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Dal mito di Babele alla teoria mistica del linguaggio

3.2. Il Tetragramma, la Creazione e il Linguaggio

Consapevoli ora del valore rilevante che il simbolo ha per Scholem, la nostra ri- cerca riprende da un punto lasciato in sospeso nelle pagine dedicate a Kafka. Abbiamo detto che il passato si trasforma in tradizione che dovrebbe essere tramandata divenendo legge per certi aspetti, e se per Kafka non c’era speranza di ritrovare alcuna forma di rivelazione e redenzione precisa, nel mistico guida- to dalla luce di Dio questa è invece ancora una possibilità e una speranza viva. Emergono però seri problemi anche per quanto riguarda il genere di ricerca che il vero mistico vuole intraprendere. Alla luce del contesto storico a Scholem presente74, si svelava l’impossibilità di un’esperienza autentica con Dio: la per-

73 G. Scholem, Dieci tesi …, op. cit., p. 93. (Corsivo mio).

74 Contesto storico – primi ottanta anni del ‘900 - che com’è noto copre esattamente gli anni fer-

venti di un’Europa protagonista di esperimenti bellici, come i primi carri armati nella guerra delle Somme nel 1916; anni il cui ricordo lascia una patina sul cuore perché si portano diedro

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dita di senso in quest’indagine pare quasi indicare che non esistessero veicoli secondari per valicare gli ostacoli storici che lo stesso uomo aveva prodotto nel tempo.

Scholem cerca di rispondere a tale crisi con una “fenomenologia dei segni”- nel senso precedentemente indicato -, capace di utilizzare la lingua nelle sue nuove vesti: non più e non solo come elemento di separazione fra Dio e l’uomo ma come possibile collegamento, come medium75: ‹‹poiché la parola di Dio, se mai l’uomo possa farne esperienza, si rende percepibile proprio nel medium del lin- guaggio umano››76.

Parlando di “separazione” come ruolo principale giocato fino ad ora dal lin- guaggio è esplicito anche in questo caso il riferimento al mito di Babele. Se la lingua sacra, l’ebraico, possedeva una coincidenza perfetta fra ciò che si diceva e l’essenza delle cose che designava, l’avvento della “hybris magica” ha corrotto l’uomo e lo ha volto verso un nuovo paradigma linguistico, questa volta profa- no. Obliando la lingua divina in modo continuo e costante l’uomo fu costretto – come già abbiamo spiegato nei capitoli iniziali - a creare un nuovo vocabolario, indice di confusione e separazione, che però mantiene scintille di lingua sacra. Leggiamo direttamente quanto Scholem scrive al riguardo:

l’eco della parola genocidio; anni che osservano il consolidarsi di partiti, sindacati, rivolte con- tro il potere in nome del sapere, anni che facevano effettivamente subentrare nell’uomo degli interrogativi sulla possibilità che un Dio ci fosse, e se la risposta risultava affermativa nel cuore della gente si era consapevoli che un rapporto diretto con il loro Dio sarebbe stato solo fantasia, illusione, data la realtà dei fatti con cui si viveva non appena si riaprivano gli occhi.

75 Cfr. A. Fabris, Tradizione e linguaggio. Elementi del paradosso nel pensiero di Gershom Scholem, in

‹‹Discipline Filosofiche››, IX, 1, 1999, pp. 213-228, pp. 225-226.

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‹‹La generazione che volle erigere la Torre di Babele abusò in senso magico di questa au- tentica lingua santa per imitare entro certi limiti, mediante la conoscenza dei puri nomi di tutte le cose, l’azione creatrice di Dio, e per carpire un “nome” che fosse applicabile in ogni occasione. La confusione delle lingue consistette nel progressivo oblio di questa lingua, cosicché si dovettero inventare ed escogitare nuove denominazioni per tutte le cose. Da qui deriva il carattere convenzionale delle lingue profane di contro alla sacra- lità dell’ebraico››77.

