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Dal Concetto all'azione. Tra filosofia, sociologia e antropologia della scienza.

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Academic year: 2021

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INDICE

PREMESSA...1

RINGRAZIAMENTI...6

PARTE PRIMA: Storia e filosofia della scienza...7

1. Un ruolo per la storia...7

1.1. Dalla struttura alla dinamica ...7

1.2. Integrazione e metodo...15

1.3. Circolarità e finzioni...20

2. Incommensurabilità...27

2.1. Una visione d'insieme...27

2.1.1. Feyerabend...29

2.1.2. Kuhn...37

2.2. Confrontare e valutare le teorie...45

PARTE SECONDA: La svolta sociologica...52

1. Dalla sociologia della cornice alla sociologia del contenuto...52

2. Il Programma Forte in sociologia della scienza...59

2.1. Il manifesto del Programma Forte ...59

2.2. Il carattere scientifico del Programma Forte. Una critica dello statuto metodologico...69

2.3. Cause e ragioni. Due case studies in sociologia della scienza...72

2.4. La tesi della ridondanza dei fattori epistemici. Una critica del modello di spiegazione causale e simmetrico...80

2.5. Osservazione, esperienza, interpretazione...87

2.6. Finitismo. Ovvero: la dimensione sociale del linguaggio...95

3. Un' alternativa: la Scuola di Bath e il programma empirico del relativismo...103

PARTE TERZA: Dentro il laboratorio...114

1. Il costruttivismo e la sociologia della scienza...114

2. Il laboratorio come luogo strategico di ricerca: condizioni metodologiche...119

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3.1. La dimensione artificiale del laboratorio...124

3.2. Il carattere impregnato di decisioni delle operazioni di laboratorio...126

3.3. La dimensione retorico-letteraria nella costruzione della scienza: "iscrizioni"....128

3.4. Il paper e le trasformazioni di asserzioni in fatti...130

4. I limiti della costruzione dei fatti. Una critica filosofica...136

5. Dal laboratorio alla società. Latour e l'Actor-Network-Theory...139

CONCLUSIONI...151

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La scienza è un processo storico complesso ed eterogeneo che contiene anticipazioni ancora vaghe e incoerenti di future ideologie accanto a sistemi teorici molto sofisticati e a forme di pensiero antiche e fossilizzate.

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PREMESSA

All'inizio degli anni Sessanta fu tardivamente riscoperto un pionieristico e misconosciuto lavoro di un medico polacco di origine ebraica, L. Fleck. Il testo, intitolato Entstehung und Entwicklung einer Wissenschaftliche Tatsache, fu pubblicato originariamente nel 1935. Esso consisteva nell'analisi storica dei tortuosi percorsi seguiti dall'evoluzione del concetto di "sifilide", una malattia che l'autore, in quanto medico di professione, conosceva molto bene.

Che cos'è un fatto scientifico? È questa la domanda con cui Fleck apre la sua opera. Arrivare al fatto, risponde subito, è l'obiettivo della scienza, mentre capire in quale modo vi si arriva è l'obiettivo della teoria della conoscenza. Se la scienza medica è arrivata alla sifilide e alla Wassermann intese come "fatto", ora si deve investigare il modo con cui la medicina è pervenuta fino a questi fatti.

Fleck parte empiricamente dalla storia della malattia fin dai suoi esordi, ne riconosce inizialmente un concetto etico-mistico legato all'interpretazione religiosa della connessione esperienziale tra malattia e funzione genitale ed uno empirico-terapeutico legato ai successi curativi ottenuti coi prodotti mercuriali, e li segue fino allo sviluppo moderno nella loro integrazione. Nella diversità di questi punti di vista riconosce che "nessuno di essi può essere dichiarato puramente e semplicemente falso"1 essendo in ogni caso vincolati ad una

definizione che obbliga ad alcune conseguenze. Nel momento in cui si decide per una definizione emerge "l'esistenza di associazioni soggette alla nostra scelta"2 che hanno un

carattere storico-culturale ed uno storico-conoscitivo. Sono questi i caratteri dell'esperienza comune che va intesa come una "condizione complessa frutto di un processo di educazione che si fonda sull'interazione tra chi conosce, ciò che è già conosciuto e ciò che deve essere conosciuto"3 in cui si ritrovano esperimenti, osservazioni, abilità tecniche, trasformazioni

concettuali. Di più, per Fleck, "tutte queste sono condizioni palesemente incontrollabili dal punto di vista logico-formale e [...] vietano in maniera completa una valutazione di tipo logico-formale del processo conoscitivo"4. I vincoli sono costitutivi di uno "stile di pensiero"

(denkstil) che va ben oltre l'individuo e la sua psicologia, la logica ed anche l'esperimento. Lo stile di pensiero, in breve, è un modo orientato di percepire un oggetto mediante

1 Cfr. Fleck (1935), trad. it. p. 58. 2 Cfr. Fleck (1935), trad. it. p. 59. 3 Cfr. Fleck (1935), trad. it. p. 61. 4 Ibidem.

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contrassegni comuni ai problemi, giudizi evidenti, metodi utilizzati come strumenti e addirittura stili espressivi peculiari al sistema di conoscenza.

La conclusione cui Fleck giunge è che il concetto di sifilide è una costruzione storica molto prima che biologica. Per raggiungere l'obiettivo della costruzione del concetto di sifilide è stato necessario che diverse generazioni di medici si siano riuniti in una comunità di ricerca sorretta da un sapere comune, ovvero da un "pensiero collettivo" (denkkollektiv).

Quel che risulta, alla fine, è che nel "collettivo di pensiero", che è la comunità stabile o momentanea degli uomini che condividono un sapere comune più o meno specialistico, ogni scoperta è socialmente condizionata. Il pensare non è mai il pensare del singolo: è molto di più. Il pensare è un'azione collettiva che emerge inintenzionalmente dal libero scambio e genera una creazione intellettuale che non appartiene in esclusiva a nessuno, ma che appartiene contemporaneamente a tutti i dialoganti. Ogni risultato scientifico è quindi sempre una co-costruzione del collettivo di pensiero che si consolida tramite una disposizione a percepire e una disposizione ad agire in modo appropriato. Queste disposizioni costituiscono lo stile di pensiero trasmesso da una generazione alla successiva con l'educazione formale. In questo senso il collettivo "viene prima" ed è il contenitore e il "collettore" dello stile di pensiero. Il collettivo è quindi più della somma dei singoli perché è portatore di un sapere che supera la capacità dell'individuo ed ha funzione creatrice di conoscenza. Se gli scienziati sono dei creatori, il prodotto della scienza null'altro è che una conoscenza costruita, ed i fatti scientifici sono solo costrutti: rispondendo coerentemente alla domanda iniziale Fleck conclude che "non esiste la sifilide in sè"5.

Come dicevamo, ci sono voluti quasi trent'anni affinché l'appello ad una dimensione sociale e costruttiva della scienza venisse raccolto. Nel 1962 T. S. Kuhn, che bene conosceva il lavoro di Fleck, dava alle stampe La struttura delle rivoluzioni scientifiche, inaugurando un vero e proprio nuovo modo di fare filosofia della scienza. Per i neopositivisti era andato perfettamente bene sviluppare un canone meramente formale e astratto di logica induttiva delle scienze naturali, e ciò fintanto che nessuno chiedeva come questo insieme di canoni formali potesse essere utilizzato nelle applicazioni specifiche alla vita reale della prassi scientifica. Allo stesso modo, l'elaborazione di un modello normativo di acquisizione della conoscenza scientifica poteva giungere a compimento solo esimendosi dal controllare se gli ideali scientifici sbandierati in nome della razionalità avessero un riscontro effettivo nella

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prassi scientifica. Ma esattamente questo cominciava ora con Kuhn ad esser posto in questione; non il mero quesito se gli algoritmi formali sbandierati dai neopositivisti fossero all'applicazione pratica idonei così come venivano posti – ben pochi filosofi della scienza interessati avevano mai preteso una cosa del genere – bensì se esistesse una qualche possibilità in linea di principio di ristrutturarli in termini compatibili con le conclusioni concettuali con cui effettivamente si trovavano a fare i conti gli scienziati nel contesto delle loro attività professionali. Questa diventò la questione cruciale della filosofia della scienza, ed era questione che avrebbe potuto essere risolta soltanto prendendo in seria considerazione la testimonianza della storia. Il richiamo alla storia, fatto proprio anche da altri filosofi come Feyerabend e Toulmin, svelò la necessità di una epistemologia storico-descrittiva; e con questa necessità si svilupparono riflessioni di ordine metodologico – riguardanti cioè i metodi e gli strumenti di analisi della filosofia della scienza.

