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2. GLI ATTORI INTERNAZIONALI E LE PARTITE GEOPOLITICHE DELLO

2.4 L'ombra dell'egemone

«L'America [è] alle prese con la sovresposizione geo-stategica, economica e finanziaria determinata dallo smisurato allargamento delle sue responsabilità negli spensierati anni di Clinton, seguiti dalle avventure belliche di Bush figlio»37.

Tale affermazione di Caracciolo è stata suffragata dal discorso del presidente statunitense Barack Obama, pronunciato alla Casa Bianca il 22 giugno 2011, in cui egli ha elencato i costi in termini economici e di vite umane che nel passato decennio di "guerre al terrorismo" gli USA hanno dovuto pagare. Egli stesso ha posto la questione di una problematica sovresposizione degli Stati Uniti nel mondo e per questo la conclusione cui è arrivato è che era giunto per l'America il «tempo di concentrarsi sulla costruzione della nazione» a casa propria38.

Prima dell'avvento di Obama alla presidenza, la politica statunitense si era a lungo fondata su paziente coltivazione dei propri interessi all'estero39, che sembrava porre le proprie

34

G. Tarantino, Qatar e Arabia Saudita guidano la riscossa sunnita, in "Limes", 12 aprile 2012, http://temi.repubblica.it/limes/qatar-e-arabia-saudita-guidano-la-riscossa-sunnita/33769.

35

Ibidem.

36

P. Longo e D. Scalea, op. cit., p. 29.

37L. Caracciolo, in “Limes n 3, 2011”, (Contro) Rivoluzioni in corso…, op. cit., p. 10.

38«Already this decade of war has caused many to question the nature of America‟s engagement around the

world. Some would have America retreat from our responsibility as an anchor of global security, and embrace an isolation that ignores the very real threats that we face. Others would have America over- extended, confronting every evil that can be found abroad. [...] But we must be as pragmatic as we are passionate; as strategic as we are resolute. When threatened, we must respond with force – but when that force can be targeted, we need not deploy large armies overseas. When innocents are being slaughtered and global security endangered, we don‟t have to choose between standing idly by or acting on our own. Instead, we must rally international action, which we‟re doing in Libya, where we do not have a single soldier on the ground, but are supporting allies in protecting the Libyan people and giving them the chance to determine their own destiny. [...] America, it is time to focus on nation building here at home». B. Obama, discorso alla Casa Bianca, Remarks by the president on Way Foward in Afaganistan, 22 giugno 2011, http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2011/06/22/remarks-president-way-forward-afghanistan.

39

In realtà, a quanto afferma Thierry Meyssan, la dottrina strategica non sarebbe realmente frutto di scelte presidenziali ma sarebbe piuttosto sviluppata dal Pentagono. Egli infatti sottolinea che in tale ambito il mutamento è avvenuto precedentemente all'elezione di Obama, avendo infatti avuto inizio quando Robert

fondamenta su quella «distruzione creativa» di cui parlò Michael Leaden e che implicava la destabilizzazione di alcuni regimi o stati con il fine di sostituirvi scenari aderenti ai propri interessi. Longo e Scalea, infatti, ricordano come la politica estera USA sia stata a lungo «impregnata del sangue provocato dai golpe militari e da regimi tirannici avvallati o addirittura promossi dalla Casa Bianca». Come spiegano i due autori, era una questione di

Realpolitik, seppure ciò mal si addicesse all'ideologia liberal-democratica che il governo

degli Stati Uniti si proponeva di "esportare" in tutto il globo. Si dovrebbe però capire se questi progetti siano davvero stati abbandonati dopo l'avvicendamento tra Bush e Obama40. Il programmato ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq (conclusosi a dicembre 2011) e dall'Afghanistan (previsto per il 2014), l'emergere di nuovi attori regionali e nuovi scenari dalle rivolte arabe, hanno costretto infatti la Casa Bianca a ripensare una strategia per il Medio Oriente. Sebbene fosse chiaro a tutti che negli ultimi tempi l'attenzione statunitense era stata rivolta verso l'Asia e il Pacifico, non era però verosimile un totale disimpegno a stelle e strisce da una regione (l'area MENA) che, come abbiamo visto, restava di importanza vitale41. Ecco perché, nonostante la "ritirata strategica" cui abbiamo appena fatto riferimento, non si poteva pensare che gli Stati Uniti restassero impassibili di fronte alle rivolte arabe.

L'area MENA si era affacciata all'anno 2011 con numerosi capi di stato, autoritari e longevi, ben saldi al potere. Molti di essi erano legati da stretti rapporti di collaborazione e amicizia con gli Stati Uniti che continuavano «a fungere da patroni e protettori di dittature arabe cosiddette moderate», dove con tale termine si faceva riferimento, non agli orientamenti ideologici o al genere di relazioni che i governi intrattenevano con la popolazione e con altri soggetti, ma all'accondiscendenza nel mettere in atto politiche in linea con i dettami degli Stati Uniti42.

