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Danno prenatale e danno da nascita indesiderata: vittime e responsabili

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di laurea Magistrale in Giurisprudenza

Danno da nascita indesiderata e danno prenatale:

vittime e responsabili

Il Candidato

Il Relatore

Chiara Biondi Chiar.ma Prof.ssa Francesca Giardina

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I

NDICE

CAPITOLO 1LA NASCITA INASPETTATA DI UN FIGLIO NON SANO ... 2

1.1 Premessa: procreazione e responsabilità civile ... 3

1.2 La casistica giurisprudenziale: la nascita malformata e le diverse ipotesi di condotta colposa del professionista sanitario ... 5

1.2.1 (segue) Condotta omissiva e doveri informativi ... 9

1.3 Gli elementi costitutivi del fatto illecito ... 14

1.3.1 I criteri di valutazione della colpa professionale del ginecologo ... 17

1.3.2 Il nesso di causalità ... 25

1.4 Il danno risarcibile verso la gestante e i suoi prossimi congiunti: patrimoniale, morale, esistenziale e biologico (cenni e rinvio) ... 34

CAPITOLO 2IL DIBATTITO SULLA NATURA DELLA RESPONSABILITÀ SANITARIA ... 40

2.1 Introduzione ... 41

2.2 Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: il fondamento della tradizionale bipartizione ... 43

2.2.1 Differenze di disciplina: la ripartizione dell’onere della prova ... 47

2.2.2 (segue) La prevedibilità del danno risarcibile e il diverso regime prescrizionale ... 53

2.3 La “contrattualizzazione” della responsabilità sanitaria ... 57

2.3.1 Il rapporto tra il paziente e il medico libero professionista ... 59

2.3.2 Il rapporto con la struttura sanitaria ... 62

2.3.3 (segue) Il contratto “atipico” di spedalità ... 66

2.3.4 Rapporto con il medico dipendente ... 71

2.3.5 Interesse alla prestazione e interesse alla protezione ... 78

2.4 Ritorno alla prospettiva aquiliana? Decreto Balduzzi e la più recente giurisprudenza di merito ... 80

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1

CAPITOLO 3LA TUTELA DELLE VITTIME SECONDARIE

DELL’ILLECITO NEL DANNO PRENATALE E NEL C.D. DANNO DA

NASCITA INDESIDERATA ... 90

3.1 Il rapporto tra professionista sanitario e soggetti terzi: la tutela giuridica dei soggetti diversi dal paziente ... 91

3.2 Il contratto e i terzi ... 93

3.2.1 La protezione contrattuale del terzo: il contratto ad effetti protettivi secondo l’elaborazione tedesca ... 97

3.2.2 La giurisprudenza italiana ... 106

3.3 Il nascituro quale autonomo centro di interessi giuridicamente tutelato... 111

3.3.1 Il “come” della tutela giuridica prenatale: danno al nascituro e responsabilità aquiliana ... 118

3.3.2 La responsabilità contrattuale del professionista sanitario nei confronti del nascituro ... 122

3.3.3 (segue) I casi di handicap derivanti da cause mediche e il dovere di protezione del sanitario nei confronti del nascituro: da Cass. 11503/1993 a Cass. 10741/2009 ... 124

3.4 L’omessa diagnosi di malformazione congenita ... 133

3.4.1 La nascita indesiderata nei confronti della madre e nel contesto della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza ... 135

3.4.2 Il ruolo del padre nella vicenda procreativa ... 144

3.4.3 (segue) La scelta alla madre, il risarcimento anche al padre: Cass. 6735/2002 ... 149

3.5 Conferme, novità, revirement in Cass. 16754/2012 ... 158

3.5.1 La criticata estensione degli obblighi di protezione ai fratelli e alle sorelle del nato ... 160

3.5.2 Wrongful life ... 165

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE ...176

BIBLIOGRAFIA ...186

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2

Capitolo 1

L

A NASCITA INASPETTATA DI UN FIGLIO NON SANO

SOMMARIO:1.1Premessa: procreazione e responsabilità civile - 1.2 La casistica giurisprudenziale: la nascita malformata e le diverse ipotesi di condotta colposa del professionista sanitario - 1.2.1 Condotta illecita di tipo omissivo e doveri di informazione - 1.3 Gli elementi costitutivi del fatto illecito - 1.3.1 La colpa professionale e i criteri di valutazione della condotta sanitaria - 1.3.2 Il nesso di causalità - 1.4 Il danno risarcibile verso la gestante e i suoi prossimi congiunti: patrimoniale, morale, esistenziale e biologico (cenni e rinvio)

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1.1 Premessa: procreazione e responsabilità civile

Di tutti i rapporti che sorgono tra un medico e il suo paziente, quello che sorge in virtù di una gestazione è, almeno in teoria, il più felice; in questa circostanza l’intervento del professionista si rende necessario non tanto per risolvere una determinata patologia, quanto per prendersi cura di un evento che ha come aspettativa la venuta al mondo di un nuovo essere umano. La richiesta che si formula allo specialista è quella della prestazione di assistenza: la gestante è, nella maggior parte dei casi, una donna in salute che affida al proprio medico il compito di seguire lei e la vita che porta dentro di sé, al fine di intervenire sulle eventuali complicanze e effettuare, consapevolmente, le scelte che possono rendersi necessarie in ragione del suo stato di salute e di quello del feto. Il coinvolgimento del ginecologo, durante tutto il corso della gravidanza, è volto a monitorare lo sviluppo del nascituro, ricorrendo con scrupolosa attenzione alla realizzazione di specifici “atti medici”, ognuno dei quali necessita di essere autorizzato dalla paziente mediante la manifestazione di uno specifico consenso informato. Al professionista spetta il compito di assicurare le condizioni affinché la nascita si riveli un lieto evento. La delicatezza degli interessi coinvolti pone peraltro il ginecologo nella condizione di divenire “depositario” delle aspettative non solo della gestante, ma anche dei suoi prossimi congiunti, “fiduciario” cioè di un progetto di vita al quale partecipano tutti i componenti del nucleo familiare, di quel contesto, cioè, in cui si condividono attese, desideri e speranze.

Il tema delle scelte legate alla procreazione, sebbene antico quanto il mondo, si pone oggi tra le sfide più ardue della nostra civiltà. In discussione è il delicato nodo della titolarità dei poteri decisionali in ordine alla riproduzione, dell’attribuzione delle responsabilità connesse alla relative decisioni, del bilanciamento tra interessi di rilievo costituzionale, quali il diritto alla salute e alla vita, facenti capo alla

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gestante e al nascituro. In questo contesto, allora, nuove ipotesi di danno e nuove ipotesi di responsabilità si impongono all’attenzione dei giudici e alla riflessione dei giuristi.

A tale proposito si sono rivelate decisive le inedite potenzialità offerte dalle biotecnologie. Gran parte dei nuovi interrogativi, così come la crescente esigenza di riformulare quelli tradizionali, sembrano cioè provenire, per lo più, dalla scoperta, dalla sperimentazione e dalla diffusione su larga scala di strumenti diagnostici sempre più raffinati, di pratiche interruttive sempre meno invasive, di nuovi metodi procreativi. In altre parole, gli straordinari risultati raggiunti dalla c.d. “medicina della riproduzione” nell’ultimo decennio consentono, oggi, di intervenire in ordine alla procreazione in modo più incisivo di quanto non accadeva in passato: se da un lato, attraverso le terapie dell’infertilità e le tecniche di riproduzione assistita si può giungere ad una gravidanza che altrimenti non si sarebbe verificata, dall’altro le diagnosi genetiche, quelle prenatali, i metodi anticoncezionali, ovvero le pratiche di i.v.g. possono evitare la gestazione o impedirne la prosecuzione. Le possibilità offerte dalla scienza hanno avuto come esito quello di ricondurre sotto il dominio della volontà decisioni che prima non vi appartenevano, collegando le conseguenze di suddetta scelta ad un atto umano. In questo senso la procreazione, fino a non molto tempo fa in balia delle sole leggi della natura, si trova ad essere regolata ed orientata dalle scelte e dai comportamenti dei soggetti coinvolti. «E’ dunque perché la riproduzione non è più regno

incontrastato della natura (del caso o della Provvidenza, a seconda dei punti di vista di ciascuno), ma viene invece in larga misura ad essere determinata da scelte e comportamenti umani, che si pone il problema delle conseguenze di quelle scelte e di quei comportamenti e (quindi) anche un problema di responsabilità civile»1. La tutela risarcitoria si è

1 Cit. G.F

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quindi estesa verso nuovi confini, rappresentati dagli eventi cruciali della vita, quali il concepimento, la gestazione e la nascita.

