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L’esattezza diventa espressione: ancora il danno della scrittura.

Un esercizio di decostruzione: l’ipotesi naturalistica dell’origine del linguaggio

3.4. L’esattezza diventa espressione: ancora il danno della scrittura.

E’ il momento di alcune precisazioni post-origine che ci avvicinano a Derrida a passo felpato. Posizioniamo la lente d’ingrandimento di nuovo esclusivamente su Rousseau.

Dal Saggio estrapoliamo informazioni che ci portano a capire che le forme del linguaggio passionale si sono materializzate prima in segni grafici e solo lenta- mente in suoni articolati e grammaticalmente corretti, tant’è che Rousseau af- ferma con disinvoltura come sia molto più semplice parlare agli occhi che alle orecchie in quanto l’oggetto direttamente disposto ai sensi crea una maggior comprensione del legame che si vuole stabilire fra i referenti che sono mediati da qualcosa di concreto appunto su cui concentrare l’attenzione comune. Que- sto fu il motivo per cui le prime forme espressive furono tropi che permisero di rendere l’effetto con un falso rappresentante capace di dare espressione alle di- verse sfumature dei sentimenti275 di ognuno. Si iniziò ad attribuire agli oggetti e

275 In questa idea c’è tutto il fulcro di ciò che Vico cerca di definire nella sua Scienza Nuova. Sinte-

tizzando il celebre movimento che vuole identificarsi con un processo metaforico sempre più prossimo ad un’ immagine, ricordiamo come al cadere del fulmine viene associata la volontà di Giove. Il fulcro di tale tematica è resa da una delle espressioni più celebri della Scienza Nuova - che è poi il passo chiave capace di collegare tutti i lavori della presente raccolta - : ‹‹[gli uomini primitivi] si finsero la prima favola divina, ch’essi stessi che sel finsero sel cedettero e con spa- ventose religioni, il temettero, il riverirono e l’osservarono. […] Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità, dovette incominciare da una metafisica, non ragionata, ma sentita ed immaginata […]. In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli, del nascente genere umano, dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio … onde furono detti poeti , che lo stesso in greco suona che criatori […] “fingunt simul creduntque”››. G. B. Vico, La Scienza Nuova, BUR, Milano 2008, pp.261-263. Ad at- testare tale confronto fra i due autori troviamo anche l’autorevole voce di E. Cassirer in, Filosofia

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agli eventi nomi con un significato più vasto, e solo successivamente si poté parlare di nomi particolari. La poesia ebbe così la sua età dell’oro, mentre il sen- so venne ricercato successivamente, dal momento che questo è frutto di con- venzioni stabilite. Poesia e canto resero possibile le prime forme di comunica- zione in rapporti semplici e in cuori ancora non invasi dall’amour propre. Non si tratta allora di una lingua madre da cui le altre si originarono per differenzia- zione, la molteplicità regnava sovrana sin dall’origine stessa, che dunque si al- lontana dal modello puro e unitario sul quale insistettero molti, da padre Lamy a Leibniz - indicando origini unitarie differenti.

Una volta indicate queste prime condizioni Rousseau narra dell’avvento della scrittura, volendola definire, in conformità con quanto abbiamo precedente- mente spiegato, come “elemento esterno al sistema della lingua”: ma iniziano le contraddizioni, e Derrida è un maestro nell’evidenziarle.

Inizialmente nel Saggio Rousseau descrive come nel percorso che assiste ad una graduale obliterazione del tono in favore dell’articolazione consonantica la scrittura faccia la sua comparsa, come un “male” che corrompe il linguaggio come piena espressione immediata dei sentimenti, un tentativo di materializza- zione dei sentimenti stessi, e in ciò pare riprendere ancora una volta la tesi del Fedro platonico dove, com’è noto, la scrittura viene condannata venendo intensa come un grado di allontanamento dal vero, una copia della verità che si espri- me nel logos. In Rousseau tale scrittura articola la sua esibizione secondo tre modelli differenti in concordanza con altrettanti modelli societari – non intesi in ordine cronologico ma topologico:

