• Non ci sono risultati.

Dall'unita' alla molteplicita' delle lingue. Il mito della torre di Babele nelle interpretazioni di Scholem, Benjamin, Derrida

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Dall'unita' alla molteplicita' delle lingue. Il mito della torre di Babele nelle interpretazioni di Scholem, Benjamin, Derrida"

Copied!
233
0
0

Testo completo

(1)

1

Indice

Introduzione 3

I PARTE 10

1.Il mito della torre di Babele fra esegesi e riflessioni filosofiche 11 2.Breve parentesi letteraria. L’influenza del mito della

confusio linguarum in Dante, Borges e Kafka 22

3.Da Babele alla teoria del linguaggio: una spiegazione religiosa 41 3.1.Fra simboli e allegorie. Gershom Scholem e il suo legame

con la mistica ebraica del linguaggio 41

3.2.Tertragramma, Linguaggio, Creazione 50

3.3.Rapporti fra parola e scrittura come rapporto

fra umano e divino 59

4.Walter Benjamin e la lingua pura fra inizio paradisiaco

e parodia 70

4.1.Il nome come lingua della lingua 73

4.2.Purezza, Pluralità, Confusione. Tre tappe del cammino del

linguaggio nella lettura di Genesi 3 82

5.Ancora Benjamin. Testo originale e traduzione:

la tangente al cerchio 93

5.1.Oltre il “mantello regale” della traduzione. Ricerca

della parentela sovrastorica delle lingue 93

5.2.Vittoria della libertà sulla letteralità contingente delle varie lingue 100 5.3.Filosofia della storia e filosofia del linguaggio insieme

(2)

2

per descrivere il fine messianico della lingua pura 103

II PARTE 112

1.La traduzione come decostruzione: Jacques Derrida e il suo

Des tours de Babel 113

1.1.Babele nome proprio/nome comune? 115

1.2.Dialogo fra Derrida e Benjamin 121

2.La lingua pura sconfitta dalla Différance 134

2.1.Ontoteologia e logocentrismo alla berlina 134

2.2.Scrittura e linguaggio rapporto di compresenza o di derivazione? 146

2.3.La Différance 152

3.Un esercizio di decostruzione: l’ipotesi naturalistica

dell’origine del linguaggio 164

3.1.Lavori in corso: perché Derrida legge Rousseau? 164

3.2.Perché noi leggiamo Rousseau anche in relazione

all’ambito religioso? 169

3.3Dal generale al particolare. Il Saggio sull’origine delle lingue:

una naturalizzazione di Genesi 3 e Genesi 11 177 3.4.L’esattezza diventa espressione: ancora il danno della scrittura 189

Conclusioni 197

Appendice Il caso Condillac: compromesso fra fede e natura 212

Bibliografia 222

(3)

3

Introduzione

Parlare di “mito” oggi potrebbe innescare una duplice reazione: si potrebbe dar il via alla messa in scena di uno spettacolo con una trama quasi fantastica nel quale l’uomo vede solo le proiezioni delle ombre del suo passato, ma mai la possibilità di una catarsi che lo spinga ad identificarsi, oggi, con gli attori prota-gonisti e con le loro credenze; oppure questi, pur avendo fatto di un determina-to midetermina-to una regola di vita non vorrebbe mai riconoscerne la miticità stessa, rite-nendolo anzi reale. Ciò che credo sia rilevante come punto di partenza è stabili-re come non necessariamente, a mio avviso, distabili-re mito è distabili-re fantasmagoria, fan-tasia. Potrebbe invece semplicemente essere una forma di verità, che per quanto un tempo favoleggiata, oggi, qui ed ora, è realtà anche se la mente, l’uomo, anzi più generalmente la storia, dimenticano “la morale” che spesso il corrispettivo mitico di ciò che per noi è reale nascose e tramandò. E’ proprio sul recupero di tale morale che sarebbe utile riflettere.

Sicuramente oggi non si tratta più di descrivere e credere in giganti che sosten-gono il mondo, fauni e centauri, astri trainati da aurighe alate, ma sarebbe una fandonia negare come ogni nostro singolo giorno sia animato dalla credenza in progetti ed eventi che innalzano la potenza dell’uomo globalizzato, equiparan-dolo così ad un semi-dio. I miti esistono ancora, hanno solo cambiato forma, ora si chiamano internet, facebook, moda, biotecnologia, borsa e finanza; ora hanno preso il nome di tutto ciò che cerca di tenere l’uomo sempre sulla cresta dell’onda delle relazioni. Ma siamo sicuri che in questo tran tran di

(4)

informazio-4

ni e di re-mitizzazione tecnologica contemporanea, forse inconsapevole, ci sia davvero spazio per la comprensione uomo-uomo? I curricula dei cerca-lavoro so-no pieni di certificazioni linguistiche dei gradi più elevati, di stage all’estero, co-sì come nel parlare quotidiano tendiamo sempre più ad “americanizzarci”, ma questo non significa sicuramente che siamo capaci di comprenderci. Ci ascol-tiamo superficialmente, certo, ma troppo spesso non ci comprendiamo1.

Per spiegare brevemente questa mia affermazione, nonché l’obiettivo della mia ricerca vorrei riportare un breve passo tratto da una delle Operette morali di Le-opardi, proprio perché quest’ultimo poté apparire un personaggio anacronisti-co, per alcuni versi, tanto che sicuramente l’esempio che ho scelto di riportare da un suo testo è una perfetta immagine del nostro presente:

1

Circa l’utilizzo dei verbi “comprendere” e “sentire” si è combattuta una parte dello scontro fra ermeneutica e decostruzionismo nel novecento, e anche se non è questo l’argomento del mio la-voro non potevo non dedicare a tale confronto almeno una citazione: «Uno dei motivi per cui il dibattito di Parigi si è prolungato fino ad oggi va ricercato forse nella fondamentale questione del

comprendere su cui era centrato. Dietro lo sforzo dell'ermeneutica, volto a comprendere l'altro, Derrida scorge una «buona volontà di comprendere» che riconduce alla «volontà di potenza» di Nietzsche. E allora si pone la prima domanda: chi vuole comprendere, non vuole forse esercita-re un poteesercita-re sull'altro, non vuole alla fin fine dominarlo? Questo dominio, che è totalitario per-ché in vista di un «consenso» (ma qui il bersaglio di Derrida è piuttosto Habermas) tende a can-cellare e reprimere ogni forma di individualità, ogni differenza e ogni dissidenza; perciò va smascherato, seguendo la lezione di Heidegger, come l'ultima propaggine della metafisica. La seconda domanda, a cui fa da sfondo l'integrazione problematica tra ermeneutica psicoanalitica e ermeneutica generale, ha di mira il «dialogo vivente», centrale per Gadamer. Nella terza, infi-ne, Derrida si chiede se la condizione del comprendere, lungi dal coincidere con la disponibilità illimitata al dialogo che l'ermeneutica sollecita, non sia piuttosto «l'interruzione, la rottura

(rup-ture) del rapporto, un certo rapporto di rottura, la sospensione di ogni mediazione», cfr. D. Di Cesare, Dialogo infinito fra Derrida e Gadamer, in «Il manifesto», 19 Febbraio 2003. Il fatto che io indichi sin dall’inizio l’emergere di problematiche così dense come quella esposta nella citazio-ne precedente indica come il seguente elaborato non troverà una soluziocitazio-ne definitiva ai pro-blemi che solleverà, proprio perché sotto la sua trama vi saranno una serie di micro-trame che cercheranno ancora risposte alle loro domande.

(5)

5

«Oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita [perciò si sarebbe dovuta costruire una macchina capace di supplire l’uomo …]. Quanto alla favella, pare che non si possa volgere in dubbio che gli uomini abbia-no facoltà di comunicarla alle macchine che essi formaabbia-no, conoscendosi questa cosa da vari esempi, e in particolare da ciò che si legge della statua di Mennone e della testa fabbri-cata da Alberto magno, la quale era sì loquace, che perciò san Tommaso di Aquino, ve-nutagli in odio, la ruppe. E se il pappagallo di Nevers, con tutto che fosse una bestioli-na, sapeva rispondere e favellare a proposito, quanto maggiormente è da credere che possa fare questi medesimi effetti una macchina immaginata dalla mente dell'uomo e construtta dalle sue mani; la quale già non debbe essere così linguacciuta come il pap-pagallo di Nevers ed altri simili che si veggono e odono tutto giorno, né come la testa fatta da Alberto Magno, non le convenendo infastidire l'amico e muoverlo a fracassar-la. L'inventore di questa macchina riporterà in premio una medaglia d'oro di quattro-cento zecchini di peso, la quale da una banda rappresenterà le immagini di Pilade e di Oreste, dall'altra il nome del premiato col titolo: PRIMO VERIFICATORE DELLE FA-VOLE ANTICHE»2.

