicare il rapporto matrice/clasti alto e basso, rispettivamente. Questo rapporto è molto importante perché risulta una misura approssimata del grado di brecciatura e può aiutare a determinare i processi che hanno generato la breccia. Un altro dato importante sulla matrice, per risalire ai processi di genesi, è la sua composizione. La complessità dei sistemi-breccia deriva proprio dal fatto che solo una o tutte queste caratteristiche dei componenti delle brecce possono variare sia verticalmente che lateralmente. Naturalmente è molto importante individuare anche le relazioni reciproche fra questi due elementi fondamentali e come le loro caratteristiche si combinano tra loro.

2.3.2 CLASSIFICAZIONE DELLE BRECCE

Un ulteriore problema riscontrato da chi lavora con le brecce è quello della classificazione. La letteratura fornisce una grande quantità di classificazioni complesse insieme a una larga serie di meccanismi teorici responsabili della brecciatura. Di solito i termini utilizzati non sono ben definiti e frequentemente accostano espressioni genetiche e tessiturali. Ma quali termini è preferibile usare in una classificazione generale delle brecce? Quelli genetici, che quindi si basano su i processi che le hanno formate, quelli puramente descrittivi o, infine, quelli che accostano entrambi i significati? E’ molto complicato trovare una soluzione definitiva e completamente esaustiva a queste domande, che possa andare bene in ogni circostanza. Nel presente lavoro di tesi si utilizza la classificazione di Baker (1984) modificata da Baker, Kirwin e Taylor (1986) che suddivide le breccia pipes in base alla profondità alla quale si è formata e ai differenti meccanismi che l’hanno generata, a profondità più o meno simili. La classificazione risulta la seguente: a) Hypabyssal breccia pipes: corpi a scala da piccola a grande formati a profondità che variano tra 0.5 e 2 km, generati in seguito alla essoluzione di volatili da un fuso che sta cristallizzando.

b) Maar Volcanoes: strutture superficiali a grande scala, generate dall’interazione esplosiva di un corpo magmatico in risalita con una falda acquifera.

c) Hydrothermal explosion breccia pipes: strutture relativamente piccole, prodotte a livelli superficiali dal rilascio esplosivo di vapore surriscaldato senza interazione diretta con un corpo magmatico.

d) Fault-related breccia pipes: corpo di piccole dimensioni costituito da rocce brecciate a forma di condotto cilindrico, generato dal movimento di una o più faglie.

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La tipologia di breccia pipes di interesse è solo la prima, perciò di seguito verrà approfondito solamente il primo modello della classificazione. Per chi volesse esaminare anche gli altri tipi di brecce si consiglia la lettura di Baker, Kirwin e Taylor (1986).

Hypoabyssal breccia pipes

Le breccia pipes ipoabissali sono corpi brecciati di rocce incassanti e intrusive con forma da cilindrica a conica e variano, in diametro, da decine di metri a più di un kilometro e, in verticale, hanno un estensione di diversi ordini di grandezza maggiore rispetto al diametro (fig. 2.22). Molti di questi corpi si formano fra 0.5 e 2 km sotto la superficie in stretta correlazione con l’ultima fase di processi magmatici. La formazione di brecce ipoabissali non genera necessariamente un cratere esplosivo della pipe in superficie poiché, in letteratura, sono stati descritti esempi che terminano verso la superficie in rocce non brecciate (Sillitoe and Sawkins, 1971; Jacobsen et al., 1976; Sharp, 1978). La considerevole variazione tessiturale presente all’interno delle brecce ipoabissali indica che nella sua genesi sono coinvolti diversi processi, che possono essere attivi in diverse zone della pipe e/o in tempi differenti durante la sua formazione. Diversamente dalle brecce idrotermali e dai maar, dove la breccia può essere direttamente osservata, per comprendere i processi coinvolti nella formazione delle brecce ipoabissali è necessario basarsi sull’interpretazione delle tessiture presenti. Idealmente queste tessiture dovrebbero essere interpretate in termini di processi geologici o industriali conosciuti e, dove possibile, considerare prima i limiti sperimentali e fisici che questi processi potrebbero avere. A causa di queste restrizioni l’origine delle breccia pipes ipoabissali associate ad attività magmatica ha attirato e confuso i geologi per decenni. Sembra che molti processi interagenti contribuiscano alla formazione e alla propagazione verso la superficie delle breccia pipes ipoabissali. Spesso questi sono ripetitivi e variazioni considerevoli possono esistere in tempi differenti all’interno di un gruppo di pipe o una stessa. Le breccia pipes ipoabissali possono subire brecciatura a causa di due processi principali: rilascio esplosivo di volatili dalla porzione superiore di un fuso che sta cristallizzando e fuga di volatili dalla porzione apicale di un fuso che produce spazi vuoti o un serbatoio ricco in fluidi all’interno delle rocce incassanti soprastanti, con il conseguente

