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Perché noi leggiamo Rousseau anche in relazione all’ambito religioso?

Un esercizio di decostruzione: l’ipotesi naturalistica dell’origine del linguaggio

3.2. Perché noi leggiamo Rousseau anche in relazione all’ambito religioso?

«Senza destino, come lattante che dorma, respirano i superi» F. Hölderlin, Canto del destino di Iperione

Il secondo punto che occorre stabilire nella nostra analisi è perché proprio “l’esempio-Rousseau” risulti congeniale per la ricerca che abbiamo condotto fi- nora sul mito della confusio linguarum, sulla ricerca dell’origine del linguaggio, sul legame fra quest’ultimo e la teologia, ma anche come assuma importanza in quanto intermediario fra tale posizione iniziale e il pensiero di Derrida. Nel chiarificare tutto ciò partiamo, così come abbiamo scelto di procedere con Der- rida nel capitolo precedente, da un’impostazione teorica generale, per poi tro- vare nel Saggio sull’origine delle lingue la verifica particolare delle nostre premes- se. Nel far ciò, fra i vari commentatori rousseauiani, Starobinski appare, a mio avviso, come il referente più chiaro cui attingere per sostenere il nostro ragio- namento.

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Innanzitutto chiediamoci che rapporto ha Rousseau con la religione, o meglio an- cora con il Cristianesimo, per permettere a noi di confrontarlo con la prima par- te del nostro elaborato, e a Derrida di inserirlo nel panorama della metafisica occidentale.

Secondo Derrida, con Rousseau, assistiamo alla riproposizione della metafisica classica in un clima nuovo, ovvero si intravede una curvatura che si dirige ver- so un soggetto sentimentale animato dall’immaginazione, caratteristica che conduce l’uomo verso la capacità di anticipare fattori che lo guideranno alla conquista della perfettibilità. Nel panorama metafisico tradizionale non si trat- tava tanto di “immaginare che” l’uomo fosse superiore al resto del creato per- ché Dio lo volle tale, bensì si trattava di “credere che” ciò fosse vero. E se l’immaginazione spesso aiuta, non fu vista nella storia della filosofia come il motore della perfettibilità, anzi fu tacciata per fantasia, e quindi eresia, e venne spesso e volentieri bistrattata. Nel nostro caso vedremo che per Rousseau non si tratta di raggiungere una perfezione che rende l’uomo simile a Dio, ma di una perfezione che rende l’uomo “adatto” all’uomo – intendendo questo adatta- mento reciproco non solo in modo positivo -, forse per questo motivo, per que- sto scarto della posizione metafisica tradizionale, Derrida parla di una “nuova visione della metafisica”? (Fra breve questo concetto ci avvicinerà anche alla criti- ca che Derrida e Rousseau rivolgono a Condillac).

Si svelerà inoltre, nel procedere investigativo di Derrida, la continua alternanza e incoerenza in Rousseau fra dichiarazione e descrizione effettiva, della serie “vor- rebbe dire ma poi dice …”, tanto che, per quanto buone saranno le intenzioni di

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evitare in parte di cadere nella tradizione ontoteologica, alla fine ne resterà co- munque prigioniero, ma aiuterà se non altro a svelarne le contraddizioni, poi- ché nei suoi testi come nella sua vita i supplementi saranno sempre indispensa- bili.

Lasciando un attimo da parte decostruzionismo e critica ontoteologica, possia- mo con Starobinski delineare la figura di un Rousseau che, sebbene definita da Kierkegaard “totalmente a digiuno di Cristianesimo”, grazie a due concetti, ri- dondanti in ogni scritto, quali la sensibilità personale e il senso d’angoscia come frutto di una caduta dell’uomo, potrebbe comunque essere annoverata fra gli eredi del Cristianesimo (non per la Chiesa cattolica ovviamente).

«Dio è giusto: vuole che soffra e sa che sono innocente. Ecco il motivo della mia fiducia; il mio cuore e la mia ragione mi gridano che essa non mi ingannerà. Lasciamo dunque fare gli uomini e il destino, impariamo a soffrire senza mormorazioni: tutto deve infine rientrare nell’ordine, e il mio momento verrà prima o dopo»248.