Grazie a questo progresso non rimangono oggi fasi del ciclo vitale umano nelle quali il medico non possa essere chiamato ad intervenire. Il presente elaborato intende incentrare la riflessione sui casi in cui la negligenza sanitaria conduce alla nascita di un figlio non sano. Si tratta dunque di ipotesi in cui la nuova vita si presenta diversa da come attesa dai genitori. Lungi dal considerare la nascita in sé un danno risarcibile, in questo primo capitolo sarà necessario andare a ricercare i parametri sulla base dei quali l’operato del professionista può essere ritenuto illecito.

1.2 La casistica giurisprudenziale: la nascita malformata e le diverse ipotesi di condotta colposa del professionista sanitario

Dal momento in cui, come si è già avuto modo di porre in evidenza nella premessa, il verificarsi dell’evento della nascita può essere programmato (procreazione medicalmente assistita), ovvero essere impedito (contraccezione, interventi di sterilizzazione e interruzione volontaria di gravidanza), quindi rappresentare l’esito di una scelta genitoriale, la responsabilità della nascita si trasferisce sul medico qualora, per negligenza, non abbia assicurato le condizioni idonee alla piena realizzazione della determinazione della paziente, ovvero abbia mancato di tutelare il diritto del nascituro a nascere sano.

Al di là dalla comune riconduzione di tutte le fattispecie all’ampia categoria del danno da procreazione (danno da nascita indesiderata o danno prenatale), non può sfuggire all’interprete una certa differenza

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nella valutazione della condotta del danneggiante rispetto ai singoli casi considerati2.

A determinare la nascita di un figlio sano, ma non programmato, possono essere la scorretta esecuzione (o l’omessa informazione del paziente circa i margini di possibile fertilità residua anche a fronte di un’operazione chirurgica eseguita a regola d’arte) di un intervento di interruzione volontaria di gravidanza, o sterilizzazione maschile o femminile, oppure la prescrizione di un metodo contraccettivo inidoneo ad impedire il concepimento.

Rispetto all’eventuale nascita di un figlio non sano, le fattispecie di danno possono rinvenire la loro fonte sia in una condotta sanitaria (antigiuridica) di tipo commissivo, che di tipo omissivo.

Con riferimento al primo ordine di ipotesi, vengono in considerazione quelle specifiche vicende nell’ambito delle quali il comportamento colposo del professionista assurge a diretta causa della lesione dell’integrità psicofisica del nascituro3

. In questa casistica è soluzione oramai consolidata che qualora il sanitario (ginecologo, personale ostetrico, struttura di ricovero) cagioni pregiudizio alla salute di un feto concepito sano, come può ad esempio accadere per effetto di erronei interventi ostetrici praticati al momento del parto, egli sarà

2 Per una ricostruzione puntuale e dettagliata di tutta l’ampia casistica

giurisprudenziale in materia di “danno da procreazione”, cfr. F. COSTA, La responsabilità per procreazione in Italia, Napoli,2005,31 SS.;R.SIMONE,Danno alla persona per nascita indesiderata, in Danno e resp., 2002, 469 ss.; C.FAVILLI,Il danno non patrimoniale da c.d. nascita non desiderata, inE.NAVARRETTA (a cura di), Il danno non patrimoniale: principi, regole e tabelle per la liquidazione, Milano, 2010, 493 ss..

3

Tra le ipotesi più frequenti di malformazioni dovute a cause mediche vi sono le lesioni procurate dal forcipe, la rottura dell’utero, il parto indotto o ritardato, l’ipocinesi uterina a seguito di trattamento con ossitocina e così via. E’ interessante sottolineare, peraltro, che in tale categoria di “danni al nascituro per cause mediche” si fanno rientrare anche i casi di handicap dipendente da carenze organizzative dell’ente ospedaliero quali, ad esempio, l’assenza di personale idoneo e specializzato, i guasti tecnici, l’inefficienza o l’insufficienza dei macchinari disponibili etc.. Così Cass., sez. un., 1 luglio 2002, n.9556, in Foro. it., 2002, 3060 ss., con nota di A. PALMIERI, Risarcimento del danno morale per la compromissione di un intenso legame affettivo con la vittima delle lesioni prenatale.

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tenuto a risarcire integralmente i danni non solo alla donna, ma anche al bambino che, una volta nato, sarà affetto da handicap o altra malformazione permanente. In effetti, la funesta frequenza delle vicende in cui l’handicap del concepito sia provocato dal comportamento colposo del sanitario ha condotto alla formulazione del principio dell’ammissibilità dell’azione esercitata dai genitori a nome del figlio al fine di ottenere il risarcimento derivante dalla lesione del suo c.d. “diritto a nascere sano”. In altre parole, esiste una cospicua giurisprudenza che, nelle suddette circostanze, accorda il ristoro per i pregiudizi subiti non solo ad entrambi i genitori, ma anche al figlio che, senza l’errore medico, sarebbe nato in piena salute.

Se, dunque, le controversie inerenti alle fattispecie in parola non sollevano particolari difficoltà in ordine all’accertamento della condotta illecita e all’individuazione dei soggetti danneggiati, più dibattuti e controversi sono gli aspetti riguardanti il titolo della responsabilità invocata dai genitori in qualità di legali rappresentanti del nato, nonché gli strumenti civilistici individuati ed adottati (ed oramai consolidati) dai giudici al fine di accordare la tutela giudiziale. I primi tentativi della giurisprudenza italiana di “contrattualizzare” la responsabilità del medico (o della struttura sanitaria) anche nei riguardi dei terzi hanno origine con riferimento alla casistica in esame, orientamento, questo, che ha trovato successiva conferma ed applicazione anche nella giurisprudenza relativa ai casi di condotta omissiva.

Non sempre tuttavia il pregiudizio di una grave malformazione psicofisica può essere direttamente imputato al medico o, più in generale, al personale sanitario che abbia avuto in cura la gestante. Ben più diffuse, infatti, sono le ipotesi in cui l’handicap dipende da tare ereditarie, patologie genetiche direttamente trasmesse dai genitori al figlio in conseguenza del concepimento, ovvero da malattie contratte dalla donna durante la gravidanza; ipotesi rispetto alle quali la professionalità del sanitario risulta coinvolta solo se abbia omesso di

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rilevarle, ovvero di prescrivere gli opportuni esami diagnostici. In questi casi, infatti, lo stato attuale della scienza medica non consente di opporre alcun efficace rimedio terapeutico alle condizioni di salute del nascituro: l’unico obbligo professionale che viene in evidenza è pertanto quello relativo ad una corretta, tempestiva ed esatta diagnosi prenatale, finalizzata ad informare adeguatamente la gestante dello stato di salute del figlio.

