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Dal generale al particolare Il Saggio sull’origine delle lingue: una natura lizzazione di Genesi 3 e Genesi

Un esercizio di decostruzione: l’ipotesi naturalistica dell’origine del linguaggio

3.3. Dal generale al particolare Il Saggio sull’origine delle lingue: una natura lizzazione di Genesi 3 e Genesi

Ma si sono anticipate troppe cose senza poggiare su spiegazioni adeguate. Pro- cedendo per gradi, Derrida sceglie di analizzare e decostruire, non a caso, fra i testi di Rousseau il Saggio sull’origine delle lingue - il quale sarà inequivocabil- mente spiegato anche in relazione al Discorso sull’origine dell’ineguaglianza. Al di là di tutte le problematiche relative alla querelle cronologica che in questa sede non ci riguardano257, la nostra attenzione è rivolta all’opposizione chiave che si instaura fra la voce e la scrittura, ancora una volta come corrispondenti della

255 J. J. Rousseau, Le fantasticherie …, op. cit., p. 91. 256 J. Starobinski, op. cit., p. 100.

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presenza e dell’assenza, tesi che ha in questo caso laceranti risvolti anche sul pi- ano politico. Infatti la conclusione del Saggio riporta quanto segue:

«Ogni lingua, con la quale non è possibile farsi intendere dal popolo riunito, è una lin- gua servile; è impossibile che un popolo sia libero e parli una lingua simile»258.

Rousseau riunisce nella sua critica, ponendoli ad un uguale livello di negatività, la degradazione dei costumi – dicendo che la nostra lingua è adatta solo al chiacchiericcio dei salotti -, la corruzione della pronuncia – che ha perso dell’armonia propria del canto e della prosodia -, e il progresso della scrittura. Per quest’ultimo punto la citazione precedente riporta un finale critico soprat- tutto per il profilo politico del tempo alla deriva da un punto di vista relaziona- le dice Rousseau, dal momento che neanche le lingue popolari sono più utili, in quanto tutto ciò che il governo ha da dire agli uomini è “pagate”, e lo fa attra- verso le incisioni e i documenti scritti affissi agli angoli delle strade, ma ancor più non serve parlare, perché parlare rende gli uomini coesi, li mette in relazio- ne, e se dal gruppo nasce una forza capace di sovvertire l’ordine delle cose que- sta catena di reazioni non serve ad un governo che vuole tenere gli uomini di- spersi e muti. Ma prima di arrivare ad un smile stato esistettero forse forme po- sitive di comunicazione vocale, lontane dalla scrittura? E, ancora meglio, se esi- stettero, come nacquero?

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Nel rispondere a queste domande penso sia opportuno, per evitare di uscire fuori dal nostro tema principale sull’origine e sul contrasto unità-moltelplicità del linguaggio, fare riferimento a quanto Derrida propone non tanto in Della grammatologia, ma in un breve saggio del 1967, La linguistique de Rousseau, poi utilizzato come base di un discorso tenuto a Londra l’anno seguente con il titolo Il circolo linguistico di Ginevra – vedremo come già nella spiegazione di tale titolo siano racchiuse le risposte che cerchiamo.

Derrida qui definisce il lavoro di Rousseau analogo a quello di colui che cerca di aprire nuovi orizzonti, di rompere un cerchio, utilizzando nuove prospettive di valutazione; ovvero, egli è deciso a non utilizzare e a dissentire da qualsiasi forma di derivazione linguistica da cause soprannaturali. In sostanza dice “no” a tutta la serie di ragionamenti che ci hanno tenuto occupati nei capitoli iniziali, per cui non è più Dio che soffia la sua ruach nell’uomo e lo rende parlante a sua immagine, capace di reiterare in forma limitata la stessa azione divina sul resto del creato.