Alla luce di questo breve passo vediamo ora come Starobinski indica di seguire, per comprendere al meglio il tema dell’angoscia interiore, un percorso che rile- va nella Ginevra della metà del 700 un clima di “religione poliziesca”, dove lo sguardo del Concistoro era sempre pronto a tacciare chiunque di eresia o atei- smo. A questo aspetto della Ginevra del tempo va associato però anche quello coltivato culturalmente dagli Enciclopedisti, che Rousseau stesso frequentava e

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che istillarono in lui senza dubbio principi divergenti rispetto a quelli in voga nella morale cristiana e nel dogmatismo249.

Nonostante le dovute distanze, però, la vita di Rousseau fu sempre un tentativo di fuga dal senso di colpa rispetto alle sue passioni, mai soddisfatte pienamente, dallo sguardo altrui inteso come giudice malvagio, come ostacolo fra sé e il suo desiderio. Per quanto quotidianamente l’uomo possa lasciare nel limbo dell’indefinito l’attenzione che gli altri gli rivolgono, fissandolo magari per semplice distrazione o curiosità, preferendo vivere nell’indifferenza e non nelle congetture, Rousseau invece preferisce ricondurre ogni situazione analoga ad un’ostilità di fondo nel rapporto con l’altro che elimina sul nascere, preferendo la solitudine. A questa conclusione arriva però a seguito di tutto un lavorio in- tellettuale che, congiunto con la sua vita, svela in conclusione la società come dispensatrice di una colpa immeritata contro la quale lottare attraverso il maso- chismo, l’esibizionismo, il voyeurismo, insomma tutti gli espedienti di cui le Confessioni sono piene (e che Derrida, abbiamo visto poc’anzi, commenta a suo modo come scelte supplementari). Qui “colpa”, badiamo bene, non è sinonimo di “peccato originale”, ma ciò non vuol dire che Rousseau non abbia utilizzato a suo modo una grande quantità di racconti biblici.

Starobinski annuncia che l’io di Rousseau si è impadronito della storia sacra250. Ciò significa che è Jean Jacques ad essere soggetto della caduta, della perdita

249 «Vivevo allora con filosofi moderni che non assomigliavano affatto agli antichi; invece di to-

gliermi i dubbi avevano scosso tutte le certezze che credevo d’avere proprio sui punti che più mi interessava conoscere; poiché, missionari ardenti di ateismo e dogmatici imperiosissimi, non sopportavano senza collera che si osasse pensare su un qualche punto in modo diverso da lo- ro», ivi, p. 34.

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dell’Eden, del martirio pubblico, del delirio dovuto all’incomprensione lingui- stica, e nel compiere questo lavoro d’assimilazione, quella che era la legge divi- na e il comandamento dell’amore finiscono col divenire voci della coscienza e non più associati ad alcuna trascendenza. Ciò su cui la nostra attenzione cade maggiormente, però, è il “come” egli crede di rivivere la quiete e il gaudio del paradiso edenico e la seguente caduta. Cosa comporta ora la frase di Dio “ecco l’uomo è diventato uno di noi”?

Sempre Starobinski ci ricorda come per Rousseau la caduta dal paradiso sia av- venuta più e più volte nella sua vita reale, e alla stessa perdita seguiva sempre la pretesa di riconquistarlo251, attraversando però prima l’ostica via della realtà umana. Emilio tante volte ci è descritto in uno scenario naturale degno di un dipinto rinascimentale per la quiete, la perfezione e l’abbondanza che ivi regna; allo stesso modo viveva Rousseau fanciullo, e sotto lo sguardo accondiscenden- te di uno spettatore non ancora giudice severo egli era semplicemente presente a sé stesso e godeva di ciò, si sentiva come Dio (a questa similitudine si associa la citazione tratta da Hölderlin posta in esergo). Nelle Rêverie l’universo muto

250 J. Starobinski, Jean Jacques Rousseau e il pericolo della riflessione, in E. Cassirer, J. Starobinski, R.

Darton, Tre saggi su Rousseau, Laterza, Bari 1994, p. 138.