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a) un primo tipo di scrittura allegorica rappresentava gli oggetti che i suoni e- vocavano, tale forma presupponeva di già la possibilità di un qualche tipo di socialità anche se precaria, anche se selvaggia; b) un’altra tipologia si propone- va di rendere le parole con dei caratteri convenzionali, come nel caso degli ide- ogrammi cinesi, e a livello societario si parla qui di popoli barbari, volendo in- tendere con ciò, contro l’abituale accezione di barbaro come rozzo, popoli uniti da proprie leggi e propri costumi; c) un’ultima tipologia era collegata alla neces- sità dei popoli commerciati, o civili, di scandire bene la voce e di articolare le proposizioni riportando graficamente la loro sillabazione secondo un alfabeto chiaro e più generale possibile, anche se poi pur moltiplicandosi le similitudini grafiche le differenze foniche rimasero prevalenti, quindi è ancora Babele che domina contro ogni pretesa di eurocentrismo linguistico originario. Sottoline- ando tale “necessità” cui dovettero far fronte gli uomini civili è come se si dices- se che la scrittura non ha avuto un evoluzione come la fonetica, ma che sia nata “tutta d’un colpo come la luce”.

L’apoteosi della negatività della scrittura si legge nel frammento sulla Pronuncia di Rousseau, dove salta agli occhi la citazione adatta da smontare tramite il grimaldello della decostruzione derridiana:

«L’analisi del pensiero si fa con la parola, e l’analisi della parola con la scrittura; la pa- rola rappresenta il pensiero attraverso segni convenzionali e la scrittura rappresenta nello stesso modo la parola; così l’arte di scrivere non è che una rappresentazione me- diata del pensiero. […] Le lingue sono fatte per essere parlate, la scrittura non serve che

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da supplemento alla parola […] la scrittura non è che la rappresentazione della paro- la»276.

In base a questa citazione e agli elementi che abbiamo finora raccolto possiamo riportare la seconda conclusione cui Derrida giunge nel saggio del 1967. Prima abbiamo parlato di un cerchio che si chiude attorno a Rousseau nel tentativo di spiegare un origine genealogica ideale delle lingue, ma abbiamo detto anche che è stata indicata una breve possibilità di apertura del cerchio per l’intervento catastrofico ed esterno del dito di Dio: con questa prima conclusione Rousseau avrebbe per Derrida sfondato i limiti dell’onototeologia. Il problema però è che, riportando una serie di confronti con i punti principali indicati precedentemen- te “nell’esempio-Saussure”, Derrida indica anche in Rousseau un “adepto della setta logocentrica”, giacché è ancora il logos ad avere il primato sulla voce, è ancora la voce ad essere l’elemento nocivo che giunge dall’esterno a contamina- re il sistema linguistico, ma ancora perché non esiste alcuna spiegazione organi- cistica per stabilire l’origine del linguaggio. Grazie a questa serie di affinità, che riscontriamo fra Rousseau e tutto ciò che Derrida ha criticato aspramente nelle pagine precedenti, egli non può che concludere questa serie di confronti spie- gando come va certo attribuito a Rousseau il merito di aver tentato di effettuare l’”apertura di un nuovo campo”, quello linguistico naturalistico, ma allo stesso modo, come i gamberi fa un passo indietro e cade nuovamente nel terreno della metafisica logocentrica, finendo così per decretare anche una “chiusura dei con-

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cetti”277, intendendo per “chiusura” l’arrogante pretesa di unicità e purezza su- periore che il logos continuava ad attribuirsi chiudendosi in sé stesso. Alla luce di ciò che l’archi-traccia e la différance ci hanno insegnato, questo è il secondo atto di una tragicommedia del logos, che si crede protagonista, ma che toltosi il trucco, dietro le quinte, rendendosi conto della farsa che ha recitato si mostra come nient’altro che un subordinato della différance.