L'importanza del testo di Kuhn non deve essere unicamente ricondotta all'appello nei confronti di una nuova e fertile collaborazione tra storia e filosofia della scienza. In esso compare, per la prima volta, la "condizione teorica" maggiormente responsabile della perdita di interesse nei confronti della razionalità della scienza: la tesi dell'incommensurabilità. È ormai cosa nota che la tesi dell'incommensurabilità fu avanzata contemporaneamente e in modo indipendente da Kuhn e Feyerabend, e che l'idea emerse a seguito delle conversazioni intercorse tra i due intorno al 1960. La tesi dell'incommensurabilità, com'è noto, pone dei seri problemi di ordine epistemologico. Innanzitutto se le due teorie rivali non condividono alcun significato comune non si vede come sia possibile basare la propria preferenza sul contenuto delle teorie. Inoltre, mancando un linguaggio osservativo comune, viene meno la possibilità di riferirsi al "contenuto empirico" delle teorie; ed anzi, le teorie non sembrano possedere alcun contenuto empirico. In ultima istanza, pur ammettendo che la transizione ad una nuova teoria incorpori un mutamento concettuale fondamentale, non si capisce come tale mutamento possa risultare una scelta consapevole.

Non stupisce allora che la tesi dell'incommensurabilità, mettendo seriamente in crisi la disponibilità di standard oggettivi di valutazione e la possibilità di formulare argomenti razionali nella scelta di teorie scientifiche alternative, abbia finito per orientare parte delle ricerche epistemologiche verso analisi sociologiche della scienza. Le riflessioni di Kuhn e Feyerabend hanno avuto il merito di sottolineare la matrice sociale e costruttiva delle teorie scientifiche; e nonostante entrambi abbiano più volte tentato di fornire alcuni criteri di scelta

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e di valutazione delle teorie, si è andata affermando l'idea che una delle conseguenze della tesi dell'incommensurabilità consisterebbe nell'impossibilità di confrontare e valutare le teorie scientifiche sulla base di fattori epistemici. Questa crisi della metodologia, se da un lato ha favorito lo sviluppo di una serie di riflessioni di ordine "metametodologico", dall'altro ha prodotto conclusioni assai drastiche sullo statuto della razionalità scientifica. Una delle tesi più radicali in proposito è stata sostenuta da alcuni sociologi della scienza. Essa afferma che solo i fattori sociali possono favorire la scelta di una teoria, e che tutti gli altri fattori di natura epistemica sono ridondanti. Il mutamento scientifico sarebbe cioè influenzato da fattori come gli "interessi socio-economici", "le idiosincrasie sociali", la "negoziazione sociale", e non dalla "verità" delle teorie, dal "progresso scientifico", e dalla "razionalità".

Il presente lavoro, che è suddiviso in tre parti, si propone di analizzare quelle correnti sociologiche che, seguendo la via tracciata da questa 'svolta storicista' in filosofia della scienza, hanno cercato di sviluppare metodi di analisi del sapere scientifico di tipo sociologico. All'introduzione della storia della scienza nelle speculazioni di ordine epistemologico, ed alla condizione teorica maggiormente responsabile della perdita di interessi nei confronti della razionalità – la tesi dell'incommensurabilità – saranno dedicati i due capitoli della prima parte. La seconda parte si soffermerà sui presupposti metodologici e sulle implicazioni teoriche della cosiddetta "svolta sociologica", introducendo il tema ed analizzando in due capitoli differenti le scuole di ricerca che hanno fatto da apripista agli studi sociologici della scienza: La Scuola di Edimburgo e la Scuola di Bath. Si osserverà come i metodi proposti, per quanto capaci di fornire delle analisi audaci ed affascinanti, non abbiano alcun carattere di plausibilità, finendo per assumere preventivamente un'immagine del sapere scientifico che priva quest'ultimo dei suoi caratteri distintivi. Inoltre si prenderanno in esame le conseguenze filosofiche di tali analisi, riassumibili nella "tesi della ridondanza dei fattori epistemici" o nella "tesi della onnipervasività dei fattori sociali", cercando di mostrare come queste tesi vadano incontro a banali confusioni concettuali che l'epistemologo dovrebbe sempre avere presente. Lo stesso verrà fatto nella terza ed ultima parte, interamente dedicata agli sviluppi più recenti della sociologia della scienza catalogabili sotto l'etichetta di 'costruttivismo'.

Il titolo che abbiamo scelto ha la pretesa di riassumere il viaggio percorso in queste tre parti. Esso si riferisce ad un progressivo slittamento del centro di attenzione dal contenuto concettuale delle teorie scientifiche verso l'azione esercitata dagli scienziati nella loro

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quotidiana prassi di ricerca; uno slittamento che, come avremo modo di vedere, possiede più aspetti negativi che positivi.

Lo scopo che il presente lavoro si propone è, contemporaneamente, quello di fornire una panoramica storica degli studi sociologici del sapere scientifico e quello di analizzare criticamente le proposte sociologiche di analisi della scienza avanzate da tali studi, al fine di ritagliare un posto per l'operatività dei fattori sociali senza per questo rinunciare al valore decisivo dei fattori epistemici.

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RINGRAZIAMENTI

L'affermarsi del presente lavoro è il frutto di percorsi sconnessi, continuamente interrotti e ripresi, mai pienamente consapevoli ed anarchici. Mi è praticamente impossibile voltarmi indietro ed abbracciare con un unico sguardo le persone, i luoghi, le cose che lo hanno reso possibile. Riassumerne la storia sarebbe riduttivo come il tentativo di spiegare un film di cui ci siamo innamorati. Non mi rimane allora che ricordare e ringraziare chi, con enorme pazienza, mi è stato vicino in tutto questo tempo. Consapevole che la celebre battuta di Groucho Marx "non vorrei mai appartenere ad un club che avesse me stesso tra i suoi soci" potrebbe benissimo adattarsi a me stesso, ringrazio Guida e Paolo per il loro silenzioso accompagnarmi, per aver saputo, quando necessario, mantenere le dovute distanze, e per avermi sempre lasciato scegliere. Ringrazio Davide per i suoi puntuali consigli nelle traduzioni e per aver condiviso con me un po' della sua adolescenza. Anna e Rodolfo hanno saputo "sostenermi" quando ne ho avuto bisogno: questo lavoro è anche merito loro. Naturalmente desidero ringraziare il prof. Barrotta che in questi mesi mi ha seguito con estrema disponibilità e competenza; anche i consigli del prof. Gattei mi sono stati di grande aiuto. Ringrazio Giovanni, Francesco, Gabriele, Maurizio, Marco, Francesco, Santiago, Marco, Piergiorgio per avermi accompagnato divertendoci, per il nostro assurdo e spiazzante senso dell'umorismo, talmente fine a se stesso da dimostrarsi il miglior rimedio nei momenti difficili. Matteo, che grazie al suo gioioso e contagioso pensare mi ha indicato sentieri sempre nuovi. Non posso non ricordare il Ristorante iDiavoletti: è stato uno spazio di bellissime relazioni ed amicizie, un luogo che mi ha veramente insegnato qualcosa. Per l'interesse dimostrato verso di me, i miei racconti, le mie esigenze, ringrazio Eleonora e Maria Teresa, sempre pronte ad ascoltare nonostante le loro quotidiane difficoltà.

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PARTE PRIMA: Storia e filosofia della scienza

1. Un ruolo per la storia

1.1. Dalla struttura alla dinamica

In una lettera inviata a I. Lakatos e datata 7 Agosto 1970, P. K. Feyerabend scrive: La mia effettiva evoluzione storica, che mi ha portato ad allontanarmi dal falsificazionismo ingenuo, coinvolge Kuhn e una breve discussione che ebbi con Weizsäcker, quando parlai al suo seminario ad Amburgo e mi fu dimostrato quanto cattive ed inutili potessero essere le regole generali di procedura1.

