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Dalla sociologia della cornice alla sociologia del contenuto

Da quanto emerso nel capitolo precedente, la prospettiva storicista ha inaugurato un nuovo modo di fare filosofia della scienza. Mettendo in luce i limiti epistemologici di ogni analisi logico-assiomatica della scienza essa ha rivalutato il ruolo della storia, intesa non solo in senso generale come la "cornice" all'interno della quale nascono e si sviluppano le idee scientifiche, ma anche e soprattutto come la dimensione essenziale del nucleo stesso della scienza, delle teorie e dei metodi di confronto e di valutazione delle teorie. Da questo atteggiamento generale sono scaturiti, come abbiamo già detto, due ordini di riflessioni. In primo luogo si è messa in crisi l'idea di una razionalità universale ed invariante, in favore di una immagine della razionalità "temporale" e "funzionale" (o "contingente"). In secondo luogo sono nati – proprio a causa di questa nuova immagine – metodi di analisi della scienza alternativi rispetto all'impostazione logico-assiomatica, ritenuta incapace di cogliere nel suo farsi la dinamica del mutamento scientifico.

L'invito ad una epistemologia descrittiva in grado di dire "che cosa è la scienza" e "che cosa fanno gli scienziati" è stato raccolto, a partire dalla metà degli anni Settanta, da alcuni storici, sociologi ed antropologi. Radicalizzando alcune intuizioni di Kuhn e Feyerabend – su tutte la "matrice sociale" e la "matrice costruttiva" della scienza – essi hanno avanzato l'ipotesi che non solo le regole del metodo, ma anche fatti e valori come la coerenza, il potere predittivo o la fecondità euristica delle teorie sarebbero in realtà inadeguati a spiegare il mutamento scientifico; al loro posto, dovrebbero essere invece considerate "forze motrici" del mutamento fattori sociali come gli "interessi socioeconomici" o la "negoziazione sociale". Questa ipotesi, comunemente nota come "tesi della ridondanza dei fattori epistemici", rappresenta allo stesso tempo una novità ed una minaccia. Da un lato infatti, essa favorisce lo sviluppo di indagini sociologiche ed antropologiche della scienza innovative e spregiudicate, dall'altro, svolgendo una critica assai aspra contro il modo di intendere la scienza dei filosofi e degli scienziati, mette in serio pericolo l'autonomia del sapere scientifico.

condividere l'atteggiamento di fondo di questi storici, sociologi ed antropologi. Introducendo la sua opera Ideologia e utopia, Mannheim scrive che lo scopo della sociologia della conoscenza è quello di studiare il concreto pensiero degli uomini, cercando di osservare in che modo esso funzioni nella vita pubblica e nella politica1. La concezione sociologica del

sapere dovrebbe correggere ed integrare le analisi puramente filosofiche del pensare, riconoscendo che vi sono molti aspetti di quest'ultimo che "non possono venire adeguatamente interpretati, finché le loro origini sociali rimangono oscure"2.

Per quanto si possano intuire delle somiglianze, la posizione di Mannheim è molto più debole rispetto a quella esposta sopra. Questo perché la sociologia della conoscenza, nella forma elaborata dal sociologo tedesco, non è applicabile al sapere scientifico. In questo senso la razionalità scientifica viene concepita come un sapere "naturale", oggettivo, solido, non contaminato dal senso comune né dai pregiudizi sociali. In quanto fondate su principi logico-sperimentali, le forme scientifiche di conoscenza vengono pensate come atte a rilevare la realtà così come essa è, confinando nell'ambito di conoscenze influenzate e deformate dai fattori sociali tutte le espressioni culturali di tipo non scientifico (mito, religione, filosofia, teorie politiche, ecc.). Vi è la tendenza a distinguere due ordini di credenze: da un lato le credenze "incontaminate" inerenti alle scienze fisiche e matematiche, dall'altro le credenze "ideologiche" inerenti ad espressioni culturali di tipo non scientifico.

Mannheim esprime in modo compiuto tale dicotomia:

Si può certo ammettere che la conoscenza formale è intelligibile a tutti e che il suo contenuto non è influenzato dall'elemento individuale e dalle sue origini storico-sociali. Ma, d'altra parte, è incontestabile che esiste un ampio settore di fatti, accessibile solamente a certi individui o in certi periodi storici, e che esso diviene conoscibile proprio se ci si riporta alle istanze sociali degli uomini3.

Con il termine "conoscenza formale" Mannheim si riferisce alla matematica ed alle scienze naturali.

In un altro passaggio la dicotomia viene ribadita e giustificata:

1 Cfr. Mannheim (1953), trad. it. p. 3. 2 Cfr. Mannheim (1953), trad. it. p. 4. 3 Cfr. Mannheim (1953), trad. it. pp. 169-170.