Allora possiamo finalmente vedere nel dettaglio come l’interiorizzazione e la socializzazione di temi tipicamente sacri di cui parlavamo nel paragrafo prece- dente in relazione a questo suo nuovo intento socio-linguistico, non deve indur- re a considerare Rousseau un miscredente o un ateo, un eretico. Anzi, egli cercò di congiungere sempre la sua devozione alla scienza e, a differenza del Discorso in cui egli afferma già dall’introduzione «o uomo ascolta: ecco la tua storia co- me mi è parso di leggerla, non nei libri dei tuoi simili che sono menzogneri, ma nella

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natura che non mente mai»259, nel Saggio i riferimenti ai passi biblici, ai testi di altri autori, e all’influenza di ambiti religiosi come quelli di Porte-Royal o di personaggi come l’abate Lamy dell’Oratoire sono ridondanti (anzi forse fu pro- prio per la presenza di citazioni simili che anche dopo la stesura del Saggio – 1745 - Rousseau, legato culturalmente al contesto ateo illuminista del tempo, e- vitò di pubblicare il testo direttamente, per non autopromuovere la sua estro- missione da tale entourage culturale che comunque, per motivi diversi, sarebbe arrivata poco più in là, come ci racconta nelle Rêverie e nelle Confessioni).

Proprio nel Saggio troviamo un passo - che si collega perfettamente al tema fino- ra discusso in questo elaborato - in cui sottolinea come “non dobbiamo confon- dere i tempi”, ovvero:

«L’età patriarcale che noi conosciamo è ben lontana dall’età primitiva. La scrittura, in questi secoli in cui gli uomini vivevano a lungo, conta dieci generazioni l’una dall’altra. Che cosa hanno fatto durante queste generazioni? Non ne sappiamo niente. Vivendo sparsi e praticamente senza società, a mala pena parlavano come avrebbero potuto scrivere? Adamo parlava, Noè parlava, e sia. Adamo era stato istruito direttamente da Dio stesso. Dividendosi i figli di Noè abbandonarono l’agricoltura e la lingua comune perì con la prima società. Ciò sarebbe accaduto anche quando non ci fosse stata nessuna torre di Babele. […] Dispersi in questo vasto deserto del mondo, gli uomini caddero nella barbe- rie. […] Secondo queste idee così naturali è facile conciliare l’autorità delle Sacre Scritture

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con le testimonianze antiche [e con il mio ragionamento naturalistico, pare dica senza dirlo]»260.

Dio è assolto, non negato, e questo è giustificato nel Saggio e nella citazione pre- cedente dal fatto che Rousseau non elimina con un colpo di spugna ciò che si narra nella Bibbia e specialmente nella Genesi. Infatti dice: “Adamo parla, Noè parlava, e sia”. Egli pone però come spartiacque il diluvio universale e la di- spersione dell’uomo, al seguito della quale l’origine del linguaggio e della corri- spondente socialità saranno solo e soltanto naturali partendo dall’immagine di una “primavera perpetua sulla terra”261, ovvero, ancora, di un nuovo Eden. E’ così che Rousseau, forte della necessità di associare la nascita del linguaggio alla nascita della società, esige una partenza che abbia come origine un puro stato di natura pre-relazionale, e utilizzando una sua citazione leggiamo: «la pa- rola, che è la prima istituzione sociale, deve la sua forma soltanto a cause natura- li»262. Già nel Discorso infatti, com’è noto, ci si presenta un contesto di perfetta equivalenza fra bisogno e soddisfacimento del bisogno, dove l’uomo per un verso solo e ozioso, osserva e imita nel suo piccolo la flora e la fauna, per l’alto, moralmente parlando, è libero e padrone delle sue azioni e delle sue scelte a dif- ferenza degli altri animali collegati al solo istinto dei sensi. Laddove l’uomo

260 Ivi, pp. 56-57. (Corsivo mio). In questo caso, ricordiamo ancora una volta che i testi di lettera-

tura critica sull’aspetto religioso in Rousseau si sprecano, citandone uno per tutti P. M. Masson,

La religion de Jean-Jacques Rousseau, testo in cui l’autore non indietreggia di fronte al paradosso di inserire ancora una volta e completamente il sentimento e l'atteggiamento religioso di Rousseau nella sfera del Cattolicesimo. Secondo Masson esiste un nesso reale, profondo e troppo lunga- mente disconosciuto, non solo tra Rousseau e la religione, ma tra Rousseau e la fede cattolica.

261 Ivi, p. 58.

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comprenda la portata di questa sua qualità superiore, l’anima e la spiritualità compaiono. Inoltre egli è capace di imparare dai suoi errori e di perfezionarsi. Tutti questi aspetti sommati hanno condotto secondo Rousseau all’impossibilità dell’esigenza di un linguaggio articolato in questa fase iniziale, semplicemente perché il nomadismo non rendeva possibile la sedimentazione del linguaggio stesso, ma anche perché, come dice nel Saggio, «l’uso e il bisogno fanno appren- dere la lingua del proprio paese»263, ma non essendoci bisogni insoddisfatti non serviva comunicare.