L'itinerario intellettuale descritto in queste poche righe, per quanto personale, esemplifica in modo magistrale una fondamentale transizione avvenuta alla metà degli anni Sessanta in filosofia della scienza (la discussione di cui si fa menzione nella lettera risale al 1965). Per iniziare a raccontare questa transizione è necessario andare indietro nel tempo di almeno tre anni, quando T. S. Kuhn dette alle stampe la prima edizione di quella che è rimasta ancora oggi la sua opera più famosa e più studiata, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. In quest'opera Kuhn tentava di tracciare una nuova immagine della scienza e del suo sviluppo che rendesse esplicite alcune implicazioni della nuova storiografia della scienza. A partire dagli anni Trenta, secondo Kuhn, la storia della scienza si era infatti trovata ad attraversare una profonda trasformazione, una sorta di rivoluzione intellettuale diretta contro il modo tradizionale di fare storia della scienza2.

Gradualmente, e spesso senza rendersene conto, gli storici della scienza hanno cominciato a porsi un nuovo genere di domande e a tracciare per le scienze linee di sviluppo differenti e tutt'altro che cumulative. Piuttosto che

1 Cfr. Preston (1997), trad. it. Nota 12, cap. 9.

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andare a cercare, nella scienza di un'epoca passata, i contributi permanenti che quella ha apportato al nostro benessere attuale, essi si sforzano di presentare l'integralità storica di quella scienza considerata nel suo tempo. Essi, ad esempio, si pongono domande non circa il rapporto delle concezioni di Galileo con quelle della scienza moderna, ma piuttosto circa il rapporto tra le sue concezioni e quelle del suo gruppo, cioè dei suoi maestri, dei suoi contemporanei, e dei suoi successori immediati nel campo delle scienze. Inoltre sottolineano l'importanza di studiare le opinioni di quel gruppo e di altri gruppi simili dal punto di vista – di solito molto diverso da quello della scienza moderna – che dà a quelle opinioni la massima coerenza interna e la più stretta aderenza possibile alla natura3.

Una prospettiva storicista di questo tipo rappresentava, negli anni in cui veniva formulata, una grande novità; essa auspicava, forse per la prima volta, un ruolo attivo della storia della scienza nei confronti della filosofia della scienza. L'esempio di Kuhn, come avremo modo di vedere, fu seguito da alcuni e da altri fu apertamente osteggiato. Tuttavia, al di là delle particolari posizioni assunte dai suoi colleghi, esso ebbe il merito di porre al centro dell'attenzione una serie di temi e di motivi che fino a quel momento non erano stati considerati degni di far parte della famiglia di studi in filosofia della scienza.

Intorno agli anni cinquanta, soprattutto nell'ambiente accademico statunitense, la filosofia della scienza subiva in modo determinante l'influsso del Neopositivismo logico austro-tedesco di H. Reichenbach, C. G. Hempel, H. Feigl, R. Carnap e P. Frank. Tutti questi studiosi, che avevano concepito una grande ammirazione per il Tractatus Logico-Philosophicus del primo Wittgenstein, elaborarono un "programma positivo" ed un metodo per la filosofia che univa le tecniche logiche elaborate da B. Russell e A. N. Whitehead nei Principia Mathematica ad una epistemologia empirista di derivazione machiana. Essi trovarono nel rigore formale e nei fondamenti empirici della scienza naturale – nello specifico la "validità deduttiva" delle sue inferenze e la "verificabilità" delle sue proposizioni – le pietre di paragone per giudicare dell'adeguatezza dell'attività intellettuale in ogni altro settore. O piuttosto – si potrebbe dire – trovavano questa pietra di paragone nel rigore formale supposto e nei fondamenti empirici della scienza naturale, così come essi li

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vedevano.

Per questi studiosi – come per alcuni neopositivisti statunitensi del calibro di E. Nagel – ogni autentico problema di filosofia della scienza consisteva nell'essere costruito come un problema secondo la "struttura logica" delle scienze, piuttosto che secondo l'evoluzione storica dei concetti scientifici, o degli elementi storici contingenti della scoperta scientifica. Probabilmente questa prospettiva risentiva, tra le altre cose, della distinzione proposta da H. Reichenbach tra "contesto della scoperta" e "contesto della giustificazione": i processi della scoperta e gli sviluppi empirici della vita della scienza – sia le vicissitudini biografiche dei vari scienziati, sia la storia collettiva dei gruppi scientifici – dovevano essere oggetto delle scienze sociali e del comportamento, e non avevano niente a che fare con la filosofia della scienza. Quest'ultima poteva cominciare soltanto quando insorgessero problemi di giustificazione; vale a dire, quando l'attività scientifica fornisse materiale per la formulazione di un argomento esplicito, la cui validità, forza di evidenza e cogenza potesse assoggettarsi ad un esame logico. Al pari di Euclide, il filosofo della scienza doveva cercare di formalizzare le strutture logiche delle scienze naturali, così da rendere intellettualmente evidenti le credenziali di queste scienze. Le preoccupazioni principali di una filosofia della scienza così intesa riguardavano pertanto l'assiomatizzazione delle teorie, il calcolo delle probabilità, la "teoria della conferma", ed altre procedure tecniche di analisi delle relazioni formali fra gli enunciati scientifici4. I concetti scientifici venivano presi per certi, estendendo

anche ai concetti delle scienze naturali il tentativo di G. Frege di risolvere i concetti matematici in termini puramente logici.

Tali filosofi accompagnarono a questo programma positivo di grande influsso, un programma negativo. Esso riguardava, nel complesso, una semplice regola: la proibizione di confondere le conclusioni formali o logiche – ovvero le conclusioni "razionali" – con materiali empirici – ovvero leggi materiali "non razionali" o addirittura "irrazionali". Si pensava che la fallacia genetica5 fosse il principale nemico del filosofo della scienza, in

quanto responsabile della contaminazione tra origini storiche e giustificazioni logiche.

Possiamo riassumere la duplicità di aspetti dell'approccio neopositivista alla filosofia della scienza in tre punti. Le convinzioni di fondo erano: 1) che un attento esame analitico delle argomentazioni che emergono nel "contesto della giustificazione" scientifica metterà in luce che la scienza naturale, praticata in modo proprio, deve disporre di un canone, di un

4 Ecco alcuni classici di questa tradizione: Carnap (1950), Hempel (1965), Nagel (1961). 5 Cfr. Cohen e Nagel (1934).

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"metodo"; 2) che le procedure fondamentali di questo metodo possono essere appropriatamente espresse in algoritmi formali, che correlino le osservazioni empiriche della scienza alle proposizioni teoretiche, nei termini delle quali le prime devono essere spiegate; e 3) che la "razionalità" delle scienze naturali risiede nel loro conformarsi a questo insieme di procedure formalmente valide.

L'intento positivo di questa filosofia della scienza consisteva nello stabilire il contenuto del metodo. Quello negativo consisteva nel mettersi al riparo dalle forme di fallacia che potevano altrimenti distrarre dalla struttura formale in senso proprio della scienza. Ciò che univa questi due elementi era una comune ambizione: dimostrare la razionalità essenziale del metodo scientifico e fornire una illustrazione analitica di questa "razionalità" in termini algoritmici.