Le moderne tecniche diagnostiche, consentendo di monitorare con sufficienti margini di attendibilità lo sviluppo del feto, hanno determinato una sorta di rivoluzione nel campo medico-sanitario rispetto ad un passato, neanche troppo remoto, in cui di un eventuale

handicap era possibile accorgersi solo al momento della nascita se non,

addirittura, negli anni a seguire. Sul piano del diritto tutto ciò ha aperto le porte ad un tipo di contenzioso che va distinto da quello relativo alle lesioni direttamente cagionate al nascituro nella fase precedente o contestuale al parto; ciò in quanto suscettibile di sollevare problematiche e considerazioni differenti in merito alla valutazione del nesso causale e dei soggetti cui viene riconosciuta la legittimazione ad agire per far valere le proprie pretese risarcitorie. Se, come si è ricordato, rispetto ai casi di condotta commissiva esiste una consolidata giurisprudenza che ritiene pacifico che il medico debba essere ritenuto responsabile a causa del suo comportamento non diligente, non è possibile addivenire con la stessa facilità alle medesime conclusioni con riferimento a questo secondo contesto. Occorre, allora, verificare i casi in cui il professionista possa essere ritenuto responsabile della predetta omissione. Nello specifico, si ipotizza la sussistenza di una responsabilità professionale sia nel caso in cui il ginecologo non abbia adoperato gli opportuni strumenti diagnostici, trascurando le attuali prassi in materia, sia in quelli dove, pur avendovi fatto ricorso, non sia riuscito ad accertare l’esistenza della malattia per la superficialità e la negligenza impiegate nella conduzione dell’indagine, ovvero l’imperizia

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nell’interpretazione del relativo referto clinico. Se da un lato la condotta omissiva, derivante da una delle due circostanze appena descritte, ha come diretta conseguenza la non informazione della gestante, dall’altro, invece, è discutibile che lo stesso comportamento possa essere messo in relazione diretta con la patologia del bambino.

Prima di soffermare la riflessione su quelli che sono gli elementi costitutivi dell’illecito, per meglio comprendere i profili di antigiuridicità della condotta medica nell’area di indagine appena definita, può essere utile soffermarsi ed aprire una breve parentesi sulla questione degli obblighi informativi che caratterizzano parte del contenuto della prestazione sanitaria.

1.2.1 (segue) Condotta omissiva e doveri informativi

In generale, l’individuazione dei doveri informativi a carico del medico risponde all’esigenza di offrire al paziente una completa conoscenza circa le proprie condizioni di salute, la natura della prestazione sanitaria cui il professionista intende sottoporlo, i rischi insiti nella stessa, le relative prospettive di guarigione, le eventuali conseguenze negative, le ipotesi di cura alternative. Nella poliedricità dei profili attraverso i quali si snoda, l’informazione coinvolge tutti i singoli aspetti del trattamento di cura e ricade, come dovere, su ognuno dei professionisti che, in ragione della propria autonomia gestionale, interviene nello svolgimento della terapia4. L’informazione, oltre a

4 Se è vero che la richiesta di uno specifico intervento chirurgico avanzata dal paziente

può farne presumere il consenso a tutte le operazioni preparatorie e successive che vi sono connesse, allorché più siano le tecniche di esecuzione di quest’ultimo, con conseguenti rischi diversi, «è dovere del sanitario, al quale tuttavia spettano le scelte operative, informarlo dei rischi e dei vantaggi specifici ed operare la scelta in relazione ai rischi che il paziente intende assumere». Cit. Cass., 15 gennaio 1997, n.364.

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dover essere chiara e precisa, deve quindi essere “globale”5

, tale cioè da coprire l’intervento medico nel suo complesso e da sorreggere tutto l’arco temporale sino alla completa realizzazione di quanto dedotto in obbligazione e che, nella casistica qui affrontata, si concretizza con la nascita del figlio che la donna porta in grembo. Deve essere, peraltro, accessibile all’interessato ed effettivamente comprensibile per lo stesso: l’informazione non può risolversi in una dotta lezione di scienza, bensì necessita di essere espressa con linguaggio chiaro e, in ogni caso, adeguato al livello intellettivo e culturale del paziente. A tal proposito, il codice di deontologia medica stabilisce che il sanitario, nell’informare il paziente, «dovrà tenere conto delle sue capacità di comprensione, al

fine di promuovere la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazioni del paziente dovrà essere soddisfatta»6. L’assistito viene, in questo modo, messo nella

condizione di poter valutare l’opportunità di procedere con il trattamento, operando un bilanciamento tra quelli che sono i vantaggi ed i pericoli ad esso connessi, tra i “costi” e i benefici, e giungendo ad esprimere un “consenso informato”7

, dunque ad esercitare il diritto, di

5 A.P

ALMIERI, Relazione medico-paziente tra consenso “globale” e responsabilità del professionista, in Foro it., 1997, 772 ss., nota di commento a Cass., 15 gennaio 1997, n.364.

6

In sede deontologica la tematica in esame riceve una specifica regolamentazione nel titolo II, “Rapporti con il cittadino”, capo IV, “Informazione e consenso”. L’art. 30 dispone che «il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnosi-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate; il medico nell’informarlo dovrà tener conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuovere la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione del paziente deve essere soddisfatta». L’art. 32 aggiunge che «il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato». Il principio è, peraltro, recepito ed inserito in numerose fonti normative sia di matrice europea (ad es. Convenzione di Oviedo) che nazionale.

7

Per “consenso informato” deve intendersi la volontaria adesione del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico. L’espressione attualmente in uso (“consenso informato”) è stata importata dagli Stati Uniti dove la dizione informed consent risulta essere comparsa per la prima volta in un processo celebrato nel 1957 dinanzi la Corte Suprema dello Stato della California. In quella occasione il chirurgo aveva omesso di avvertire il paziente circa le possibili complicanze, poi realmente

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rilievo costituzionale, ad autodeterminarsi in merito alle scelte che attengono alla sua salute, alla sua vita, alla sua sfera procreativa. In altre parole, nell’ultimo decennio, nell’ambito della responsabilità sanitaria, si è via via venuta a delineare una nuova configurazione del consenso, visto non più come mero “atto”, strumentale alla valida instaurazione di una terapia, bensì come “processo” diretto a garantire i vari interessi in gioco.

In ambito ginecologico l’importanza degli obblighi informativi traspare dalla varietà di situazioni che, in concreto, possono porre la paziente nella condizione di dover assumere una decisione; tra parto cesareo e parto naturale, ad esempio, tra ricorso alla interruzione di gravidanza e sua prosecuzione, ovvero, ancora, tra le differenti forme di contraccezione. A testimoniare l’imprescindibilità del momento informativo nella relazione medico-paziente è intervenuta anche la giurisprudenza penale, la quale ha considerato passibile del reato di cui all’art. 328 c.p.8

il medico che abbia omesso di «fornire informazioni

alla gestante riguardanti lo stato di salute del nascituro, nella specie affetto da gravissime anomalie di origine genetica, ove ciò possa incidere sulla salute psichica della paziente e dello stesso nascituro, senza che assuma rilievo il fatto della impossibilità di procedere all’interruzione volontaria di gravidanza»9

.

verificatesi, dell’intervento. Il medico venne chiamato a rispondere civilmente dei danni cagionati nonostante l’operazione in sé fosse stata condotta nel pieno rispetto delle regole dell’arte. Al professionista della salute venne dunque imputato il solo fatto di non aver reso noto al paziente «any facts which are necessary to form the basis of an intelligent consent by the patient to proposed treatment», violando il diritto all’autodeterminazione di quest’ultimo. Per una ricostruzione circa le origini anglosassoni dell’istituto cfr. V. MALLARDI, Le origini del consenso informato, in Acta Ottorhinolaryng, 2005, 313.

8

Art. 328 c.p., “Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione”: «il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni».

