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Fra simboli e allegorie Gershom Scholem e il suo legame con la misti ca ebraica

Dal mito di Babele alla teoria mistica del linguaggio

3.1. Fra simboli e allegorie Gershom Scholem e il suo legame con la misti ca ebraica

Nell’avvicinarsi alla lettura dei testi che Scholem dedica al nostro argomento, risulta indispensabile all’inizio tenere ben presente la comprensione di alcuni concetti chiave tramite i quali egli crea la struttura portante delle sue tesi. Pren- dendo le mosse da chi, come Maurizio Mottolese, ha riportato in un suo artico- lo55, il percorso che Scholem ha seguito (a detta dei critici riassunto col termine di “pan-simbolismo”), cerchiamo di riportare inizialmente come nostro punto di partenza la scelta da Scholem stesso compiuta davanti ad un bivio concettua- le: linguaggio come simbolo o linguaggio come allegoria?

Innanzitutto occorre precisare che quest’indagine linguistica deve interessare quell’esatta fase della storia religiosa, che come spiegavamo a mo’ di postilla in un capitolo precedente56, si scompone in mitica, religiosa e mistica. E’ proprio in quest’ultima sezione che Scholem spiega come Dio debba divenire soggetto in- sieme all’uomo stesso di un’esperienza attiva, tant’è che creazione, rivelazione e

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M. Mottolese, Simbolico e mitico negli sviluppi della tradizione ebraica. Un’analisi critica della feno-

menologia di G. Scholem, in ‹‹Teoria››, XVIII, n° 2, 1998, pp. 71-89, p. 79.

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redenzione57, nella lettura che ce ne offre il lato ebraico della mistica, non sono esperienze irripetibili, ma varie e intrinseche nella vita di ogni parte del creato, che devono essere percepite e condivise58.

Ne Le grandi correnti della mistica ebraica, ci viene indicato da Scholem come il mistico si muova dentro un orizzonte religioso personale, lontano da dogmi e cristallizzazioni. Ma quello stesso Dio che egli vuole vivere in modo attivo e contemplare estaticamente, finisce anche con il riconoscerlo come deus abscondi- tus, con quel lato di mistero che nonostante una continua ricerca fa sì che egli non sia mai raggiungibile pienamente. Ed è proprio circa i modi con cui questa ricerca può sperare di ottenere dei risultati che il “tema del linguaggio” assume rilevanza.

La rivelazione mistica nell’ebraismo è impossibilitata dello svelarsi in modo di- retto tramite il linguaggio umano, ma quest’ultimo non per ciò deve essere e- sautorato da ogni valore, poiché è denso di significato non solo in quanto per-

57 Dal momento che ho parlato di esperienza attiva che coinvolge le tre fasi della creazione, rive-

lazione e redenzione, mi pare impossibile non fare riferimento al tema principale che Franz Ro- senzweig si propone di spiegare in maniera adeguata nel suo testo La stella della Redenzione, nel quale, alla luce di una nuova filosofia (nuova rispetto a quella che andava “dalla Ionia e Jena”, che aveva la pretesa di conoscere tutto in modo razionale e che non era in grado di pensare una relazione senza appiattire un elemento sull’altro) e di una nuova teologia (anche in questo caso, nuova, rispetto tanto al luteranesimo, al protestantesimo e ad un certo ebraismo che pretendeva di risolvere i problemi utilizzando una valutazione storico-critica dei testi sacri - come Harnack ne L’essenza del Cristianesimo -) la relazione doveva essere letta come rapporto fecondo, rispetto- so delle differenze dei termini. Perciò si parla di Creazione come rapporto fra uomo e mondo, di Rivelazione come rapporto fra uomo e Dio e di Redenzione come legame fra mondo e Dio. In una particolare congiunzione grafica di questi termini principali Rosenzweig ci propone così l’immagine della stella di David, la cui particolarità consiste nella possibilità di allungare all’infinito le linee che fuoriescono dai vertici degli triangoli utilizzati proprio per indicare l’apertura di un sistema che cresce, per indicare l’immagine di una rete di relazioni. Cfr. F. Ro- senzweig, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2008, I libro, II parte.