Questa illustre tradizione filosofica di ricerca venne affiancata, a partire dagli anni Trenta, dal razionalismo critico, che aveva in K. R. Popper il suo fondatore e principale esponente. Il razionalismo critico circoscriveva quale questione centrale della filosofia della scienza "il problema dell'accrescersi della conoscenza"6; e dando per scontato che la conoscenza per

eccellenza fosse quella di tipo scientifico, esso si prefiggeva lo scopo di formulare un modello razionale della scienza che avesse come pilastri l'epistemologia normativa, il falsificazionismo e lo scetticismo induttivo. Pure ponendosi in aperto contrasto con il Neopositivismo classico – ne sono prova le critiche rivolte al principio di verificazione ed al principio di induzione – esso riproponeva le tre convinzioni di fondo sopra esposte; nello specifico Popper rielaborava i contenuti del metodo scientifico neopositivista senza metterne in dubbio la portata epistemologica. Si dava cioè al metodo una forma "un po' meno algoritmica"7 – ma comunque non priva di rigore logico – e contemporaneamente si

riaffermava che la razionalità delle scienze naturali risiede nel loro conformarsi ad un "canone", un insieme di procedure razionalmente valide. Ma qual era il fondamento di tale metodo? Popper, riflettendo sugli scopi della filosofia delle scienza, giunse alla conclusione che l'epistemologia è una disciplina normativa8, ovvero una disciplina che definisce un

modello di acquisizione della conoscenza scientifica composto da regole razionalmente fondate, le quali, se seguite, produrranno buona scienza. Per quel che concerne la natura della scienza e della metodologia si tratta di un'ottica convenzionalista: si pensa infatti che

6 Cfr. Popper (1934), trad. it. pp.XXXIV segg.

7 Basta pensare al metodo per "congetture e confutazioni". Cfr. Popper (1963). 8 Popper non è l'unico a tentare questa via. Cfr. Feyerabend (1962).

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non vi sia alcun dato di fatto riguardo allo scopo della scienza, né tanto meno riguardo a quali regole metodologiche gli scienziati seguano realmente. La scienza deve essere considerata dal punto di vista di diversi ideali, ciascuno dei quali è in grado di generare un'immagine differente dell'impresa scientifica. Il ruolo del filosofo della scienza, quindi, non è quello di adattare l'immagine della scienza ai dati di fatto della pratica scientifica, ma piuttosto di adattare l'immagine della scienza all'insieme degli ideali scientifici. Una prospettiva di questo tipo – forse già presente nell'orizzonte filosofico del Neopositivismo – ha per lungo tempo determinato l'esclusione della storia della scienza dalla riflessione epistemologica; allo stesso tempo ha pesantemente influenzato il lavoro storiografico di gran parte degli storici della scienza.

Si deve pensare che, soprattutto nell'ambiente accademico anglosassone9, la storia della

scienza era ancora un campo nuovo, quantomeno come disciplina strutturata e stabilita in modo formale. La maggior parte degli storici inglesi ed americani erano avvezzi a scrivere di storia economica, politica, ed anche culturale; consideravano tuttavia la storia sociale, la storia della scienza e la storia delle idee come una materia poco adatta ad uno studio serio e approfondito.

Da quando la storia della scienza cominciò a decollare, fra gli studiosi direttamente interessati si sviluppò una generale concordanza di vedute intorno ai temi propri della ricerca del settore. In particolare, essi incentrarono la discussione sui risultati "interni" allo sviluppo concettuale delle varie scienze naturali. Fecero, ad esempio, indagini intorno al tipo di evidenza e di argomentazioni; cercarono di stabilire chi per primo avesse pubblicato scritti inerenti ad un campo particolare di ricerca; cominciarono a studiare il contesto culturale scientifico all'interno del quale si erano formate idee scientifiche nuove e rivoluzionarie.

Nonostante l'esempio di Koyrè, esplicitamente citato da Kuhn, ed alcuni altri storici (Butterfield10 e Lovejoy11 su tutti), la storia della scienza di questi anni si configurava come

la trasposizione storiografica degli assunti della filosofia della scienza di stampo neopositivista. G. Sarton, ad esempio, si atteneva ad una sorta di empirismo ingenuo dei compiti e dei metodi della scienza naturale. Egli non avrebbe mai riconosciuto al pensiero filosofico la possibilità di fornire contributi al progresso della scienza. Secondo il suo punto

9 In Francia le cose andavano diversamente. Autori come Duhem prima, Bachelard e Canguilhem poi, si dimostrano nei confronti dell'integrazione tra storia della scienza e filosofia della scienza e degli studi interdisciplinari molto più aperti dei loro colleghi anglosassoni. Cfr. Castelli Gattinara (1996).

10 Cfr. Butterfield (1949). 11 Cfr. Lovejoy (1936).

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di vista12 lo scienziato doveva accostarsi ai fatti osservati della natura con una attitudine

mentale libera da pregiudizi, cosicché tali fatti potessero "parlare da soli". La storia del pensiero scientifico, nelle sue mani, diventava una testimonianza dell'onesto sforzo razionale degli empiristi di attenersi a semplici regole metodologiche. Ai suoi occhi, come a quelli dei neopositivisti logici, l'osservazione attenta e la deduzione valida garantivano da sole il successo; e la razionalità della scienza consisteva nel riconoscimento e nel rispetto dei canoni di inferenza scientifica, fossero questi formalizzabili in senso stretto o meno.

Gli storici ed i filosofi della scienza degli anni cinquanta, pur astenendosi da qualsiasi collaborazione reciproca, risentivano indistintamente l'influenza di una concezione neopositivista del metodo scientifico. Se il compito della filosofia era quello di stabilire l'organo formale della filosofia, il compito della storiografia scientifica consisteva nel mettere a punto "ricostruzioni razionali" delle conquiste scientifiche del passato. In altre parole, lo storico della scienza doveva dedicarsi a rintracciare ed ordinare le tappe intellettuali attraverso le quali gli scienziati del passato riuscirono a costruire l'edificio del sapere scientifico che oggi conosciamo13.

Ad un certo punto, verso la metà degli anni Sessanta, le autolimitazioni imposte tanto dagli storici quanto dai filosofi della scienza, vennero tacitamente rimosse. Delineare il motivo di tale cambiamento è piuttosto complicato; si può comunque individuare retrospettivamente un riposizionamento del centro di attenzione della filosofia della scienza dalla "struttura" delle teorie scientifiche alla "dinamica" della trasformazione scientifica. Per i neopositivisti era andato perfettamente bene sviluppare un canone meramente formale e astratto di logica induttiva delle scienze naturali, e ciò fintanto che nessuno chiedeva come questo insieme di canoni formali potesse essere utilizzato nelle applicazioni specifiche alla vita reale della prassi scientifica. Allo stesso modo, l'elaborazione di un modello normativo di acquisizione della conoscenza scientifica poteva giungere a compimento solo esimendosi dal controllare se gli ideali scientifici sbandierati in nome della razionalità avessero un

12 Tale punto di vista antifilosofico è ravvisabile pressoché in tutte le sue opere, da Sarton (1927) a Sarton (1952).

13 È questa l'impostazione programmatica della storiografia whig: una modalità di approccio alla storia della scienza che seleziona idealisticamente solo i successi, in un percorso di conoscenza visto come cumulativo e progressivo, e che omette i fattori contingenti implicati nella produzione del sapere scientifico. L'uso dell'aggettivo whig in riferimento ad una certa interpretazione storiografica si rifà al classico Butterfield (1931) in cui viene coniata la fortunata espressione whig historiography, nel senso di "scrittura della storia al di fuori della storia" (unhistorical history writing); una storia che legge il passato selezionandone il materiale in funzione del suo valore nel presente. Per un'analisi della sua applicazione alla storiografia della scienza cfr. Kragh (1987).

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riscontro effettivo nella prassi scientifica. Ma esattamente questo cominciava ora ad esser posto in questione; non il mero quesito se gli algoritmi formali della "teoria della corroborazione" o le regole del metodo falsificazionista fossero all'applicazione pratica idonei così come venivano posti – ben pochi filosofi della scienza interessati avevano mai preteso una cosa del genere – bensì se esistesse una qualche possibilità in linea di principio di ristrutturarli in termini compatibili con le conclusioni concettuali con cui effettivamente si trovavano a fare i conti gli scienziati nel contesto delle loro attività professionali. Questa diventò la questione cruciale della filosofia della scienza, ed era questione che avrebbe potuto essere risolta soltanto prendendo in seria considerazione la testimonianza della storia.