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Fig. 2.22: Sezione schematica del complesso intrusivo e relativa breccia del Redwell Basin in Colorado, USA (Baker e al., 1986).

collasso di queste. Il processo di brecciatura esplosiva si basa sulle osservazione ricavate dalle esplosioni nucleari. Nordyke (1961) ha dimostrato che il cratere prodotto da un’esplosione di una determinata potenza diminuisce di dimensione con l’aumentare della profondità. A profondità maggiori di diverse centinaia di metri l’esplosione non riesce a produrre un cratere superficiale e la disgregazione delle rocce consiste nella fusione e brecciatura immediatamente adiacente al sito dell’esplosione. A una simile conclusione sono arrivati anche Burnham e Ohmoto (1980) utilizzando un modello teorico di sistema magmatico (fig. 2.23). Da notare che la profondità limite per avere brecciatura esplosiva dipende dalla dimensione e forma del corpo magmatico. Nonostante risulti difficile applicare questi risultati direttamente alla formazione della breccia pipe, è probabile che l’aumento di profondità inibisca l’esplosività. Tuttavia, qualsiasi alternativa

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all’esplosione, come meccanismo di brecciatura in profondità, deve anche spiegare come venga prodotto lo spazio richiesto, poiché deve essere presente dello spazio vuoto altrimenti i frammenti di roccia non potrebbero essere spostati reciprocamente. Perciò sembra probabile che per le breccia pipes che si sono formate da processi non esplosivi, il volume sarà funzione dello spazio vuoto originario disponibile.

Fig. 2.23: Variazione di volume (ascissa in basso) ed energia meccanica rilasciata (ascissa in alto) nella reazione di second-boiling: H2O·fuso saturo – cristalli + vapore. I valori di Vr e PVr riferiti a

una cristallizzazione completa di un fuso granodioritico con un contenuto iniziale di H2O di 2.7 %

in peso. La profondità di transizione tra un eruzione vulcanica esplosiva e un regime di fatturazione intenso (“strong”) è approssimata e dipende dalla dimensione e dalla forma del corpo intrusivo (Baker e al. 1986).

Per quanto riguarda il processo di brecciatura non esplosivo, Norton e Cathles (1973) hanno proposto un modello basato sulla fuga di volatili dalla porzione superiore di un fuso in cristallizzazione che, producendo spazi vuoti o, più precisamente, un serbatoio ricco in fluidi, provoca il collasso delle rocce incassanti soprastanti e la conseguente formazione della breccia pipe. Successivamente Pichavant (1979) ha dimostrato sperimentalmente che un fuso ricco in boro può coesistere con una fase idrata ricca in volatili nella quale la solubilità della silice e dell’alluminio viene notevolmente aumentata. Questa fase idrata può contenere più del 15 % in peso e perfino un contenuto maggiore di acqua. La liberazione di una quantità così consistente di volatili potrebbe essere