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Vorrei concludere questa sezione dedicata “ai lavori in corso” diretti da Derrida - sulla base e sui concetti di autori per i quali occorrerebbe scrivere delle tesi in- dividuali per cercare di esaurire la complessità delle problematiche che solleva- no, tanto che, lo sottolineo nuovamente, non abbiamo qui voluto parlare di Rousseau, di Condillac, di Platone, ma del Rousseau, del Condillac, del Platone “utili” a Derrida, “utili” al nostro tema della molteplicità linguistica, cercando dei validi riferimenti nei testi di tali autori - aprendo una piccola parentesi: se è lecito a Derrida distruggere le basi della metafisica utilizzando testi altrui egli non poteva pensare di non divenire soggetto di critiche, non tanto per la posi- zione da decostruttore che occupa, quanto per l’interpretazione dei testi che sceglie nel panorama filosofico come esercizio di tale decostruzione. Non a caso è Paul De Man a puntare il dito contro Derrida per non aver compreso a fondo

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l’intento di Rousseau. De Man è convinto che le riserve avanzate da Derrida non abbiano un effettivo riscontro in Rousseau perché in realtà quest’ultimo non si mostra affatto tributario di una concezione logocentrica, ma procede con coerenza proprio nella direzione auspicata dalla lotta contro il logocentrismo. Leggiamo:

«Ciò che accade in Rousseau è esattamente ciò che accade in Derrida: un vocabolario della sostanza e della presenza non è più usato dichiarativamente ma retoricamente, per le ragioni stesse che sono (metaforicamente) enunciate»278, o ancora

«Io parto dal presupposto – e questa è soltanto un’ipotesi di lavoro – che il testo “sap- pia”ciò che sta facendo. So che le cose in realtà non stanno in questi termini, ma si trat- ta di un’ipotesi di lavoro necessaria. A un livello di maggiore complessità, mi sentirei di affermare che il testo si auto-decostruisce piuttosto che venire decostruito da un inter- vento filosofico esterno»279.

Possiamo concludere questo breve inciso cercando di leggere rispetto a questa critica una risposta-difesa di Derrida che recita quanto segue:

«C’è il “sistema” e c’è il testo, e nel testo ci sono delle fessure o delle risorse non domi- nabili dal discorso sistematico: questo, ad un certo momento, non è più in grado di ri- spondere di sé stesso. Avvia spontaneamente la propria decostruzione. Da ciò la neces-

278 P. de Man, La retorica della cecità: Jacques Derrida lettore di Rousseau, in Cecità e visione, Liguori,

Napoli 1975, pp. 127-177.

279 P. de Man, intervista rilasciata a S. Rosso il 4-3-1983, parzialmente tradotta in «Alfabeta», 58,

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sità di un’interpretazione interminabile, attiva, impegnata in una micrologia di bisturi ad un tempo violenta e fedele»280.

Se volessimo attualizzare questa citazione il ruolo supplementare al quale Rousseau costantemente si rifà sarebbe la sintesi più corretta. Certo Derrida non manca di sottolineare come si possa definire tale supplemento tanto come una sostituzione quanto come un accrescimento, ma si parla comunque di una fes- sura nel sistema che si voleva dipingere perfettamente pieno e autosufficiente. Allora se per Rousseau l’avvento della relazione uomo-uomo oblia lentamente la voce della natura, per far fronte a questo supplemento come sostituzione no- civa occorre immetterne ancora un altro che limiti il male, e questo è appunto il linguaggio, ma anche il linguaggio non potrà essere al sicuro nel momento esat- to in cui una fessura è sempre presente, e l’esempio è ancora più nitido in Rous- seau dal momento che lingua e canto ebbero una medesima origine, ma anche per cantare servono delle pause, degli intervalli fra le note per distinguere i to- ni: la presenza a sé del logos cessa di essere continua già nella voce, la scrittura non danneggia ciò che è “già da sempre” lesionato281.

280 J. Derrida, «Le presque rien de l’imprésentable», in Points de suspension entretiens, Paris, Galilée,

1992, p. 88 (traduzione mia). Ma ancora potremmo leggere: «La condizione di possibilità di qualsiasi decostruzione si trova all’opera, se così si può dire, all’interno del sistema da deco- struire, vi si trova già situata, già al lavoro […] La decostruzione non è un’operazione che so- praggiunge a posteriori, dall’esterno, un bel giorno; essa è sempre all’opera nell’opera. […] Es- sendo la forza dislocante già da sempre localizzata nell’architettura dell’opera, allora, di fronte a questo già da sempre, non resterebbe altro che fare opera di memoria per saper decostruire», in J. Derrida, Memorie per Paul De Man, Jaca Book, Milano 1995, p. 68.

