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Oltre il “mantello regale” della traduzione Ricerca della parentela so vrastorica delle lingue

Testo originale e traduzione: la tangente al cerchio

5.1. Oltre il “mantello regale” della traduzione Ricerca della parentela so vrastorica delle lingue

Il compito del traduttore139, saggio del 1921, poi pubblicato nel 1923 come premes- sa alla traduzione di alcune poesie di Baudelaire, ci presenta proprio la prospet-

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tiva messianica di quel concetto corrotto, babelico, del linguaggio che abbiamo descritto nelle pagine precedenti.

Proseguendo per gradi, vorrei innanzitutto che la citazione sopra riportata, a mo di epigrafe, non venisse intesa come un presuntuoso biglietto da visita per dimostrare una conoscenza sintetica del metodo compositivo di Walter Benja- min; vorrei invece che potesse risultare una micro guida ”all’analisi della com- posizione” – soprattutto nel suo primo stadio, nel pensiero -; una composizione che non è totalmente personale, ma trae spunto da un’opera già esistente, con una particolarità però rispetto alle opere critiche: vuole tradurre ciò che è già scritto in una lingua diversa.

Il primo punto su cui focalizzare l’attenzione è il pubblico cui un’opera viene solitamente destinata. Bene, il fatto che solitamente ogni opera venga dedicata a tale pubblico è un primo elemento da mettere al bando per Benjamin, dal mo- mento che qualsiasi opera d’arte, qualsiasi traduzione, presuppone l’esistenza di un pubblico, ma non la sua attenzione. E’ questo uno dei motivi che spesso conducono erroneamente a ritenere una traduzione un semplice sostituto dell’originale, del quale possono fruire solo coloro che non hanno una prepara- zione culturale tale da intendere la stesura primaria. L’unico elemento però che una valutazione di questo genere di opere, nonché della loro traduzione, può mettere in luce è una forte capacità “comunicativa” che si erige a medium fra o- riginale e copia tradotta.

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Il problema però, sottolinea Benjamin, sta nel fatto che tutto ciò che è comuni- cazione è “inessenziale” ai fini della comprensione del forte senso poetico, dell’essenza di un’opera originale. Ecco perché si parla di cattive traduzioni. Si dipana ora al lettore di tale saggio un percorso duplice da seguire in contem- poranea per non perdere il filo del discorso - discorso di non semplice com- prensione, va ammesso. Da un lato Benjamin descrive la traduzione come una forma fondamentalmente plastica, adattabile ai diversi contenuti, dall’altro lato parla dell’originale e dei suoi criteri di traducibilità – trovare un traduttore ade- guato o ancor prima consentire che la traduzione possa avvenire - come un tutt’uno. Ma la forma – la traduzione - deve applicarsi necessariamente al con- tenuto – l’originale - per ottenere un significato comprensibile, così come alcune opere originali non potrebbero essere senza la forma che la traduzione conferi- sce loro. Badiamo bene, gli originali potrebbero fare anche a meno della tradu- zione, ma ciò comporterebbe un’incrinatura nel loro cammino verso “l’immortalità”. A tale riguardo Benjamin descrive il rapporto traduzione- originale come un rapporto di “vita-sopravvivenza”140. Si tratta di mettere in ri- salto la vita “dell’anima” dell’opera d’arte e far in modo altresì che questa, im- messa in un processo storico – nel quale si riconoscono le fonti che hanno porta- to alla stesura del testo e le contingenze storiche del periodo in cui l’autore scrisse -, perduri presso le generazioni future.

140 «Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qual-

cosa per lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piutto- sto dalla sua “sopravvivenza”», ivi, p. 41.

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Qualora un’opera raggiunga l’apoteosi della vivificazione si parla di “gloria” e, contro l’opinione comune, la traduzione non vuole trasmettere tale gloria in al- tre lingue, bensì cerca di far in modo che l’originale, oltre a sopravvivere, si rin- novi nella trasformazione grammaticale. Tale mutamento continuo non si chiari- sce in relazione ad un obiettivo posto su di un piano superiore rispetto al livello della vita coincidente con l’espressione dell’essenza più pura dell’opera d’arte. Per raggiungere un fine simile la traduzione, spiega Benjamin, «tende al rappor- to più intimo delle lingue fra loro»141, rapporto che non è la traduzione ad istitu- ire, ma che essa può solo rappresentare.