Tale passo mi è d’aiuto per sottolineare come, dopotutto, ciò che veniva inteso come mito un tempo già nell’’800, e ancora di più oggi, pare all’uomo reale e “verificabile”: una volta – utilizzando la versione politeista che ne offre il poeta - erano gli dei a creare l’uomo e a renderlo parlante, ora l’uomo fa lo stesso da sé non geneticamente. Si tratta di automi elettronici, o sempre più spesso siamo noi stessi uomini a trasformarci in dispensatori di sistemi input-output tramite

2 G. Leopardi, Proposta dei premi fatta dall’accademia dei sillografi, in Tutte le opere, vol. I, Sansoni

(6)

6

le segreterie telefoniche e i call-centers, e per tale ragione parlavo poc’anzi di una relazione che si instaura fra i vari uomini e fra le varie parti del mondo ba-sata sul sentire, sull’opinare, ma non sull’ascoltare. Facciamo ancora confusione, sentiamo ancora senza capire che origine e che finalità abbia quel linguaggio che vuole comunicare con noi nell’epoca del muticuluralismo e del cosmopoliti-smo.

Che cosa può significare allora recuperare il mito biblico della torre di Babele e far-ne il protagonista di un lavoro di tesi pur avendo sottolifar-neato a mo’ di premes-sa una condizione che sicuramente per molti non mette nulla di nuovo sotto il sole?

Significa, forse, tentare una lettura molteplice del risvolto sociale che parlare, in-tendersi o confondersi può comportare. Significa far notare come, ancora, di mi-ti siamo intrisi in ogni suono che pronunciamo. Significa che dopotutto, forse, Babele oggi, cambiando nome, più che mito è realtà. Sicuramente non significa assimilare la lezione di Paul Virilio il quale, con un tono fortemente pessimisti-co, legge nel nostro oggi un analogo della rottura di ogni legame sociale, una nuova Babele, per cui la situazione presente finirà, o meglio già sta finendo in un caos, nell'inquinamento dell'informazione, nella mancanza di controllo, nella "deregulation".

Tantomeno scegliere Babele come immagine principale su cui far ruotare diver-se tesi interpretative e le rispettive antitesi non vuole significare né compiere analisi dissacranti rispetto all’entità religiosa del racconto, né d’altro canto but-tarsi con accesa fede in un’opera di proselitismo, difendendo la veridicità della

(7)

7

sola narrazione e conseguente soluzione religiosa. E’ invece lo spirito filosofico, imparziale, sempre equipaggiato da quella sequela di “perché” che ha spinto verso tale scelta, in modo da poter comparare tali diversi “perché” senza schie-rarsi necessariamente da un lato o dall’altro, ma utilizzando un metodo critico che possa mettere in crisi delle idee o accettare più punti di vista, dopo averli compresi.

Si tratta di prestare attenzione a tutte le forme di linguaggio in cui l’essere u-mano può manifestare sé stesso, e le immagini, i miti, altro non sono che un di-verso modo, magari non concettuale, di parlare: si è scelto di interpretare in modo ermeneutico un mito religioso del passato proprio per sfatare il fatto che Babele, le sue cause e le sue conseguenze, appartengano al passato.

Come in ogni ricerca è stato necessario anche in questo caso effettuare dei “ta-gli”, ovvero selezionare alcune delle interpretazioni che la storia della filosofia ricorda del mito di Genesi 11. Con ciò sottolineo implicitamente come, sebbene si parlerà di linguaggio, non sarà obbligatorio parlare di semiotica, di codici, di retorica, né tantomeno sarò costretta a rifarmi alla corrente analitica del pensie-ro filosofico. Quello che cercherò di individuare, invece, è come in relazione alle analisi filosofiche novecentesche sull’origine e l’evoluzione del linguaggio, sulla scrittura e sulla comunicazione io–altro, può assumere importanza una ricerca svolta a ritroso nel tempo, partendo da quello che è stato storicamente e lettera-riamente definito da molti l’episodio origine della diversità delle forme di co-municazione.

(8)

8

Ricerca di una lingua adamitica, lingua perfetta, lingua unica e universale, op-pure riscoperta e valorizzazione delle differenze, delle incomprensioni e degli spazi per quelle traduzioni che possono anche divenire, a volte, manipolazioni? L’obiettivo del seguente lavoro sarà comparare queste due concezioni antiteti-che, che hanno avuto il loro momento di protagonismo soprattutto nel ‘900 franco-tedesco. Infatti, da un lato, con lo studio di Gershom Scholem e Walter Benjamin, nonché di alcune importanti sezioni della mistica ebraica, sarà rile-vante l’evoluzione di un linguaggio multiplo in nome però di un’unità futura e perfetta, di una lingua di Dio, di una lingua della redenzione leggibile in una prospettiva messianica, facendo leva appunto su un’ipotesi religiosa di argomen-tazione; mentre dall’altro lato verranno esposte in breve le tesi di illuministi come Condillac e Rousseau che hanno fatto propria l’ipotesi evolutiva di un lin-guaggio di stampo naturalistico o semi-divino, tesi che però troveranno una loro esposizione solo in quanto strumenti validi per quella che chiameremo un’attività “decostruttiva”.

Infatti, queste saranno le ipotesi che potremmo paragonare alle pedine bianche e nere poste su una grande scacchiera, ma sarà solo una mano che piomberà dall’esterno, opponendosi alle regole con le quali l’intera tradizione occidentale ha da sempre giocato che dichiarerà scacco matto. La mano che compierà la mossa della sconfitta sarà quella di Jaques Derrida. Egli considererà la figura di Dio come una variabile qualunque in un complesso di equazioni che, poste a si-stema, hanno dato forma a ciò che un’intera tradizione culturale ha creduto

(9)

es-9

sere la base di ogni come e perché, di ogni discorso, di ogni singola parola, illu-dendosi.

La scelta di compiere un lavoro di ricerca che mi permettesse di concludere questo mio corso di studi è caduta su un argomento da sviluppare piuttosto che su un percorso monografico d’autore, come avviene in maniera sempre più consueta. Il perché della mia scelta è visibile in una delle qualifiche principali che una laurea in filosofia, credo, dovrebbe garantire, ovvero l’interdisciplinarità e la capacità di rintracciare, secondo un filo conduttore, le analogie e le differenze in autori diversi, in culture diverse, in periodi storici di-versi. Questa scelta spero possa anche permettermi un domani di continuare ad approfondire aspetti che possono essere rimasti in ombra per rispettare un or-dine di priorità tematica.

E’ inoltre mia premura avvisare che, se a tratti il lavoro potrà apparire confuso, non sarà per la quantità delle citazioni – a mio avviso sempre troppo limitate data la vastità di fonti critiche sul tema nei campi più disparati -, dei riferimenti, ma sarà per la qualità delle tematiche affrontate: “è la confusione linguistica” infatti il nostro referente principale. Se sia possibile ordinarne le componenti o se ci sia una necessità inequivocabile che ci rende suoi schiavi è quello che cer-cheremo di scoprire fra la prima e la seconda parte dell’elaborato.

(10)

10 I PARTE

‹‹ Il crollo della torre indirizza lo sguardo dell’uomo, che aveva voluto rifugiarsi nella verticalità chiusa della torre,

verso l’orizzontalità aperta del mondo ›› D. Di Cesare

(11)

11

Capitolo 1

Il mito della torre di Babele fra esegesi e spunti di riflessione

filo-sofici

‹‹ 1 Tutta la terra aveva un medesimo linguaggio e usava le stesse parole. 2 Or avvenne

che gli uomini, emigrando dall’oriente trovarono una pianura nella regione del Senna-ar e vi si stabilirono. 3 E dissero l’un l’altro: ‹‹ Su, facciamo dei mattoni e cociamoli nel

fuoco ››. E si servirono di mattoni invece che di pietre e bitume in luogo di calce. 4 E

dissero: ‹‹ Orsù, edifichiamoci una città e una torre la cui cima penetri il cielo. Rendia-moci famosi per non disperderci sulla faccia della terra ››. 5 Ma il Signore scese a vedere

la città e la torre, che gli uomini costruivano, 6 e disse: ‹‹ Ecco, essi formano un popolo

solo e hanno tutti in medesimo linguaggio: questo è il principio delle loro imprese. Niente oramai li impedirà di condurre a termine tutto quello che si propongono. 7

Or-sù, scendiamo e confondiamo il loro linguaggio, in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri ››. 8 Così il Signore di là li disperse sulla faccia della terra ed essi

cessa-rono di costruire la città, 9 la quale fu chiamata Babel, perché ivi il Signore confuse il

lin-guaggio di tutta la terra e di là li disperse sulla faccia di tutta la terra.››

Genesi 11, 1-9

La maggior parte delle analisi storiche e letterarie condotte su questo insieme di versetti ha esordito traendo spunto dal significato attribuibile al nome Babele:

(12)

12

questo designa perlopiù nella Bibbia l’impero babilonese3, la regione del Senna-ar corrisponde all’antica Mesopotamia inferiore, oggi l’Irak, dove il Tigri e l’Eufrate si congiungono prima di sboccare nel Golfo Persico. Al di là delle no-tazioni geografiche, il nome nella sua accezione greco–latina, Bab-Ilani, signifi-cava letteralmente “la Porta dei Cieli”, mentre come è più popolarmente ricor-dato nel mito, assume il significato di “confusione” proveniente dal verbo e-braico balàl, confondere.