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sufficiente a fare iniziare il collasso. La fuga di fluidi ricchi in volatili dall’area sovrassatura attraverso le fratture delle rocce incassanti provoca un considerevole calo di pressione in questa zona. Il fluido contenuto nei pori e nelle fratture dell’intrusione e delle rocce incassanti adiacenti, ancora in sovrappressione purché la fuoriuscita sia sufficientemente rapida, provoca la disgregazione delle pareti adiacenti in clasti che cadono all’interno del serbatoio oramai svuotato. Questo processo, che determina un esfoliazione concentrica nelle rocce adiacenti al serbatoio, viene comunemente denominato “shock decompressivo” ed è stato discusso da Farmin (1937) e Fletcher (1977). Nel caso di un fuso idrato ricco in boro un calo di pressione e la perdita dei volatili può causare un congelamento della porzione residuale del fuso, producendo una breccia con tessitura caratteristica da shock decompressivo cementata da una matrice tormalina-quarzifera (fig. 2.26). Tuttavia anche altre specie volatili, come cloro, anidride carbonica e fosforo, possono agire come il boro nella formazione di una breccia pipe. Bailey (1977) e Shannon et al. (1982) hanno valutato che le fluttuazioni nella pressione parziale del fluoro in un fuso in cristallizzazione sono responsabile dell’origine di rocce crenulate nella porzione superiore di alcune intrusioni. In genere la presenza iniziale di specie volatili in fuso in cristallizzazione non è così ovvia come quella del boro e del fluoro e perfino dove le tessiture indicano un elevato contenuto iniziale di volatili, la brecciatura non è sempre presente. Esempi di tessiture crenulate associate a brecce si trovano a Kidston e Mt Seventy Mile. In una situazione dove la brecciatura in profondità è dovuta a volatili di derivazione magmatica, la fase ricca in volatili deve liberarsi o contrarsi in modo da generare lo spazio libero necessario per la brecciatura. Burnham (1979) ha descritto come i volatili, che si concentrano durante la cristallizzazione del fuso, si essolvono in seguito all’effetto del calore latente di cristallizzazione. La sovrappressione risultante dall’essoluzione può essere sufficiente a fratturare idraulicamente le rocce circostanti e formare un complesso sistema di vene comunemente presente nei depositi. La sovrappressione è incrementata dall’aumento di volume dei cristalli oltre che della fase idrata rispetto al fuso silicatico iniziale. Norton (1982) ha calcolato che la fratturazione idraulica può provocare un incremento della permeabilità di due ordini di grandezza. Dove una porzione considerevole del volume della roccia era occupata da questi fluidi, la loro rapida espulsione dalle fratture può produrre sufficiente spazio per la brecciatura. La brecciatura può interrompersi in questo stadio prematuro se la quantità di fluido ricco in volatili all’interno della zona in sovrapressione è relativamente scarsa. Tuttavia, un discreto spazio iniziale può produrre una colonna allungata di breccia di collasso sopra l’intrusione (fig. 2.26). La breccia di collasso risultante è costituita da clasti angolari e tabulari, anche se la forma è influenzata anche dalla tessitura pre-esistente della roccia. Queste brecce sono tipicamente clast-supported, con insufficiente matrice ad occupare le cavità tra i clasti, che possono essere riempite successivamente da minerali idrotermali. Tuttavia nella maggior parte delle breccia pipes i clasti variano da arrotondati a