Affrontando il tema della trasformazione scientifica da un punto di vista storico gli studiosi si resero conto di due grandi limiti della prospettiva neopositivista. In primo luogo cominciò ad apparire evidente che l'approccio neopositivista era fondato su alcuni assunti di base molto discutibili: ad esempio, la possibilità di isolare fatti e resoconti osservazionali fondamentali in modo del tutto indipendente da qualsiasi considerazione teorica, pervenendo così a formulare enunciati empirici rigorosi che avessero la funzione di fondamenti epistemologici della scienza14. In secondo luogo il tipico interesse neopositivista nei

confronti della "predizione" venne integrato da un attento interesse per la "spiegazione"; questo perché, indubbiamente, non tutte le predizioni sono scientifiche e non tutta la scienza è fatta di predizioni15. Il prototipo esemplare del passaggio da un esplicando

dell'osservazione ad un esplicante teorico consisteva, nella concezione neopositivista, nell'elaborazione di un enunciato teorico universale del tipo: «Tutti i corvi sono neri». Adesso però si poneva il problema se questo tipo di modello avesse reale rilevanza per le "spiegazioni" dell'attività scientifica. Sembrava infatti che si potesse giungere ad una autentica spiegazione solo procedendo oltre le implicazioni semplici e le relazioni formali, mettendo in connessione il colore dell'uccello con fatti di genere completamente diverso: ad esempio l'ambiente di vita, le selezioni naturali subite dagli ascendenti nell'ordine evolutivo della specie attuale, fatti concernenti la struttura fisica dei corvi. Proporre una "spiegazione scientifica" significava quindi porsi su un piano concettuale differente, che implicava un tipo di reinterpretazione teoretica i cui valori non potevano essere racchiusi in un algoritmo puramente formale.

La prospettiva neopositivista non fu l'unico bersaglio. Ci si rese conto, studiando le

14 Cfr. Hanson (1958), Toulmin (1953), Feyerabend (1962). 15 Cfr. Toulmin (1961).

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rivoluzioni scientifiche, dei limiti del razionalismo critico e del suo modello di sviluppo scientifico "cumulativo". L'analisi di casi storici come l'esperimento della torre di Galileo, la critica della complementarietà da parte di Bohr, l'analisi della simultaneità ad opera di Einstein o la resistenza incontrata dalle equazioni di Maxwell, mostrò le carenze di un modello per il quale le vecchie teorie fossero contenute nelle nuove teorie, in virtù di un maggiore "contenuto empirico" di queste ultime rispetto alle prime. Invece di un rapporto di inclusione, si venne a consolidare – sotto il nome di "incommensurabilità"16 – un nuovo

modo di intendere la relazione tra teorie successive, una relazione di mutua esclusione determinata dal mutamento di schemi concettuali, procedure metodologiche e modi percettivi.

Contemporaneamente allo sviluppo di questi problemi epistemologici, gli storici della scienza estesero la loro sfera di interessi nelle più varie direzioni. In primo luogo, essi si orientarono ad indagini di carattere storico-sociologico17: presero così in considerazione le

istituzioni della scienza professionale, nonché l'influenza di fattori istituzionali sulla natura del lavoro scientifico. Inoltre, abbandonarono prescrizioni epistemologiche di tipo metatemporale e modelli di giudizio rigidi e precostituiti. In terzo luogo, si opposero al pesante pregiudizio di G. Sarton nei confronti della filosofia. All'International Congress of History of Science tenutosi ad Ithaca, New York, nel 1967, venne ufficialmente dibattuto il problema di una possibile integrazione tra storia della scienza e filosofia della scienza, ed a partire da quel momento la loro collaborazione divenne un fatto abituale, anche se non privo di problemi. È in questo contesto che l'opera di T. S. Kuhn ha avuto una efficacia notevole e duratura; e ciò sia perché essa rappresentava un esempio, sollecitando gli studiosi a confrontare le risultanze della storia della scienza con quelle che egli stesso veniva formulando in un linguaggio filosofico, sia per opposizione, in quanto storici e filosofi venivano chiamati ad unire le proprie forze nel tentativo di sottoporre le sue formulazioni iniziali ad una critica efficace.

L'interesse dimostrato verso la dinamica delle trasformazioni scientifiche, nell'interazione continua tra filosofia della scienza e storia della scienza, ha dato vita ad un reale cambiamento nei confronti dell'idea di "razionalità". Si è venuto a formare un ampio spettro

16 Cfr. Kuhn (1962), Feyerabend (1975).

17 Cfr. fra gli altri Ben-David (1971). Quello degli studi sociali della storia della scienza era, comunque, un terreno già abbastanza fertile. Ad esempio alla fine degli anni Trenta si concedeva ad un sociologo professionista come R. Merton di dedicarsi, senza ricevere particolari rimproveri, allo studio "esterno" delle condizioni sociali della scienza. Come prova del valore storico del suo lavoro, si può ricordare che Merton (1938) comparve sulla rivista di Sarton, Osiris.

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di posizioni, tutte più o meno caratterizzate da una concezione funzionale18 (o "contingente")

della razionalità scientifica. Ad un estremo di questo spettro si sono collocati coloro che hanno insistito sull'abbandono dell'interesse, prima troppo esagerato, nei confronti della razionalità della scienza; nello specifico si sono elaborati modelli di sviluppo della scienza che evitassero di far riferimento a fattori epistemici, riducendo il "razionale" ad un insieme di elementi eterogenei più o meno soggettivi, quali le abilità retoriche dei ricercatori, gli interessi individuali e di gruppo, i giudizi ideologici ed estetici. Così facendo si sono dischiuse nuove prospettive di indagine a carattere interdisciplinare che hanno notevolmente ampliato i contorni della filosofia della scienza. Contemporaneamente, grazie alla svolta storicista, si è andato consolidando un nuovo modo di fare filosofia della scienza. Nel passaggio da una visione atemporale ad una visione temporale della scienza, l'epistemologo ha reinterpretato il proprio ruolo ed il proprio metodo in una chiave descrittiva e naturalistica anziché normativa.

Prima di procedere nell'esposizione della condizione teorica responsabile dell'abbandono di interesse nei confronti della razionalità della scienza – la tesi dell'incommensurabilità – è pertanto necessario soffermarsi su questo nuovo modo di fare filosofia della scienza; un modo, come vedremo nei prossimi paragrafi, non privo di problemi.

1.2. Integrazione e metodo

Dalla metà degli anni Sessanta in poi la necessità di una integrazione tra storia della scienza e filosofia della scienza diventò, come abbiamo accennato, una tendenza piuttosto condivisa. Tuttavia tale necessità non fu di certo accompagnata da un accordo generale sui modi di integrazione tra le due discipline. In molti si resero conto dei limiti delle prospettive neopositiviste e del razionalismo critico nel rappresentare la scienza così come essa si era andata sviluppando, e l'analisi di casi storici paradigmatici venne utilizzata per modificare quelle prospettive. In questo contesto sorsero almeno due necessità. In primo luogo la

18 Cfr. Toulmin (1971), (1977). "Per quel che riguarda la ricerca scientifica, ciò che ne costituisce la caratteristica di razionalità non sarà più, da questo punto di vista, la conformità del ragionamento scientifico a canoni formali costanti, ma piuttosto la modalità in ordine alla quale gli scienziati mutarono le loro procedure e modelli argomentativi, in un particolare settore della teoria, dell'indagine o del dibattito al fine di adattarli meglio alle esigenze del mutamento dei loro problemi medesimi". Cfr. Toulmin (1977), trad. it. pp. 119-120.

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necessità di delineare i confini della storia della scienza e della filosofia della scienza intese come discipline, al fine di mostrare i loro possibili rapporti reciproci; in secondo luogo la necessità di elaborare un programma metodologico di analisi della storia della scienza capace di integrare storia e filosofia della scienza. Nel presente paragrafo ci soffermeremo su due esempi illustri, nella speranza di rappresentare i problemi connessi a queste due necessità.

T. S. Kuhn, che incarnava la figura ''bicefala'' del filosofo-storico della scienza, ritornò sull'argomento dei rapporti tra storia della scienza e filosofia della scienza in un suo intervento alla Michigan State University nel Marzo 1968. Qui si distinguono due differenti metodi di analisi della scienza: da un lato il metodo storico, dall'altro il metodo filosofico. Questi due metodi, dice Kuhn, stanno tra loro in un rapporto di incommensurabilità:

Diventare un filosofo vuol dire, tra le altre cose, acquisire una tendenza mentale particolare verso la valutazione sia dei problemi sia delle tecniche attinenti alla loro soluzione. Imparare ad essere uno storico è anche acquisire una particolare tendenza mentale, ma il risultato delle due esperienze di apprendimento non è per nulla lo stesso. Né penso sia possibile un compromesso, poiché ciò presenta problemi analoghi a quelli di un compromesso tra l'anitra e il coniglio del ben noto disegno gestaltico. Per quanto la maggior parte delle persone possa facilmente vedere l'anatra ed il coniglio alternativamente nessun esercizio o sforzo oculare, per quanto grande, farà venire fuori un'anatra-coniglio19.