281 Cfr. J. Derrida, Della grammatologia, op. cit., pp. 272-273; 293. «Possiamo cogliere lo strano an-

damento storico secondo Rousseau. Esso non varia mai: partendo da un’origine, da un centro che si divide, che esce da sé, viene descritto un cerchio storico, che ha il senso di una degenera- zione ma che comporta un progresso e degli effetti compensatori. Sulla linea di questo cerchio: nuove origini per nuovi cerchi che accelerano la degenerazione annullando gli effetti compensa-

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L’esperienza del tempo ridotto alla pura presenza, il parlare prima di saper par- lare grazie neuma ispiratoci da Dio e a Dio rivolto – si tratta ancora di un puro soffio di vita pura, di un canto e di un linguaggio privi di articolazione – altro non sono, dice Derrida che supplementi anch’essi dispensati da Dio, ammesso per far fronte, per compensare, alla finitezza di cui l’uomo è composto.

Perciò «la storia dell’uomo che si chiama uomo è l’articolazione di tutti questi li- miti e supplementi fra loro»282.

tori del cerchio precedente, e quindi facendone d’altronde apparire la verità e il beneficio», ivi, p. 275.

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Conclusioni

«La divisione delle lingue è stata oggetto di due miti contrastanti; nel mito di Babele l’uomo è punito con la confusione degli idiomi; nel mito di Pentecoste la pluralità delle lingue è all’opposto conferita all’uomo come dono di grazia. Il potere, sia esso aristo- cratico o popolare, ha sempre voluto farci tornare (se così posso dire, dalla Pentecoste delle lingue plurali) dallo sciame delle lingue plurali, a una lingua unica, anteriore a Babele, coeva ad Adamo».

Questo Roland Barthes scriveva nel 1977 negli appunti inediti della sua lezione inaugurale al Collège de France. E prendendo le mosse da questa citazione, mettendo fra parentesi il richiamo politico che porta con sé e che esula da quella che è stata la nostra analisi finora, è però possibile suddividere i risultati cui le pagine precedenti ci hanno condotto. Barthes parla qui di due miti contrastanti, Babele e Pentecoste: nel nostro caso è il primo che ha assunto rilevanza secondo varie prospettive, mentre il secondo è stato inquadrato solo come “una” possi- bile soluzione secondo la fede cristiana al dramma umano della confusio lingua- rum.

In linea più generale abbiamo visto come dal nuovo patto siglato da Dio con l’uomo dopo il diluvio universale si passa alla rottura di tale accordo con la pre- tesa umana di equipararsi al divino, tant’è che se in Genesi 3 l’uomo ruppe la simbiosi col divino disubbidendo ad un suo comando, in Genesi 11 si ripropone una rottura analoga, non solo però attraverso la conoscenza acutizzata, ma tra-

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mite la pretesa di voler raggiungere anche fisicamente e non solo teoreticamen- te il posto di Dio. Similmente, se in Genesi 3 l’uomo perse il paradiso, in Genesi 11 viene meno anche l’ultimo elemento ancora sacro che collegava l’umano con il divino: l’unicità e la sacralità linguistica. Il “come” questa punizione sia stata equiparabile all’applicazione della legge del contrappasso ci è stato indicato grazie anche all’interpretazione letteraria dantesca del suddetto mito: tanto più i costruttori della torre svolsero un ruolo rilevante nell’impresa tanto più furono condannati all’incomprensione.

Il fatto che questo lavoro di tesi accolga vocabolari diversi fra le sue pagine è la prova del fatto che uno stesso mito può aver avuto diverse interpretazioni, non solo a seconda del periodo storico, ma anche a seconda della predisposizione culturale di chi si accinse ad indagarlo, e questo, giusto per restare in tema, ha potuto creare “confusione”, non trovando quindi, alla fine, una soluzione che accomunasse le varie posizioni e che desse una definizione positiva o negativa, ma comunque definitiva, di cosa Babele è stato, di cosa Babele è.