251 «Se esiste uno stato in cui l’animo possa trovare una posizione abbastanza stabile per riposar

visi appieno e raccogliervi tutto il suo essere senza aver bisogno di richiamare il passato e di i- noltrarsi nell’avvenire, in cui il tempo non conti e il presente duri sempre senza però dar segno del suo durare e senza traccia di successione, senza alcun sentimento di privazione o di gioia, di piacere o di pena, di desiderio o di timore, eccetto quello della propria esistenza in modo che da solo possa riempire interamente l’anima; fin tanto che un simile stato dura, chi vi si trova può chiamarsi felice di una felicità completa che non lascia all’animo nessun vuoto che si senta il bi- sogno di colmare», tutto questo è il paradiso per Rousseau, è tutto ciò che neanche Derrida po- trebbe decostruire, peccato che sia ancora solo fantasticheria. J. J. Rousseau, Le fantasticherie …,

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del mondo vegetale, i suoi colori, le sue strutture, sono l’unico elemento capace di dare al passeggiatore non più bambino il sollievo e la gioia di una vita piena. Si potrebbe allora pensare nuovamente all’immagine già utilizzata dei due e- stremi di una linea che si ricongiungono formando un circolo: paradiso iniziale perduto, paradiso finale desiderato, e in questo percorso l’assonanza con l’escatologia religiosa salta inevitabilmente agli occhi. Il problema da analizzare è ciò che si trova in mezzo ai due paradisi: la caduta.

Aprendo un breve inciso potremmo sottolineare nuovamente ciò che avevamo accennato circa il discorso del Vicario Savoiardo nell’Emilio, grazie al quale Rousseau si trova ad elaborare un’idea di religione simile per alcuni aspetti al movimento pietistico che andava affermandosi soprattutto in Germania fra il XVII e il XVIII secolo. Ambe due le “religioni” indicavano la precedenza del cuore rispetto alla ragione, entrambe le dottrine ponevano l’accento sulla sem- plicità della fede, entrambe si distanziavano da sofisticate costruzioni concet- tuali e teologiche, ma più di ogni altra cosa ciò che le accomunava era l’idea del ritrarsi di Dio in sé stesso subito dopo la creazione, tanto che questo allontana- mento divenne indice dell’evoluzione del bene e del male nella società umana per la sola opera dell’uomo stesso. Ed allora una volta che Dio si è ritirato, dopo la caduta, all’uomo cosa accade? Come possiamo notare le domande alle quali tentiamo di dare una risposta sono state sempre più o meno identiche per tutto l’elaborato: sono state invece le risposte a mutare il più delle volte.

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E nel caso di Rousseau - proprio in sintonia con quanto insegnerà anche Kant ne L’inizio congetturale della storia degli uomini252 e in Che cos’è l’illuminismo? - si rin-

traccia nella caduta un’uscita dallo stato di minorità grazie al fatto che la co- scienza dell’uomo assume per reale la propria autonomia creatrice che lo spinge oltre ogni procedere dogmatico. Si legge con il Vicario Savoiardo che:

«ovunque ci sia sentimento e intelligenza non manca un certo ordine morale. La diffe- renza sta nel fatto che il buono si ordina in rapporto al tutto, mentre il cattivo ordina il tutto in rapporto a sé. L’uno si fa il centro di ogni cosa, l’altro misura il proprio raggio e si attiene alla circonferenza. Così egli è ordinato in rapporto al centro comune, che è Dio, e in rapporto a tutti i centri concentrici che sono le creature»253.