Il nome che assume la città ha avuto il ruolo di perpetuare nel tempo il disonore davanti al Signore e alla generazioni future, di uomini colmi di hybris per l’impresa, tentata e fallita, di voler costruire una torre che penetrasse il cielo e raggiungesse Dio. Tale nome ha assunto toni negativi piuttosto che attribuire alla città un valore encomiastico per l’abilità costruttiva4 dell’uomo in quanto homo faber, questo perché la tecnica da mezzo divenne fine e portò l’uomo a manipolare la natura, a peccare di superbia “scindendo l’arte tecnica dalla ra-zionalità”. Ed è stato proprio il “nome”, come sottolinea Donatella Di Cesare - il cui testo Grammatica dei tempi messianici5, risulta illuminante ai fini dell’analisi

3 Cfr. Gen. 10, 10

4 Nel 600 d.C. i grammatici irlandesi vollero cercare di elevare la lingua volgare gaelica in una

posizione di preminenza sul latino così compararono la strutture compositive della torre – argil-la e acqua, legna e calce, pece, lino e bitume – alle parti di cui si compone un discorso – nome, pronome, verbo, avverbio, participio, congiunzione, preposizione, interiezioni. Tutto ciò per mettere in luce come il gaelico fosse la prima soluzione alla dispersione delle lingue. Dopo di allora tanti altri tentativi furono fatti in epoche diverse e il testo di Umberto Eco, La ricerca della

lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Bari 2006, ce ne svela le tappe.

Ma accanto ad Eco si pongono anche altri tentativi di ricerca di una madre delle lingue come si può leggere nell’articolo di Sergio Frau, Così la terra cominciò a parlare. Scavando nell'etimologia del

greco, del latino e del sanscrito, Giovanni Semerano ha rintracciato la madre di tutte le lingue. Arriva

dalla Mesopotamia, in«La repubblica», 29 Aprile 2000.

(13)

13

appena iniziata - il peccato più grande, in quanto l’eternità di un nome è pro-pria solo di Dio e ‹‹[…] il nome dell’uomo, che è venuto ieri, dovrà essere di-menticato domani››6.

Infatti, tale passo della Genesi ci mostra con un forte linguaggio antropomorfo, uti-lizzando il discorso diretto, come Dio abbia voluto infliggere un pesante castigo all’orgoglio umano, condannandolo all’incomprensione: l’uomo, troppo attento ad espandere la propria grandezza, dimenticò il disegno che Dio stesso aveva stabilito e di cui era egli il protagonista. Avrebbe dovuto disperdersi e popolare la terra in modo spontaneo.

Dunque l’unità sarà ora impossibile da raggiungere? Verrà sì conquistata, non per decisione e volere di un gruppo d’uomini ma, come afferma la maggior par-te delle fonti, per volontà di Dio in un’unione né di stampo politico né naturale, ma soprannaturale, nel giorno della Pentecoste, o - come vedremo meglio nei capitoli successivi - si leggerà nei tempi messianici e grazie all’ermeneutica e-braica la possibilità di una redenzione come riunificazione delle lingue7.

A tale riguardo si è parlato del mito di Babele come di un’ “allegoria in factis”, cioè di un’allegoria capace di utilizzare gli episodi dell’Antico Testamento come

6 Ivi, p. 24.

7 E’ da notare come alla spiegazione classica del mito di Babele si è sommata anche quella che

ha dato forma a leggende sincretiste, amalgamando espressioni religiose ad eventi e personaggi noti nelle mitologie greche. Un esempio è rintracciabile nel testo di Jaques Vicari, La torre di

Ba-bele, Arkeios, Roma 2001, p. 108, dove viene riportato un noto racconto della Sibilla, risalente al secondo secolo a. C.: ‹‹Ebbene quando fu il momento che si compissero le grandi minacce profe-rite da Dio contro i mortali nel momento in cui avevano iniziato a costruire la torre nel paese di Assiria ( parlavano la stessa lingua e volevano salire al cielo stellato), l’Immortale, innanzitutto, caricò i soffi dell’aria di una grande violenza e questi venti buttarono giù la grande torre e susci-tarono fra gli uomini un malinteso comune: ecco perché i mortali diedero il nome di Babilonia alla città. Quando la torre fu caduta e i linguaggi furono alterati in linguaggi di ogni tipo la terra si riempì di re locali. E Crono, Titano e Giapeto divennero re››.

(14)

14

prefigurazioni di episodi presenti nel Nuovo grazie ad un’origine di tipo divi-no. Tale allegoria non ha dipendenza dunque dall’esegeta del testo sacro, ma è Dio stesso che emette messaggi tali da innescare una catena di cause-conseguenze che vanno interpretate. Così Babele prefigura la venuta dello Spiri-to SanSpiri-to e la compresenza di tutte le lingue.

Ma esattamente in cosa la confusione delle lingue rappresenta un dramma per l’umanità?

C’è chi sostiene, andando controcorrente rispetto alla maggioranza, che la per-fezione del linguaggio abbia sede nella sua imperper-fezione. Per il semiologo Paolo Fabbri, la posizione assunta dagli utopisti della lingua universale – i quali obiet-tano alle lingue naturali di non esser capaci di esprimere la verità delle cose – è scadente, poiché non tiene conto della vera natura del linguaggio, cioè il suo es-sere un “codice in metamorfosi”, in traduzione costante. Raggiungere un’omologazione complessiva – alla quale ci si avvicina da sempre in maniera, fortunatamente, asintotica - di tutte le lingue equivarrebbe allo sterminio delle lingue stesse, alla perdita della creatività del parlare umano: tale creatività ri-siede, a suo avviso, nell’accentuare la babelica diversità della lingua. Non solo Babele non rappresenta una maledizione, ma è grazie a Babele che gli uomini fanno esperienza per la prima volta di ciò che più li caratterizza: il linguaggio8.

‹‹La vera utopia non è una sola lingua perfetta – il ritorno al mondo dell’Eden – ma al contrario un approfondimento babelico, che esalti le differenze, le traduzioni, gli errori,

(15)

15

gli impoverimenti e gli arricchimenti. Gli utopisti della lingua universale pensano a Babele come a un evento luttuoso, un peccato originale. Per me invece Babele è feli-ce››9.

Esporre ora l’aspetto drammatico di Babele significa sfogliare l’inizio della Ge-nesi, dal quale apprendiamo che la parola edifica l’universo, i nomi delle cose differenti fra loro donano e determinano l’esistenza, la quiddità delle cose stes-se. Offrendo ad Adamo la parola Dio gli permette di porsi come essere supremo sul resto del creato, ma l’uomo, anziché gioire di tale dono, lo manipola contro il suo stesso creatore. La lingua serve, come servì, per esprimere le idee e co-municare in un unico modo, “avere la stessa lingua” rende l’ebraico “avere un unico labbro (safàh)”, che per metonimia indica la lingua (devarim)10.

Così il desiderio nutrito da un uomo – desiderio che in questo caso equivaleva al congiungersi per evitare il pericolo della dispersione dopo aver affrontato quello del diluvio - sarebbe diventato quello di ognuno e nulla sarebbe stato, nella moltitudine, impossibile da realizzare: allora andava dissipato in molti frammenti irricongiungibili per mano umana, il motore mobile del tutto, il lin-guaggio pretesosi universale11.

9 P. Fabbri, Elogio di Babele, in ‹‹Sfera››, XXXIII, pp.64-67. 10 Cfr. D. Di Cesare, op. cit., p. 14.

11 Come ogni interpretazione che si rispetti anche questo mito ha trovato la sua contraddizione a

detta di molti in un altro versetto del 10 libro della Genesi, il 31 per l’esattezza, dove si legge: ‹‹Tali sono i figli di Sem, secondo le loro lingue, famiglie, regioni e nazioni …››. Si nota qui come le lingue siano già molteplici prima della catastrofe di Babele per una differenziazione linguistica di stampo naturale ad opera di una modificazione dei dialetti tribali. Molti si chiedono allora perché cercare ancora una lingua perfetta originaria se la diversità linguistica pare essere intrin-seca all’evoluzione umana? L’aspetto dell’evoluzione naturale del linguaggio sarà oggetto d’indagine nella seconda parte di questo elaborato.