Per far sì che le facoltà latenti nell’uomo delle origini si risvegliassero era neces- sario un intervento “esterno”, in quanto sarebbe stato paradossale che un siste- ma dove vigeva l’assioma dell’abbondanza si corrompesse in modo autonomo. La catastrofe che conduce ad una rivoluzione nella natura e nelle passioni dell’uomo è ravvisata da Rousseau nella suggestiva e antropomorfa immagine del dito divino che inclina l’asse terrestre originando la differenza fra i due poli, fra nord e sud.

A questo elemento associamo due letture in parallelo: quella che abbiamo com- piuto nella parte iniziale di questo elaborato e quella che ne da Derrida nel sag- gio già citato del 1967, concorde con quella esposta con maggior dovizia di par- ticolari in Della grammatologia. Per quest’ultimo l’azione del dito divino appare come “un’interruzione arbitraria, interruzione dell’arbitrario”264, che rompe il circolo nel quale Rousseau si era rinchiuso già nella sezione del Discorso sull’ineguaglianza dedicato all’origine del linguaggio. Qui, sintetizzando, leg-

263 Ibidem.

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giamo con Derrida che una prima mossa consistette nell’attribuire al bambino la responsabilità della creazione linguistica per ovviare all’abbandono materno, ma questo avrebbe spiegato la nascita di lingue già formate comprensibili dalle madri, ed è quindi una prima tesi da scartare. Si tentò anche di supporre la ne- cessarietà delle lingue al fine di indagarne solo la nascita, ma anche qui suben- tra un problema ulteriore: «se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparare a pensare, ancor di più hanno avuto bisogno di saper pensare per tro- vare l’arte della parola»265: e siamo ancora persi in un girotondo senza uscita. E qui che deve fare il suo ingresso un elemento dirompente, una catastrofe: man mano che procediamo nella ricostruzione derridiana teniamo sempre presente che dire “causa esterna” è dire “supplemento” per Derrida.

Dal nostro punto di vista invece, secondo quanto analizzato in precedenza, ciò che ora più mi preme sottolineare è come già leggendo le intenzioni da cui parte Rousseau ci troviamo davanti alla “naturalizzazione dell’accidente biblico”, ov- vero al danno provocato da Eva e a tutto ciò che Genesi 3 ci ha raccontato grazie all’interpretazione di Benjamin nei capitoli iniziali. Se l’uomo cade, ovvero se l’uomo perde il nuovo Eden post-diluviano non è perché è l’uomo a volerlo, né tanto meno è perché è l’uomo intrinsecamente disposto nella sua natura a com- piere il male – e in ciò nel Discorso già evidenziava una forte critica nei riguardi di Hobbes266 circa questa tematica - e a peccare. E’ invece perché proprio per rendersi uomo deve venire a contatto con l’altro per imitarlo, per assicurarlo, talvolta per osteggiarlo, ma soprattutto per amarlo. Sono tutti elementi che met-

265 J. J. Rousseau, Discorso …, op. cit., p. 115. 266 Ivi, p. 103 e relativa nota 1.

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tono sotto una luce nuova, laica se vogliamo, il racconto del peccato originale: e, ricordiamolo, è proprio il termine “peccato” che nel Rousseau che stiamo trat- tando manca.

Infatti, non si potrebbe parlare di peccato o di punizione identificata nella cadu- ta poiché è proprio un gesto divino, senza interazione alcuna con l’umano, a vo- lere che l’asse si inclini, che la terra produca a stento i suoi frutti, che l’uomo i- nizia a lavorare e ad avvertire il peso della vita lavorando con il sudore della fronte267. Ma tutto ciò non poteva essere possibile in solitudine. Ecco perché l’uomo è naturalmente socievole, lo è dopo questo stravolgimento, esterno, di- vino, ma necessario. Infatti, dopo questo riferimento gestuale Dio scompare dal- la scena, si ritrae, e tutto ciò che l’uomo subirà e compierà in bene o in male sarà solo frutto del suo essere in relazione all’altro. In uno dei frammenti politici di Rousseau leggiamo che:

