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4. PAESI IN CUI NON SONO AVVENUTI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI

4.5 Altrove nella regione

4.5.5 Oman

Nei primi mesi del 2011 a seguito di manifestazioni in richiesta di riforme politiche e di protesta contro la corruzione e la disoccupazione, alcuni dimostranti rimasero vittime dalla repressione delle forze di polizia. Per evitare la diffusione di mobilitazioni, il 27 febbraio il sultano dell‟Oman Qābūs bin Saʿīd Āl Saʿīd (Qaboos) annunciò circa 50.000 nuovi posti di lavoro e sussidi per i disoccupati e annunciò il rilascio di 26 manifestanti arrestati quello stesso giorno. Provvide a un rimpasto di governo e annunciò che alcuni poteri legislativi sarebbero stati affidati a un‟assemblea eletta. Ma le proteste proseguirono. Il 29 marzo le forze di sicurezza attaccarono un accampamento organizzato dai manifestanti e nei giorni seguenti effettuarono un gran numero di arresti. Il 20 aprile il sultano Qaboos concesse la grazia a 234 persone accusate per crimini legati alle proteste, dozzine di persone furono però arrestate per offese a pubblico ufficiale. In ottobre due attivisti e una donna si candidarono con successo alle elezioni per gli 84 membri del Consiglio della Shura ma nello stesso mese fu emendata la legge sulla stampa e sulle pubblicazioni e fu così bandita qualsiasi pubblicazione passibile di pregiudicare la sicurezza dello stato47. 45 Ibidem. 46 Ibidem. 47 Ibidem.

CONCLUSIONI

Le rivolte arabe, che nel 2011 si sono diffuse “a macchia d‟olio” in Nord Africa e in Medio Oriente, e che in parte non sono ancora terminate, sono state in gran parte frutto di movimenti spontanei che hanno mescolato classi, generazioni e componenti della società fino ad allora divise da differenze etniche o religiose. Iniziate come movimenti di protesta, che hanno visto come principali protagonisti i giovani, spesso istruiti e disoccupati o sottoccupati, hanno presto fornito l‟opportunità di ribellarsi anche ad altre componenti della società come i liberi professionisti e i dipendenti pubblici.

Inizialmente ha stupito l‟assenza di leader e il fatto che le mobilitazioni non fossero riconducibili a ben identificabili parti politiche e da subito si ebbe modo di notare l‟assenza di rivendicazioni ideologiche contro l‟imperialismo occidentale o lo storico nemico sionista: semplicemente milioni di giovani, dopo aver per molti anni subito il terrore e le ingiustizie messe in atto da regimi autoritari e repressivi, hanno compreso che la loro disperazione e la loro rabbia si potevano trasformare in rivolta e, perché no, in rivoluzione. Per questo motivo a tale fermento è stato dato il nome di “Primavera Araba”, come a intendere che, per la prima volta, i popoli arabi avevano trovato la forze di insorgere contro l‟oppressione e l‟autoritarismo cui, agli occhi degli occidentali, sembravano eternamente destinati. Ma questa definizione non è errata solo perché non coglie la molteplicità del fenomeno che ha assunto caratteri peculiari in ciascun Paese, ma anche perché, da un lato, sono presto subentrati nuovi attori e nuovi interessi, inizialmente estranei alle proteste, dall‟altro, non sempre (o non ancora) il sangue versato da molti giovani nelle piazze ha portato ai cambiamenti per cui si era deciso di combattere.

In alcuni Paesi i dittatori sono stati destituiti, ma nuove (o vecchie) forze politiche si sono fatte protagoniste del processo di transizione verso la democrazia. È il caso dei Fratelli musulmani che, in alcuni luoghi, hanno preso le redini di una rivoluzione cui non avevano inizialmente partecipato, facendo leva sulla sensibilità islamica di società fortemente religiose.

Come afferma Caracciolo, dal punto di vista degli indicatori socio-economici, il fatto che i Paesi fossero o meno produttori di idrocarburi ha molto influito sugli esiti delle rivolte: chi possedeva tali risorse, infatti, ha potuto «destinare imponenti masse di denaro a sedare le velleità dei ribelli. È il caso di Arabia Saudita, Kuwait,Qatar, Emirati Arabi Uniti, che

hanno investito centinaia di miliardi di dollari cash nella profilassi della rivoluzione»1. La così detta “Primavera araba” ha però dovuto fare i conti anche con una dimensione internazionale: la destabilizzazione di una regione a forte valenza strategica ed economica, ha aperto una partita per l‟affermazione delle sfere di influenza e dei relativi interessi nel mondo arabo. Si sono così aperte molteplici partite di rilevanza globale e ciò che mi è sembrato di poter dedurre dal presente lavoro è che i giovani disposti a morire nelle piazze in nome della dignità, di un‟equa distribuzione delle risorse e di maggiori diritti civili e politici, passassero in secondo piano rispetto a i grandi disegni internazionali.