Generalizzando potrei dire di aver seguito due grandi linee che vedono nella prima parte un’analisi prevalentemente religiosa, o meglio ancora mistico- ebraica del mito della torre di Babele e della teoria dell’origine e dell’evoluzione linguistica; nella seconda parte, sicuramente non senza problemi e ombre rima- ste nascoste, ho tentato una lettura antitetica dello stesso mito, sottoponendolo ad una laicizzazione, ad una naturalizzazione, ad una decostruzione, per far sì che la definizione “origine del linguaggio” venisse abrogata, o meglio ancora venisse resa contraddittoria.

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Vorrei riproporre i risultati raggiunti, per metterne a fuoco le differenze, pro- prio seguendo la via della diversità dei registri linguistici utilizzati nelle varie analisi, facendo sì però che tutto ciò sia accompagnato anche dall’immagine che più e più volte è ritornata nelle pagine precedenti: la linea retta diversamente orientata che finisce poi con il congiungere gli estremi, divenendo un cerchio. Nella prima parte ho alternativamente utilizzato il lessico esegetico e quello po- etico-prosastico, e se, nel primo caso, non si può parlare di risultati, ma di una traccia iniziale da seguire, si può leggere comunque che la soluzione tratta dalla tradizione cristiana allo scandalo babelico risiede nella possibilità di un nuovo equilibrio linguistico, di nuovi rapporti di traduzione istantanea che venne resa possibile dalla discesa dello Spirito Santo sugli apostoli proprio nella Penteco- ste. Se mi è concesso, però, vorrei sottolineare come in questo caso non si possa parlare nuovamente di un patto fra Dio e un popolo, ma fra Dio e un ristretto numero di persone, gli apostoli, che avrebbero dovuto fare opera di proseliti- smo e che avrebbero creato ponti anche fra popoli con lingue e culture diverse. Ma è comunque un ridimensionamento rispetto alla sacralità, unicità, e piena comprensione linguistica che tutto il popolo possedeva prima del peccato babe- lico.

Fatto sta che dal punto di vista esegetico non c’è irreversibilità all’incomprensione,- questa verrà sanata -, ma per una possibilità realizzata se- condo tempi e modalità divine, non umane. E’ un modo ulteriore, forse, per ri- stabilire le gerarchie e per ridefinire il fatto che il libero arbitrio o la facoltà di scelta non implica eternità e onnipotenza su alcun fronte da parte dell’uomo.

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Allora verrebbe da dire che il registro linguistico esegetico è stato accompagna- to da un’animazione grafica, per la quale: date una retta orientata orizzontal- mente sulla quale giaceva l’uomo, e da una orientata verticalmente sulla quale in un luogo e un tempo indefinito è situato Dio, la seconda era in qualche modo perpendicolare alla prima, giacché la lingua sacra permetteva, sommata alla fe- de, un legame con il divino. Si assiste poi ad una rotazione della retta dallo stato orizzontale a quello verticale simbolo della hybris e della costruzione della torre, finché non solo alla retta simbolo dell’uomo viene riconsegnata la sua orizzon- talità come punizione divina, ma viene anche annullato quel punto di contatto che prima esisteva grazie all’eliminazione dell’unità e all’introduzione della confusione linguistica. E’ come se alla fine si avesse dinnanzi una scenario composto da una serie infinita di rette orizzontali parallele fra loro indicanti le varie lingue, tutte umane – ecco perché si parla di orizzontalità -, ma tutte in- comprensibili – da qui invece viene la proprietà del parallelismo –, per cui mai uno sforzo umano potrà decidere di renderle adiacenti, ma solo un Dio lo può. Il cambio di registro nel secondo capitolo della prima parte invece offre le posi- zioni più diverse, tutte però concordi col fatto che Babele sia sinonimo di pecca- to e negatività. Con Dante, oltre che una riproposizione della narrazione biblica in chiave poetica nella Divina Commedia, il rapporto orizzontalità verticalità – l’uomo non può paragonarsi al divino - è salvaguardato, com’è noto, non solo per quanto riguarda il mito in questione, ma per tutta la struttura dell’opera.