(16)

16

‹‹Se Dio ha comandato la dispersione, l’umanità sceglie la concentrazione. Un’unica metropoli, una città mondiale, grande quanto il mondo, una città-mondo, contrasse-gnata da una torre che tocchi il cielo, dove si parli un’unica lingua: questo è il fine ul-timo, il risultato estremo del centralismo totalizzante e totalitario che anima l’impresa babelica››12.

Circa la necessità del raggruppamento sociale in una sorta di “stato senza legge divina”, o per lo meno con un Dio che sia l’uomo stesso, di sfuggita, anche in Hegel si può leggere un passo che messo a confronto con quello appena riporta-to esalta altri aspetti di Babele, quasi rivalutando la visione del lavoro compiuriporta-to dall’uomo rendendolo “sacro”. E’ come se nel gesto edile si vedesse del positi-vo, come se si profilasse la genesi della storia sociale, politica, scientifica, poiché la diversità delle lingue avrebbe condotto non ad uno stato universale, ma alla nascita delle varie nazioni. Detto con le parole di Hegel:

‹‹“Cos’è il sacro?” chiede una volta Goethe in un distico. E risponde: “Quel che tiene unite molte anime”. Nella vasta pianura dell’Eufrate l’uomo costruisce un’immane o-pera di architettura; tutti vi lavorano in comune e la comunanza della costruzione di-viene al contempo il fine e il contenuto dell’opera stessa. Questa erezione di un vincolo sociale non resta un’unione patriarcale, si è dissolta la semplice unità famigliare e la co-struzione che si innalza fino alle nubi è l’oggettivarsi di questa unione precedente ora dissolta e la realizzazione di una nuova più ampia. […] Così il prodotto della loro

(17)

17

vità doveva essere il vincolo che per mezzo del terreno scavato, delle pietre sovrappo-ste e della coltivazione architettonica della terra, legava gli uni agli altri […]››13.

Accanto al perché del gesto umano si pone l’interrogativo sul perché del gesto divino e Abraham Cohen, ad esempio, in un passo del suo Commentario sul Tal-mud14, ci offre una spiegazione più ricca di come gli uomini che costruirono la

torre appartenessero a tre categorie diverse, unitesi nello scopo, finora chiaro, di detronizzare Dio e di elidere il suo potere acquisendolo poi essi stessi: una pri-ma categoria volle salire fino al cielo per renderlo la propria dimora, una se-conda volle muovere guerra a Dio a causa del diluvio universale scatenato, e un terzo gruppo fu mosso da un forte spirito idolatra. Dio separò la prima, tra-sformò in spiriti notturni e demoni la seconda e disperse il linguaggio dell’ultima.

Riepilogando i significati attribuiti a Babele, vediamo da un lato il desiderio umano di varcare la porta del cielo con l’apice della sua costruzione, o il deside-rio di costruire uno stato con leggi umane, insomma l’emblema etnico-culturale della superbia e della confusione, e, dall’altro, il castigo dell’incomprensione per avere tentato di superare il non concesso. Sempre la Di Cesare ci spiega co-me

13 G. W. F. Hegel, Estetica, III, 1,1 , Feltrinelli, Milano 1963, pp. 842-43. (Corsivo mio). 14 A. Cohen, Commentaires sur le Talmud, Payot, Paris, 1970, pp. 134-136.

(18)

18

‹‹il crollo della torre indirizza lo sguardo dell’uomo, che aveva voluto rifugiarsi nella verticalità chiusa della torre, verso l’orizzontalità aperta del mondo››15.

Andando oltre le interpretazioni dei perché, la nostra attenzione si concentra sul “come” Dio agisca. Da un punto di vista letterario, Joel S. Baden, suddivide la struttura del testo biblico sopra riportato in sezioni: a) la situazione generale (Gen. 9, 1-2); b) le intenzioni umane (Gen. 9, 3-4); c) le riflessioni e le intenzioni divine (Gen. 9, 5-7); d) la nuova situazione generale (Gen. 9, 8-9)16. Quello che si può trarre dallo spunto offerto da Baden è come una volta comprese le inten-zioni umane Dio si esprima alla maniera degli uomini stessi: abbiamo detto precedentemente che usa un linguaggio antropomorfo – punto che chiariremo meglio in seguito - ma anche nei gesti è simile e inverso a loro, come da sempre le sue caratteristiche lo hanno contrapposto alla finitezza imperfetta dell’uomo: ora, nel mito di Babele, l’uomo sale, o meglio, l’uomo vorrebbe salire per con-quistare e Dio scende, non per conoscere ma direttamente per punire17.

Anticipando ciò che nei capitoli seguenti dedicati a Scholem apparirà più chia-ro, perché immesso in una cornice di riferimento più dettagliata, la contrappo-sizione fra persona finita ed essere trascendente è ciò che ancora non rientra, spiega appunto Scholem, in quel periodo della storia religiosa che conosce la mistica come sua parte integrante. Tale contrapposizione prende forma nel

15 D. Di Cesare, op. cit., p. 31.

16 J. S. Baden, The tower of Babel: a case study in the competing methods of historical and modern

lite-rary criticism, in ‹‹Journal of Biblical letterature››, 128 n° 2, 2009, pp. 209-224.

17 Non si tratta di un gesto capace di indicare la subordinazione di Dio all’uomo. Non

ridimen-siona la sua onniscienza, in quanto alla discesa segue l’azione e precede la conoscenza di ciò che l’uomo già svolgeva e ciò a cui ambiva.

(19)

19

momento in cui l’uomo comprende la differenza rispetto all’entità divina e an-cor più percepisce l’impossibilità di quell’unione che vagheggiava in quello che, sempre Scholem, ci riporta come un primo periodo mitico, dove è il mondo stesso ad essere divino in ogni dove. Egli continua dicendo che:

‹‹L’uomo viene sospinto alla coscienza della dualità, alla coscienza di un abisso sopra il quale urge solo la Voce: la Voce di Dio, che dà le sue direttive e le sue leggi nella rive-lazione […]››18.

Nel caso del dramma babelico ci troviamo davanti ad un uomo che è consape-vole di queste differenze ma che non mira all’unione con Dio bensì alla prevari-cazione di quest’ultimo. L’uomo non prega: progetta, profana.

Allora potremmo dire che la tappa che Scholem descrive subito dopo come “pe-riodo romantico della religione”, indicando che, grazie all’introduzione dell’aspetto mistico, ‹‹[…] il suo oggetto [dell’uomo] è il cammino dell’anima oltre l’abisso della molteplicità verso l’esperienza della realtà divina, che adesso appare come l’originaria unità di tutte le cose››19, viene espresso in forma nega-tiva, ovvero a Babele persiste forse una mancanza del desiderio mistico di unità. Ma ciò che conta di più per il momento è capire cosa voglia dire che Dio si e-sprime con un linguaggio antropomorfo. Che genere di linguaggio è

18 G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 2008, p. 20.

Nel suo contesto originario, la citazione, è incorporata in un elenco di caratteristiche che par-tendo dalla mistica in generale arriva a definire quelle del lato ebraico nel dettaglio, senza coin-volgere nessun rimando al tema della confusio linguarum. Lo schema principale che racchiude le prime parti del testo scansiona per tappe la storia della religione, appunto fra mito, religione creatrice e mistica.

(20)

20

quest’ultimo? Linguaggio simile a quello umano che però è a sua volta divino, perché come abbiamo visto è un dono di Dio all’uomo. Infatti, si parlerà di lin-gua profana o propriamente umana solo in seguito ai fatti di Babele e l’uomo sarà detto sofista venditore di non-sensi, perché farfuglierà suoni incomprensi-bili al suo vicino.

Una soluzione religiosamente adottata è quella citata da Donatella Di Cesare ri-ferendosi ad una profezia, la cui paternità è riferita al profeta Zefania, nella qua-le si qua-legge la fine della dispersione babelica e l’avvento della soluzione messia-nica. Si tratta della “profezia delle labbra chiare”(versetto 3,9 del libro di Zefa-nia20), dove vengono racchiusi segnali teologico-politici che indicano la fine dell’esilio della lingua santa a vantaggio di tutti i popoli del mondo, in relazio-ne ad una purificaziorelazio-ne che si occupi prima del cuore e poi del linguaggio. Lin-guaggio che diverrà appunto chiaro e limpido – come su detto infatti labbra è usato come metonimia per lingua.

Concludendo questo breve excursus interpretativo ricordiamo che ciò che Babe-le ha distrutto nell’uomo, rendendolo profano, non è la capacità di “nominare” ma quella di “comprendere” la lingua di Dio. Anche se in modo confuso, gli uomini continuarono a parlare e questo indica come un residuo della lingua santa sia ancora presente nella loro confusione espressiva, ed è la ricerca di que-sto elemento nascoque-sto che ci impegnerà nei capitoli successivi21. Per ora teniamo

20 ‹‹Ma allora muterò, farò delle nazioni un labbro chiaro perché tutte invochino per nome

Y-H-W-H, perché lo servano in un unico accordo››, cfr. D. Di Cesare, op. cit., p. 41. (Corsivo mio).