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angolari e sono supportati da una matrice costituita da rocce incassanti finemente sbriciolate. E’ molto probabile che sia attivo anche un ulteriore processo, oltre al semplice collasso, durante la formazione di una breccia pipe, che sia capace di triturare e trasportare i clasti fino ad arrotondarne i bordi e produrre una matrice finissima di roccia. I clasti delle rocce ignee tendono ad arrotondarsi più facilmente rispetto a quelli delle rocce meta-sedimentarie che mantengono una forma più allungata. Inoltre sono comunemente presenti, come clasti, frammenti di brecce precedenti manifestando che la brecciatura è un processo multi-fase. La fluidizzazione è stato riconosciuto come un possibile meccanismo di formazione delle breccia pipes ipoabissali da Reynolds (1954) che ha notato la somiglianza fra le tessiture nelle brecce che mostrano un chiaro grado di macinatura e i materiali industriali che hanno subito fluidizzazione. Il termine “fluidizzazione” è stato coniato per descrivere un processo industriale utilizzato in larga parte per accelerare il mescolamento e le reazioni chimiche in uno strato di particelle molto piccole (McCallum, 1985). Questo consiste nel fare passare un gas o un liquido attraverso uno strato di particelle solide al fine di rendere fluida la massa complessiva. La fluidizzazione si ottiene quando la velocità del fluido è tale da esercitare una forza di trascinamento sulle particelle solide sufficiente a sollevarle o mantenerle in sospensione contro la forza di gravità (McCallum, 1985). La fluidizzazione, di solito, è raggiunta all’interno di un condotto cilindrico con pareti piatte e assottigliato verso la base per favorire una distribuzione omogenea del mezzo fluidizzante (gas o liquido) attraverso la massa di particelle. Inoltre la taglia delle particelle deve essere più uniforme possibile e non devono verificarsi sostanziali trasferimenti di massa (fig. 2.24). Nello stato “fixed bed” (fig. 2.24A), il fluido passa attraverso lo strato di particelle a una velocità che non provoca cambiamenti nelle condizioni della massa di particelle. Aumentando la velocità del flusso del fluido lo strato si espande in modo che le particelle risultino meno in contatto le une con le altre, fino a raggiungere uno stato in cui le singole particelle sono libere di muoversi e la forza di gravità esercitata su queste è bilanciata dalla forza di trascinamento verso l’alto del fluido. Questo stadio è chiamato “punto di fluidizzazione” o punto di “inizio della fluidizzazione” (McCallum, 1985) e porta allo stato di fluidizzazione quiescente (fig. 2.24B) nel quale le particelle sono in movimento ma il grado di mescolamento è minimo. In questo stadio non c’è praticamente perdita di integrità stratigrafica, ma se la condizione è mantenuta per un prolungato periodo di tempo, le particelle angolari plausibilmente potrebbero arrotondarsi in situ. La semplice separazione delle particelle è seguita dalla più violenta agitazione di queste e dal mescolamento eterogeneo del flusso del fluido quando la sua velocità aumenta ancora, ottenendo lo stadio di fluidizzazione turbolenta (fig. 2.24C e D). Il movimento verso l’alto del fluido attraverso le particelle promuove la circolazione e un mescolamento efficace. Una volta raggiunta la condizione di fluidizzazione turbolenta, la massa di particelle continua ad espandersi per il progressivo aumento della distanza media tra le particelle o

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perchè il fluido in eccesso passa attraverso lo strato sottoforma di bolle. Queste condizioni vengono dette fluidizzazione “particulate” e “aggregative”, rispettivamente (Richardson, 1971) e dipendono dal rapporto di densità tra la fase solida e il mezzo fluido (Zenz, 1971; Wilson, 1984). La fluidizzazione “particulate” avviene in sistemi con bassi rapporti di densità in cui le bolle sono assenti o equivalenti in dimensioni alle particelle e non possono essere distinte dal gas interstiziale. Questa condizione è tipica dei sistemi liquido-solido, ma si può trovare anche nei sistemi gas-solido quando le particelle sono molto piccole e la velocità del gas è limitata (Richardson, 1971). La fluidizzazione “aggregative” caratterizza la maggior parte dei sistemi gas-solido, che generalmente hanno alto rapporto di densità, ma può essere presente anche nei sistemi liquido-solido quando le particelle hanno alta densità (Richardson, 1971). Quando il liquido è l’agente della fluidizzazione, i movimenti delle particelle sono molto meno violenti, l’abrasione è meno efficace e l’elutriazione tende a essere più completa. Quando è stato raggiunto lo stadio di fluidizzazione turbolenta, le bolle di gas iniziano a risalire attraverso il sistema e, con l’incremento della velocità del flusso di gas, può essere raggiunto uno stadio di fluidizzazione detto “bubbling” o “boiling” (fig. 2.24C).