«Terromoti, eruzioni, incedi, inondazioni, diluvi, cambiando improvvisamente con la faccia della terra, il corso che avevano preso le società umane, le cambiarono in manie- ra nuova, e queste combinazioni, le cui prime cause furono fisiche e naturali, sono diventa-

267 Ancora un esempio della vicinanza al testo della Genesi è direttamente presente e potrebbe

essere elegante rimarcarla con una citazione dantesca: «e se tu ben la tua Fisica note/ tu trove- rai, non dopo molte carte/ che l’arte vostra quella, quanto pote/ segue, come ‘l maestro fa ‘l di- scente/ sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote/ Se tu richiami a mente/ lo Genesi dal principio, convene/ prender sua vita e avanzar la gente». Il passo corrisponde ai versetti 101-108 del XI

canto dell’Inferno nel quale Virgilio spiega a Dante il valore del lavoro umano secondo quanto Aristotele già indicava contro l’opera degli usurai. Dunque se l’arte umana segue quella della natura come farebbe un discepolo con il suo maestro, anche la natura e le azioni dell’uomo sono seguaci di Dio poiché imitano la natura che è sua creazione, per cui solo utilizzando i mezzi chela natura mette a disposizione per il proprio sostentamento l’uomo rende lode a Dio: ci si trova davanti ad una valorizzazione positiva del lavoro umano, per Dante ancor più giustificata dal clima comunale nel quale visse.

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te le cause morali che mutano lo stato di cose esistenti, producono guerre, emigrazioni, conquiste, e anche rivoluzioni che riempiono la storia e che sono state considerate ope- ra dell’uomo […]»268.

Quando qui parla di “cause morali” egli si riferisce alla particolare evoluzione che si ha dall’uomo naturale all’uomo civile. Nel primo domina ancora l’amour de soi, l’istinto alla sopravvivenza, alla tutela “dell’essere”, mentre solo a causa di “supplementi esterni” si passerà nella seconda fase dominata a sua volta dall’amour propre, per cui “l’apparire” avrà la priorità su ogni altra emozione, e il possesso inizierà a sedimentare i principi della disuguaglianza all’interno del- le relazioni umane nelle quali l’uomo vuole essere riconosciuto, ma soprattutto vuole essere riconosciuto come “il migliore”269.

E Dio? Che posizione occupa Dio dopo aver dato il via al formarsi di tutto que- sto processo naturale? Seguendo la logica iniziale che ci ha guidati in questo e- laborato fino a Scholem, diremmo con Derrida che il Dio giocatore rischia qual- cosa, rischia il rapporto con l’uomo, che però per essere valido fino in fondo ha

268 J. J. Rousseau, Influenza dei climi sulla civiltà, in Scritti politici, Laterza, Bari 1971, pp. 683-688.

(Corsivo mio).

269 Cfr. Barbara Carnevali, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Il Mu-

lino, Bologna 2004. Rimando a questo testo, dove in forma molto elegante e chiara e narrato il processo descritto in breve dalla natura alla cultura, come una “tragedia della coscienza”, come una “storia filosofica della coscienza”, come l’eterno conflitto fra il restare ciò che si è e il dive- nire ciò che il rapporto con gli altri ci spinge a essere.

Il riferimento che viene di consueto rintracciato negli scritti rousseauiani circa la differenza fra

amour de soi e amour propre è esposto nelle pagine del IV libro dell’Emilio, e riportarlo è doveroso: «Come il mugghiare del mare precede da lontano la tempesta, così questa rivoluzione si annun- cia col mormorio delle passioni nascenti; un sordo fermento avverte l’avvicinarsi di un pericolo […] e si diventa sordi alla voce della natura. […] La loro sorgente [delle passioni] è naturale, è vero; ma mille ruscelli estranei l’hanno ingrossata: è un gran fiume che c’accresce senza sosta e nel quale a gran pena si troverebbe qualche goccia delle sue acque primitive», J. J. Rousseau,

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bisogno di costruirsi sull’autonomia degli uomini e sulla loro scelta di continua- re a stringere un accordo con il divino – Mallarmé avrebbe detto che «toute pen- sée émet un coup de dés, un coup de dés jamias n’abolira le hazard» -, per cui il rischio del giocatore permane quali che siano le sue intenzioni. Ma se l’intenzione ap- punto fosse stata quella positiva di far sorgere naturalmente l’istinto alla socie- volezza dal connubio di immaginazione e pietà, questo non sarebbe avvenuto se non passando preventivamente per uno stadio ulteriore, più ostico.