La giustificazione ideologica con cui la politica estera degli Stati Uniti veniva presentata al mondo consisteva invece nell‟obbligo morale di farsi carico della diffusione planetaria della democrazia e Obama, sebbene in modo più sommesso rispetto a Bush. ha fatto anche sua questa responsabilità. Obama, infatti, nonostante si sia trovato a fronteggiare l'esigenza di tagli alle spese belliche, il pianificato ritiro delle proprie truppe dai teatri afghano e iracheno e un‟opinione pubblica sempre meno accondiscendente verso nuovi conflitti che

Gates è succeduto a Donald Rumsfeld nel ruolo di Segretario della Difesa degli Stati Uniti. Dal luglio 2011 l'incarico è stato assunto da Leon Panetta che ha ripreso il percorso tracciato da Gates. T. Meyssan, La Libia e la nuova dottrina strategica degli Stati Uniti, in "Voltairenet", 14 aprile 2011, http://www.voltairenet.org/La-Libia-e-la-nuova-dottrina#nb7.

40

P. Longo e D. Scalea, op. cit., p.33.

41

M. Carro, La nuova strategia USA per il Medio Oriente, in "Ce.S.I." 23 aprile 2012, http://www.cesi- italia.org/dettaglio.php?id_news=843.

42

coinvolgessero l'esercito statunitense, ha potuto ancora contare su una fitta rete di Organizzazioni Non Governative da un lato e su sistemi di contatto e mezzi pervasivi di comunicazione dall‟altro. Tali ONG infatti (vere o presunte, aggiungono Longo a Scalea), appoggiavano gli interessi di Washington nel mondo insinuandosi tanto più facilmente quanto più distesi fossero i rapporti dei relativi paesi con gli Stati Uniti. Se a tale elemento si aggiungono il malcontento popolare che i regimi hanno coltivato e il fatto che alcuni Paesi della regione avevano iniziato a «strizzare troppo platealmente l'occhio alla Cina»43, si comprende perché il fatto che questi regimi siano stati, durante queste rivolte del 2011, vittime delle crisi più aspre e foriere di sconvolgimenti, faccia sorgere il dubbio che Washington abbia potuto sentire l'esigenza di sostituire in questi paesi una nuova generazione di leader «possibilmente più presentabili»44.

Quindi negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno avviato un ripensamento della politica estera in questa regione, ma il dilemma era: meglio sostenere autocrazie screditate e invise alla propria popolazione ma sottomesse ai dettami di Washington o favorire il diffondersi della democrazia dando più spazio a un‟opinione pubblica avversa agli Stati Uniti?

La linea prevalente fu quella di chiedere ai governi autocratici di alleggerire la repressione del dissenso e favorire un progressivo coinvolgimento della popolazione in un processo democratico, nella speranza di poter nel frattempo «educarla ad accondiscendere ai

desiderata occidentali»45.

Però i regimi locali, approfittando della sempre più evidente ritirata della potenza egemone, hanno allentato i rapporti con gli Stati Uniti e cercato nuovi appoggi altrove, spesso a Mosca o Pechino. Tali aspetti potrebbero aver rafforzato le motivazioni statunitensi a non affannarsi troppo per la sicurezza e stabilità dei regimi amici, lanciandosi piuttosto nel tentativo di cavalcare l'onda della rivolta e puntare su una nuova classe dirigente, «non importa se più o meno presentabile o liberale, purché sia docile quanto o più di quella precedente»46.

«È [quindi] ipotizzabile, benché non provata una longa manus» della Casa Bianca dietro ad alcune rivolte, nel qual caso assumerebbero grande rilevanza i sopra menzionati gruppi finanziati e addestrati dagli Stati Uniti47.

Non mi arrischierò a sostenere che Washington abbia avuto un ruolo scatenante in alcune “primavere arabe”, ma innegabile è il fatto che abbia poi cercato di domarle, indirizzarle e strumentalizzarle, una volta scoppiate. Plausibilmente il ruolo degli Stati Uniti ha potuto

43

Ivi, op. cit., p.33.

44 Ibidem. 45 Ivi, pp. 147, 148. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 144.

solo accelerare i tempi di rivolte già destinate a esplodere e concordo con Longo e Scalea quando affermano che non gli si può attribuire il ruolo di deus ex machina e quindi di unici responsabili48.