Per comprendere a fondo come si sia cercato di realizzare un ipotetico progetto di “restauro della lingua sacra”, se così mi è lecito definirlo, è indispensabile comprendere il percorso filosofico che Scholem traccia, esaminando le principa- li correnti mistiche dell’ebraismo, soffermandosi sul rapporto tra “cosa” e “pa- rola” e sulla centralità del linguaggio nell’interpretazione cabbalistica della To- rah, nel suo Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, testo del 197078. La tesi principale di ogni teoria mistica del linguaggio risiede nel ritenere che il linguaggio umano abbia una sorta di scomparto interno, un risvolto non visibile nel processo comunicativo uomo-uomo. Nell’effetto acustico che la voce produ-

77 Ivi, p. 71. (Corsivo mio).

78 Nei capitoli successivi, vedremo come Scholem prese spunto per questo suo lavoro dalla con-

cezione del linguaggio esposta da Walter Benjamin nel 1916 nel testo che analizzeremo, Sulla

lingua in generale e sulla lingua dell’uomo. Avremo modo anche di sottolineare alcune “manipola- zioni” interpretative che Scholem apporterà a tale saggio. Ma il perché l’analisi del testo di Scholem, seppure più tardo rispetto a quello di Benjamin preceda quest’ultimo nel mio elabora- to è da rintracciare nella linea generale che sto tentando di seguire, riferendomi più ad un crite- rio concettuale che eminentemente cronologico.

In relazione a ciò, sintetizzando per adesso, gli scritti di Benjamin sono ritenuti doppiamente interpretabili: tanto vicini all’aspetto religioso-mistico, quanto criticabili dal versante naturali- stico di quella teoria del linguaggio umano della quale sto cercando di mettere in risalto gli a- spetti principali. Ed è in relazione a questo aspetto che ho ritenuto utile riservare loro una posi- zione mediana.

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ce c’è ben più di quanto rende possibile la comprensione. E’ questo “in più” che deve essere svelato. E’ questo “in più” che si traveste del carattere simbolico del quale abbiamo discusso. Ma è proprio in questo simbolismo che abbiamo impa- rato a riconoscere grazie alla mistica del linguaggio un aspetto paradossale, proprio perché finisce con il “comunicare l’incomunicabile”. Per cercare di sfuggire a tale inconveniente i mistici delle diverse religioni hanno cercato di comprendere quale sia il capo di un ipotetico filo d’Arianna, per sbrogliare i nodi troppo intricati creatisi fra lingua umana e divina, e rendere quindi pura la seconda, così da essere solo in seguito comprensibile agli uomini, essendo que- sta emblema della rivelazione.

Fra i vari mistici, soprattutto i cabbalisti hanno ravvisato nel linguaggio un a- spetto positivo, intendendolo, dice Scholem, come “segreto disvelato”. Egli for- nisce allora una sorta di mappa, con tre punti chiave, da tenere sempre presenti per muoversi sul territorio della mistica del linguaggio. Si tratta in primo luogo di comprendere lo svelarsi divino esclusivamente per simboli nella creazione e nella rivelazione, tesi che ci consente di leggere nel linguaggio l’essere del mondo. Secondariamente fa notare come questo linguaggio abbia origine dal Nome di Dio, e trovi concretizzazione poi nella frammentazione di tale nome in forme, costrutti e simboli diversi da lingua a lingua. Per ultimo fa riferimento al legame dialettico presente fra mistica e magia, che la teoria dei nomi divini e la parola umana hanno come loro componente rilevante.

Riguardo a ciò Scholem indica la divisione avvenuta in alcuni passi delle Sacre Scritture fra il Dio trascendente e il suo Nome, indice dell’onnipotenza divina e

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del suo volere concretizzato nella creazione, “che trova dimora nel Tempio”, e che soprattutto a seguito della distruzione di quest’ultimo cessa di essere pro- nunciabile. Tale Nome divino, sottratto all’orizzonte della lingua comune, a partire dal II secolo d.C. diviene sem ha-meforas, che può voler dire sia “comuni- cato” che “nascosto”: da allora lo si potrà solo invocare. Ecco come il Nome di Dio diviene emblema della speranza messianica.

Quando però lo si collega alla creazione è invitabile che gli venga associata una componente magica, dal momento che vigeva una teoria per la quale diveniva ravvisabile nel nome stesso la potenza propria del portatore: dire che ogni cosa è nata dalla “parola di Dio” è come dire che è nata dal suo “Nome”, quindi ogni singola parte del creato contiene in sé un elemento linguistico, tutto è parola di- vina. Dio è presente in segreto in ogni essere vivente, ed è proprio ‹‹il duplice aspetto della parola divina, intesa anche come nome, [che] caratterizza ampia- mente la teoria cabbalistica del linguaggio››79.