Prestiamo bene attenzione al fatto che in Rousseau la questione dell’origine del linguaggio non si può interpretare né secondo una genesi storica, né strutturale, poiché, ripetiamolo, il dito divino è identificato come un casuale evento esterno. I suoi effetti hanno condotto l’uomo dalla dispersione al sedentarismo, dall’ozio al divenire homo faber, dalla solitudine al “piacere di non esser soli” e al bisogno di comunicare secondo un sistema di segni convenzionali sempre più dettaglia- ti.

La socialità non si stabilisce tramite un contratto, ma attraverso il desiderio di comunicare all’altro ciò che sentiamo, e tramite la capacità di immedesimarci grazie all’immaginazione nell’altro e sentire ciò che l’altro sente secondo quanto la “pietà”, attivata però proprio dall’immaginazione, offre all’uomo (intenden- do con “pietà” una virtù innata, spontanea e pre-riflessiva che ha però bisogno di esser stimolata e attivata). Ma se per esprimere i bisogni fisici i gesti erano sufficienti, per comunicare le idee e i sentimenti l’articolazione fonica che an- dasse oltre il primitivo “grido della natura” divenne indispensabile: «si deve

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dunque ritenere che i bisogni dettarono i primi gesti e che le passioni strappa- rono le prime voci»270.

Anche qui le divisioni si susseguono a iosa, giacché a seguito della differenzia- zione dei poli, si dice nel Saggio, gli uomini del nord svilupparono un’articolazione linguistica caratterizzata da un accento più aspro nascente da bisogni necessari per la sopravvivenza, tanto che la loro prima parola «non fu amatemi ma aiutatemi»271 e trovando attorno al tepore del fuoco un rifugio sicuro dalle fiere leggiamo che proprio «su [un] rustico focolare brucia il fuoco sacro che porta in fondo ai cuori il primo sentimento di umanità»272. Nelle zone del sud la situazione variava per il grande aiuto fornito della natura rigogliosa che lasciava spazio anche per coltivare passioni e delicati sentimenti, e quindi lo stesso linguaggio fu più sonoro, tanto che si racconta nel Saggio, in una delle pagine a mio avviso più incantevoli di tale testo, che «dal puro cristallo delle fontane scaturirono i primi fuochi dell’amore»273.

Quelle narrate sono solo due delle modalità principali in cui gli idiomi e i ri- spettivi suoni si differenziarono, ma in una citazione precedente Rousseau ave- va precisato che tutto è esistito e sarebbe esistito anche senza la narrazione della torre di Babele su cui tanto ci siamo affannati a cercare le varie interpretazioni. Quello che Rousseau propone qui è una vera e propria teoria profana della mol- teplicità delle lingue, che non si origina per punizione ma per necessità, per la diversa influenza climatica sulla natura – in quel legame che Derrida dirà esi-

270 J. J. Rousseau, Saggio …, op. cit., p. 16. 271 Ivi, p. 76.

272 Ivi, p. 61. 273 Ivi, p. 64.

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stente fra tipologia linguistica e topologia generale - e dunque sull’uomo che con essa si rapporta, anzi è un bene che tale “nuova Babele naturale” faccia la sua comparsa, dal momento che l’uomo ha finalmente così scoperto il piacere di non essere più solo – qui sarebbe possibile intravedere anche una ripresa della concezione epicurea dell’origine naturale delle differenze linguistiche volto a scongiurare il carattere di miracolosità attribuibile alla torre di Babele274.

274 Circa quest’aspetto di una Babele felix avevamo già accennato nel capitolo d’apertura di

quest’elaborato della posizione occupata in merito dal semiologo Fabbri. Rispetto invece al col- legamento con l’ipotesi epicurea del linguaggio e delle sue differenze possiamo leggere un sun- to di tale posizione da un’intervista a Francesco Adorno del 1987 raccolta nell’enciclopedia mul- timediale delle scienze filosofiche: «Epicuro ha sviluppato una teoria sul linguaggio dalla quale derivano anche certi aspetti della linguistica moderna e contemporanea. Nella Lettera ad Erodoto, Epicuro, riprendendo una vecchia problematica derivante da Prodico di Ceo, dai sofisti, e dal

Cratilo di Platone, si domanda: il linguaggio è per natura o è per convenzione? É physei o nomo,