Poche righe sopra, per avvalorare questo concetto, abbiamo indicato il “conti- nuo mutamento” che la traduzione svolge sull’originale. A maggior ragione al- lora sarebbe paradossale parlare di mimesi. A tale riguardo accenno solo a quanto descritto nel breve saggio del 1933, Sulla facoltà mimetica142, nel quale Benjamin sottolinea invece come la lingua abbia, in un contesto evolutivo onto- filogenetico, occupato gradualmente un posto rilevante nell’attività mimetica. Infatti il suono originale veniva doppiato dall’uomo attraverso le onomatopee, e dunque tramite un meccanismo di somiglianza materiale, reale; ma a dar forma ad ogni genere di relazione fra il detto e l’inteso, fra il detto e lo scritto, era in- vece il principio che Benjamin definisce di somiglianza immateriale, non sensibile. Infatti:

141 Ivi, p. 42.

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«Ordinando parole di diverse lingue che significano la stessa cosa, intorno a quel signi- ficato come al loro centro, bisognerebbe indagare come esse tutte sono simili a quel si- gnificato nel loro centro»143.

Estrapolare questa citazione dal saggio del ’33 ci tornerà utile fra poco. Teniamo tale concetto in sospeso e spostiamo la lente d’ingrandimento di nuovo sul sag- gio del ’21, dove troviamo che da quel processo di metamorfosi costante messo in atto dalla traduzione – e nella traduzione, dal momento che anch’essa è presa nel movimento di trasformazione della lingua –, alcune delle parole contenute nell’originale assumono un “in più”, una “maturità” che prima non avevano, mentre altre decadono, sviliscono. Ecco perché, ritiene con vigore Benjamin, è errato considerare la traduzione come l’equazione risolutiva di lingue morte che si intersecano.

Il termine “affinità” si spiega ora in maniera più precisa proprio ricercando una sua valenza “metastorica”. Si comprende come nel momento in cui tutte le lin- gue avranno abbandonato i limiti della loro singolarità si potrà parlare di lin- gua pura e di fine messianica della loro storia144.

Si svela in questo modo la differenza fra “inteso” e “modo d’intendere”, detto con Saussure, fra significato e significante, e l’unico modo per raggiungere quel- la lingua pura consiste nel trovare la perfetta armonia fra i diversi modi d’interere delle diverse lingue e l’inteso in questione.

143 Ivi, p. 73.

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Per riportare un esempio noto, il Romeo di Shakespeare ci invita già a pensare al fatto che qualora una rosa si chiamasse in mille altri modi manterrebbe co- munque il suo profumo, così – utilizzando l’esempio a nostro vantaggio, senza tirar fuori la controversia cui solitamente è implicato circa l’arbitrarietà dei no- mi - per quanti modi diversi possiamo usare nel tradurre una parola, una pro- posizione, alla fine quello che per la rosa era il profumo, per le lingue è il nucleo puro che permane indipendentemente dallo stile dell’originale o della tradu- zione, ma al contrario del profumo, che comunque persiste, questo non emerge finché permane contesa e singolarità fra e nei linguaggi. Ecco dove ritorna il concetto di somiglianza immateriale di un centro comune fra le varie lingue ri- portato nel saggio del ’33, che si pone in parallelo al nucleo puro ora descritto, come erede di una lingua paradisiaca.

Già a questo livello del discorso fa capolino la nozione di “crescita sacra” delle lingue - nozione che troverà una sua riproposizione, vedremo, nella battuta conclusiva del saggio – e si svela anche come Benjamin ritenga la crescita delle religioni la causa per cui il nucleo di una lingua pura esista.

Il traduttore vorrebbe raggiungere un livello conclusivo nella sua evoluzione linguistica, ma non gli è concesso, dal momento che egli è capace di dare forma all’originale come comunicazione e, invece, l’ambìto livello conclusivo è tutto fuorché comunicazione. E’ questo che in una traduzione non risulta interpreta- bile dal contenuto dell’originale. Con una metafora Benjamin rende il concetto in forma più elegante:

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«La lingua della traduzione avvolge il suo contenuto come un mantello regale in ampie pieghe. Poiché essa significa una lingua superiore a quella che essa è, e resta quindi i- nadeguata rispetto al suo contenuto, possente ed estranea»145.

E’ così che il tanto ricercato compito del traduttore si svela nel «trovare quell’atteggiamento verso la lingua in cui si traduce, che possa ridestare, in es- sa, l’eco dell’originale»146, ovvero nell’integrare le tante lingue nell’unica lingua originale e pura, o ancora, «nel redimere nella propria lingua quella pura che è racchiusa in un’altra»147.

La differenza rispetto al ruolo dei poeti emerge giacché questi si dirigono solo verso determinati contenuti linguistici; il traduttore invece ha le sue finalità ide- ali rispetto a quelle più intuitive del poeta, e possiede delle metodologie tutte sue, tanto che, con una bellissima immagine, Benjamin ci disegna la traduzione come non catturata “all’interno della foresta del linguaggio” ma antistante ad essa. E’ come se la traduzione funzionasse da annuncio di ciò che è presente in potenza, ma che necessita di tempo e di un certo “savoir-faire” del traduttore per annunciarsi esplicitamente.

145 Ivi, p. 46. 146 Ivi, p. 47. 147 Ivi, p. 50.

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