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Il Bahrein e l’intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo

4. PAESI IN CUI NON SONO AVVENUTI CAMBIAMENTI ISTITUZIONALI

4.1 Il Bahrein e l’intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo

al-Khalifa regna dalla fine del Settecento sostenuta da una minoranza sunnita. Alla fine di febbraio il vento rivoluzionario arrivò anche qui, dove le proteste, pur basandosi su rivendicazioni di ordine economico e sociale, trovavano le proprie radici nella settaria divisione tra sciiti e sunniti. Nel paese infatti la maggioranza sciita, che costituisce circa il 70% della popolazione, soffriva una marginalizzazione politica ed economica attuata dalla casa regnante e da una minoranza sunnita. Nonostante il Bahrein sia considerato uno dei governi più liberali dei Paesi del Golfo, è risaputo che vi avvengono forti limitazioni della libertà di espressione, processi e arresti ingiusti di cui vengono fatti bersaglio attivisti e oppositori1.

Le manifestazioni antigovernative furono perciò organizzate in larga parte dalla popolazione sciita, anche se non mancarono componenti sunnite. Si chiedevano: le dimissioni di re Hamad bin Isa al-Khalifa e del primo ministro Sheikh Khalifa bin Salman al-Khalifa (in carica dal 1971, anno dell‟indipendenza dalla Gran Bretagna); una riforma costituzionale che permettesse di eleggere liberamente Parlamento e Governo; nuovi posti di lavoro cui anche la componente sciita della popolazione potesse ambire al pari di quella sunnita e il rilascio di prigionieri politici.

Il governo infatti considera la popolazione sciita una quinta colonna dell‟Iran di cui è accusata essere strumento, per questo tutte le cariche economiche, militari e politiche (anche nella camera dei Deputati, dove invece sarebbero previste cariche elettive) sono in mano ai sunniti. Per scongiurare il pericolo che una popolazione sciita manovrata dall‟Iran potesse un giorno prendere il sopravvento, il re aveva anche iniziato una politica di naturalizzazione di sunniti (provenienti soprattutto da Pakistan, Bangladesh e India) che, al fine di garantirne la fedeltà, sarebbero stati inseriti nelle forze di sicurezza2.

Nel 2001 il governo tentò di avviare una debole apertura politica verso la maggioranza sciita e nel 2005 Al-Wafeq (Islamic National Accord Association), guidato da un leader sciita, riuscì ad ottenere 16 seggi in parlamento. Nonostante ciò la frattura fra i due

1

A Year of ribellion, op. cit., p.32.

2

M. Serra, Il nodo geopolitico del Bahrein, in “Ce.S.I.”, 30 marzo 2011, http://www.cesi- italia.org/dettaglio.php?id_news=704.

schieramenti rimase profonda, anche se latente.

Il conflitto ha però preso nuovo vigore con il propagarsi delle rivolte arabe scoppiate a partire dal Nord Africa, tanto più che i dissidi erano stati rinfocolati dall‟atteggiamento del governo a seguito di un‟ulteriore affermazione di Al-Wafeq alle elezioni dell‟ottobre 2010: le forze di sicurezza governative, avendo accusato cittadini sciiti di collaborare con l‟Iran nel tentativo di rovesciare il governo degli al-Khalifa, avevano avviato un‟ondata di arresti3. Quando scoppiarono le rivolte il governo reagì con inaspettata violenza e dopo appena una settimana di agitazioni, sette manifestanti erano morti e in centinaia erano rimasti feriti. Le proteste si diffusero velocemente e si mobilitarono presto molte reti di organizzazioni dei diritti civili, ma soprattutto ci fu un‟imponente partecipazione delle donne che organizzarono marce prettamente femminili o si unirono alle manifestazioni generali. In risposta il governo arrestò le violenze e promise un dialogo nazionale con i gruppi di opposizione legalmente riconosciuti, con cui fu effettivamente avviato una dialogo. Ma le proteste non terminavano e anzi si facevano sempre più imponenti fino a far temere per la tenuta del potere degli al-Khalifa. La richiesta più forte e la più temuta era quella di libere elezioni, richiesta che non poteva essere accettata in quanto avrebbe dato alla luce, senza ombra di dubbio, un governo filo-sciita. Forti scontri tra filogovernativi e manifestanti, che chiedevano riforme, si manifestarono il 13 maggio alla Bahrein University e anche a Manama, dove furono assaliti anche lavoratori pakistani (proprio a causa del ruolo giocato dai pakistani naturalizzati nelle forze di sicurezza)4.

Il 15 marzo l‟Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti inviarono sotto l‟egida del Consiglio di Cooperazione del Golfo, un contingente di quasi duemila uomini in una colonna di blindati che attraversò il ponte che collega le provincie orientali dell‟Arabia Saudita al Bahrain5

. Ḥamad ne approfittò subito per imporre lo stato di emergenza, autorizzare le forza armate ad utilizzare misure eccezionali per reprimere le insurrezioni e fare irruzione in Piazza della Perla a Manama che fu sgombrata dai dimostranti (non senza prima aver fatto vittime) e in cui fu distrutto il monumento divenuto simbolo della rivolta6. Le forze armate irruppero poi nell‟ospedale e, prima che il governo ne assumesse il controllo, arrestarono dozzine di medici e infermiere. Alcuni dei pochi manifestanti che decisero di recarsi

3

Ibidem.