21Avremo modo in seguito di vedere nel dettaglio come l’intenzione principale della Qabbalah

sia quella di indagare la parte divina nascosta nel cuore di ogni cosa per portarla alla luce, per rendere possibile la redenzione. A questo riguardo, anticipo insieme alla Di Cesare, che grazie

(21)

21

presente un concetto che ritornerà come elemento essenziale nelle pagine se-guenti:

‹‹La parola, come rappresentante della volontà sacra, è allora lo strumento dell’attesa, ciò per cui può essere resa possibile la comunicazione perfetta realizzata solo attraverso il faccia a faccia con Dio, nel silenzio radioso dell’eternità››22.

Ancora prima però di entrare nel dettaglio della nostra analisi filosofica occorre effettuare un breve passaggio nel campo della letteratura, e per far ciò è indi-spensabile utilizzare un registro linguistico che non sia né di tipo esegetico, né filosofico appunto. Il capitolo successivo ci offrirà una breve panoramica su al-cuni testi letterari in cui il mito della torre di Babele ha suggerito l’evoluzione di particolari teorie linguistiche e moralistiche, teorie che hanno fatto un pezzo della storia della letteratura italiana e non solo.

ad un’attività di traduzione sarà possibile compiere un primo passo di riparazione verso la re-denzione. Cfr. Di Cesare, op. cit., p. 33.

22M. Jacquemier, Le mythe de Babel et la kabbale chrétienne au XVI siècle, in ‹‹Nouvelle revue du

(22)

22

Capitolo 2

Breve parentesi letteraria.

L’influenza del mito della

confusio linguarum in Dante, Borges e

Kafka

E’ doveroso sottolineare, per rispettare gli assunti dai quali siamo partiti nell’introduzione, ovvero l’esposizione analitica di più punti di vista diversi sul mito della torre di Babele, come tale mito sia stato il soggetto principale di nu-merosi lavori letterari tanto descrittivi quanto inventati, e come abbia assunto di volta in volta un aspetto diverso, dando una luce nuova al racconto originario senza collegarlo necessariamente all’idea di punizione divina e di catastrofe. Anticamente ci si appagava del fatto che la koinè greca e il latino imperiale assi-curassero una comunicazione adeguata e universale dal bacino mediterraneo alle isole britanniche. Il sogno di una lingua perfetta che sanasse la ferita babeli-ca è contemporanea alla moltiplibabeli-cazione delle lingue europee.

Infatti, quello che propongo di seguito è una breve rassegna dei toni con cui di-verse figure di spicco del panorama letterario europeo nel ‘300 e nel ‘900, hanno dato risalto al tema del mito babelico e come hanno abbozzato possibili solu-zioni alla tragedia iniziata.

(23)

23 Dante

‹‹Lascianlo stare e non parliamo a voto; ché così è a lui ciascun linguaggio come ‘l suo ad altrui, ch’a nullo è noto››

Inferno XXXI, vv. 79–81

Quelle appena riportate sono le celebri parole da Virgilio proferite a Dante nell’incontro con i giganti, posizionati fra l’ottavo e il nono cerchio dell’Inferno, puniti per aver osato opporsi a Dio e al suo volere. In particolare è una risposta dovuta a una frase senza senso pronunciata dal gigante Nimbrod23, re di Babi-lonia, colui che istigò la costruzione della torre, e colui che, colpito dal contrap-passo, è condannato ad esprimersi senza potersi fare comprendere da alcuno. Le spiegazioni sul perché questi parli, o forse, sarebbe meglio dire, emetta suoni incomprensibili, sono state varie, alcune delle quali ritengono che Nimbrod si esprima secondo la lingua originaria pre-babelica, altre invece, in linea con quanto finora descritto, leggono nei suoi suoni disarticolati una punizione di grado maggiore rispetto agli altri sudditi e lavoratori, in relazione al ruolo

23 Il testo di P. Dronke, Dante e le tradizioni latine medievali, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 65-96 e

173-190, offre un’ampia descrizione del personaggio, del suo ruolo e della pena che gli venne inflitta. Interessante è notare come le fonti che pervengono a Dante per lo studio della figura del gigante giungono non solo dalle Sacre Scritture ma da un testo inedito, conservato in manoscrit-ti risalenmanoscrit-ti all’undicesimo secolo, Il Liber Nembroth. Il crimanoscrit-tico Richard Lemay commentando la prefazione di questo testo vede Nembrod come un ateo astronomo che cerca di dare una sua in-terpretazione dell’universo materialistico, mettendo da parte Dio. Ma ogni pretesa di conoscere l’universo, oltre la fede, è disdegnosa agli occhi del Creatore? (Strana tesi, poiché Dante pone nel Paradiso San Tommaso che si occupò a lungo del De caelo di Aristotele). Il punto che Dante colse è forse la conseguenza della conoscenza dell’universo che il gigante voleva trarre, cioè go-vernare l’universo stesso, da qui la costruzione della torre, e la manipolazione degli uomini, i-stigati a credere solo nel proprio valore, non badando più al timore divino. Ritratto esatto della

(24)

24

ciale che questi investì a suo tempo: perché sovrano e istigatore, la sua lingua divergerà in grado maggior dalle altre e resterà a queste aliena24.

Lo stesso episodio offre, sempre a Dante, nel De vulgari eloquentia, la possibilità di alimentare il fuoco letterario che anima il suo testo, andando alla ricerca di ciò che definisce una “pantera”25, “quel motivo originante”, che ha portato alla suddivisione delle lingua in volgare popolare e latino universale, in naturale -ovvero in rapporto con l’origine -, e artificiale. Il risultato delle sue analisi, com’è noto, convergerà nel volgare italiano che dovrà essere inteso come lingua illustre, trovando nella sua versione poetica soprattutto, quasi una forma di re-cupero della condizione pre-babelica di unicità del linguaggio. Lingua capace di rispondere a una grammatica, utilizzata nell’amministrazione e nel diritto. Seguiamo però il racconto che ci offre i gradi dell’evoluzione linguistica nel I li-bro del De vulgari eloquentia.

Dante esordisce sottolineando - come abbiamo fatto anche noi all’inizio di que-sta ricerca – la peculiarità del linguaggio umano ai fini della comunicazione, de-finendolo sensibile, ‹‹in quanto è suono; e razionale in quanto pare significare qualcosa a nostro arbitrio››26. E’ forse possibile ora trovare una risposta alla domanda lasciata aperta sul finire del precedente capitolo: ci eravamo chiesti che valore avesse il linguaggio antropomorfo utilizzato da Dio, ora Dante ci of-fre una possibile interpretazione in un contesto (l’incipit della Genesi) diverso

24 Agostino nel De Civitate Dei ( XVI, 4) descrive una situazione analoga: ‹‹Babilonia quindi

si-gnifica “confusione”. Da ciò si capisce che il suo fondatore fu Nimbrod. […] Egli erigeva quindi con quei popoli una torre contro il Signore, segno dell’empietà dell’orgoglio››.

25 Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, Garzanti, Milano 2008, I, XVII, p. 43. 26 Ivi, p. 9.

(25)

25

inizialmente da quello babelico, ma che, a mio avviso, può fare riflettere. Infatti, asserisce che la prima parola pronunciata dall’uomo, sottoforma di domanda o di risposta, deve esser stata “Dio”, sinonimo di gioia, poi spiega:

‹‹Nasce ora una questione: visto che abbiamo detto che l’uomo parlò in forma di rispo-sta, rispose egli a Dio? Allora per primo avrebbe parlato Dio. Si può replicare che poté ben rispondere a una domanda di Dio, ma non per questo Dio dové aver parlato proprio in quella che è per noi una lingua. Chi potrebbe infatti dubitare che ogni cosa sia pieghevole al cenno di Dio, che ogni cosa fa, conserva e governa? Perciò, se a tanti perturbamenti l’aria si muove per volere di Dio, sì che rimbomba il tuono, scocca il lampo, scende la pioggia e cade la neve, non poteva forse essa muoversi al comando di Dio per fare ri-suonare parole, quando le scandiva e distingueva proprio colui che più grandi cose se-parò e distinse? E perché no?[…]››27.