58 A questo i cabbalisti associano la spiegazione del “mondo delle Sefiròth”, per la cui trattazione

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mette la relazione uomo-uomo, ma anche e soprattutto perché è un derivato di- vino59: perciò nell’ebraico, inteso come lingua madre delle lingue, ogni parola è indice del volere e della creazione divina. Voler cercare di “restaurare” questo legame originario fra una lingua pura di matrice divina e l’uomo significa voler ritornare, spiega Scholem, ad attingere acqua dal pozzo del mito, quella stessa acqua eliminata, perché creduta contaminata, dalla religione e dalla filosofia. L’antitesi alla situazione di eccessivo distacco che si era venuta a creare fra uo- mo e Dio è stata allora individuata in questa riproposizione del mito, dei simbo- li, come strumento effettivo per dare voce nuova alla religione ebraica e per da- re anche una voce alle passioni e alle necessità dei credenti. Ma la filosofia non è capace di cogliere un’adeguata rinascita della condizione mitica dell’ebraismo, ostinandosi a coltivare esclusivamente una concezione razionale del mondo; al contrario, i cabbalisti, ne supportano una visione ottenuta mediante contempla- zione e illuminazione. Per dirlo con le parole di Scholem:

‹‹Il filosofo trovava la sua più vera vita solo allorquando egli poteva risolvere la verità dell’ebraismo generalizzandola. Ciò che è individuale non era per lui oggetto specifico di approfondimento filosofico. Invece per il cabbalista non era importante decifrare al- legoricamente la verità. Il suo modo di comprendere il mondo era di natura che, in sen- so pregnante, chiamerei simbolica››60.

59 A tale proposito Benjamin nel testo Su la lingua in generale e la lingua dell’uomo citerà le due

possibili ipotesi della creazione e con esse si individuerà anche la nascita divina del linguaggio umano.

60 G. Scholem, Le grandi correnti …, op. cit., p. 36. Scholem spiegherà nelle pagine successive co-

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Grazie a questa distinzione possiamo dare una soluzione alla domanda inizial- mente posta, giacché, in Scholem, la distinzione fra allegoria e simbolo è un punto cruciale nella teoria del linguaggio. Il punto d’incontro fra i due termini è senz’ombra di dubbio un segno che assume però sembianze diverse nei due casi. Infatti, si parla di allegoria quando ciò che dà senso al segno proviene dal mon- do, quel mondo che è fatto di espressioni umane. In questo caso ‹‹l’oggetto per- de il suo essere peculiare a favore di un altro, al quale serve da veicolo: la vita dell’allegoria deriva dall’abisso che si apre fra la forma e il significato››61. E’ in- vece il simbolo - che Scholem chiamerà spesso “simbolo-mistico” per legarlo in maniera più forte al contesto cabbalistico (e per differenziarlo da quello simbo- lico-metaforico utilizzato dai rabbini) - che crea dei ponti sull’abisso che si è scavato fra Dio e l’uomo, e lo fa scoprendo tramite l’illuminazione una verità che resterebbe inespressa se non venisse tradotta in un’altra verità, enunciabile col linguaggio umano. Detto altrimenti – con termini che furono già propri del- lo strutturalismo saussuriano -, il simbolo è un “significante” che rende visibile ciò che eccede il “significato”, offrendone una versione comprensibile al livello umano.

A questo riguardo spicca la definizione di Qabbalah62che alla lettera significa “Tradizione di tipo esoterico” comprendente un movimento religioso (che cerca di “ri-mitizzare” la Torah) più che un insieme di dottrine determinato - come un

ca, la Qabbalah, corse il suo bel rischio, quello di “smarrirsi nel labirinto del mito” per averne fat- to forse a volte un abuso piuttosto che un uso (cfr. ivi, p. 45).

61 Ibidem.

62 Per una spiegazione precisa dei maggiori simboli che la coinvolgono e per la spiegazione in

breve delle tappe storiche si faccia riferimento a G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Ei- naudi, Torino 1980.

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corpus symbolicum, senza però dimenticare che nell’immanenza della figura di Dio e nelle espressioni simboliche che adoperiamo si conserva comunque “un barlume di trascendenza”. Alla luce di queste differenze leggendo l’articolo prima citato di Mottolese, con tono critico Scholem è inquadrato in un’ottica di confusione per quanto riguarda il passaggio fra linguaggio simbolico e lin- guaggio mitico, o meglio, come viene riportato nel suddetto articolo, non si tro- va una definizione ermeneutica precisa di “linguaggio simbolico nella e della mistica” ebraica :

‹‹E’ evidente – scrive Mottolese - che questa lettura e ricostruzione di simboli doveva determinare tanto la posizione del mistico rispetto al Testo, quanto la sua ricerca di un’esperienza mistica, quanto, infine, la sua espressione/traduzione della propria e- sperienza in un linguaggio comunicabile e legittimo (si vede l’onnicomprensività del medium del linguaggio nei tre livelli dell’esperienza mistica ebraica: essa è innanzitutto esegesi dell’infinta Parola divina, poi “usa” tale linguaggio per attingere il divino nell’esperienza ascetica, e infine deve esprimersi in un linguaggio legittimato dalla tradizione e comprensibile)››63.