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Definito il contenuto dell’informazione che deve essere resa, si pone a questo punto il problema di chiarire se la manifestazione di volontà dell’assistito rilevi nella fase antecedente alla conclusione del contratto di cura, ovvero rappresenti un elemento costitutivo del rapporto intercorrente con il medico, al fine di determinare le relative fattispecie di responsabilità. La collocazione del dovere di informazione gravante sull’esercente la professione sanitaria, la qualificazione della corrispondente posizione di interesse del paziente, quindi le conseguenze della violazione dei suddetti obblighi sono temi su cui la dottrina si è spesso trovata a dover riflettere.

Inizialmente, la fase informativa ha fatto pensare allo spazio delle trattative antecedente il sorgere delle obbligazioni contrattuali10: e ciò in quanto sarebbe nella fase precontrattuale che si forma il consenso del paziente al trattamento sanitario, ovvero all’intervento cui dovrà sottoporsi. Secondo tale impostazione, la corretta informazione è strumentale ad assicurare che nel cliente possa formarsi un convincimento libero e cosciente, conformemente a quanto disposto dall’art. 1337 c.c.11

.

Appare, tuttavia, più convincente la posizione di chi ritiene che non si possa ricondurre l’erronea o difettosa informazione alle fasi precedenti (e propedeutiche) alla conclusione del contratto. La più recente giurisprudenza di legittimità è pressoché unanime nel ritenere che l’intervento del medico, anche solo in funzione diagnostica, dà comunque luogo all’istaurazione di un rapporto di tipo contrattuale. L’obbligo di informare circa le conseguenze di un intervento chirurgico o di una terapia, il rendere noto quali siano gli esami più efficienti al

10 Secondo AP

ALMIERI, Op. cit., «l’obbligo di informazione da parte del sanitario assume rilievo nella fase precontrattuale, in cui si forma il consenso del paziente al trattamento o all’intervento, e trova fondamento nel dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto».

11

Art. 1337 c.c., “Trattative e responsabilità precontrattuale”: «le parti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede».

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13

fine di escludere certe tare genetiche del nascituro appartengono alla fase esecutiva del rapporto obbligatorio in quanto traggono fondamento dalla natura stessa dell’accordo. Questa seconda impostazione colloca allora il dovere di informazione nell’ambito degli obblighi che il medico assume verso il paziente; l’eventuale mancanza di consenso genera una responsabilità di tipo contrattuale ex art. 1218 c.c.. In questa nuova prospettiva l’assistito viene riconosciuto quale titolare di un vero e proprio diritto di credito ad essere opportunamente informato, quindi legittimato ad esercitare la relativa facoltà di pretesa; sostenere la tesi contraria significa, viceversa, ridurre la prestazione del professionista al solo trattamento terapeutico o chirurgico, andando a svilire il dovere informativo del medico e travisando, nello specifico, la stessa relazione medico-paziente. E’ opinione prevalente che l’obbligo di informazione sia, invece, parte del contenuto complesso del rapporto obbligatorio che intercorre tra medico e paziente: la prestazione sanitaria si caratterizza anzi per l’intreccio tra l’attività materiale di somministrazione di trattamenti (di tipo diagnostico e terapeutico) e il profilo dell’informazione che deve accompagnarla. In questo senso il problema dell’informazione verrebbe anche a porsi su un piano distinto rispetto a quello relativo alla “qualità” della prestazione, in quanto non si tratta, neppure, di un’obbligazione meramente accessoria al rapporto di cura medica, ma di un vero e proprio obbligo distinto ed autonomo. La mancata richiesta del consenso potrebbe, infatti, costituire autonoma fonte di responsabilità laddove dall’intervento ben eseguito scaturiscano effetti lesivi per il paziente. In altre parole, la vicenda è suscettibile di generare una responsabilità per colpa anche nell’ipotesi in cui la prestazione di cura sia stata correttamente eseguita, sempre che a ciò consegua un danno per il paziente12.

12

Il principio, oramai consolidato in giurisprudenza, secondo cui il medico non può più intervenire sul paziente senza averne ricevuto prima il consenso non ha per oggetto un atto puramente formale e burocratico, ma è la condizione imprescindibile per

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A ben vedere, lo stretto connubio tra attività “materiale” ed informativa, pressoché costante nel rapporto di cura da quando si è affermato il principio del consenso informato, assume poi caratteri peculiari allorché la prestazione richiesta si estrinsechi essa stessa, in modo preponderante se non esclusivo, in un compito informativo, ovvero sia diretta a garantire l’esercizio consapevole di interessi anche diversi dalla salute13. Il caso delle diagnosi prenatali, genetiche e non, è, da questo punto di vista, emblematico. Esse sono rivolte ad assicurare la regolarità della gestazione e a dare conto dello stato di salute della madre e del feto in funzione di una pluralità di interessi e di esigenze: consentire di assumere le misure terapeutiche necessarie ad entrambi, pianificare le condizioni della nascita, gestire il proprio stato psicologico al riguardo.

Concludendo, in base agli orientamenti giurisprudenziali maggioritari, l’informazione implica senza dubbio una prestazione professionale da eseguire con la diligenza richiesta. All’inadempimento dell’obbligo informativo nei confronti del paziente si applicherà non già l’art. 1337 c.c., ma l’art. 1218 c.c..

1.3 Gli elementi costitutivi del fatto illecito

Delineata così la casistica di riferimento, individuato e circoscritto l’ambito di indagine, è necessario adesso procedere con la disamina

trasformare un atto di per sé illecito (la violazione dell’integrità psico-fisica di un individuo) in un atto lecito. Da ciò consegue che la mancata richiesta di informazioni dovrà essere valutata quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione, la cui lesione dà luogo ad un danno di natura non patrimoniale.

13 E. P

ALMERINI,Nascite indesiderate e responsabilità civile: il ripensamento della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 198.

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degli elementi che consentono di affermare l’antigiuridicità dell’operato del medico.

La responsabilità sanitaria nel caso di nascita di un bambino non sano presenta aspetti ormai consolidati e (molti) profili non ancora risolti. Se da un lato, per la valutazione dell’elemento soggettivo, non possono dirsi esistenti procedure standardizzate alle quali attenersi, né parametri certi che sanciscano, sia pure in maniera non automatica, la negligenza nella prestazione che se ne discosta, dall’altro ancora più dibattute sono le questioni inerenti all’accertamento del nesso eziologico e all’individuazione dei soggetti titolati a domandare il ristoro giudiziale. Dopo che nel 2012 la Corte di Cassazione ha fatto registrare importanti novità proprio su quest’ultimo punto, una decisione pronunciata nel 2013 ha segnato un ulteriore revirement in tema di onere della prova del nesso di causa, alleggerendo quello gravante sul medico e rafforzando per converso quello sul danneggiato rispetto a quei casi in cui una condotta prudente, perita e diligente non avrebbe potuto comunque evitare l’insorgere della malattia. Con la sentenza in parola, il giudice di legittimità è intervenuto sulla prova del danno stabilendo che essa ricada su chi ne invoca il risarcimento, secondo i principi generali. L’affermazione non sembra scontata se si pone l’attenzione sul fatto che, in precedenza, il Supremo Collegio, pur formalmente prestando ossequio al principio secondo cui la prova del danno deve essere fornita da colui che ne pretende il ristoro, l’aveva fortemente ridimensionato mediante il ricorso alla prova presuntiva.