I fattori esistenziali contenuti nel processo sociale sono soltanto d'importanza marginale, si limitano semplicemente a condizionare l'origine e lo sviluppo reale delle idee (hanno cioè una rilevanza puramente genetica) o invece non penetrano dentro la 'prospettiva' delle concrete asserzioni particolari? Questa è la prima questione cui dobbiamo cercare di rispondere. La genesi storica e sociale di un'idea sarebbe del tutto irrilevante ai fini della sua validità, se le condizioni temporali e sociali non avessero effetto sul suo contenuto e la sua forma. Se le cose stessero così, due periodi nella storia dell'umana conoscenza si distinguerebbero solo per il fatto che l'una incorre ancora in certi errori, mentre l'altra se ne è completamente liberata. Questa semplice relazione tra due periodi, il primo imperfetto e il secondo completo, può, in larga misura, esser conveniente per le scienze (per quanto, al confronto con la logica della fisica classica, la stabilità della struttura categoriale delle scienze esatte sia oggi considerevolmente scossa). Nella storia delle scienze morali, invece, gli stadi precedenti non sono così semplicemente assorbiti da quelli successivi, né si può affermare, con tanta facilità, che gli errori di prima sono stati poi corretti. Ogni epoca possiede una sua inconfondibile maniera di intendere, e, di conseguenza, la 'stessa' realtà è osservata da una prospettiva sempre nuova4.

È interessante notare, nel passaggio appena citato, che la distinzione tra sapere scientifico e sapere non-scientifico dipende in larga parte dalla struttura "cumulativa" della scienze. Mannheim pensa che le scienze esatte, così come le scienze naturali, presentino uno sviluppo lineare, e che tale sviluppo sia responsabile dell'autonomia del sapere scientifico.

L'inserimento della scienza nel "raggio di indagine" sociologica ha una storia relativamente recente. Se i primi studi in sociologia della scienza risalgono agli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, fu solo nel 1978, ad esempio, che l'associazione dei sociologi americani dette vita a una sezione dedicata alla sociologia della scienza. Nel 1976, la rivista Science Studies cambiò il nome in Social Studies of Science,

diventando la prima rivista specializzata. A partire dal secondo dopoguerra, numerosi fattori – tra cui il ruolo cruciale svolto da alcuni scienziati e teams di ricerca nel corso dei due conflitti bellici – contribuirono a rafforzare la convinzione che il potere politico dipenda in misura crescente dal contributo regolare della scienza e della tecnologia, e che le conseguenze economiche, sociali ed ecologiche delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche abbiano un'influenza determinante sui destini delle nazioni e del mondo.

Inizialmente le analisi sociologiche della scienza si occuparono soprattutto dei modi in cui nei diversi contesti sociali viene considerata l'attività scientifica, dello "status" sociale degli scienziati e dei loro valori etici di riferimento, delle politiche della ricerca e dei gruppi di potere nella comunità scientifica. È questa la prospettiva di analisi di quello che è comunemente riconosciuto come il fondatore della sociologia della scienza, R. K. Merton. Le indagini sociologiche, in quest'ottica, sostengono che l'istituzionalizzazione della scienza e la codificazione sociale del ruolo dello scienziato non presuppongono solo una serie di metodi e attività, ma anche un nucleo di elementi sociali, cioè dei valori e delle norme tali da fondare la scienza in quanto sottosistema sociale dotato di una propria autonomia ma in costante rapporto con il resto della società.

La raccolta di saggi The Sociology of Science è il volume che meglio si presta a rappresentare la riflessione di Merton sulla scienza e più in generale quella del filone di sociologia della scienza "istituzionale" che a lui fa capo. Tra i temi affrontati, particolare rilievo è dato ai meccanismi attraverso cui sono assegnate e distribuite all'interno della comunità scientifica risorse e ricompense quali la possibilità di pubblicare e il prestigio. A uno dei fenomeni osservati a questo proposito, Merton dette il nome di effetto San Matteo5.

L'espressione trae origine dal Vangelo secondo Matteo, dove si dice: "poiché a chi ha, verrà dato, e sarà nell'abbondanza: ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha". In ambito scientifico, questo principio si traduce in un effetto cumulativo che premia esponenzialmente coloro che si trovano già in una posizione di privilegio. "Un contributo scientifico avrà maggiore visibilità nella comunità degli scienziati quando è introdotto da uno scienziato di alto profilo rispetto a quando è presentato da uno scienziato che non ha ancora lasciato il segno"6. Analizzando alcuni dati empirici, Merton e i suoi allievi trovarono, ad esempio, che

i saggi proposti ad una rivista scientifica erano accettati più frequentemente se contenevano,

5 Cfr. Merton (1968).

tra gli autori, il nome di un ricercatore particolarmente conosciuto; allo stesso modo, i saggi di uno stesso scienziato venivano citati molto più frequentemente dopo che questi aveva ottenuto un riconoscimento di grande visibilità, quale il premio Nobel7.