Fig. 2.24: Stadi tipici della fluidizzazione di particelle provocata all’aumentare della velocità del fluido (A-E) e i processi correlati di “channeling” (F) e “spouting” (G) (McCallum, 1985).

In questa condizione la maggior parte del gas migra verso l’alto come bolle che favoriscono il mescolamento e il disgregamento delle particelle. In alcuni sistemi fluidizzati turbolentemente, le bolle possono unirsi a formare bolle più grandi, con dimensioni simili a quelle del sistema fluidizzato, generando un processo chiamato “slugging” (fig. 2.24D). File di queste grandi bolle possono risalire trascinandosi davanti

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ammassi di particelle che risalgono come pistoni ad altezze variabili fino a quando non diventano instabili e disgregandosi ricadono all’interno delle sottostanti sacche di gas (Leva, 1959; Mayo, 1976). Ulteriori incrementi della velocità del flusso di gas durante lo stadio di fluidizzazione turbolenta possono portare a una condizione in cui la velocità di caduta libera delle particelle viene superata e queste vengono trasportate in superficie dove possono formare depositi di caduta intorno al cratere. Quando un sistema fluidizzato non possiede più una superficie superiore definita, viene detto in fluidizzazione “diluita” (Leva, 1959) o “disperded suspension” (fig. 2.24E). Il “Channeling” (fig. 2.24F) consiste nel passaggio di un gas attraverso un sottile percorso senza indurre un sostanziale movimento delle particelle circostanti ed è favorito dalla presenza di particelle molto piccole. Infine, una importante variante della fluidizzazione è il processo di “spouting” (fig. 2.24G), che provoca la formazione di una colonna di fluido che trasporta le particelle verso l’alto e, una volta raggiunta la superficie, queste ricadono lentamente verso il basso lungo zone anulari intorno al canale centrale di risalita. Talvolta le particelle che cadono verso il basso possono ritrovarsi all’interno del flusso di gas e risalire verso l’alto formando una sorta di cella convettiva (Mathur, 1971). Diversamente dalla fluidizzazione tipica, lo “spouting” è caratterizzato da un gradiente di pressione non uniforme che è piccolo vicino alla base del sistema e aumenta verso l’alto fino a un valore

Fig. 2.25: Illustrazione schematica degli esperimenti di Woolsey et al. (1975) che mostra lo sviluppo di una cella fluidizzata. A) L’aria compressa, proveniente dall’estremità inferiore del modellino, risale attraverso le fratture e comincia a circolare nelle celle fluidizzate, al di sotto degli spazi vuoti prodotti dalle fratture, provocando un uplift. In superficie si forma un duomo. B) Una grande cella raggiunge la superficie. C) La continua fuoriuscita di gas e particelle solide costruisce, in superficie, un cratere a forma di scodella (“saucer-shaped crater”) (Baker e al. 1986).