L’analisi dei suddetti aspetti si presenta, dunque, come necessaria al fine di valutare l’imputabilità del pregiudizio subito dalla gestante (ovvero dal nascituro o dagli altri familiari coinvolti dalla nuova nascita) al comportamento concretamente posto in essere dal professionista. Tuttavia, condannare il danneggiante al ristoro del pregiudizio cagionato richiede un’ulteriore riflessione in merito ad un altro profilo, anch’esso particolarmente dibattuto. E’ necessario, infatti,

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che l’interesse, che si reputa leso dalla condotta del ginecologo, sia un interesse che l’ordinamento giuridico, nel quadro delle sue fonti, si prefigge di tutelare e riconosce come meritevole di protezione. In altre parole, il danno risarcibile non si identifica con qualunque lesione materiale o naturalistica subita dalla vittima, ma dipende dalle scelte di valore operate dall’ordinamento nell’individuazione degli interessi meritevoli di protezione e delle conseguenze pregiudizievoli economicamente rilevanti14.

In questo senso è proprio all’elemento dell’ingiustizia che è affidata, in ambito aquiliano, la soluzione del conflitto tra danneggiante e danneggiato: esso serve cioè a definire l’ambito di libertà del primo e la corrispondente sfera di tutela del secondo, attraverso una comparazione degli interessi in gioco fondata non su valutazioni aprioristiche o astratte, bensì su considerazioni operate a posteriori, alla luce delle concrete circostanze del caso. Pensare alla responsabilità civile significa avviare una riflessione destinata, in presenza di un evento dannoso, ad approdare al concetto di ingiustizia del danno, le cui tappe sono necessariamente costituite dall’identificazione di un interesse rilevante, oltre che dalle modalità della sua lesione15. Come si metterà in evidenza nella parte finale dell’elaborato, il requisito dell’ingiustizia non riguarda la nascita di un figlio malformato in re ipsa, bensì il pregiudizio arrecato ad un interesse considerato meritevole di protezione dall’ordinamento.

L’indagine che si intende condurre con il presente capitolo appare preliminare, nonché propedeutica, alla riflessione circa la natura della responsabilità del ginecologo: il soggetto che vanta in giudizio una pretesa risarcitoria dovrà allegare e provare dinanzi all’organo

14 A. P

IZZOFERRATO, Il danno alla persona: linee evolutive e tecniche di tutela, in Contr. e impresa, 1999, 1047.

15

Cfr. U.BRECCIA,L.BRUSCUGLIA,F.D. BUSNELLI,F.GIARDINA,A.GIUSTI,M.L.LOI, E.NAVARRETTA,M.PALADINI,D.POLETTI,M.ZANA,Diritto privato, II, Torino, 2011, 617.

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17

giudicante il titolo della responsabilità del professionista sanitario, con le differenze che ne seguono in termini di disciplina applicabile e che saranno oggetto del prossimo capitolo.

1.3.1 I criteri di valutazione della colpa professionale del ginecologo Il verificarsi di un evento lesivo richiede innanzitutto l’accertamento dei profili della colpa e del dolo16: il professionista della salute potrà essere chiamato a rispondere del danno provocato (danno da nascita indesiderata o danno prenatale) allorché abbia tenuto una condotta quantomeno colposa17. Sarà considerato responsabile, pertanto, il ginecologo che, ad esempio, abbia eseguito con imperizia un atto medico in fase prenatale, ovvero abbia negligentemente omesso di accertare le reali condizioni di salute del bambino che la paziente porta in grembo mancando di assolvere ai suoi obblighi informativi.

L’atteggiarsi dell’elemento soggettivo dell’illecito in ambito ostetrico-ginecologico non diverge da quanto avviene con riferimento agli altri casi di responsabilità sanitaria. La diligenza è il generale criterio di valutazione della condotta medica: una volta accertata la sussistenza di un evento dannoso, quale conseguenza del comportamento del medico, l’unico modo per escludere la

16 Il codice civile non fornisce alcuna definizione di colpa e dolo; le reciproche nozioni

devono essere mutuate dall’ambito penalistico. In base all’art. 43, 1° comma, c.p., rubricato “Elemento psicologico del reato”, il delitto (così come la contravvenzione, 2° comma) è «doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente provveduto e voluto come conseguenza della propria azione o omissione»; è, invece, «colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza delle leggi, regolamenti, ordini o discipline».

17 Si ricordi che in ambito civilistico, con specifico riferimento alla responsabilità

aquiliana, vige il “principio” dell’equivalenza tra il dolo e la colpa in ordine alle conseguenze del fatto illecito: che la condotta lesiva tenuta dal danneggiante sia voluta, ovvero sia negligente, imprudente o imperita, l’esito sarà in ogni caso il sorgere di una obbligazione risarcitoria.

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18

responsabilità è quello di dimostrare che la prestazione sia stata eseguita diligentemente e che, quindi, gli esiti dannosi o peggiorativi siano dipesi da eventi imprevisti ed imprevedibili18.

Per gli operatori del diritto la colpa professionale19 deve essere accertata con specifico riferimento alla natura dell’attività esercitata20 e al grado di difficoltà del comportamento esigibile. Non si tratta qui di introdurre o ipotizzare l’esistenza di diverse “gradazioni” della colpa, ma di valutarne il contenuto in modo quanto più vicino alla specificità e alle caratteristiche dei soggetti coinvolti nell’illecito, al tipo di prestazione da eseguire, nonché alle altre peculiarità del caso concreto. Nella prassi applicativa il giudizio di responsabilità avviene alla luce del criterio individuato all’art. 1176, 2° comma, c.c.21: il medico, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla propria attività professionale, è tenuto ad una diligenza che non è quella del «buon

padre di famiglia», come richiesto all’art. 1176, 1° comma, c.c.22, ma quella specifica del debitore qualificato23.

18 Ancora, C.F

AVILLI,Op. cit., 508 ss..

19

Rispetto all’operato del sanitario, così come accade con riferimento alle diverse attività professionali, gli interpreti sono soliti parlare di “colpa professionale”. Il fatto per cui l’attività svolta sia resa da un soggetto “qualificato” spinge verso un adattamento del contenuto della colpa agli “statuti” delle specifiche professioni.

20

«La condotta del medico specialista (a fortiori se tra i migliori del settore) va esaminata non già con minore ma al contrario semmai con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla natura e al livello di pericolosità della prestazione (cfr., con riferimento al medico sportivo, Cass., 8/1/2003, n. 85), implicante scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale (cfr. Cass., 13/1/2005, n. 583)», cit. Cass., 9 ottobre 2012, n.17143.

21 Art. 1176, 2° comma, c.c., «nell’adempimento delle obbligazioni inerenti

all’esercizio di una attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata».

22 Art. 1176, 1° comma, c.c., norma rubricata “Diligenza nell’adempimento”,

«nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».

23 Su questo piano la dottrina dissente: il 2° comma dell’art. 1176 c.c. non costituisce

un’eccezione alla regola sancita dal 1° comma, ma contiene solamente una mera esplicitazione del significato da attribuire alla diligenza. Cfr. U. BRECCIA, L. BRUSCUGLIA,F.D.BUSNELLI,F.GIARDINA,A.GIUSTI,M.L.LOI,E.NAVARRETTA,M. PALADINI,D.POLETTI,M.ZANA,Op. cit., 481.

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La diligenza, allora, rappresenta il parametro di individuazione del contenuto stesso della prestazione di cura, il suo difetto rileva quale criterio di imputazione della responsabilità24. L’applicazione e l’interpretazione della norma sopra richiamata, contrapposta alla parsimonia con cui la giurisprudenza in materia ricorre all’esimente prevista dall’art. 2236 c.c.25

, denotano peraltro una certa severità nell’approccio dei giudici all’apprezzamento della condotta del sanitario.

