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Quella che ho definito come sezione iniziale del saggio del 1985 è una sintesi profonda dei concetti già da noi sviluppati, ai quali però vengono gradatamente introdotti dei termini nuovi177, indispensabili per dedurre poi il centro della cri- tica derridiana e la sua soluzione – se vi sarà una soluzione – in merito al pro- blema della lingua.

In apertura Derrida definisce Babele come “nome proprio”, ma non fa in tempo ad affermare ciò che subito hanno inizio domande che cercano di definire

177 Per non creare confusione con i termini che risultano in corsivo nel testo originale da ora in

poi utilizzerò lo STAMPATELLO – anche se a livello formale è sempre un qualcosa da evitare per l’armonia ottica del testo che si legge - per indicare “le novità lessicali” che ci permettono di continuare il nostro viaggio accanto a Derrida e che faciliteranno in conclusione i confronti con quando detto nella prima parte di questo elaborato.

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l’intorno di tale “proprietà nominale”. Si vuole circoscrivere quella che viene detta “l’origine del mito del mito”, ovvero l’inadeguatezza di una lingua all’altra, il bisogno di una traduzione che sia capace di sostituirsi nella com- prensione a ciò che la molteplicità rende incomprensibile; ma si tratta anche di prendere atto di un’incompiutezza trasmessa sul piano architettonico a causa della confusione degli idiomi. Ecco perché “Babele potrebbe essere letta come la traduzione di un sistema in DECOSTRUZIONE”178.

Le domande a cui facevo riferimento poc’anzi sono indirizzate a chiarire grazie a quale lingua la torre sia stata costruita e poi decostruita, ma soprattutto, per- ché parlare di Babele significa costruire e decostruire. Le risposte si cercano e si trovano pensando che tale lingua sia quella in cui, proprio a causa della confu- sione, il nome proprio – per essenza intraducibile - di Babele sia stato tradotto 1) nel nome comune “confusione”; 2) nel titolo di un racconto; 3) nel nome di una torre; 4) e in quello di una città. Derrida prende la mosse dalla storia della filo- sofia e in particolare dallo stupore con cui Voltaire nel suo Dictionnarie philoso- phiques alla voce Babele ricorda come tale nome rinviasse a Dio padre – Ba nelle lingue orientali significa “padre” e Bel significa “Dio”179-, e allo stesso tempo sottolinea anche come lo stesso termine significhi sì “confusione”, ma a sua vol- ta in una duplice accezione: confuse furono le lingue, confusi furono i costrutto- ri. Andando oltre Voltaire, tenendo davanti agli occhi Genesi 11 - come abbiamo individuato anche noi inizialmente in questo elaborato - Derrida legge nel nome di Dio il dono santo delle lingue e il veleno della loro corruzione come punizione

178 Ivi, p. 368.

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alla pretesa delle famiglie semitiche di imporre il proprio dominio su di un pia- no universale (in questo caso Derrida, da buon traduttore capace di raggirare il lettore con semplicità, gioca sull’interpretazione del termine Gift, dono in ingle- se, veleno in tedesco, aventi in comune solo delle diverse forme del verbo dare: dare, offrire un dono/somministrare, dare un veleno. L’esempio rende così vi- sibile fra le righe un pratico esempio di confusione).

Anche in questa sede ritorna l’ambivalenza lingua/labbro utilizzata rispettiva- mente nella traduzione francese, di cui Derrida si servì, del passo biblico da Se- gond e da Chouraqui, traduttori cui Derrida si rivolse per la lettura dei sopraci- tati versetti, indicando che la differenza principale consiste nella traduzione del- la seguente frase:

S: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole»

C: «Ed è tutta la terra: un solo labbro, di uniche parole»