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massimo in cima allo strato di particelle. Questo processo è favorito in sistemi compressi formati da particelle abbastanza grosse. La fluidizzazione avviene quando un liquido o un gas passa attraverso uno strato di particelle, inizialmente tenute in sospensione in condizioni simili a quelle osservate nelle sabbie mobili. Con l’aumento della velocità del fluido le particelle vengono agitate fino ad essere trasportate dal gas o dal liquido verso l’alto, nel centro della cella fluidizzata, e verso il basso, ai lati della cella. Durante questo processo le particelle vengono abrase, provocando l’arrotondamento dei clasti e producendo una significativa quantità di matrice finissima. La prolungata macinazione dei clasti può portare alla formazione di forme quasi sferiche (caso limite). I clasti meno arrotondati, che sono più resistenti o hanno subito fluidizzazione per un minore intervallo di tempo, sono di solito mescolati con quelli più arrotondati all’interno del corpo di breccia. Questo tipo di breccia è comunemente chiamato mill breccia (fig. 2.27). Quando la fluidizzazione avviene in spazi ristretti, come una frattura lungo la quale vengono liberati i volatili, la macinazione può produrre un pebble breccia dike nel quale la maggior parte dei clasti sono sferici e contenuti in una matrice finissima di roccia macinata (fig. 2.27). La macinazione del materiale brecciato può anche essere generata da altri processi meccanici, ad esempio Fyfe et al. (1978) hanno proposto che l’alta pressione dei fluidi nei pori e la formazione di vapore nella parte sommitale di un intrusione può causare la disgregazione delle rocce incassanti per flussi cataclastici e scivolamento delle particelle, permettendo a un magma viscoso di aprirsi una strada verso la superficie. Il tipo di breccia formata da questi processi difficilmente contiene clasti arrotondati e, invece di colonna di brecce, forma, sopra all’intrusione, una guaina o un cappuccio intorno alla sommità dell’intrusione. Gli esperimenti di Woolsey et al. (1975) forniscono un utile visione della sequenza di eventi che probabilmente avvengono durante la formazione di una breccia pipe (fig. 2.25). Inizialmente si genera, poco al di sotto della superficie, una cella fluidizzata, che essendo continuamente alimentata dal gas che si libera dall’intrusione, raggiunge la superficie ed espelle il materiale della colonna edificando intorno alla pipe un cratere simile a quello che si forma intorno ai maar. In questo caso la pipe raggiunge la superficie perché gli esperimenti sono stati condotti su sabbie poco compattate, con spazi vuoti vicini alla superficie. Tuttavia, nelle breccie pipes ipoabissali che si generano in natura, gli spazi vuoti sembrano essere presenti nella porzione superiore dell’intrusione e quindi la cella fluidizzata si trova a livelli strutturali più profondi. Se questa collassa a questa profondità, a causa, per esempio, di un esaurimento dei volatili, la breccia pipe risultante può non raggiungere la superficie. Le pipes possono anche non arrivare in superficie in seguito a variazioni dei regimi di stress all’interno dei livelli superficiali della crosta (0.5 – 1 km) come evidenziato dagli esperimenti sulle miniere di Hoek e Brown (1980) (fig. 2.26). Questo cambiamento può inibire la brecciatura quando il sistema si avvicina a livelli superficiali poiché i volatili, che sono necessari per alimentare la cella fluidizzata, possono fuoriuscire da una rete di fratture

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connesse alla superficie. Tuttavia la brecce ipoabissali esplosive sfondano la superficie in circostanze particolari come, ad esempio, quando sono coinvolte acque meteoriche. Dove questi sistemi raggiungono la superficie o si formano a profondità relativamente basse, possono diventare il processo dominante rendendo difficile distinguere se la breccia pipe abbia avuto origine come una breccia ipoabissale o come un tipico maar-vulcano.

Durante e subito dopo la fase calante della fluidizzazione, può avvenire un considerevole cambiamento all’interno della colonna di breccia e nelle adiacenti rocce incassanti. Uno dei principali fattori che provoca questo è il contrasto di competenza tra la roccia incassante e la breccia non litificata, che spesso risulta in una rottura della roccia incassante durante la compattazione del materiale brecciato. Una zona con fratture planari è comunemente descritta ai margini delle pipes, contenete blocchi tabulari di margine fratturati della pipe all’interno della breccia (Sillitoe e Sawkins, 1971 e Jacobsen et al., 1976). Dove la colonna di breccia fluidizzata non raggiunge la superficie, la roccia soprastante può lentamente scivolare nella pipe formando una zona fratturata (Baker e Horton, 1982). Nelle parti superiori di questa area, dove la dislocazione dei frammenti è stata minima, i clasti mostrano spostamenti relativi molto piccoli e possono essere ancora rimessi nelle loro posizioni iniziali. Lo spazio tra i clasti è di solito riempito da minerali idrotermali come il quarzo.