L’accertamento della colpa medica deve avvenire sulla base di una comparazione, di un confronto, cioè, tra il comportamento concretamente tenuto e quello che, nelle medesime circostanze, sarebbe stato lecito attendersi da un professionista diligente, in conformità con le tendenze operative e le tecniche ordinariamente condivise, applicate ed elaborate dalla comunità scientifica contemporanea. A questo proposito assumono rilievo le cc. dd. leges artis e, dunque, le regole tecniche di condotta da esse previste: «le linee guida – provenienti da

fonti autorevoli, conformi alla miglior scienza medica e non ispirate ad esclusiva logica di economicità – possono svolgere un ruolo importante quale atto di indirizzo per il medico»26 nell’individuare le modalità

assistenziali e di cura più appropriate alla specifica situazione clinica27.

24 C.P

ARRINELLO, Medical malpractice e regole di responsabilità civile. Tradizione e innovazione, Milano, 2008, 56 ss..

25

L’art. 2236 c.c. pone una limitazione alla responsabilità del prestatore d’opera in presenza di prestazioni che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà dal momento che, in tali ipotesi, lo stesso risponderà dei danni solo in caso di dolo o colpa grave. «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave».Cfr. in giurisprudenza, Cass., 14488/2004; in dottrina, C.FAVILLI,Op. cit., 508 ss..

26 Cit. Cass. pen., 11 luglio 2012, n.35922. La sentenza prosegue sostenendo che

«esse, tuttavia, avuto riguardo all’esercizio dell’attività medica che sfugge a regole rigorose e predeterminate, non possono assurgere al rango di fonti di regole cautelari codificate […], non essendo né tassative né vincolanti e, comunque, non potendo prevalere sulla libertà del medico, sempre tenuto a scegliere la migliore soluzione per il paziente».

27 Secondo una nota e diffusa definizione, le linee guida costituiscono

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20

Non si tratta di vere e proprie norme giuridiche, ma di direttive accreditate dalla prassi medica in ragione dell’efficacia riscontrata, sul piano epidemiologico, nel trattamento di fattispecie che presentano caratteristiche simili. Come si è detto, in sede giudiziale esse assumono rilievo in quanto criteri di valutazione della condotta del medico, atti a specificare il contenuto della diligenza richiesta dall’art. 1176, 2° comma, c.c.. Ciò nonostante, la diligenza nell’operato del sanitario non può essere valutata esclusivamente in funzione del rispetto di suddette linee guida. La rigorosa osservanza di queste ultime non è ragione sufficiente di esonero della responsabilità; non si può, infatti, escludere che rispetto alla vicenda concreta siano venute in gioco situazioni specifiche e circostanze peculiari tali da suggerire al professionista della salute la necessità di discostarsi dalle linee guida codificate per ipotesi simili. Al contrario, è possibile che il mancato rispetto di tali prassi scientifiche si riveli il modo migliore per assicurare un’efficace tutela della salute del paziente alla luce delle particolarità del concreto quadro clinico. Così, in caso di comportamento omissivo, per stabilire se versi in una condizione di colpevolezza quel ginecologo che abbia mancato di rilevare l’esistenza delle malformazioni congenite del concepito, sarà necessario verificare se dall’immagine (ecografica, radiografica o genetica), attraverso l’uso della diligenza del “bravo medico”, si sarebbe potuti risalire alla sussistenza dell’handicap. Occorre qui distinguere due ipotesi: l’interpretazione non corretta dell’immagine che evidenzia la patologia del feto; l’errata acquisizione della stessa immagine, tale per cui il referto diagnostico non mostra la presenza della malformazione. Nel primo caso, l’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito dovrà avvenire stabilendo se quella immagine,

revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutar medici e pazienti a decidere la modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche». Esse non sono vere e proprie norme giuridiche, ma hanno un carattere persuasivo che deriva dall’ampio rispetto ottenuto su base volontaria e non in virtù del carattere coercitivo di cui sono prive.

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acquisita mediante quello specifico strumento di indagine, consente o meno ad un professionista esperto di avvedersi delle reali condizioni di salute del nascituro. Nel secondo, invece, l’accertamento dovrà basarsi sulla comparazione tra il metodo di acquisizione dell’immagine adottato dal presunto danneggiante e quello previsto dalle leges artis. Non sarà sufficiente dimostrare, ad esempio, che l’immagine ottenuta non consente di rilevare la malformazione, bensì sarà necessario provare di aver eseguito gli esami facendo ricorso alla corretta metodologia diagnostica28.

Quanto fin qui affermato era prassi giurisprudenziale consolidata prima dell’entrata in vigore del c.d. “Decreto Balduzzi”. Sino a pochi anni fa, conformarsi o discostarsi dalle linee guida integrava una scelta del medico che spettava all’organo giudicante valutare al fine di esprimere una sentenza di esonero ovvero di riconoscimento della responsabilità. In controtendenza con tale orientamento si è inserito il recente intervento del legislatore. Con l’apprezzabile (ma non raggiunto) obiettivo, infatti, di arginare il fenomeno della medicina c.d. “difensiva” e con quello di fornire criteri più sicuri in merito alla valutazione dell’elemento soggettivo, l’art 3, 1° comma, del d.l.

28

In applicazione dei principi sin qui menzionati, è stata ritenuta sussistente la colpa del sanitario in un caso in cui la madre di un bambino, nato affetto da grave malformazione cardiaca, aveva convenuto in giudizio un ecografia ascrivendogli di non aver rilevato (e di conseguenza non averla informata) la grave malformazione del feto. Il medico si era difeso sostenendo che dall’immagine acquisita mediante ecografia non fosse possibile venire a conoscenza della patologia. In quell’occasione il Tribunale, pur riconoscendo che dall’immagine ecografica non poteva essere rilevata la malattia, ritenne comunque in colpa il medico, in quanto nell’eseguire la scansione non si era attenuto alle linee guida elaborate dalla comunità scientifica, che prescrivevano anche tecniche di indagine ulteriori rispetto a quelle concretamente poste in essere. Se l’ecografista avesse tentato di visualizzare il cuore del concepito due sarebbero state le alternative: ove la malformazione fosse stata effettivamente rilevabile con l’uso dello strumento a lui in dotazione, egli l’avrebbe ovviamente visualizzata ed avrebbe potuto segnalarlo alla paziente; ove, per contro, lo strumento non avesse consentito la corretta visualizzazione, proprio l’impossibilità di configurare la conformazione di un organo che a quell’età gestazionale sarebbe dovuto essere già visibile, avrebbe dovuto indurre l’ecografista a segnalare la circostanza e a prescrivere esami più approfonditi. E’ il caso affrontato da Trib. Roma, 11 Agosto 2006, n.17442, in archivio dejure.

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22

158/201229, ha stabilito che «l’esercente la professione sanitaria che

nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo»30. In altri termini, la disposizione in esame impone all’organo giudicante di recepire le linee guida di buona pratica medica al fine di procedere con la valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito. Si tratta, dunque, del tentativo di specificare il contenuto della colpa attraverso un’operazione di rinvio alle leges artis quali protocolli contenenti indicazioni di valore assoluto sia per i giudici che per gli operatori sanitari.

Per quanto l’intento del legislatore, in linea generale, possa apparire condivisibile, le modalità con le quali è intervenuto e l’ambiguità di alcune espressioni hanno sollevato qualche perplessità e sono state al centro di numerosi dibattiti dottrinali fin dall’entrata in vigore della riforma. Non è chiaro, anzitutto, quali debbano o possano essere considerate, in concreto, le «linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità

scientifica». Ad oggi, infatti, la loro individuazione è operazione

tutt’altro che agevole: la molteplicità e la pluralità dei livelli (regionale, nazionale, europeo, internazionale) nell’ambito dei quali intervengono, la numerosità degli organismi autorizzati ad esprimere e pubblicare documenti contenenti buone pratiche diagnostico-terapeutiche rappresentano, di fatto, condizioni che non permettono di identificare quali, tra tutte le linee guida esistenti, siano quelle idonee a rappresentare il comportamento che rileva da parametro di riferimento

29 D. l. 158/2012, convertito in legge 8 novembre 2012, n.189.

30 Art. 3, 1° comma, norma rubricata «Responsabilità professionale dell’esercente le

professioni sanitarie». Si tratta di una disposizione che si presta a trovare applicazione, oltre che in caso di responsabilità aquiliana, anche rispetto alle ipotesi di responsabilità contrattuale.