L'inserimento della scienza nel "raggio di indagine" sociologica avviene al prezzo di rinunciare a sottoporre a questa stessa indagine i contenuti veri propri dell'attività scientifica. Le ricerche di Merton e dei suoi collaboratori riguardano soprattutto gli aspetti organizzativi e funzionali della scienza intesa come istituzione capace di autoregolamentarsi. Per questi scopi analitici entrare nel merito dei contenuti tecnico-scientifici non veniva ritenuto più appropriato o necessario di quanto lo fosse possedere conoscenze di medicina per occuparsi di sociologia della medicina, o di teologia per occuparsi di sociologia della religione. Questo approccio trova la sua espressione più significativa nella descrizione della "struttura normativa della scienza". Quali valori e norme di condotta, si chiede Merton, garantiscono il funzionamento della scienza? La sua risposta a questa domanda si incentra attorno a quattro "imperativi istituzionali"8:

1. Universalismo: le asserzioni e i risultati scientifici vengono giudicati indipendentemente da caratteristiche inerenti al soggetto che li ha formulati quali la classe, la razza, la religione.

2. Comunitarismo: i risultati e le scoperte non sono proprietà del singolo ricercatore ma patrimonio della comunità scientifica e della società nel suo complesso. Lo scienziato non ottiene riconoscimento per la propria attività se non rendendola pubblica e mettendola quindi a disposizione degli altri.

3. Disinteresse: ogni ricercatore persegue l’obbiettivo primario del progresso della conoscenza, ottenendo indirettamente il riconoscimento individuale.

4. Scetticismo organizzato: ogni ricercatore deve essere pronto a valutare in modo critico qualunque risultato, inclusi i propri, sospendendo il giudizio definitivo fino all'ottenimento delle necessarie prove.

7 Come caso paradigmatico, Merton cita l'episodio capitato allo scienziato Lord Rayleigh. Il suo nome era stato accidentalmente espunto da un manoscritto sottoposto alla British Association for the Advancement of

Science. Il comitato lo rifiutò, giudicandolo l'opera di un dilettante. Non appena si scoprì chi era il vero

autore, il manoscritto fu accettato. Merton considera questo effetto disfunzionale per le carriere dei singoli scienziati che sono penalizzati nelle fasi iniziali delle loro attività, ma funzionale al sistema nel suo complesso, in quanto consente di operare una selezione nell'enorme massa dei saggi pubblicati e inviati alle riviste per la pubblicazione. Inoltre il nome di scienziati già noti può attirare l'attenzione della comunità su scoperte particolarmente innovative che altrimenti stenterebbero ad essere accettate. Cfr. Merton (1968). 8 Cfr. Merton (1973b).

Dal momento che gli imperativi non riguardano il contenuto della scienza, ma piuttosto la "cornice sociale" entro cui il sapere scientifico si colloca, si può dire che Merton, al pari di Mannheim, non mette in dubbio l'autonomia del sapere scientifico. Piuttosto ribadisce – seppur in termini differenti – la dicotomia tra "credenze "incontaminate" inerenti alle scienze fisiche e matematiche, e credenze "ideologiche" inerenti ad espressioni culturali di tipo non scientifico.

Questa tendenza, intorno alla metà degli anni Settanta, ha subito una svolta decisiva. Alcuni studiosi, conosciuti come gruppo della Scuola di Edimburgo9, hanno elaborato in

quegli anni un "Programma Forte" (Strong Programme) di sociologia della conoscenza applicata alla scienza, dove il termine "forte" sta ad indicare proprio il proposito di vincere la riluttanza "a includere la scienza nel campo d'azione di una ricerca sociologica accurata e completa"10. Per la Scuola di Edimburgo si tratta soprattutto di fondare lo statuto della

sociologia della scienza e di comprendere in essa tutti gli aspetti del rapporto tra contenuti della scienza e forme sociali della vita, senza rispettare la distinzione tra sapere scientifico e altre forme di conoscenza che aveva caratterizzato l'impostazione sociologica di Mannheim, e senza limitarsi ad una analisi degli aspetti funzionali ed organizzativi della scienza che aveva caratterizzato l'impostazione sociologica di Merton. L'obiettivo del Programma Forte è quello di vincere la riluttanza a spiegare sociologicamente – cioè ricorrendo a cause sociali – quei campi e quei risultati del sapere comunemente ritenuti "razionali". Ad un primo sguardo questa posizione può sembrare del tutto innocua. Del resto anche il "razionalista" più intransigente sarebbe pronto ad ammettere l'influenza di fattori sociali nella formulazione delle teorie, e cioè l'operatività di idiosincrasie, interessi, convinzioni ideologiche all'interno del "contesto della scoperta". Tuttavia, nella prospettiva del programma sociologico formulato dalla Scuola di Edimburgo, l'influenza dei fattori sociali arriva a comprendere anche le procedure di controllo e di valutazione delle teorie, e cioè il "contesto della giustificazione".