Dio si esprime con un linguaggio simile a quello dell’uomo, non perché pro-nunci le sue stesse parole, ma perché “si rende comprensibile” all’uomo con quei simboli e quegli eventi che creando gioia stimolano la parola. Nell’episodio babelico allora, Dio comunica in modo simile e inverso all’uomo perché annun-cia il suo volere non rendendo più trasmissibili fra gli uomini i loro desideri tramite i loro gesti: ‹‹[…] usavano in quel cantiere, una sola e unica lingua, dif-ferenziata in molte lingue dovettero rinunciare all’impresa e mai più poterono ritrovarsi in un’opera comune››28. A tal proposito Dante accusa anche l’uomo di

27 Ivi, p. 11 (corsivo mio). 28 Ivi, p. 17.

(26)

26

allora di aver eliminato la “forma di un linguaggio”, avendo i vocaboli una loro sintassi e una loro morfologia, propria dell’idioma ebraico, lingua pura e primi-genia per eccellenza.

E’ però da tenere presente che nel Paradiso XXVI, vv. 124–138, Dante opta per una rivisitazione della tesi ora esposta. Infatti, leggiamo che:

‹‹La lingua ch'io parlai fu tutta spenta innanzi che a l'ovra inconsummabile

fosse la gente di Nembròt attenta: ché nullo effetto mai razïonabile, per lo piacere uman che rinovella seguendo il cielo, sempre fu durabile.

Opera naturale è ch'uom favella; ma così o così, natura lascia poi fare a voi secondo che v'abbella. Pria ch'i' scendessi a l'infernale ambascia,

I s'appellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia; e El si chiamò poi: e ciò convene, ché l'uso d'i mortali è come fronda

in ramo, che sen va e altra vene››.

Ovvero, la lingua pura e originaria, viene qui descritta come dispersa molto tempo prima della disgrazia babelica, resa dall’immagine de “l’inconsumabile ovra”, e l’ebraico altro non fu che una delle tante lingue nate dal seme della confusione.

(27)

27

Ritornando al De vulgari eloquentia, in seguito al racconto del mito, Dante ce ne offre un commento spiegando come le varie lingue furono ricostruite ad arbitrio dell’uomo dopo la dispersione e, data la dimenticanza della lingua precedente, unita alla mutevolezza e caducità di cui l’uomo è dotato, queste variarono col tempo e nello spazio. Sembra, tuttavia, che appunto col tempo la differenzia-zione delle lingue abbia portato buoni frutti per Dante e per il suo volgare. Questo, acquisendo quella dignità letteraria valida tanto in prosa quanto in ver-si, opposto alla confusio linguarum, depurato dalle sterpaglie di dialetti e onoma-topee rozze e pungenti, in mancanza di un idioma originario unitario come quello adamitico, non cerca di definirsi come una “lingua pura” dalle virtù reli-giose e divine.

Ma la posizione dantesca si complica da quando nel XII secolo il concetto di “città” si tinse di tinte fosche e si iniziò a parlare di Babele come allegoria laica e cittadina nel pensiero di Dante. Il topos anticittadino, affermandosi sul piano politico, mise in crisi il sistema dei tre ordini sociali – oratores, bellatores, laborato-res, che Adalberone di Laon rese noto nell’altro Medioevo -, creò delle divisioni nette fra città come societas diaboli e la civitas Dei, ma, più di ogni altra cosa, dire città era come dire Babele, per i costumi corrotti e per la superbia che si amplifi-cava fra gli stessi strati sociali.

Ecco allora che Babele si presenta nuovamente come un’allegoria in factis, poiché anticipa anche ciò che avrebbe avuto luogo con l’avvento dei Comuni e con l’espansione cittadina, proprio perché la confusione cui il linguaggio fu sogget-to non si rivolse al singolo, ma fu una faccenda di status, di natura cittadina. Si è

(28)

28

ritenuto che fosse anomalo l’inserimento di questa strana allegoria in factis di ca-rattere laico nel pensiero dantesco, ma il VII capitolo del De vulgari eloquentia – che è poi quello che raccoglie il racconto sul mito di Babele – indica e giustifica come: a) l’uomo esista socialmente perché parte di un gruppo all’interno del quale si pone il problema della confusione linguistica; b) gli esponenti ghibellini di Firenze, le corporazioni, vengano da Dante stesso, in altra sede29 chiamati “alteri Babilonii”; c) Dante sembra attribuire alle stesse corporazioni la colpa dell’originarsi delle lingue post-babeliche e tale peccato rende facile lanciare an-che una critica di laicismo rivolta verso questo tipo di componenti sociali. A tale riguardo, come indica la Corti nel suo testo Il viaggio testuale:

‹‹Fare la storia dell’allegoria di Babele, come di altre allegorie bibliche, vuol dire stu-diare non solo i rapporti fra le res e i signa, ma la corrosione che le nuove strutture ideo-logiche producono nelle strutture semiotiche che il passato consegna ad ogni contesto sociale››30.

Borges

A differenza della ricerca reale intrapresa da Dante, facendo un gran balzo nel tempo, nel 1944 compare uno dei racconti fantastici di Jorge Luis Borges, La bi-blioteca di Babele, che ha per noi l’onere di indicare in modo innovativo e lontano

29 Dante Alighieri, Epistola VI, 8, in Opere minori, vol. II, sezione a cura di Angelo Jacomuzzi,

UTET, Torino 1986.

30 M. Corti, Dante e la torre di Babele: una nuova “allegoria in factis”, in Il viaggio testuale, Einaudi,

(29)

29

dalla tradizione, in una forma inconsueta, una Babele non geograficamente de-scrivibile, ma fisicamente realizzata come “un’indefinita biblioteca”, sicuramen-te opera di un dio (già è rilevansicuramen-te il fatto che non parli del Dio degli ebrei, né di qualsiasi altro credo religioso specifico, ma di una qualunque divinità possibile esprimendola con l’iniziale minuscola), contenente tutti i libri possibili da scri-vere, espressi anche con una particolare attenzione algebrica, alla quale corri-spondono le descrizioni topografiche degli spazi alla biblioteca stessa. All’interno di quest’ultima pochi sparuti esseri umani cercano febbrilmente in questi volumi la Verità, o qualsiasi altra Rivelazione.

In appena qualche manciata di paragrafi, Borges accenna a moltissime implica-zioni sulla natura filosofica di questa ricerca e sulle insidie del linguaggio e del meta-linguaggio. Per ciascun argomento di cui parla un libro, infatti, esiste (al-meno) una copia che ne esprime opinioni opposte, opinioni solo leggermente differenti, o versioni di altre realtà, di altre lingue, di altri linguaggi, o di tutte queste cose sovrapposte, o persino espresse in forme criptate, o scritte al contra-rio. Infatti, chiede al lettore, ‹‹Tu che mi leggi, sei sicuro di intendere la mia lin-gua?››31.

Si può anche pensare che su qualche scaffale compaia il “libro totale”, “la chia-ve e il compendio perfetto di tutti gli altri”, la richia-velazione, e che chi riesca a leg-gerla diventi “simile a un dio”.

Ma neanche la fantasia sfrenata di Borges può andare oltre le due strade ovvie: o dimenticare completamente la Biblioteca, e darsi "a mescolare lettere e

(30)

30

li, fino a costruire, per un improbabile dono del caso, questi libri canonici", o "sbarazzarsi delle opere inutili". Egli evidenzia dunque il fatto che, nella Biblio-teca così come nella cultura dei mass-media, il problema non è più ottenere l'in-formazione, che troviamo sempre a portata di mano. Ciò che in questo caso ap-pare degno d’attenzione è il fine cui tende un racconto simile, ovvero ricercare in un mondo moderno pieno di informazione appunto, che spesso poi non è al-tro che pseudo-informazione, uno spiraglio di vera cultura, e capire come iden-tificarlo.

In relazione al nostro interesse in questo elaborato circa gli effetti della confu-sione linguistica, il testo di Borges è esemplare, sia per esser stato capace di at-tualizzare, con la fantasia, un tema biblico–letterario, ponendolo in un contesto critico e culturale in senso più ampio, sia per aver sottolineato come, nelle so-miglianze, ogni lingua è diversa dall’altra, tutte però contenute “nell’Universo bibliotecario”, che per analogia richiama la molteplicità delle forme di comuni-cazione che il mito babelico ci sta insegnando a cogliere.

Un analogo tema prende forma e colori diversi per esposizione, simili per inten-to in un altro racconinten-to di Borges, La scrittura del Dio, in l’Aleph, dove cambia lo scenario – si tratta ora di carceri, stregoni, piromani e giaguari – ma protagoni-sta è sempre la voglia dell’uomo di conoscere ciò che probabilmente dio nel primo giorno della creazione scrisse come sentenza magica per scongiurare una catena di mali che si sarebbero di certo verificati nella fine dei tempi. Scoprire dove ciò fosse scritto – sul manto dei giaguari - e riuscire a leggerlo sarebbe sta-to sinonimo di potere. Allora:

(31)

31

‹‹Considerai che anche nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero; dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò …[…]. Considerai che nel linguaggio di un dio ogni parola deve enunciare que-sta infinita concatenazione dei fatti, e non in modo implicito ma esplicito, non progres-sivo ma immediato.[…] Un dio deve dire una parola, e in quella parola la pienezza››32.