Fig. 2.26: Diagramma schematico delle variazioni degli stress verticale (v) e orizzontale (h) da studi su diverse miniere (Baker e al. 1986).

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Fig. 2.27: Modello generale di una breccia pipe ipoabissale in cui sono evidenziate le posizioni dei diversi tipi di breccia contenuti nella pipe (Baker e al. 1986).

2.4 MESSA IN POSTO DI INTRUSIONI SUPERFICIALI PER PULSI

SUCCESSIVI DI MAGMA

Il magmatismo è responsabile della formazione della crosta oceanica e continentale ed è l’agente principale del trasferimento di massa e di calore dal mantello verso la crosta, l’idrosfera (idrotermalismo oceanico e continentale) e l’atmosfera (emissioni di gas e ceneri vulcaniche). Le sue manifestazioni sono la cristallizzazione di rocce intrusive e l’eruzione di prodotti vulcanici. Tuttavia, con un rapporto tra i volumi di rocce magmatiche effusive e intrusive stimato nell’ordine di 1:5 per la maggior parte dei sistemi

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magmatici, una delle caratteristiche fondamentali del magmatismo è che i magmi raramente raggiungono la superficie terrestre. Questo significa che le condizioni prevalenti nella crosta non favoriscono l’arrivo del magma in superficie, ma al contrario propendono fortemente per la formazione di corpi intrusivi all’interno della crosta. Un numero sempre crescente di dati geofisici, geocronologici e osservazioni geologiche sta progressivamente migliorando la nostra conoscenza sui processi che guidano la formazione e la messa in posto dei plutoni (Horsman et al., 2010; Farina et al., 2010; Michel et al., 2008; Michaut and Jaupart, 2011; Menand, 2011; Rocchi et al., 2008; Saint-Blanquat et al., 2011). I plutoni inizialmente erano ritenuti corpi quasi sferici che crescevano lentamente ed essenzialmente per gonfiamento complessivo, mentre attualmente c’è ampio consenso su un meccanismo di crescita per apporti discreti e progressivi di pulsi di magma relativamente piccoli, in periodi di tempo variabili, da centinaia a milioni di anni, in funzione dell’ambiente geodinamico e della fertilità della sorgente (Farina et al., 2010; Horsman et al., 2010; Leuthold et al., 2012; Michel et al., 2008; Michaut and Jaupart, 2011; Menand, 2011; Rocchi et al., 2010; Saint-Blanquat et al., 2011). In accordo con questo nuovo modello di plutonismo, l’evoluzione dei corpi magmatici è legato ai processi che controllano la cronologia e la distribuzione spaziale degli apporti successivi. In base al loro tasso di messa in posto e alla loro capacità di amalgamarsi, ripetuti pulsi di magma possono rapidamente solidificare o dar vita ad una camera magmatica attiva.

2.4.1 MESSA IN POSTO, ASSEMBLAGGIO ED EVOLUZIONE TERMICA DEI PLUTONI

I plutoni sono grandi corpi ignei con spessore variabile tra alcuni kilometri e alcune decine di km. La loro formazione e la deformazione delle rocce incassanti associata, perciò, deve essere meccanicamente compatibile nel lungo termine con il tasso medio di deformazione litosferica e la profondità di messa in posti di questi corpi riveste certamente un ruolo significativo. Infatti, la messa in posto di un plutone nei livelli superficiali della crosta superiore è facilitata dalla vicinanza della superficie terrestre, mentre la deformazione indotta dalla messa in posto di plutoni nelle zone più profonde della crosta inferiore beneficerà del flusso duttile del mantello o della crosta inferiore plastica o di entrambe (Petraske et al., 1978; Cruden, 1998; Cruden and McCaffrey, 2001). Tuttavia, lo sviluppo dei corpi ignei può non seguire un singolo processo di crescita. Misure di campagna estensive sulla geometria e dimensioni di molte intrusioni, dai più piccoli sills fino ai più grandi batoliti, sembrano indicare l’esistenza di un generico e continuo legame tra lo spessore e la superficie media di queste intrusioni, ma questa relazione di scala non sembra seguire un preciso schema (McCaffrey and Cruden, 2002;