In questi passaggi si accusa Scholem di non aver fornito dei validi perché a li- vello fenomenologico, oscillando costantemente fra un’immanenza, per cui i simboli divengono ontologicamente consistenti, e la trascendenza della figura divina ricercata nei simboli64 stessi. Critiche a parte, è bene contestualizzare in

63 M. Mottolese, op. cit., p. 83. 64 Cfr. ivi, pp. 88-89.

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modo più preciso l’interesse nutrito da Scholem verso questa particolare teoria del linguaggio, per notare anche come l’interpretazione del simbolo venga at- tuata a contatto col testo, e al di là dei passaggi, forse realmente ingiustificati, diventa possibile al lettore arrivare al cuore della sua rivalutazione del simbolo. A livello storico-biografico è da tenere presente come già nel 1917 Scholem se- guì un breve corso sulla “scrittura concettuale” tenuto da Frege, personaggio bistrattato nella Jena del tempo, e iniziò ad accentuarsi nel giovane studioso l’interesse per la logica matematica e per quei metodi che avrebbero potuto condurre ad un puro linguaggio del pensiero. Era lo stesso periodo in cui co- minciava a crearsi quel legame con Benjamin che sarebbe diventato l’amicizia di una vita intera. Infatti, Scholem scrive:

‹‹Il concetto filosofico di un linguaggio concettuale totalmente depurato dalla mistica mi appariva chiaro, insieme ai suoi limiti. Scrissi a Benjamin su questo argomento, ed egli mi chiese di mandargli la mia relazione. Oscillavo allora tra i due poli della simbo- lica matematica e della simbolica mistica: assai più di me Benjamin aderiva a concezio- ni mistiche del linguaggio[…]››65.

Sarà però nel 1919 che la meta degli studi di Scholem dalla matematica passerà alla giudaistica66. Già da allora iniziò a concepire la possibile stesura di una dis-

65 G. Scholem, W. Benjamin. Storia di un’amicizia, op. cit., p. 85. Sull’ultima frase della citazione,

ripetuta anche in alcune pagine di scritti futuri da Scholem, avremo modo di ridire in seguito nelle sezioni dell’elaborato dedicate a Benjamin.

66 ‹‹Scholem non fu un ebreo osservante; egli si avvicinò alla Qabbalah (non a caso dopo gli studi

di matematica) perché insoddisfatto da quella lettura monolitica dell'ebraismo che ne faceva un sistema fondato esclusivamente sul rispetto e lo studio dei precetti. Il suo immenso lavoro sui

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sertazione sulla teoria linguistica della Qabbalah e per far ciò vide dell’utile an- che negli studi filologici.

Dopo questo breve appunto biografico notiamo come il rapporto che Scholem arriva a stabilire con l’attività di ricerca sulla Qabbalah non si confà solo ad un’analisi storica e razionalistica, ma vuole ridare valore alla stessa Qabbalah “scrivendone non tanto la storia quanto la metafisica”67, passando proprio at- traverso la storia e la filologia. Giulio Busi nella postfazione “all’autobiografia” scholemiana Da Berlino a Gerusalemme, riporta una battuta, a noi utile in questo contesto, nella quale spiega come era proprio quella critica filologica che spin- geva Scholem a vedere nella religione una “fenomenologia dello spirito”, che finiva allo stesso tempo per raffreddare il magma della tradizione nell'oggettivi- tà della storia. Ovviamente quando Busi parla di fenomenologia in questa sede non credo intenda utilizzare il concetto in senso hegeliano, poiché circoscrive il campo di manifestazione al solo ambito religioso e soprattutto simbolico. Si può parlare in Scholem di studio “quasi scientifico” dei fenomeni come unica via praticabile per cercare di raggiungere il riflesso della verità “altra”.

testi della tradizione mistica, condotto ancora una volta in una solitudine a tratti beata a tratti tormentosa, ha dimostrato che questo patrimonio di immagini e parole è stato per secoli e mil- lenni un'anima pulsante e pensante››, cfr. Elena Loewenthal, Scholem, il filosofo militante della mi-

stica, «La Stampa» 01-09-2001, testo che corrisponde ad una recensione di Gershom Scholem, Sho-

lem/Shalom, Due conversazioni con Gershom Scholem su Israele, gli ebrei e la Qabbalah, a cura di Gian- franco Bonola, con introduzione di Friedrich Niewoehner, Quodlibet, Macerata, 2001.

67 Come giustificazione di tale citazione si è già detto che la valorizzazione del simbolo-mistico

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A tale riguardo, in un articolo del 1991 pubblicato sulla rivista ‹‹Intersezioni›› dal titolo Aspetti inediti di Gershom Scholem68, vengono riportate delle citazioni illuminanti circa i propositi di Scholem sul come e sul perché sia utile anche sto- ricamente intraprendere un’accurata analisi della Qabbalah e della relativa teoria del linguaggio. Si tratta esattamente di citazioni estrapolate da una raccolta in vari volumi pubblicati dopo la morte dello stesso autore – avvenuta a Gerusa- lemme nel 1982 -, il primo dei quali, curato da un conoscente di lunga data di Scholem, il dr. Shapira, prese il titolo di Od Davar (“Ancora una parola”)69. Qui Scholem spiega come la sua ricerca abbia avuto inizio grazie:

‹‹[…] all’audacia di penetrare […] al di là del piano simbolico e infrangere la barriera della storia››, ‹‹poiché la montagna – il “Corpus” – non ha affatto bisogno di una chia- ve, occorre solo penetrare il muro di nebbia della storia che la circonda; penetrarlo è il compito che mi sono prefisso››70.