Ciò che Borges cerca è, dunque, un dio che nel suo assorto carattere di assoluto contenga tutta la realtà, cancellando in essa le contraddizioni e risolvendo in sé stesso la molteplicità che, invece, dilania il cuore e la mente degli uomini. Il fat-to che una volta scoperfat-to il messaggio scritfat-to da dio, l’uomo non lo pronunci e non si avvalga del possibile dono dell’onnipotenza raffigura forse il concetto che l’uomo si confonde a lungo andare con la forza del suo destino e con i trop-pi errori comtrop-piuti, con la troppa superbia e le cicatrici permangono forse per volere di un disegno di cui dio stesso è l’artista.

Kafka, Babele e il problema della legge

Con Kafka ci troviamo davanti un ponte capace di collegare le teorie principali che si sono evolute sul mito di Babele con l’analisi di alcuni temi in campo reli-gioso che svolgono – come vedremo - un ruolo di primo piano nel pensiero di Scholem e Benjamin.

(32)

32

In relazione a quanto finora scritto, Kafka, ne Lo stemma della città33, saggio tanto

breve quanto profondo, spiega come la costruzione della torre, simbolo finora di pura confusione, si presenti come il “centro di un progetto” soprattutto archi-tettonico, da portare a compimento seguendo un ordine organizzativo preciso, indice di efficienza. Come prima impressione può sembrare che si tratti di un intento costruito su un piano puramente razionale, e riguardo a ciò scrive:

‹‹La gente ragionava così: la cosa essenziale dell’impresa è l’idea di costruire una torre che arrivi fino al cielo. Il resto è del tutto secondario.[…] Finché ci saranno uomini sulla terra, esisterà anche il forte desiderio di terminare la torre. E quindi il futuro non ci de-ve preoccupare. Al contrario: il sapere avanza […] e da qui a cent’anni il lavoro per il quale spendiamo un anno si farà forse in pochi mesi e migliore. Allora perché affaticar-ci?[…]››34.

Col seguire delle generazioni salta fuori l’impossibilità della realizzazione di un progetto simile ed è così che entra in scena la rinuncia. Ma nonostante ciò la profezia rivela quella che sarebbe stata la punizione degli uomini coinvolti: ‹‹cinque colpi successivi di un pugno gigantesco avrebbero annientato la città. Per questa ragione lo stemma della città contiene un pugno››35. Ora, che si tratti di un pugno-destino che farà in modo che gli uomini si annientino

33 F. Kafka, Lo stemma della città, in La colonia penale e altri racconti, Datanews, Roma 2005, pp.

93-94.

34 Ivi, p. 93. Ma se tutto ciò che è razionale è reale, allora edificare la torre nel pensiero

equivale-va a postularla viequivale-va e completa?, cfr. A. Fusco e R. Tamassoni, Lo stemma cittadino (1920), in I

racconti di Kafka: un’analisi psicologica, Franco Angeli, Milano 2005.

(33)

33

mente in nome della loro arroganza, o che sia invece un pugno-divino in cordanza con l’analisi compiuta nelle pagine precedenti, non fa variare la con-clusione di un uomo visto come oggetto-burattino.

Il tema della superbia ritorna anche in altri brevi passi degli scritti kafkiani, e sfogliando le pagine degli Aforismi di Zürau, il 32° aforisma, tramite il gioco me-taforico caro a Kafka, recita quanto segue:

‹‹Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: im-possibilità di cornacchie››36.

Ma questo, per i nostri fini, non può essere inteso se non lo si avvicina al 18° a-forisma, che sottintende forse la stessa superbia delle cornacchie:

‹‹Se fosse stato possibile costruire la torre di Babele senza scalarla, sarebbe stato con-cesso››37.

In quest’ultimo mancano i soggetti, che però sembrano facili da decifrare: anche qui, c’è un popolo a cui sarebbe concesso di cospirare contro il cielo. Come per le cornacchie, purché l'attentato di Babele si fermi da sé a un pelo dal suo trion-fo, tutto è ammesso: è ammessa la torre che tocchi il cielo, ma come cattedrale deserta, monumento alla possibilità e alla rinuncia.

36 F. Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, Milano 2006, p. 46. 37 Ivi, p. 32.

(34)

34

E’ da sottolineare però come il risvolto punitivo e la posizione passiva dell’uomo nei racconti ora sintetizzati si trovi in sintonia perfetta con alcune battute riportare da Walter Benjamin nel suo lavoro su Kafka:

‹‹Noi siamo [disse Kafka] pensieri nichilistici, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio›› e ‹‹il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una cattiva giorna-ta››38.

Problema comune a Kafka e a Benjamin è quello di rendere visibile e comunica-bile la Tradizione o – meglio ancora – di interrogarsi sul senso del suo stravol-gimento, del suo esautorarsi.

E’ da indicare come l’interpretazione che Benjamin propone di Kafka si dimo-stri antitetica, nonché polemica, da un lato con l’interpretazione “teologica” di Max Brod (erede testamentario di Kafka) e dall’altro con lo sforzo condotto da Scholem di intravedere nel pensiero di Kafka una sorta di “teologia negativa”. Secondo il giudizio di Benjamin nel mondo descritto da Kafka la Tradizione si identifica con la povertà che contraddistingue il contesto storico a loro attuale. Vengono quindi da Kafka messe in forse le condizioni principali su cui si sor-regge il patrimonio religioso. Criticare la Tradizione, per gli ebrei, significava mettere in discussione l’autorità della Legge – Halakhah -, “come legge dei padri”. Come può il Libro Sacro, la Torah, essere risparmiata dall’impoverirsi dell’esperienza umana? In modo drammatico Benjamin vede avanzare in Kafka

(35)

35

l’idea della perdita di tale Tradizione, quasi identificandola con una colpa che grava sull’uomo moderno. Neppure la sfera teologico-religiosa viene salvata dalla negatività o decadenza.

L’aspetto biografico gioca un ruolo di primo piano in questa circostanza, poiché il padre ha inculcato a Kafka – così come avvenne a Scholem – il rispetto neces-sario per le leggi della tradizione ebraica, leggi però prive di contenuto spiega-bile in modo immediato. Forse in relazione a quest’affinità personale ‹‹Scholem ha letto la crisi della legge al centro dell’opera di Kafka››39.

Queste considerazioni sul Kafka scrittore aforistico e scrittore narrativo, emer-gono vive da alcune pagine, datate 1934, dell’epistolario40 fra Benjamin e Scho-lem – indice di quel legame che avremo di qui a breve modo di comprendere più a fondo. Stèphane Mosès ha sintetizzato i temi principali che vengono fuori da alcune di queste lettere scambiate fra i due: a) le lettere dell’anno 1934 rac-colgono il problema della legge; b) quelle dell’anno 1938 si concentrano sul proble-ma della verità (temi – a e b - che per Scholem sono poi analoghi); e c) Scholem in un’opera successiva sulla Qabbalah del 1957, Autorità religiosa e mistica, segnala la vicinanza fra Kafka e la mistica ebraica in nome del problema del nichilismo e della dialettica della tradizione. E’ proprio quest’ultimo aspetto in concordanza con il primo ad interessarci.

39 S. Mosès, Il problema della legge: l’interpretazione scholemiana di Kafka, in M. Cavarocchi, La

cer-tezza che toglie la speranza, La Giuntina, Firenze 1988, pp. 161-176, p. 163.

(A tale riguardo va sottolineata una critica di non totale scientificità nella sua interpretazione rivolta da alcuni a Scholem, poiché questa si realizza solo sull’analisi di due opere, il Processo e “Le considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via” in La costruzione della muraglia cinese 1931).

40 W. Benjamin e G. Scholem, Teologia e utopia: carteggio 1933-1940, trad. it. a cura di A. M.

(36)

36

E’ “l’ossessione per le legge” - che può trovare mille applicazioni diverse - ad essere resa da Kafka sottoforma di finzione letteraria ma comunque emblemati-ca del panorama socio-culturale novecentesco. Questi, in una delle sue pagine di diario scriveva a conferma di ciò: ‹‹io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo che mi è certo assai vicino e che io non ho il diritto di combatte-re, ma in un certo modo, di rappresentare››41.

Nella prospettiva dell’ebraismo che si legge in Kafka: il mondo della Torah sembra ridotto a mera impalcatura42. Quello che si può ancora salvare della Ve-rità contenuta nei Testi Sacri può essere il tentativo di commentarli, il perpetuo glossarli, nella speranza di renderli in parte trasmissibili nel ricordo dei tempi a venire. Scrive Benjamin : «Kafka non osa associare a questo studio le promesse che la Tradizione ricollegava a quello della Toràh. I suoi aiutanti sono sagrestani rimasti senza parrocchia; i suoi studenti, scolari senza scrittura[..]››43.