Si assiste così ad una nuova valutazione delle lettere, delle consonanti che co- struiscono il vocabolario ebraico, lingua divina, le quali consentono, collegan- dosi diversamente fra loro di dare avvio alla creazione e, se comprese a fondo, alla rivelazione. Ed è proprio nel Libro della Creazione, il Sefer Yesirah scritto fra II e III secolo d.C., che vengono associate la mistica delle lettere e dei numeri sotto la luce delle “trentadue vie della Sapienza divina”, cosicché dall’unione delle dieci sefiròth – intese come i numeri originari che ordinano il creato – e dalle

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ventidue lettere dell’alfabeto ebraico – elementi naturali per i quali il creato esi- ste - è possibile leggere la creazione compiuta da Dio.

Poniamo qui una piccola annotazione indicando come in genere i cabbalisti sia- no concordi nel concepire le sefiròth come gradi, come livelli attraverso i quali la forza del Signore agisce nel creato. La suddivisione dell’energia divina in sefi- ròth dipende dalla struttura dell’intelletto umano, che può pervenire alla cono- scenza solo gradualmente. Infatti, i testi dei cabbalisti non si stancano di ripete- re che le sefiròth sono unite nel Signore e che sono separate nella nostra limitata comprensione, la quale può innalzarsi al cielo solo per tappe successive. Cia- scuna sefirah non è dunque altro che un grado provvisorio di aggregazione dell’energia divina inserito in un continuo dinamismo di discesa e di risalita. Ritornando all’atto del creare divino teniamo presente che questo possiede una sua logica d’azione precisa, e Scholem la indica per sequenze, spiegando come inizialmente le lettere abbiano una loro collocazione cosmica finché dall’interazione fra i vari cerchi che le contengono, si aprono “231 Porte”, dalle quali ogni elemento del creato fuoriesce. Ecco allora come si dà forma alla pri- ma ipotesi d’origine del linguaggio dell’uomo di stampo divino che risulta utile alla nostra ricerca:

‹‹Tutto il reale si fonda su queste combinazioni originarie con cui Dio ha suscitato il movimento del linguaggio. L’alfabeto è, insieme, l’origine del linguaggio e l’origine

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dell’essere.”Ecco allora che tutta la creazione e tutte le parole derivano da un No- me“[…]››80.

Scholem alla luce di quest’analisi della creazione, sotto la guida dei cabbalisti, legge nella Torah l’insieme delle diverse caratteristiche che i nomi di Dio hanno assunto. Anche Donatella Di Cesare, nel testo precedentemente citato, Gramma- tica dei tempi messianici81, dedica dei passi alla posizione che i nomi assumono

nella Torah, spiegando come questi contengano l’essere di chi lo porta unito alla sua storia, al suo passato e al suo futuro, perciò l’etimologia dei vocaboli assu- me una rilevanza sempre maggiore, poiché avvicina al futuro, alla rivelazione. Per Scholem, così, la Torah va letta tanto come un insieme di comandamenti che si sarebbero dovuti tramandare, quanto come l’intera serie di nomi attribuibili a Dio: qui non c’è più magia, ma solo un grande desiderio di unità mistica. ‹‹Il Te- tragramma si presenta come la combinazione delle lettere ebraiche yod-he- waw-he: Y-H-V-H. […] Questa combinazione di lettere, è l’oltre di ogni parola, la sorgente di tutto ciò che esiste››82, è il Nome di Dio.

La testimonianza del fatto che sia stato Dio stesso a svelarsi in parte all’uomo per nome, è esposta soprattutto nei versetti dell’Esodo contenenti il racconto del “roveto ardente”. Aprendo una breve parentesi, ricordiamo che è in questi ver- setti (Es 3, 13-15)83 che Dio si dà un nome per fare in modo che le generazioni

80 Ivi, p. 33.

81 D. Di Cesare, op. cit., pp. 48-49. 82 Ibidem.

83 ‹‹13Mosè disse a Elo-hìm: ”Ecco quando io mi presenterò ai figli di Israele, e annuncerò loro:

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future possano identificarlo, ma soprattutto intende far sì che il suo popolo cre- da nell’aiuto offertogli per fuggire dall’Egitto e, sempre Dio, si svela quasi come firmatario di un documento-patto, controfirmato a loro volta dagli uomini, di cui Mosè era in quella circostanza il rappresentante.