4

A Year of ribellion, op. cit., p.33

5«Il compito delle truppe era quello di “mantenere l‟ordine e la sicurezza” intorno ai punti chiave

dell‟arcipelago: le installazioni petrolifere, ma soprattutto le banche (sono presenti, infatti, 39 banche d‟investimento, 31 uffici di rappresentanza di banche internazionali, 25 banche commerciali), che fanno dell‟isola il centro mondiale dell‟islamic banking». M. Serra, Il nodo geopolitico del Bahrein…, op. cit..

6

Il monumento cui ci riferiamo era una grande sfera in cemento, una perla appunto, sorretta da sei grandi colonne. Era un‟opera d‟arte in onore del passato, quando il Bahrein era un Paese di coltivatori di perle. J. Charmelot, Dal re saudita parte la controrivoluzione a suon di dollari…, op. cit..

ugualmente all‟ospedale per ricevere cure dopo gli scontri, furono arrestati7

. Il 1 giugno il re sospese lo stato d‟emergenza e ritirò le truppe dalle strade di Manama, sostituendole con un grande dispiegamento di forze di polizia. Si ipotizza che tale passo sia stato compiuto per rassicurare il mondo della finanza e gli organizzatori di importanti eventi sportivi. Ciò che più ha stupito è che il 29 giugno il re acconsentì affinché fosse avviata una commissione d‟inchiesta internazionale sulle violazioni dei diritti umani avvenute durante le proteste e sul numero delle vittime, ma non per questo le ingiustizie terminarono: in molti persero il proprio impiego in quanto, non essendo stati presenti sul luogo di lavoro, erano stati accusati di aver partecipato alle proteste, la stessa motivazione accompagnò l‟espulsione di molti studenti e durante i mesi successivi alle proteste furono tenuti numerosi processi ingiusti in cui molte persone furono accusate di crimini legati alle proteste e condannate, spesso senza consistenti prove, a 15-25 anni di prigione8.

Gli Stati Uniti dichiararono di non sapere del dispiegamento delle truppe saudite, la cosa sembra difficile da credere dal momento che, come afferma Charmelot, l‟allora segretario della difesa americana «Robert Gates si trovava in Bahrein due giorni prima di questa operazione e una colonna di un centinaio di mezzi blindati non poteva non essere stata avvistata dai militari americani presenti nelle basi dell‟Est saudita, in particolare a Dammām e Ẓahrān»9

.

La dinastia al-Khalifa e gli Stati Uniti godono di un solido rapporto d‟amicizia. In primo luogo il Bahrein ospita la base della Quinta Flotta statunitense, la più grande base a stelle e strisce in Medio Oriente, posizione avanzata per il contenimento dell‟Iran e garante della sicurezza dei traffici commerciali nello stretto di Hormuz.

Anche il legame economico fra Manama e Washington è ben saldo: i due paesi sono legati da un accordo bilaterale di libero scambio del 2004 e un accordo per la costruzione di un ponte dotato di linea ferroviaria da circa tre miliardi di dollari che entro il 2015 collegherà l‟isola al Qatar10

.

Se il Bahrein riceve dagli Stati Uniti protezione militare, dall‟Arabia Saudita riceve sostentamento economico e in particolare le forniture di greggio che costituiscono la fonte principale delle entrate fiscali11.

Riyad non avrebbe potuto permettere che la maggioranza sciita prendesse il sopravvento lasciando che l‟influenza iraniana si espandesse fino a minacciare da così vicino il proprio regno e le rotte petrolifere.

7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10

M. Serra, Il nodo geopolitico del Bahrein…, op. cit..

11

Charmelot ha posto in evidenza la vicinanza cronologica e quindi la possibile esistenza di una correlazione tra due avvenimenti: l‟intervento armato del Consiglio di Cooperazione del Golfo in Bahrein del 14 marzo, e l‟approvazione della Risoluzione 1973 sull‟intervento in Libia del 17 marzo. Il ministro degli esteri francese Alain Juppè dichiarava che l‟approvazione della risoluzione non sarebbe stata possibile se l‟idea di un intervento armato non fosse stata approvata pochi giorni prima al Cairo dalla Lega Araba. L‟autore fa quindi due considerazioni: la prima riguarda i media in quanto in quei giorni le emittenti televisive parlavano moltissimo delle atrocità commesse da Gheddafi, poco relativamente allo Yemen (dove il 18 marzo si era tenuto un massacro in “Piazza del cambiamento” e nulla sul Bahrain. In quest‟ultima circostanza, infatti, la comunità internazionale non esprimevano né condanne né commenti al fatto che gli stessi Paesi del Golfo che accusavano Gheddafi di essere un carnefice intervenivano militarmente per soffocare la rivolta pacifica in Bahrein. In secondo luogo Charmelot ipotizza che la Lega Araba abbia appoggiato l‟iniziativa di un intervento in Libia in cambio del silenzio-assenso occidentale sull‟intervento del Consiglio di Cooperazione del Golfo in Bahrain12

.

«Ancora una volta, gli interessi strategici di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, e i valori che essi sostengono come diritti universali sono apparsi in netto contrasto tra loro»13. Il Bahrein, piccolo regno insulare del Golfo, è il guardiano dello scrigno energetico più importante al mondo. La sua eventuale destabilizzazione metterebbe in gioco una posta troppo alta per molti.