68 M. Cavarocchi Arbib, Aspetti inediti di Gershom Scholem, ‹‹Intersezioni››, XI n° 1, aprile 1991,

pp. 169-178.

69 G. Scholem, Od Davar (Explication and Implication Writings on Jewish Heritage and Reinassence), a

cura di Abraham Shapira, Tel-Aviv, Am Oved, 1989.

Di tale volume non è stato possibile reperire l’originale, perciò per le eventuali citazioni succes- sive il riferimento testuale sarà rivolto all’impaginazione dell’articolo sopra riportato nella nota 10. Altro testo in cui viene fatto riferimento a degli estratti di tale raccolta è: G. Scholem, Mistica,

utopia e modernità, saggi sull’ebraismo, a cura di M. Cavarocchi Arbib, Marietti, Genova 1998.

70 Ibid, p. 30, cfr. Cavarocchi Arbib, op. cit. p. 172. Il prosieguo della citazione è inserita

nell’ultimo testo citato nella nota precedente per cui possiamo leggere: ‹‹Nello specchio magico tutto sui generis della critica filologica si rispecchia per la prima volta per l’uomo contempora- neo, nel modo più netto, secondo il modus della convenzione esegetica, quello stesso complesso mistico del metodo la cui esistenza necessariamente è occulta proprio nel suo proiettarsi nella sfera del tempo storico››, cit. p. 15.

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Il nome della barriera dalla storia è “silenzio”, che blocca sul nascere ogni e- spressione che vorrebbe rendersi viva, perciò i simboli, definiti da Scholem co- me “veicolo dell’ineffabile”, vanno oltre la storia che contiene invece una seque- la di eventi narrati e narrabili per mezzo del linguaggio umano. Occorre allora definire quel nuovo linguaggio per il quale anche i simboli parlino:

‹‹I cabbalisti usano il simbolo come sorta di frammento di relativa trasparenza nella cortina di nebbia che, secondo l’immagine scholemiana, circonda l’essenza della verità mistica, occultata per natura. Il simbolo, cioè, sarebbe il frammento comunicabile della totalità incomunicabile [come dicevamo poc’anzi], della cui essenza conserverebbe un qualche riverbero e da cui sarebbe mosso, facendo così il suo ingresso nella storia tra- mite il medium degli scritti cabbalistici››71.

Per tale motivo non si può parlare di Torah, se questa non viene indicata nella sua componente orale, proprio perché palesa il dialogo di Dio con l’uomo, av- volta in domande e risposte non arbitrarie, ma comunque interpretabili in modi vari a seconda dei tempi e dei referenti. E’ per questo che ogni generazione ha il diritto-dovere di ricercare la “sua” Torah72. Quindi quando si parla di Qabbalah come “tradizione da tramandare” si usa un’accezione ironica, ma comunque

71 Ivi, p. 173.

72 Se la frase “la Torah è fatta di domande” pare irriverente, Scholem la giustifica affermando

con disinvoltura che: ‹‹Com’è noto siamo tutti anarchici, anche se tale anarchia è solo una fase di passaggio e noi siamo l’esempio vivente che questa posizione non ci fa uscire dall’ebraismo. Noi non siamo una generazione senza precetti, manca però l’autorevolezza. Non nutro senti- menti di inferiorità nei confronti dei nostri padri, solo che loro godevano di una definizione più chiara. Forse siamo anarchici, ma siamo contro l’anarchia. Io credo in Dio: è questo il fondamen- to della mia vita e della mia fede. Tutto il resto è soggetto al dubbio ed è suscettibile di discus- sione››, cfr. Cos’è per noi la Torah?, in G. Scholem, Mistica, utopia e modernità, op. cit., p. 34.

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indispensabile. Ciò è reso in maniera esplicita nella prima delle Dieci tesi astori- che sulla “Qabbalah” di Scholem:

‹‹Lo studio filologico di una disciplina mistica come la Qabbalah ha in sé un aspetto iro- nico.[…] Il cabbalista ritiene che la verità abbia una tradizione, che la verità possa esse- re tramandata. Affermazione ironica, poiché la verità di cui si parla qui è tutt’altro che tramandabile. La verità può essere conosciuta ma non trasmessa, e proprio ciò che di es- sa è tramandabile non la contiene più››73.