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Cruden, 2006). I sills crescono principalmente per propagazione laterale, mentre i laccoliti per inspessimento verticale e successivamente espansione laterale, così come i plutoni e i batoliti, suggerendo quindi un diverso meccanismo di crescita in base alle dimensioni del corpo intrusivo (Pollard and Johnson, 1973; Cruden and McCaffrey, 2001). Inoltre, recenti studi hanno dimostrato che l’evoluzione termica di un corpo igneo dipende da numerosi parametri tra cui il tasso di apporto di nuovo magma e la posizione del corpo all’interno dell’ambiente geotermico. Infatti, la profondità alla quale il magma è accumulato, o immagazzinato, nella crosta è importante poiché determina la temperatura iniziale del corpo magmatico e la sua successiva evoluzione termica (Annen et al., 2006; Michaut and Jaupart, 2011; Annen, 2009). Gli aspetti meccanico e termico della formazione e crescita dei plutoni sono anche intimamente interconnessi; infatti la meccanica e gli stili associati alla formazione dei plutoni interessano direttamente la geometria di un plutone, che a sua volta controlla la sua evoluzione termica. Questo ha importanti conseguenze sulla differenziazione del magma e sull’anatessi.

A questo punto è importante introdurre la differenza tra i concetti di messa in posto e

assemblaggio di un corpo igneo. Con il termine messa in posto si intende il dislocamento

delle rocce circostanti che permettono a un plutone di conseguire la sua geometria tridimensionale (Horsman et al., 2010). Per questo motivo, i meccanismi di messa in posto coincidono con quelli che generano spazio all’interno della crosta (sollevamento del tetto, abbassamento del pavimento, stoping). Invece, per assemblaggio si intende il processo di costruzione del plutone attraverso l’aggiunta di magma. L’assemblaggio può avvenire con un singolo pulso di magma per amalgamazione di pulsi di magma successivi (Horsman et al., 2010) (fig. 2.28). Il problema principale, tuttavia, è che spesso l’assemblaggio dei corpi magmatici è criptico e l’identificazione di pulsi di magma multipli in un singolo plutone è inequivocabile soltanto quando questi hanno composizione diversa se non avviene il processo di mingling. Allo stesso modo, le strutture primarie nei plutoni possono essere il risultato di processi legati sia alla messa in posto che all’assemblaggio e la distinzione fra questi effetti è spesso difficile. Infine anche le deformazioni regionali possono influenzare marcatamente sia la geometria del plutone che la sua struttura, generando equivoci nella ricostruzione dell’assemblaggio del corpo igneo (Horsman et al., 2010). Per questi motivi non risulta semplice riconoscere i processi di assemblaggio avvenuti in una particolare intrusione e bisogna verificare che queste condizioni o la maggior parte di esse siano verificate, prima di poter affermare con certezza che un plutone si sia formato per apporti multipli di pulsi successivi di magma. Horsman et al., 2010, ad esempio, hanno studiato tre intrusioni del Terziario medio nelle Henry Mountains nello Utah meridionale (fig. 2.29). Queste risultano un caso ideale poiché, in quest’area, sono verificate tutte le suddette condizioni necessarie per la distinzione dei processi di messa in posto da quelli di assemblaggio. Per prima cosa il meccanismo di messa in posto di queste intrusioni è il sollevamento del tetto,

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