Tale rapporto di incommensurabilità, che deriva dall'esperienza accademica di Kuhn, si esplicita nella sostanziale differenza dei due metodi. Lo storico della scienza è interessato all'evoluzione delle idee scientifiche, dei metodi e delle tecniche, ed il suo fine consiste nell'elaborazione di una narrazione storica che, mostrando una connessione tra i fatti, produce comprensione. Lo storico non segue il modello scientifico delle leggi di copertura. Questo non significa che lo storico non abbia accesso a leggi o generalizzazioni, e nemmeno che non possa usare tali generalizzazioni per le proprie narrazioni storiche; ma piuttosto che tali leggi non sono essenziali per la capacità esplicatoria della storia20. Il suo è un metodo

19 Cfr. Kuhn (1977b), trad. it. p. 8.

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analogico. Egli opera allo stesso modo di un bambino cui è stato regalato un puzzle di pezzi quadrati, con la sola differenza che, rispetto al bambino, lo storico ha molti più pezzi a sua disposizione. Il compito dello storico è "scegliere da essi (i pezzi del puzzle, ndr) un insieme che possa essere combinato per fornire gli elementi di ciò che, nel caso del bambino, sarebbe un disegno di oggetti riconoscibili connessi in modo plausibile, e per lo storico ed il suo lettore è una narrazione plausibile che comprende motivazioni e comportamenti riconoscibili"21. Come il bambino, lo storico all'opera deve obbedire a regole che non

possono essere violate, ad esempio non possono esservi spazi vuoti nel mezzo del puzzle e della narrazione; ma vi sono anche delle regole aggiuntive: nella narrazione storica niente può contrastare con i fatti che lo storico ha deciso di omettere dalla sua storia, ed inoltre la storia deve adeguarsi a tutte le leggi della natura e della società che lo storico conosce.

Il compito del filosofo della scienza, al contrario, è quello di costruire una argomentazione anziché una narrazione.

I filosofi sistematicamente criticano l'uno i lavori dell'altro ed i lavori dei loro predecessori con profondità ed acutezza. La maggior parte delle loro discussioni e pubblicazioni è in questo senso socratica: è un confronto di concezioni costruite attraverso il reciproco raffronto critico e l'analisi22.

Si tratta di un metodo che innanzitutto isola gli elementi centrali di una posizione filosofica, e successivamente cerca di criticarli e svilupparli. In una prospettiva di questo genere – che potremmo definire metastorica – l'attenzione dello studioso si concentra sulle "idee definitive" anziché sulla genesi, lo sviluppo, ed il mutamento delle idee.

Nonostante le sostanziali differenze presentate dai due metodi, Kuhn si auspica tra storia della scienza e filosofia della scienza un dialogo sempre più attivo. Ciò deve avvenire per alcuni motivi: 1) Lo storico della scienza deve saper "maneggiare" concetti filosofici, dal momento che fino alla fine del XVII secolo la maggior parte della scienza era filosofia, 2) La storia della scienza fornisce il più efficace e disponibile tra i parecchi metodi possibili con i quali il filosofo può familiarizzarsi più da vicino con la scienza, 3) le narrazioni storiche della scienza ci forniscono un ritratto esplicativo della scienza differente rispetto a

(1966).

21 Cfr. Kuhn (1977b), trad. it. p. 20. 22 Cfr. Kuhn (1977b), trad. it. p. 12.

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quello elaborato dalla maggior parte dei filosofi della scienza23, nello specifico una visione

olistica delle teorie del tutto differente dalla visione standard che le ritrae come un insieme o una raccolta di leggi. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare il dialogo tra storia della scienza e filosofia della scienza non deve assolutamente trasformarsi in una integrazione delle due discipline: "raccomando – dice Kuhn – che la storia e la filosofia della scienza proseguano come discipline separate. Ciò che è necessario ha meno probabilità di essere prodotto da un matrimonio che da un vivace dibattito"24. Proprio per questo motivo il

richiamo ad una collaborazione non ha come conseguenza l'elaborazione di un programma metodologico di analisi filosofica della storia della scienza. Sembra che i campi di indagine, i problemi, ed i metodi della storia e della filosofia della scienza – proprio perché distinti – non possano confluire in una vera e propria integrazione in grado di riformare i modi di analisi della scienza. Kuhn, in sostanza, si pronuncia in favore di un dialogo, espone i motivi dell'auspicabilità di tale dialogo, ma non giunge alle estreme conseguenze; preferendo il dialogo egli inibisce la possibilità di una integrazione, e così facendo blocca sul nascere il tentativo radicale di fondare un nuovo modo di fare filosofia della scienza25.

P. K. Feyerabend, dal canto suo, affermando che l'esistenza dell'incommensurabilità è un "problema storico fattuale" e non un problema di possibilità logica, viene elaborando un nuovo modo di fare filosofia della scienza: il metodo antropologico26.

Il mio ragionamento presuppone, ovviamente, che il metodo antropologico sia il metodo corretto per lo studio della struttura della scienza (e anche di qualsiasi altra forma di vita)27.

Quando si appella a tale metodo Feyerabend menziona soltanto l'illustre antropologo inglese E. E. Evans-Pritchard. Il metodo presentato da Feyerabend è costituito da tre fasi: in primo luogo l'antropologo deve apprendere il linguaggio e le abitudini sociali elementari del gruppo che intende studiare e deve indagare in quale modo esse siano connesse ad altre attività, successivamente deve individuare delle idee-chiave ivi presenti e cercare di comprenderle, per ultimo è necessario il confronto della società e della cosmologia del

23 Kuhn qui si riferisce direttamente a C. G. Hempel. Cfr. Kuhn (1977b), trad. it. p. 15. 24 Cfr. Kuhn (1977b), trad it. p. 25.

25 Ci si potrebbe porre una domanda: seguendo la distinzione di Kuhn tra storia della scienza e filosofia della scienza, un'opera come The Structure of Scientific Revolutions in quale delle due discipline si colloca? 26 Cfr. Feyerabend (1975), trad. it. pp. 206-216.

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gruppo con quelle dell'antropologo. Ciò che più sembra interessare Feyerabend è la necessità che, nel seguire tale metodo, l'antropologo mantenga il processo di comprensione libero da interferenze esterne; che non cerchi cioè di piegare le idee-chiave connettendole a concetti familiari. Solo in questo modo infatti può essere garantita una piena comprensione dell'altro ed una conoscenza che sia più di un riflesso di wishful thinking. Feyerabend descrive così il processo di comprensione delle idee-chiave:

Egli (l'antropologo, ndr) compie questo tentativo nello stesso modo in cui ha acquisito in origine la comprensione della propria lingua […] Egli interiorizza le idee, in modo che le loro connessioni si incidano fermamente nella sua memoria e nelle sue reazioni e possano essere prodotte a volontà. […] Questo processo deve essere mantenuto libero da interferenze esterne. Per esempio, il ricercatore non deve cercare di padroneggiare meglio le idee della tribù assimilandole a idee che conosce già, o che trova più comprensibili o più precise. In nessun caso non deve tentare una "ricostruzione logica". Un tale procedimento lo legherebbe a ciò che è già noto, o a ciò che è preferito da certi gruppi, e gli impedirebbe per sempre di comprendere l'ideologia sconosciuta che sta esaminando28.

La traduzione, che subentra solo nella terza ed ultima fase, non rappresenta un ausilio alla comprensione ma piuttosto si configura come un impedimento. L'antropologo, al fine di evitare una comprensione pregiudiziale e sommaria, deve comprendere la tribù che si trova di fronte imparando la nuova lingua per immersione, un po' come imparano a parlare i bambini.