252 La differenza principale che salta agli occhi fra l’interpretazione filosofica di Genesi 3 di Kant

e la posizione che stiamo sviluppando in Rousseau è certamente il fatto che per il primo parlare di caduta dell’uomo da uno stato originario e simbiotico con Dio o con la natura che dir si vo- glia non è altro che un guadagno assoluto per l’uomo stesso. E’ infatti Kant che sostiene come, partendo certo da congetture – che non proseguono però su vie assolutamente astratte ma che sono sostenute dall’uso della ragione -, si può leggere nella condizione originaria di un uomo adulto, già in relazione all’altro sesso e capace di comunicare, una forte limitazione rispetto alle potenzialità che questi possedeva. Tanto che solo uscendo da questo stadio, con un affronto a quello che è chiamato “Dio” secondo un’analisi religiosa, o a ciò che Kant chiama “istinto”, l’uomo poteva effettivamente divenire ciò che era, cosciente delle proprie capacità, della propria forza riflessiva, dando vita come genere umano e non più come singolo individuo al processo storico e al suo progresso costantemente verso il meglio, anche se questo a volte significa af- frontare stadi intermedi di negatività. Al contrario di Rousseau, che accetta il travaglio del male per riconquistare l’Eden, Kant spiega come l’uomo non potrebbe mai ritornare a quello stadio, non gli basterebbe più ciò che questo potrebbe offrirgli. Ma facciamo attenzione però al fatto che Kant compie un passo in più rispetto al Rousseau che stiamo descrivendo, giacché egli indi- ca com’è possibile tracciare una doppia linea valutativa circa l’episodio di Genesi 3: se si parla del “genere umano” si utilizza l’accezione positiva del processo storico come evoluzione ed e- mancipazione; se il soggetto è il “singolo individuo” è lecito e corretto pensare alla caduta col suo carico negativo di pene e dolori descritti anche da Rousseau con il nascere della disugua- glianza. Cfr. I. Kant, Inizio Congetturale della storia degli uomini, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari, pp. 103-117.

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I problemi, e l’angoscia subentrano dal momento in cui la ragione intuitiva, sommatasi a quella discorsiva, comincia ad essere autoreferenziale, si vede co- me raggio e circonferenza, o peggio ancora, quando il progresso positivo verso cui questa dovrebbe condurre spinge le vele della nave dell’anima verso un ma- terialismo distruttivo e verso la costruzione da parte dell’uomo della propria storia troppo distante rispetto al progetto di un nuovo Eden da ricostruire. Ecco che la riflessione, causa e dono della caduta, assume una duplice valutazione: è positiva in quanto crea attraverso la necessità una concezione del mondo ester- na unitaria e l’uomo diventa capace di creare mezzi per nuovi fini sempre più ambiziosi. Dall’ozio si passa allo sforzo: ma siamo sicuri che sia davvero così vantaggioso l’uso della riflessione? Per Rousseau quest’ultima viene valutata anche negativamente, definita persino “contro natura”254 – a differenza di ciò che Kant sosterrà su questo aspetto -, tanto perché rompe la simpatia originaria fra uomo e natura, rendendo il primo schiavo delle apparenze, quanto perché inaugura un processo che è proprio quello della disuguaglianza, un processo che rende l’uomo indegno della luce del sole, che lo rende colpevole verso sé stesso:

«Il regno minerale non ha nulla di piacevole in sé […] le sue ricchezze sembrano essere state allontanate dallo sguardo dell’uomo per non tentarne la cupidigia; sono la come riserva per supplire un giorno alle vere ricchezze che l’uomo ha a disposizione e di cui va perdendo il gusto via via che si corrompe. Allora si trova costretto a ricorrere

254 J. J. Rousseau, Discorso sull’origine dell’ineguaglianza fra gli uomini, Editori Riuniti, Roma 1994,

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all’industriosità […]. Gli scarni volti degli infelici languenti fra gl’infetti vapori delle miniere, neri fabbri, ripugnanti ciclopi, sono lo spettacolo che in grembo alla terra, so- stituisce quello verde dei fiori, del cielo, dei pastori innamorati sulla sua superficie»255.

Rousseau è convinto che si tratti di una pena ingiusta, di un fio che non do- vrebbe gravare sull’uomo, e spesso, dice Starobinski, «non volendo ammettere che il male è molto più antico, designa il nemico alla cieca»256, nell’altro in gene- rale.

3.3. Dal generale al particolare. Il Saggio sull’origine delle lingue: una natura-