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per valutare le scelte operate dal professionista sanitario in un giudizio di responsabilità31. La legge si riferisce alle «linee guida e buone

pratiche accreditate dalla comunità scientifica», senza offrire alcuno

specifico criterio di selezione e determinazione delle stesse. La sentenza con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 ricorda, a titolo meramente esemplificativo, come per talune specializzazioni mediche vi sono, nel nostro paese, tre linee guida regionali, tredici linee guida nazionali, alcune decine di linee guida europee32. Non sono mancate riflessioni secondo cui occorrerebbe, a tale proposito, «un sistema centralizzato, un ente esterno o un ente-terzo

per accreditare le linee guida, comuni a tutto il Servizio sanitario nazionale, per evitare che ciascuna struttura sanitaria codifichi le proprie particolari linee guida»33. Per lo stesso professionista sanitario

non sarà altrimenti semplice individuare con esattezza le linee guida cui ha il dovere di informare il proprio operato.

Il rinvio contenuto nell’art. 3 della legge sembra pertanto assumere le caratteristiche di un richiamo che contribuisce ad orientare l’interprete nei giudizi relativi alle controversie in materia, ma che, di fatto, non ha le caratteristiche per poter vincolare tale giudizio al rispetto delle linee guida da parte del medico. Al di là della difficoltà di dare reale attuazione alla norma in esame, la stessa volontà del legislatore di vincolare il giudizio al formale rispetto delle buone pratiche mediche non è sfuggita alle critiche della dottrina. E’ opinione prevalente, infatti, che le linee guida, pur essendo uno strumento in grado di fornire indicazioni precise circa l’opportunità di un determinato trattamento,

31 Secondo V. C

ARBONE, La responsabilità del medico pubblico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2013, 378 ss., «occorre un sistema centralizzato, un ente esterno o un ente terzo per accreditare le linee guida, comuni a tutto il Servizio sanitario nazionale, per evitare che ciascuna struttura sanitaria codifichi le proprie particolari linee guida», cit. 384.

32 La norma è stata oggetto di rinvio alla Corte Costituzionale da parte del Tribunale di

Milano. Trib. Milano, sez. IX penale, ord. 21 marzo 2013.

33 V. C

ARBONE, La responsabilità del medico dopo la legge Balduzzi, in Danno e resp., 2013, cit. 384.

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24

non possano essere un punto di approdo definitivo e neanche fornire, da sole, la soluzione di tutti i problemi. Prenderle in considerazione quali indicazioni di valore assoluto non sembra la via migliore né per il medico, stante la libertà di cura, né per il giudice, che sarebbe così privato della possibilità di valutare se le circostanze concrete esigono una condotta diversa. Viceversa sarebbe opportuno continuare a considerarle quali punto di partenza e atto di indirizzo affinché l’organo giudicante possa ricomprendere nel suo giudizio profili ulteriori, non direttamente contemplati dalla linee guida, ma ugualmente rilevanti per la definizione dello specifico caso concreto e senza che il rispetto o la mancata osservanza delle linee guida debbano rappresentare a priori, rispettivamente, causa di esonero, ovvero di imputazione della responsabilità. A tal proposito, si è posto in evidenza il rischio che la riforma possa indurre gli operatori sanitari a tenere quegli stessi comportamenti che essa mira invece ad evitare.

In conclusione: allo stato attuale il medico è tenuto ad analizzare le peculiarità della patologia e del paziente e a compiere scelte terapeutiche corrette, perseguendo come unico fine quello della salute del malato, con la conseguenza che può non rispettare le linee guida contrastanti con le esigenze concrete di cura del suo assistito. In tal caso spetterà a lui provare l’irrilevanza delle leges artis, quindi l’esigenza di un diverso approccio terapeutico. Fornite tali prove, nonostante l’esito negativo dell’intervento o la comparsa di complicanze, l’operatore sanitario sarà esente da colpa. In questo modo è possibile preservare un’area di libertà del medico nell’individuare soluzioni cliniche “atipiche”, che trovano la loro giustificazione nelle circostanze, oggettive e soggettive, della singola esperienza di cura.

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25 1.3.2 Il nesso di causalità

Il nesso eziologico è altro presupposto indefettibile nella valutazione della responsabilità civile. Il danno ingiusto, per poter essere risarcito, deve essere causalmente riconducibile al comportamento tenuto in concreto dal professionista. Stabilire se il fatto, doloso o colposo, abbia leso la sfera giuridica di un individuo significa accertare se la condotta sia stata realmente idonea a cagionare il pregiudizio che l’attore intende far valere mediante la sua azione giudiziale: è necessario, pertanto, individuare il collegamento (materiale e giuridico) che unisce la condotta all’evento lesivo.

L’accertamento del nesso causale rappresenta, anzi, uno dei profili più complessi e maggiormente dibattuti nella valutazione della responsabilità sanitaria, a prescindere dalla qualificazione giuridica della stessa. A tal proposito, occorre dar breve conto della discussione che si è svolta in merito alla possibilità di utilizzare, in ambito civile, le acquisizioni condivise dalla giurisprudenza penale e consacrate nella nota “sentenza Franzese”. Il dibattito penalistico, infatti, si è assestato su una concezione “condizionalistica” della causalità: come sottolineato dalle Sezioni Unite, l’interpretazione «assolutamente dominante […]

nella lettura degli artt. 40 e 41 c.p. sul rapporto di causalità e sul concorso di cause fa leva sulla “teoria condizionalistica” o dell’”equivalenza delle cause” (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla “causalità umana” quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41, comma 2)». Ciò significa che è «causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile […]) la condotta umana, attiva ed omissiva, che si pone come condizione “necessaria” – condicio sine qua non – nella

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26

catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato»34.

L’orientamento è stato, tuttavia, accolto con le dovute riserve, viste le peculiarità che distinguono il sistema civile da quello penale.

Il criterio della “condicio sine qua non” tende, infatti, ad essere spesso sostituito dai giudici civili con quello della c.d. “causalità adeguata”, da intendersi «come una sequenza costante, secondo un

calcolo di regolarità statistica, in virtù della quale il danno deve ritenersi conseguenza normale e non straordinaria della condotta illecita»35. In tempi più recenti, tuttavia, la Corte di Cassazione sembra

aver abbandonato la teoria della “causalità adeguata”, passando da una causalità accertata in astratto, ad una causalità verificata nel caso concreto, secondo un giudizio di “probabilità logica”36

.

Nei casi di specie il danno-evento da ricondurre alla colpa del professionista non è mai la nascita in sé. Nell’ipotesi di condotta commissiva, è la sussistenza stessa dell’handicap ad essere imputata al professionista. Il nesso eziologico è qui evidente e la sua dimostrazione non suscita particolari problemi in quanto è la stessa condotta del professionista ad essere fonte della malattia: il comportamento colposo del ginecologo, o del personale ostetrico, andando a ledere un feto sano, è causa certa del pregiudizio psico-fisico arrecato al nascituro. Come si

34

Cit. Cass., Sez. Un. penali, 10 luglio 2002, n.30328. Cfr. commento in A. PROCIDA

MIRABELLI,M.FEOLA, La responsabilità civile. Contratto e torto, Torino, 2014, 407. In altre parole, la teoria della “condicio sine qua non” prevede che vi sia causalità tra condotta colposa ed evento dannoso ogniqualvolta mancando la prima il secondo non si sarebbe verificato.