Entrambe le traduzioni fanno comunque riferimento al fatto che Dio abbia pu- nito l’uomo poiché questo volle creare da sé una genealogia universale con un nome personale, e il portato di quest’operazione sarebbe potuto essere dal pun- to di vista umano tanto un violento imperialismo di colonizzazione linguistica, quanto un tentativo di guidare un’organizzazione pacifica del mondo. Gli uo- mini avrebbero voluto tradurre il nome proprio del divino in nomi propri per gli umani, ma Derrida afferma che fu la gelosia di Dio a vietare questo genere di traduzione, imponendone – è l’assurda logica del PARADOSSO che gioca il

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ruolo da protagonista in Derrida - però forzatamente delle altre, quelle che a- vrebbero dovuto consentire il minimo di comunicabilità nella specie umana di- spersa, specie dalla quale, col tempo, emergerà l’idioma più forte sempre e co- munque marchiato dal sigillo della confusione. In sostanza però Dio, confon- dendo la lingua degli uomini, proprio perché quella lingua era riflesso del suo nome, per Derrida, “decostruisce sé stesso”180.

Si parla dunque di “necessità come impossibilità” della traduzione181. Allora, nelle letture che facciamo del termine Babele sottoforma di traduzione, i vari signifi- cati comuni in cui viene tradotto il nome proprio divengono omonimi, ma non equivalenti di quest’ultimo (alle volte si cerca di mantenere le distanze fra pro- prio e comune nella traduzione attraverso l’utilizzo della maiuscola, ma anche questa tattica è inutile, dal momento che così facendo – spiega Derrida – si para- frasa, ma non si traduce). Egli prosegue affermando che sarebbe possibile in- tendere il nome proprio come elemento ”fuor di lingua”, come non appartenen- te alla lingua in cui si parla o dalla quale si traduce, indicando come l’unico modo per dare una parvenza d’appartenenza consista nel lasciarsi tradurre e in- terpretare, anche se questo può voler dire essere reso con un termine omonimo, riconoscibile nel nome comune.

A questo punto compare un riferimento ad un maestro della linguistica e della traduzione, Jakobson, il quale, sintetizzando, suddivide la traduzione in tre ti- pologie: 1) rewording o traduzione interlinguistica fra nomi comuni e frasi ordi- narie; 2) trasmutazione o traduzione intersemiotica che si compie tramite

180 Ivi, p. 374. 181 Ivi, p. 375.

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l’interpretazione di segni linguistici mediante segni non linguistici e 3) intralin- guistica, la “traduzione propriamente detta”, a tutti nota, comprensibile e da tutti giustificabile, che interpretata segni linguistici tramite altrettanti segni di una lingua altra182. Usando i termini di rewording e di trasmutazione riserva il “nome proprio di traduzione” alla sola terza tipologia, negli altri due casi uti- lizza ciò che Derrida chiama una “interpretazione definizionale”. Prendendo spunto da questa citazione Derrida afferma che tutto ciò che dopo Babele viene tradotto fa riferimento a quest’ultima operazione indicata: vengono plasmate quindi interpretazioni definizionali, metafore e raggiri della traduzione reale, del nome proprio.

In conclusione di quella che ho voluto descrivere come una prima sezione del saggio in analisi leggiamo che «la traduzione diventa la legge, il dovere e il de- bito, ma dal debito non ci si può più affrancare»183, ed è alla luce di ciò che Der- rida non intende fornire solo spiegazioni teoriche sul movimento che la tradu- zione dovrebbe mettere in atto, ma agisce praticamente, “traducendo un testo tradotto che ha come oggetto la traduzione”: Il compito del traduttore. Ma badia- mo bene:

«non sarà una vera traduzione, non sarà una traduzione “rilevante” che si presenta come il trasporto del significato intatto in un significante veicolare indifferente»184.

182 Cfr. ivi, p. 377. Tuttavia Derrida circa il terzo punto prende le distanze poiché: «Egli suppone

che non sia necessario tradurre: tutti comprendono ciò che vuol dire perché tutti ne hanno espe- rienza […] e si suppone che si conosca l’identità o la differenza in fatto di lingue».

183 Ivi, p. 379.

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