Alla luce di ciò, mi è parso che i media, attraverso cui i governi hanno informato le proprie opinioni pubbliche sulle rivolte arabe, fossero spesso impegnate in un esercizio di retorica e spesso mancassero di evidenziare i pochi punti focali attorno ai quali si prendevano le decisioni di rilevanza internazionale e che, per quel che abbiamo potuto capire sono i seguenti: la dipendenza energetica di molti paesi industrializzati o in via di sviluppo dalle risorse energetiche nordafricane e mediorientali; gli importanti investimenti effettuati nei Paesi della regione spesso legati al settore degli idrocarburi o, per esempio, alle infrastrutture o agli armamenti; la determinazione delle autoritarie petromonarchie del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in primis), con l‟avallo di buona parte delle potenze occidentali, ad estendere la propria influenza a discapito dei regimi considerati laici (Tunisia, Egitto, Libia e Siria) il secolare conflitto tra sciiti e sunniti, che oggi contrappone l‟Iran all‟Arabia Saudita e al Qatar; la contrapposizione fra Iran, da un lato, e Israele e Stati Uniti dall‟altro, che è andata inasprendosi per la questione di un eventuale sviluppo dell‟arma nucleare da parte della Repubblica Islamica.

Le “primavere arabe”, fermenti sociali legati a questioni di politica interna, sono state così scavalcate dalle dinamiche internazionali appena delineate. A ciò si devono poi sommare le direttrici che, in ogni fase storica, ciascun Paese decide di imprimere alla propria politica estera.

Gli Stati Uniti, per esempio, sono attualmente impegnati in una “ritirata geo-strategica” e stanno tentando di portare avanti un disimpegno militare ed economico in molte aree del mondo per poter concentrare le proprie attenzioni verso il Pacifico. Non hanno intenzione di abbandonare una regione di tale importanza, ma ritengono di poter agire restando dietro le quinte, attraverso un‟azione diplomatica e per mezzo dell‟attività di una serie di organizzazioni legate direttamente o indirettamente al governo, ma soprattutto cavalcando la «tigre islamica» (con cui la morte di Osama Bin Laden ha permesso di aprire un dialogo che non fosse inviso alla propria opinione pubblica) e magari delegando un eventuale

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intervento militare ai propri alleati.

La Russia reputa l‟atteggiamento occidentale (soprattutto per ciò che riguarda la Siria) troppo rischioso e intende utilizzare fino in fondo il proprio diritto di veto in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Russia e Cina stanno in pratica portando avanti un‟agenda di politica internazionale alternativa all‟Occidente o comunque, non sono inclini a una politica di cieco allineamento, in primo luogo perché i loro interessi non coincidono con gli interessi europei e statunitensi, in secondo luogo perché avvallare l‟uso della forza internazionale in questioni di politica interna potrebbe dare adito a futuri problemi in casa propria, soprattutto per la Cina.

Alla luce di quanto detto, come si inseriscono le denuncie provenienti dalla comunità internazionale sulle diffuse violazioni delle libertà personali, sulla mancanza di democrazia e sulle violazioni dei diritti umani? Come è noto, molti dei regimi contro il quale è stato scagliato lo sdegno delle potenze democratiche erano in realtà loro alleati di vecchia data e la natura di tali regimi è sempre stata nota all‟Occidente. L‟Occidente «ha svenduto Mubarak e i dirigenti tunisini che, ove misurati sugli standard locali, erano fortezze di governo relativamente illuminato, di stabilità e con almeno qualche sembianza di democrazia, anche se autoritari e corrotti» mentre nessuno considerava il fatto che alcuni dei regimi che restavano a galla nel mondo arabo erano «le monarchie più arretrate e repressive»2.

Inoltre, se l‟opinione pubblica avesse saputo che, mentre le Nazioni Unite approvavano l‟intervento militare in Libia, non veniva espressa neppure la minima riprovazione per l‟intervento saudita in Bahrein per sedare la rivolta, forse le grandi potenze occidentali che da anni si battono per “esportare la democrazia” si sarebbero potute trovare in imbarazzo. Analoga considerazione potrebbe essere fatta per lo Yemen, riguardo al quale, alcuni mesi più tardi, il Consiglio di Sicurezza e l‟Arabia Saudita si erano accordati per costringere alle dimissioni il presidente yemenita, ma solo per placare i manifestanti e fare in modo che non venisse modificato lo status quo e fosse lasciata al potere l‟intera élite di regime. I media nazionali ed internazionali sono stati un mezzo fondamentale per mobilitare le opinioni pubbliche e per focalizzare la loro attenzione su alcune questioni e distoglierla dai fatti considerati sconvenienti.

Si dovrà aspettare per vedere dove condurranno i processi avviati con le rivolte arabe. Credo però di poter affermare che, a partire dal disperato gesto di Bouazizi, i popoli arabi abbiano preso coscienza della propria forza potenziale e di ciò che spetterebbe loro di diritto ed è invece loro strappato da élite-clan ricchissimi e corrotti, decisi a mantenere il

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proprio potere anche a costo di uccidere i propri cittadini.

La determinazione e il coraggio delle piazze nel rivendicare i propri diritti si sono però dovuti scontrare con un evidenza: agli occhi della comunità internazionale non tutte le vittime hanno lo stesso peso e non tutti hanno ugualmente diritto a libertà e giustizia. Così è sempre stato e così continuerà ad essere: è un fatto di Realpolitik. Forse è questa la vera condanna contro cui le aspirazioni dei milioni di giovani della “Primavera araba” dovranno scontrarsi ancora per molto tempo.

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