Inoltre, data l’assenza di vocali in tale Nome santo, l’uomo viene privato dalla possibilità di pronunciarlo; anzi nella tradizione ebraica esiste un chiaro divieto nel farlo, poiché vorrebbe dire reificare Dio. Eppure se questo nome, Yahweh, appreso tramite la Tradizione, non è stato reso noto in modo esplicito, pronun- ciabile, da Dio, è forse perché Egli volle in dubium revocare il cuore dei fedeli e aprire un cammino di ricerca agli iniziati affinché svelassero il mistero di quelle “lettere d’occultamento”(come le chiama Scholem84)? Tuttavia Dio ha mescolato le lettere del Tetragramma in primis con quelle dell’alfabeto umano, dando for- ma ad altri nomi divini – El, Elohim, Šadday -, e secondariamente le ha unite all’insieme grafico di segni che le Sacre Scritture ci offrono.

Da questa complessità condensata è possibile rendere forse nota la potenza di- vina che ha sede nel Nome autentico di Dio? Di certo non sarà così che Dio si renderà noto nella sua totalità, ma è possibile riconoscere alcuni suoi aspetti re- lativi esibiti nella creazione.

Avendo stabilito questa prima caratteristica linguistica che la Qabbalah del XIII secolo fa propria, Scholem passa a indicare le altre differenze fra questa e gli at-

dovrò rispondere?”. 14Elo-hìm rispose: “Sarò colui che sarò” e aggiunse “Sarò mi manda da

voi”. 15Inoltre così disse Elo-hìm a Mosè: ”Annuncia ai figli di Israele che è Y-H-V-H Elo-hìm

dei vostri padri, Elo-hìm di Abramo, Elo-hìm di Isacco, Elo-hìm di Giacobbe che mi invia a voi. Questo è il mio nome in perpetuo, questo il modo di designarmi attraverso le generazioni››. Per un’analisi dei versetti più accorta cfr. D. Di Cesare, op. cit., pp. 45-48; 53-55.

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tributi conferiti alla lingua nel Sefer Yesirah. Ora fra lingua divina e sfera della creazione non c’è più analogia e sovrapposizione: ogni singola goccia del creato rimanda tramite simboli alle leggi che sorreggono il mondo, ogni singola parte ha una superficie simile al cristallo che permette di vedere al suo interno quello che Scholem chiama, “una traccia, un monogramma” di qualcosa di superiore, qualcosa di Dio85.

Non è più legittimo intendere il linguaggio come derivato della creazione, ma è la creazione che può essere intesa anche come movimento linguistico, come paro- la cosificata86.

85 ‹‹Che il processo della manifestazione di Dio, del suo esternarsi, venga rappresentato col sim-

bolismo della luce e della sua diffusione o riflessione, o che lo si intenda invece come attività del linguaggio di Dio, come il differenziarsi della parola della creazione o il dispiegarsi del Nome divino, per i cabbalisti si tratta solo di fare una scelta fra due simbolismi dello stesso ordine, il simbolismo della luce e quello del linguaggio››, cfr. ivi, p. 43.

86 All’interno di questo discorso sulla creazione è inevitabile indicare come anche Franz Rosen-

zweig ne La stella della redenzione pensi il rapporto Dio-mondo come un atto intrinsecamente le- gato all’uso del linguaggio. Ciò è possibile poiché in ebraico il termine usato per parola, davar, significa sia “parola” che “fatto/cosa”: è così che “Dio disse e la cosa fu”. La creazione è un no- me che ritaglia una forma dal caos primigenio, indistinto, e il linguaggio della creazione è quell’atto attraverso il quale si fa essere qualcosa richiamandolo nella sua individualità. Come avviene allora la creazione? La potenza divina, che giaceva nella sua autoaffermazione inquieta, in Dio stesso, passa all’apertura di Dio al mondo: la parola diviene parola di relazione, relazione fra due entità libere, la prima chiama, la seconda risponde. Cfr. F. Rosenzweig, op. cit.

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