Al di là dei problemi linguistici ed empirici legati alla possibilità di apprendimento di una lingua "partendo da zero", la prospettiva di uno studio antropologico della struttura della scienza rivela un importante problema filosofico. È davvero possibile analizzare la storia della scienza in modo puramente descrittivo? Ovviamente si può stilare una cronologia di ciò che gli scienziati hanno fatto in passato, ma una ricostruzione storica di tal genere non avrebbe alcun valore esplicativo, non ci direbbe niente sulla struttura della scienza, sarebbe un catalogo anziché una sintesi. Kuhn, forse proprio perché consapevole di questa difficoltà,

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raccomanda che la storia della scienza e la filosofia della scienza proseguano come discipline separate ma in costante dialogo. Feyerabend cerca di andare oltre questa prospettiva elaborando un programma metodologico di analisi filosofica della storia della scienza capace di integrare storia e filosofia della scienza; tuttavia si trova di fronte alla difficoltà di immaginare un filosofo-antropologo che, come un bambino, ha la mente del tutto sgombra da pregiudizi, un filosofo-antropologo che studia la scienza e la sua storia senza far riferimento ad alcun ideale della conoscenza scientifica. Il metodo antropologico sembra allora ricalcare il tentativo neopositivista di isolare fatti e resoconti osservazionali fondamentali in modo del tutto indipendente da qualsiasi considerazione teorica. Così come lo scienziato, agli occhi dei neopositivisti, era capace di formulare enunciati osservativi trasparenti, allo stesso modo il filosofo-antropologo sarebbe capace di formulare enunciati storici esplicativi liberi da qualunque considerazione normativa.

Il metodo antropologico – pur con tutti i suoi limiti – esprime la necessità di un'analisi fattuale della scienza che eviti ogni considerazione epistemologica forte, ogni schema precostituito dello sviluppo della scienza. Nel perseguire questo obiettivo pare dimenticarsi che ogni tentativo di analisi, sia esso effettuato da storici o filosofi di professione, ha bisogno di uno sguardo d'insieme dettato dall'apprendimento di un metodo specifico di analisi e da una specifica immagine della scienza. Nei prossimi capitoli avremo modo di approfondire alcuni di questi metodi ed alcune di queste immagini. Per il momento ci pare importante sottolineare che la distinzione tra epistemologia descrittiva ed epistemologia normativa non è così netta come potrebbe sembrare, e che ogni metodo esplicativo di analisi della scienza si rapporta necessariamente ad una immagine della scienza più o meno definita.

1.3. Circolarità e finzioni

Si deve ricordare che Kuhn era pienamente consapevole delle difficoltà inerenti al tentativo di tracciare una netta linea di confine tra epistemologia normativa ed epistemologia descrittiva. Ad un certo punto, nell'introduzione de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Kuhn si domanda se i casi storici di cui farà ampiamente ricorso possano legittimamente avere ripercussioni sulla trasformazione concettuale della scienza.

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Senza dubbio alcuni lettori si saranno già chiesti se uno studio storico possa avere ripercussioni sul genere di trasformazione concettuale cui qui si tende. Abbiamo a disposizione un intero arsenale di dicotomie che ci impedisce di fare ciò. La storia – si continua a ripetere – è una disciplina puramente descrittiva. Le tesi suggerite sopra, invece, sono spesso interpretative e talvolta normative. Inoltre molte delle mie generalizzazioni concernono la sociologia o la psicologia sociale degli scienziati; tuttavia, almeno alcune delle mie conclusioni appartengono tradizionalmente alla logica o alla epistemologia; […] Che cosa, se non una profonda confusione, può essere indicata da questa mescolanza di campi e pertinenze diversi?29

Kuhn ritorna sull'argomento anche al termine del Poscritto, dove affronta più da vicino la dicotomia tra modi descrittivi e modi normativi.

Alcuni lettori del mio testo originale hanno notato che io passo ripetutamente dai modi descrittivi a quelli normativi e viceversa, […] Alcuni critici sostengono che io confonda la descrizione con la prescrizione, violando l'antico teorema filosofico che dice: l'essere non può implicare il dover essere. Questo teorema è diventato, in pratica, una frase fatta, e non è più rispettato dovunque. Numerosi filosofi contemporanei hanno scoperto importanti contesti nei quali ciò che è normativo e ciò che è descrittivo sono inestricabilmente mescolati30.

Anche Feyerabend, pur affermando che l'esistenza dell'incommensurabilità è un "problema storico fattuale", passa continuamente, nel suo testo più famoso, dai modi descrittivi ai modi normativi (e viceversa). Chiedendosi se le regole del razionalismo critico riproducano uno schema corretto dell'accrescimento della conoscenza, Feyerabend non si limita a porre la domanda se sia possibile avere al medesimo tempo una scienza quale la conosciamo e quelle regole, ma anche se tali regole siano desiderabili. La prima domanda "può soddisfare un

29 Cfr. Kuhn (1962), trad. it. p. 26. 30 Cfr. Kuhn (1962), trad. it. p. 248.

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filosofo scolastico, che osserva la vita attraverso gli occhiali dei suoi problemi tecnici e riconosce l'odio, l'amore, la felicità solo nella misura in cui compaiono questi problemi"31;

ma un filosofo della scienza che considera gli interessi dell'uomo e, soprattutto, il problema della sua libertà, deve considerare la seconda domanda molto più importante della prima. Del resto anche il confronto tra questi due filosofi si sviluppa proprio all'interno di una prospettiva normativa. Feyerabend non solo accusa Kuhn di difendere un pericoloso monismo teorico e di confondere volutamente l'aspetto descrittivo con quello normativo32; a

questi punti si aggiunge la più vasta tematica della felicità dell'uomo, che, se può apparire a prima vista un problema etico, si rivela in realtà come un problema principalmente politico, in quanto non può essere risolto su un piano individuale, ma richiede una valutazione della sua dimensione collettiva. La felicità che ha in mente Feyerabend è definibile attraverso la nozione chiave di libertà: libertà di pensiero, libertà dal dogma, in una parola – anzi in due – "anarchismo epistemologico". La visione anarchica di Feyerabend appare in netto contrasto con la "scienza matura" descritta da Kuhn; la società chiusa degli scienziati normali non è compatibile con la società aperta auspicata da Feyerabend33.

Proprio a causa di questa oscillazione continua tra modo descrittivo e modo normativo, è stata avanzata l'idea che quella tra filosofia della scienza e storia della scienza sia una collaborazione dettata da un rapporto di reciproca convenienza34. Quando il filosofo formula

assunzioni generali di tipo metodologico o strutturale sulla scienza, e poi cerca di legittimare le proprie specifiche assunzioni esponendo alcuni casi storici, niente ci garantisce che l'analisi dei casi storici non sia sistematicamente influenzata dalle assunzioni generali, o che i casi storici siano stati selezionati in virtù della loro coerenza alle assunzioni che si stanno proponendo. Allo stesso modo, quando lo storico fornisce una narrazione storica della scienza, non vi è alcuna garanzia che tale narrazione sia lo specchio fedele dei procedimenti adottati dagli scienziati; essa infatti potrebbe essere tacitamente influenzata dalle assunzioni generali che andranno a costituirne il ritratto storico. In entrambi i casi, come si può facilmente notare, ci troviamo di fronte ad un procedimento circolare. Tale procedimento introduce due rischi: innanzitutto quello 1) di fornire delle ricostruzioni della scienza

31 Cfr. Feyerabend (1975), trad. it. p. 142.

32 Cfr. Feyerabend (1970). Nell'ottica di Feyerabend il proprio lavoro non sarebbe affetto dalla confusione concettuale tra modo normativo e modo descrittivo perché la descrizione fattuale della scienza e la rappresentazione della scienza ideale occupano nelle proprie riflessioni due momenti distinti. In realtà, a mio avviso, Feyerabend confonde continuamente i due modi, al punto che si può legittimamente pensare che le descrizioni fattuali siano delle proiezioni delle rappresentazioni ideali.

33 Cfr. Feyerabend (1970), (1980). 34 Cfr. Giere (1973).

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tutt'altro che plausibili, delle finzioni (ad esempio ricostruzioni che mettono seriamente in crisi il fattore epistemico della "razionalità"), inoltre quello 2) di utilizzare la storia della scienza come un "orpello retorico" in grado di rafforzare il grado di plausibilità della ricostruzione che si vuol propagandare35. Come abbiamo notato, Feyerabend cerca di

rompere il procedimento circolare inerente ad ogni approccio storicista alla filosofia della scienza elaborando il metodo antropologico; Kuhn, invece, considerando il procedimento circolare tutt'altro che vizioso, evita di formulare un nuovo metodo esprimendosi in favore di una collaborazione tra storia e filosofia della scienza capace di mantenere separate le due discipline.