Per Scholem invece è solo venendo a conoscenza delle varie sfumature di un mondo dal quale Dio si è messo in disparte44 che può essere possibile avvicinar-si e comprendere in modo più vivo la Qabbalah. Infatti, un processo di laicizza-zione ha fatto sì che la Tradilaicizza-zione divenisse muta e il linguaggio allontanasse da

41 F. Kafka, Diari, Mondadori, Milano 1999. 42

Cfr. G. Schiavoni, Walter Benjamin e Franz Kafka: ebrei tedeschi in un” territorio senza strade”, in ‹‹Il foglio clandestino››, n° 24, 1998.

43 W. Benjamin, Franz Kafka, op. cit., p. 304.

44 Un mondo che non è più visto come creazione di Dio ma come insieme di apparenze. A

rende-re il senso totale di quest’esprende-ressione è la prima strofa della poesia inserita da Scholem in una lettera, scritta probabilmente fra il 10-12 luglio 1934 a Benjamin: ‹‹Siamo interamente separati da te? In questa notte Dio, non ci è destinato un soffio della tua pace, del tuo messaggio?//E’ pos-sibile che la tua parola si sia così perduta nel vuoto di Sion – o che non sia penetrata affatto in que-sto regno magico fatto di apparenza?[…]››, cfr. W. Benjamin e G. Scholem, op. cit. p. 145. (Corsivo mio).

(37)

37

sé la Presenza di Dio, così che i mistici non avessero più fiducia nel loro ruolo di “messaggeri” fra la forza del linguaggio e la voce divina45.

Quando, sempre in una lettera del luglio del ’34 a Benjamin, Scholem spiega come ‹‹il mondo di Kafka è il mondo della rivelazione, certo in quella prospet-tiva che viene ricondotta al proprio nulla››46, vuole indicare che non si tratta di una rivelazione inesistente, ma “ineseguibile”. Rendendo il concetto con una ci-tazione:

‹‹Chiedi [spiega Scholem riferendosi a Benjamin] che cosa intenda con l’espressione “il nulla della rivelazione”. Intendo uno stadio in cui essa appare vuota di significato, in cui afferma ancora se stessa, in cui vige, ma non significa. Dove viene meno la ricchez-za del significato, e ciò che si manifesta è come ridotto a un punto zero del proprio con-tenuto, eppure non scompare, in questo caso emerge il suo nulla››47.

Segue come riferimento l’esempio sopra citato del gruppo di scolari che hanno smarrito la scrittura, posizione fasulla nella quale si pone Benjamin per Scho-lem, dal momento che è corretto parlare non di smarrimento quanto di incapa-cità d’interpretazione. Dire “scrittura” in questo caso è dire “legge”. E’ indicati-vo come Scholem già in un passo di un’altra lettera risalente all’agosto del 1931, incitava Benjamin, in quanto critico, a posizionare al centro delle sue analisi su

45 Cfr. M. Cavarocchi Arbib, Ermeneutica mistica e crisi della modernità. Scholem interprete di Kafka,

in ‹‹Humanitas››, vol. 55, n° 3-4, 2000, pp. 474-503, pp. 474-475.

46 Ivi, p. 146. Il collegamento è evidente con un’altra strofa della poesia sopra citata: ‹‹Solo il tuo

nulla è l’esperienza che può avere di te››.

47 Ivi, p. 163. Qui Benjamin collega la sua riflessione dicendo: ‹‹ho tentato di mostrare come

Ka-fka abbia cercato a tastoni la redenzione nel rovescio di questo “nulla”, nella sua federa, se pos-so usare quest’immagine››, ivi, p. 149.

(38)

38

Kafka, ciò che per quest’ultimo è la Legge (da Scholem come abbiamo visto comparata alla “dottrina”): ‹‹in nessun altro luogo [dice Scholem riferendosi agli scritti kafkiani] come in questo è mai divampata con tanta spietatezza la lu-ce della Rivelazione. E’ questo il segreto teologico della prosa perfetta››48.

Eppure quella legge che prometteva la redenzione ha perso, come abbiamo det-to, il suo vigore49 nell’epoca moderna, non c’è più un concetto di legge trascen-dente esplicito, ma comunque permangono forze che nascoste continuano a rendere l’uomo un oggetto50, così come anche non visibile, permane il messag-gio che la rivelazione porta con sé: per Scholem un messag-giorno sarà forse possibile decifrarlo. Per quest’ultimo, parlando di Tradizione e di legge è possibile vede-re nel passato51, che è poi ciò che dovrebbe essere tramandato, un “simbolo per l’incompiuto”, capace cioè di indicare una meta futura ancora da raggiungere e da ricercare.

48 Cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, Adelphi, Milano 2008, pp. 268-269. 49‹‹In un saggio su Kafka di recente pubblicazione, Jaques Derrida sviluppa l’idea che

l’irraggiungibilità della legge di Kafka non provenga dalla sua eccessiva complessità o dalle sue eccessive pretese, ma dal fatto che il concetto stesso di legge ha perso, oggi, la sua legittimità››, S. Mosés, op. cit. p. 165. L’opera di Derrida alla quale si fa riferimento è Préjugés devant la loi, in

La facultè de juger, Parigi 1985, pp. 87-139.

50 ‹‹Il nostro stato fu misurato con precisione assoluta sulla bilancia di Giobbe, desolati come nel

giorno del giudizio fummo riconosciuti interamente per quel che siamo››, W. Benjamin e G. Scholem, op. cit., p. 145.

51 In Benjamin, leggiamo un passo che rende similmente tale concetto: ‹‹Il passato reca con sé un

indice segreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora muta? […] Se è così allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa››. W. Ben-jamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1977, p. 23.

(39)

39

Grazie a questo tipo di riflessioni Scholem vede in Kafka un “mistico senza Di-o”, poiché ciò che gli viene a mancare è proprio la fede – e questa mancanza lo spinge a far sì che la vita sua e dei suoi personaggi non sia vissuta ma subita, come una condanna emessa da un giudice senza volto - e nella decima delle sue Tesi astoriche sulla “Qabbalah” lo avvicina agli

‹‹ultimi adepti di una Qabbalah voltasi in eresia, un messianesimo nichilistico che cer-cava di parlare la lingua dell’Illuminismo. Egli [Wehle] è il primo a chiedersi (e la sua risposta è affermativa) se il paradiso non abbia subito, con la cacciata dell’uomo, una perdita più grave di quella subita dall’uomo stesso. […] Fu dunque una pura simpatia fra anime quella che portò Kafka, un secolo dopo, a formulare pensieri così profonda-mente affini?[…] Kafka ha infatti portato a espressione in modo insuperabile il confine fra religione e nichilismo. Ecco perché i suoi scritti […] possiedono lo splendore della per-fezione infranta››52.

Porsi “fra religione e nichilismo” significa non avere più speranza nella ricerca della verità, ma, nonostante ciò, inevitabilmente si è coinvolti in tale ricerca per un tempo infinto. Il concetto di “perfezione infranta” se rivolto a Kafka, indica forse un paradossale “caos calmo” espresso nelle sue narrazioni: manca la vera forma della “totalità” ma tutto è frammentato in mille comportamenti possibili

52 G. Scholem, Dieci tesi astoriche sulla “Qabbalah”, in Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del

Riferimenti

Documenti correlati

Senza aprire qui una digressione sulla natura e la «mappa» delle lingue sacre – digressione che sarebbe lunga e impegnativa, e decisamente sbilanciata sul ver-

“realizzazioni  storico‐empiriche”  che  sono  le  lingue 32 .  Un  eclatante  editto  della  Società  Linguistica  di  Parigi  del  1866  dichiarò 

di stabilire, nelle more della determinazione definitiva del fondo sanitario regionale per I'anno 2017 e delle definizione del riparto tra le Aziende Sanitarie Locali,

E dopo quel primo incontro, il passaggio da manoscritto a libro ebbe inizio. Leo Longanesi, rimasto colpito dal romanzo, l’indomani propose a Berto un contratto in cui si

alla casella di Posta Elettronica Certificata (PEC) del Comune di Trieste comune.trieste@certgov.fvg.it specificando nell’oggetto “Domanda per la selezione di

Nei paragrafi precedenti ho cercato di illustrare la prospettiva antro- pologica sul linguaggio adottata da Wittgenstein nelle Ricerche met- tendo in luce da un lato l’impiego

Ciò tuttavia solleva un problema: se da un lato episteme è conoscenza incontrovertibile sulla natura, nel senso testé attribuito, ma dall’altro lato la scienza muta soppiantando

Predisposizione degli atti tecnici necessari all'attestazìone della conformìtà urbanistico- edilizia degìi immobili (rìlievi, elaborati trafici, sanatorie u