D'altro canto, se nel primo capitolo abbiamo assunto la spontaneità, almeno iniziale, delle rivolte e la rilevanza che vi hanno avuto fattori endogeni, dobbiamo concludere che gli Stati Uniti, come altri attori, non hanno potuto scegliere se e quando farle scoppiare, ma di cavalcarle affinché girassero a loro vantaggio sì. Alcune titubanze iniziali, in Tunisia, in Egitto ma anche in Libia, sembrerebbero suffragare quest'ipotesi. «Dopo aver cooptato e sfruttato i primi [regimi] cercheranno di ingraziarsi e strumentalizzare i nuovi governi»49. Come conciliare però gli interessi statunitensi all'estero con i cardini della nuova politica estera a stelle e strisce? Innanzi tutto restando dietro le quinte e delegando: l'obiettivo sembrerebbe essere quello di trasferire responsabilità e costi agli alleati europei «abituati a viaggiare a sbafo sulle autostrade geopolitiche asfaltate dagli Stati Uniti»50. È ciò che emerse anche dal discorso sulla situazione in Libia tenuto da Obama a marzo 2011 alla National Defense University in cui affermò:

For generations, the United States of America has played a unique role as an anchor of global security and as an advocate for human freedom. Mindful of the risks and costs of military action, we are naturally reluctant to use force to solve the world‟s many challenges. But when our interests and values are at stake, we have a responsibility to act.

Ma poiché che si riteneva che il caso libico richiedesse un rapido intervento a favore di civili oppressi da oltre quarant'anni di tirannia, precisava poi:

In that effort- the United States will play a supporting role - including intelligence, logistical support, search and rescue assistance, and capabilities to jam regime communications. Because of this transition to a broader, NATO-based coalition, the risk and cost of this operation - to our military and to American taxpayers - will be reduced significantly51.

Quella che viene generalmente definita come crisi della potenza egemone deriva, oltre che dalle insoddisfacenti esperienze afghana e irachena, dai vincoli di bilancio imposti anche al Pentagono nell'esigenza di ridurre il deficit statunitense (evidente nel programmato taglio di circa 490 milioni di dollari alle spese militari nei prossimi dieci anni)52. Washington ha 48 Ibidem. 49 Ivi, p.148. 50

L.Caracciolo, op. cit..

51

B. Obama, discorso alla National Defense University, Remarks by the President in Address to the Nation on Libya, 28 marzo 2011, http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2011/03/28/remarks-president-address- nation-libya.

52

dovuto quindi ripensare alle proprie priorità e per questo starebbe riallocando le proprie risorse verso l'Asia. L'annuncio della morte di Osama Bin Laden avrebbe permesso di chiudere così l'era iniziata l'11 settembre 2001, da una parte aprendo la possibilità di dialogare apertamente con nuovi interlocutori islamici, dall'altra permettendo di concentrare i propri sforzi economici al contenimento della Cina53. Per questo, non volendo rinunciare al proprio ruolo di leader mondiale, è di primaria importanza la distribuzione degli sforzi soprattutto finanziari nel controllo degli equilibri nell'area MENA, il che significa che, secondo Caracciolo,«la NATO deve ricoprire la ritirata americana, sopportandone in parte i costi e i rischi. Ma senza metter bocca nelle scelte di Washington»54. In questo ambito rientrerebbe anche l'intenzione di espandere e approfondire le relazioni militari e di sicurezza con le nazioni del GCC. A tal fine, a inizio 2012, gli Stati Uniti hanno concluso contratti per circa trentacinque miliardi di dollari in medio Oriente. Con l'Arabia Saudita sono stati stipulati accordi per 29,4 miliardi di dollari concernenti la fornitura di caccia F-15SA e un adeguamento ai relativi standard degli F- 15S già in servizio, e un rinnovamento dei missili Patriot da 1,7 miliardi. Gli EAU riceveranno due batterie antimissile THAAD, «diventando il primo client export del sistema». Un accordo da 900 milioni di dollari è stato stipulato invece con il Kuwait per la vendita di 209 missili Patriot. Inoltre a seguito dell'escalation della tensione tra Stati Uniti e Iran che si è avuta a fine 2011, quando quest'ultimo minacciò la chiusura dello stretto di Hormuz. Questi paesi si sono impegnati con Washington nell'individuazione di rotte alternative allo stretto di Hormuz attraverso oleodotti verso l'Oceano Indiano e il Mar Rosso. Proprio per evitare che l'Iran, di cui si contrasta il programma nucleare a scopi non civili, possa minacciare gli equilibri nella regione, Washington ha poi implementato il contingente in Kuwait e inviato nuove unità navali nelle acque del Golfo e nel Mediterraneo orientale, ma soprattutto si è dedicato alla formazione e all'addestramento delle forze militari dei Paesi del Golfo55.