Fin dall'inizio degli anni Sessanta si vennero sviluppando una serie di posizioni critiche nei confronti della prospettiva storicista36. Ci pare opportuno, a questo punto, riportarne

almeno due. Esse appartengono a filosofi della scienza che pur avendo spesso fatto ricorso, nel corso delle loro riflessioni, ad episodi storici, hanno cercato di limitare il ruolo della storia nelle ricostruzioni della scienza.

N. R. Hanson – che in seguito avrebbe prontamente criticato il metodo utilizzato da Kuhn in La struttura delle rivoluzioni scientifiche perché imperfetto da un punto di vista logico37

si espresse in modo diretto sull'argomento proprio in quegli anni, distinguendo tre differenti ambiti di collaborazione tra storia della scienza e filosofia della scienza. Innanzitutto vi sono 1) le narrazioni storiche che si concentrano sull'ampio lavoro degli scienziati (elaborazione delle teorie, organizzazione ed evoluzione degli esperimenti, appartenenza a specifiche tradizioni di ricerca, giusto per citare alcuni aspetti specifici) e 2) le narrazioni storiche che si focalizzano sulla genesi e sullo sviluppo di alcuni concetti scientifici (ad esempio il concetto di legge, causa, deduzione, spiegazione, scoperta). Nel primo caso lo storico della scienza necessita di uno sguardo filosofico d'insieme, non sempre esplicito, che "controlla la selezione dei momenti salienti, il loro allineamento con i dati a disposizione, la propria

35 Nei primi scritti di Feyerabend la storia della scienza sembra assumere proprio questo ruolo. Nonostante il gran numero di esempi storici riportati "l'effettiva pratica scientifica non può essere la nostra ultima autorità. Dobbiamo scoprire se la coerenza e l'invarianza di significato o la tesi della stabilità siano condizioni desiderabili, e ciò in maniera del tutto indipendente da chi le accetta e da quanti premi nobel sono stati vinti con il loro aiuto". Cfr. Feyerabend (1963), trad. it. p. 23. Dichiarazioni simili si trovano in Feyerabend (1964).

36 Nel presente capitolo si sono analizzate esclusivamente le posizioni dei più importanti esponenti della "nuova filosofia della scienza". Tuttavia bisogna ricordare che il dibattito sui rapporti tra storia e filosofia della scienza ha dato vita, nel corso degli anni Settanta, ad una imponente bibliografia, ed ancora oggi non si è affatto esaurito. Per una esposizione classica dei problemi e delle posizioni cfr. McMullin (1970), Giere (1973) e Burian (1973; 2001).

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concezione dell'insieme degli obiettivi dell'impresa scientifica e la propria valutazione riguardo gli eroi ed i loro oppositori nella storia della scienza"38; nel secondo caso lo storico

della scienza non può limitarsi ad uno studio storico-genetico ma si deve sforzare nel fornire un'analisi logica dei termini chiave di cui si vuol ricostruire la genesi e lo sviluppo storico. Vi è poi un ulteriore ambito di collaborazione; si tratta 3) dell'analisi degli "argomenti" degli scienziati. Dal momento che si deve giudicare la correttezza delle argomentazioni degli scienziati, e dal momento che la filosofia della scienza è "un'analisi ed una valutazione delle procedure razionali ed una giustificazione logica di ciò che gli scienziati fanno e dicono di fare"39, in questo particolare ambito l'apporto della filosofia della scienza intesa come logica,

è, secondo Hanson, essenziale. La storia della scienza si configura allora, nel contesto dell'analisi degli argomenti, come il luogo in cui sono depositati i problemi; essa presenta delle ''occasioni'' per l'analisi filosofica e tali occasioni sono caratterizzate dall'ambiguità, dal fatto di porre dei problemi che gli scienziati si apprestano a risolvere. Nell'ambito dell'analisi delle argomentazioni il metodo corretto da seguire è quello di delineare accuratamente una perplessità che non è messa in discussione da nessuno (sulla quale gli storici della scienza non possono litigare), e poi condurre una analisi logica rigorosa. Come si può facilmente prevedere, in una prospettiva del genere, la storia della scienza non ha alcuna rilevanza logica per la filosofia della scienza. E la filosofia della scienza, contemporaneamente, assume una dimensione esclusivamente "logicista", nel senso che il grado di probabilità che certifica la correttezza di una argomentazione viene calcolato attraverso il ricorso alla teoria della probabilità anzichè attraverso un'analisi storica delle argomentazioni. Dal momento che la collaborazione tra storia e filosofia della scienza racchiude – seppur con modalità differenti – tutti e tre questi ambiti, Hanson giunge alla conclusione che "la storia della scienza senza filosofia della scienza è cieca"40, e "la filosofia della scienza senza storia della

scienza è vuota"41.

Anche I. Lakatos illustra la relazione tra storia della scienza e filosofia della scienza utilizzando la "metafora del vedere". In un suo celebre scritto, prima di cominciare ad esporre casi storici, Lakatos enuncia una importante regola metodologica:

Nel compilare il resoconto di un caso storico, si dovrebbe, ritengo, adottare

38 Cfr. Hanson (1962), p. 574. N. R. Hanson chiama tale sguardo d'insieme weltphilosophie. 39 Cfr. Hanson (1962), p. 581.

40 Cfr. Hanson (1962), p. 575. 41 Cfr. Hanson (1962), p. 580.

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questo modo di procedere: 1) fare una ricostruzione razionale; 2) cercare di confrontare questa ricostruzione razionale con la storia reale e criticarle entrambe: la propria ricostruzione razionale per mancanza di storicità e la storia reale per mancanza di razionalità. Per questa ragione ogni studio storico dev'essere preceduto da uno studio euristico: la storia della scienza senza filosofia della scienza è cieca. In questa comunicazione non intendo proseguire sul serio fino al secondo stadio42.

Dal momento che "la storia della scienza senza filosofia della scienza è cieca", l'uso dei casi storici non ha come scopo quello di provare l'evidenza della propria teoria generale della conoscenza scientifica; essi piuttosto rappresentano delle illustrazioni storiche nel loro senso ordinario. In una sorta di esercizio di immaginazione storica43, Lakatos utilizza i casi storici

per dirci come le cose, secondo la sua teoria generale, sarebbero dovute andare, e non per illustrare come sono andate effettivamente. Infatti il confronto con la storia attuale avviene solo in un secondo momento; ed in più questo secondo momento non sembra nemmeno rivestire un ruolo così fondamentale, dal momento che Lakatos, nel testo appena citato, lascia cadere la questione. Le ricostruzioni razionali prendono l'avvio da una eterodossa nuova demarcazione tra "storia interna" e "storia esterna"44. La storia esterna si occupa

comunemente di fattori economici, sociali e tecnologici che non sono coinvolti direttamente nel contenuto di una scienza, ma che si ritiene influenzino o spieghino alcuni degli eventi nella storia della scienza. La storia interna è di solito la storia delle idee attinenti alla scienza e si occupa delle motivazioni dei ricercatori, dei loro modelli di comunicazione, e delle loro linee di filiazione intellettuale. La storia interna di Lakatos si pone a un estremo di questo spettro: essa esclude qualsiasi cosa appartenga al campo soggettivo e personale. In questo senso le ricostruzioni razionali sono esemplificazioni di una storia applicata: ovvero del passato applicato alla soluzione di un problema filosofico, e nello specifico un problema di filosofia della scienza. Semplificando, si potrebbe dire che il metodo di Lakatos è un metodo per problemi e congetture. Il problema è quello di caratterizzare internamente la crescita della conoscenza, analizzando esempi di questa crescita; la congettura è che l'unità della crescita consista in uno specifico modello di sviluppo della scienza costituito da un

42 Cfr. Lakatos (1970), trad. it. p. 214.

43 Non è un caso che Lakatos parli espressamente di ''imaginary case''. Cfr. Lakatos (1970), sez. 2a. 44 Cfr. Lakatos (1971).

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