35 Cfr. U.B

RECCIA,L.BRUSCUGLIA,F.D. BUSNELLI,F.GIARDINA,A.GIUSTI,M.L.LOI, E. NAVARRETTA, M. PALADINI,D. POLETTI, M. ZANA, Op. cit., 638-639. Con tale criterio, in sostituzione di quello della “condicio sine qua non”, «si persegue l’intento di espungere dal risarcimento le conseguenze anomale», evitando quindi di ampliare «la serie delle conseguenze dannose ricollegabili al comportamento, posto che la responsabilità di un soggetto sorge in capo a chi ha determinato un qualunque antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe realizzato».

36

Il criterio di causalità di tipo probabilistico si differenzia dai precedenti in quanto basato «sulla maggiore o minore “probabilità” che ad un determinato comportamento (ovvero alla sua omissione) possa conseguire un preciso evento lesivo, secondo una valutazione di carattere statistico», cit. P.STANZIONE, La condotta del ginecologo e dell’ostetrico nel caleidoscopio della responsabilità medica, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013, 17.

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27

avrà occasione di accertare nella parte finale dell’elaborato, si tratta di un «danno che incide immediatamente […] su un soggetto venuto ad

esistenza, sia pure per effetto di un fatto colposo commesso anteriormente alla nascita»37. E’ la stessa condizione di invalidità «a costituire il danno, e nessuno può negare la fondatezza di questa soluzione»38.

Più complessa, al contrario, si presenta la definizione del nesso di causa in occasione di una patologia ereditaria non diagnosticata. Con riferimento a tale casistica l’interprete è chiamato ad accertare l’esistenza di un collegamento eziologico tra la mancata (ma doverosa) informazione e il danno da mancato esercizio del diritto della donna a non portare a termine la gestazione. Secondo il Supremo Collegio «la

possibilità, per la madre, di esercitare il suo diritto ad una procreazione cosciente e responsabile interrompendo la gravidanza, assume rilievo nella sede sul giudizio causale»39. Si tratta di una causalità di tipo omissivo: nel giudizio controfattuale è necessario verificare il ruolo condizionante della condotta omessa rispetto ai pregiudizi che si sono concretamente realizzati. L’accertamento del nesso di causa avviene attraverso un giudizio ipotetico nell’ambito del quale, in luogo dell’avvenuta omissione, viene posto il comportamento che il medico avrebbe dovuto tenere, allo scopo di verificare se la condotta doverosa sarebbe stata o meno idonea ad evitare le conseguenze lamentate dal presunto danneggiato. Il giudice, in altri termini, deve chiedersi se l’attività sanitaria (non compiuta) avrebbe potuto impedire il verificarsi dell’evento pregiudizievole.

In tema di danno da nascita indesiderata la ricostruzione del nesso eziologico demandata all’organo giudicante si articola in due momenti: occorre, innanzitutto, stabilire se nel singolo caso ricorrere alle pratiche

37 Cit. Cass., 22 novembre 1993, n.11503. 38

Cit. A. PROCIDA MIRABELLI,M.FEOLA, Op. cit., 380. Cfr. anche C.SIANO,La tutela giuridica dei soggetti coinvolti nella procreazione, Salerno, 2008.

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terapeutiche di i.v.g. sarebbe stato consentito dalla legge, quindi, in secondo luogo, verificare se, sussistendo tutti i presupposti normativamente richiesti per il legittimo ricorso all’aborto, la gestante, adeguatamente informata della malattia del concepito, avrebbe verosimilmente compiuto tale scelta.

Rispetto al primo dei due requisiti si può ricordare come l’esercizio del diritto ad interrompere la gravidanza non sia del tutto incondizionato e affidato ad una libera scelta della donna40; esso è, viceversa, subordinato all’esistenza dei presupposti stabiliti dalla legge 22 maggio 1978, n. 194, recante “Norme per la tutela sociale della maternità e

sull’interruzione volontaria di gravidanza”. Per quanto attiene alla

specifica disciplina contemplata da tale testo normativo si rinvia al capitolo finale del presente elaborato; in questa sede basti ricordare che, mentre prima del 90° giorno dall’inizio della gravidanza l’interruzione della gestazione è consentita in presenza di un pericolo «serio» per la salute fisica o psichica della donna, dopo il 90° giorno l’aborto è permesso se il pericolo per la vita della madre sia qualificabile come

«grave», ovvero se vi sia già in atto una malattia del concepito che

esponga la donna a pericolo anch’esso «grave». L’accertamento della prima condizione generalmente non dà luogo a particolari difficoltà; più complesso è invece provare quando sussistano le seconde.

Affinché sia consentito il ricorso alle pratiche abortive, la norma richiede la contestuale presenza di due condizioni: la prima è il processo patologico ovvero la malattia del concepito; la seconda è la grave pericolosità di tale processo per l’integrità psico-fisica della madre. Il

40 Il “diritto all’aborto”, come si vedrà meglio nel terzo capitolo, è il risultato giuridico

e normativo del contemperamento tra le esigenze di tutela del soggetto in fieri e la protezione dei diritti alla vita, alla salute, nonché ad una procreazione cosciente e responsabile della madre. L’esercizio di tali pratiche interruttive della gravidanza non può, dunque, essere del tutto incondizionato e rimesso alla scelta arbitraria della gestante: l’i.v.g. è subordinata alla sussistenza dei requisiti fissati dalla legge 194/1978, artt. 4, 6 e 7, a seconda che avvenga nel primo trimestre o una volta decorsi novanta giorni dal concepimento.

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processo patologico deve essere già in atto: occorre, cioè, che al momento in cui si sarebbe dovuta praticare l’ i.v.g., la malformazione del bambino fosse già esistente. Secondo quanto si ricava dal dato normativo, tuttavia, ciò che rileva ai fini del giudizio di responsabilità del sanitario (o della struttura ospedaliera presso cui lavora) non sono le sole malformazioni del nascituro, ma la circostanza che queste si siano tradotte in una situazione di concreto pericolo per la partoriente. Provare l’esistenza della malattia del concepito di per sé non basta; è necessario invece dimostrare che, se vi fosse stata una corretta diagnosi, la madre informata avrebbe corso il grave pericolo di ammalarsi, anche solo a livello psichico.

Tale onere della prova, affermato con rigore nella teoria, risulta attenuato nella prassi giurisprudenziale dal facile e generoso ricorso alla prova presuntiva.

Conformemente con quanto sancito dall’art. 2727 c.c.41

si è infatti consolidata la tendenza giurisprudenziale a trarre dall’esistenza della patologia del feto (fatto noto) l’automatica conseguenza secondo cui la madre, se fosse stata messa al corrente delle effettive condizioni di salute del nascituro, sarebbe con alta probabilità incorsa nel pericolo,

«serio» o «grave», di una malattia psichica (fatto ignoto), posto che,

sulla base della comune esperienza42 data da casi simili, pochi genitori sarebbero stati realmente disposti ad accogliere un figlio diversamente abile, presumibilmente condannato ad una vita tutt’altro che semplice.

Si ricorre alla prova presuntiva anche per quel che riguarda la pericolosità del processo patologico, richiesta dalla legge 194/1978, per

41 Art. 2727 c.c., “Delle presunzioni”, «le presunzioni sono le conseguenze che la

legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato».

42 I giudici hanno spesso chiamato in gioco l’art. 115 c.p.c., “Disponibilità delle

prove”. Secondo quanto sancito dalla norma in questione «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita». Ciò nonostante il 2° comma chiarisce che «il giudice può tuttavia, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza».

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