La tesi dell'incommensurabilità, come abbiamo visto, ha messo fortemente in crisi la possibilità di un confronto tra teorie, spostando la valutazione delle teorie sul terreno della soggettività. Allo stesso tempo, dimostrando la debolezza storica della condizione teorica di

9 B. Barnes e D. Bloor sono i principali teorici del Programma Forte. Rientrano tuttavia in tale gruppo anche storici come D. A. MacKenzie, S. Schaffer, S. Shapin.

un rapporto deduttivo tra teorie successive, ha messo in scacco l'immagine temporale di uno sviluppo cumulativo del sapere scientifico.

Il Programma Forte della Scuola di Edimburgo, partendo proprio da questo ordine di considerazioni, ha avanzato l'ipotesi radicale secondo cui le procedure razionali di confronto e valutazione sono influenzate alla radice da fattori sociali. Avremo modo di discutere in modo approfondito che cosa i sociologi del Programma Forte intendono quando parlano di una "influenza dei fattori sociali". Per il momento ci pare necessario ricordare che il programma sociologico da essi elaborato è stato interpretato da alcuni epistemologi come una indebita "invasione di campo".

Alcuni filosofi della scienza infatti, hanno pensato di relegare l'operatività dei fattori sociali ad un dominio scientifico comunque esterno rispetto alle procedure razionali. L. Laudan, ad esempio, seguendo la via già tracciata da Lakatos11, ha proposto alle discipline

sociologiche di adottare un "assunto di arazionalità" (arationality principle); secondo tale criterio "la sociologia della conoscenza può procedere a spiegare delle credenze, se e solo se si tratta di credenze che non possono essere spiegate in termini dei loro meriti razionali"12. In

questo senso "il sociologo della scienza interviene proprio in quei punti in cui l'analisi razionale dell'accettazione (o rifiuto) di un'idea non quadri con la situazione effettiva"13.

Giusto per citare uno slogan di sicuro effetto "sociology is only for deviants"14. La sociologia

potrebbe quindi contribuire a spiegare – invocando fattori di carattere religioso, politico o più genericamente culturale – le credenze mistiche di Keplero sul sole o la convinzione dell'astronomo Schiaparelli che su Marte vi fossero esseri umani organizzati in una sorta di collettivismo di stampo socialista. Potrebbe spiegare il "caso Lysenko" – il biologo che per lunghi decenni impedì l'affermazione in URSS della teoria mendeliana della trasmissione ereditaria dei caratteri, sostenendo una dipendenza dei caratteri dalle condizioni ambientali che meglio si accordava con l'ideologia sovietica –, ma non potrebbe spiegare gli elementi che contribuirono al successo del darwinismo, né all'affermazione della teoria cellulare di Virchow.

L'assunto di arazionalità esprime una preoccupazione fondata. Se le procedure razionali sono riducibili all'influsso dei fattori sociali, allora il comportamento degli scienziati non può

11 Lakatos confina i fattori sociali nella sfera della "storia esterna" della scienza, salvando in questo modo la razionalità della scienza. È possibile individuare un nesso tra questo modo di procedere e quello di Laudan. 12 Cfr. Laudan (1977), trad. it. p. 237.

13 Cfr. Laudan (1977), trad. it. p. 237. 14 Cfr. Newton-Smith (1981), p. 238.

essere spiegato ricorrendo alle regole, ai metodi, ai risultati dell'attività scientifica. In sostanza, se l'analisi sociologica può essere estesa alle procedure razionali allora l'attività scientifica di successo non può spiegarsi ed alimentrsi da sè, ma deve essere ricondotta o ridotta ad un altro tipo di attività. Se i sociologi della Scuola di Edimburgo hanno ragione la scienza rischia di perdere lo statuto di autonomia che la contraddistingue. E la razionalità – qualunque tipo di razionalità si abbia in mente15 – finisce per diventare uno spettro, o nel

migliore dei casi un abito retorico.

Finora abbiamo parlato genericamente del dominio di indagine della nuova sociologia della scienza, indicando tale dominio come il "contenuto" della scienza. Nel prossimo capitolo cercheremo di capire qual è il tipo di analisi sociologica proposta dal Programma Forte; inoltre analizzeremo se tale programma possa effettivamente rappresentare una minaccia per l'autonomia della scienza.