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Filosofia della storia e filosofia del linguaggio insieme per descrivere il messianismo in Benjamin

Testo originale e traduzione: la tangente al cerchio

5.3. Filosofia della storia e filosofia del linguaggio insieme per descrivere il messianismo in Benjamin

«Il mio pensiero sta alla teologia come la carta assorbente sta all’inchiostro. Ne è completamente imbevuto. Se dipendesse, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto» Walter Benjamin

Per tirare le fila del nostro discorso e per rispondere alle varie domande lasciate in sospeso prendo inizialmente come riferimento l’analisi puntuale effettuata da

154 Nel dettaglio la lettera cui ho fatto riferimento recita quanto segue: «La dottrina è un mare

ondoso, ma per l’onda (se la prendiamo come immagine dell’uomo) tutto sta nell’abbandonarsi al suo movimento, così da salire e rovesciarsi spumeggiando. Questa inaudita libertà del rove- sciarsi è l’educazione, nel senso stretto della lezione, dove la tradizione diventa visibile e libera, si rovescia sotto l’impulso della sua pienezza di vita. Educare è solo arricchire nello spirito la dottrina[…]», W. Benjamin, Lettere 1913-1940, op. cit., lettera 33.

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Giorgio Agamben al riguardo in un suo saggio155, nel quale egli vuole cercare di definire per via negativa altre caratteristiche – “fisionomie” egli le chiama - di cui la lingua pura è in possesso.

Egli parla di lingua pura come sinonimo di lingua universale dell’umanità mes- sianica e ne ipotizza differenti trattazioni. In primo luogo si chiede se Benjamin la intendesse come un esperanto156 – termine che indica “colui che spera” -, do-

manda alla quale immediatamente attribuisce una risposta negativa, dal mo- mento che, in un contesto simile, si ha più premura di conservare “all’infinito” il significato di una parola grazie alla pluralità dei linguaggio piuttosto che cer- care di raggiungere un compimento come il messianismo vorrebbe.

Secondariamente Agamben spiega come Benjamin non volesse far equivalere la lingua universale neanche ad un ideale, giacché, questo sarebbe lo stendardo di un compito infinito da portare avanti lungo il cammino della storia, e neanche in questo caso si avrebbe dunque una conclusione – conclusione che non è da essere intesa come la pura fine del manifestarsi di un insieme di fenomeni, ma è invece la “totalità” finalmente raggiunta. Ancor meglio si potrebbe dire che l’ermeneutica per Benjamin ha un valore differente rispetto a quello contempo- raneo. Infatti si guarda al “non-detto”, non per perpetuarlo come tale, ma per

155 Cfr. G. Agamben, op. cit., pp. 74-82.

156 Umberto Eco ne La ricerca della lingua perfetta dedica un piccolo paragrafo alla descrizione

delle caratteristiche principali di questa forma di teoria linguistica. Egli ne spiega la nascita per opera di Zamenhof, detto poi il Dottor Esperanto, nel 1887 a seguito della pubblicazione in rus- so del testo Lingua internazionale. Prefazione ad un manuale completo. Il testo tracciava la necessità della creazione di una lingua universale da tutti comprensibile, il cui carattere principale consi- steva nel possedere un vocabolario i cui termini avessero una radice comune alla maggior parte dei termini delle lingue esistenti. U. Eco, op. cit., pp. 348-354.

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trovare un modo capace di esprimerlo, dando una finitezza al tempo della ri- cerca157.

Come ultimo tentativo di spiegazione del valore messianico della lingua uni- versale, Agamben utilizza un argomento che ci ha visti impegnati nei capitoli precedenti: la teoria cabbalistica del linguaggio. Infatti, tenendo a mente quanto abbiamo detto, ovvero che il fondamento di ogni linguaggio è il nome di Dio, e ancora che tale nome ha il suo costante riflesso incompreso in modo immediato nel nostro linguaggio e nelle Scritture; bene, è proprio quest’ultimo punto che discosta Benjamin da una totale devozione anche a questa teoria. Ricordiamo infatti come sul finire del terzo capitolo di questo elaborato, in una citazione, si era parlato di lingua dell’umanità redenta “festosamente celebrata” e non scrit- ta. Agamben rende tale pensiero con una citazione nella quale leggiamo: «allo scrivere ciò che non è mai stato detto del mondo cabbalistico, si contrappone [in Benjamin] un “leggere ciò che non è mai stato scritto”»158.

La voce più autorevole per indicare il legame di Benjamin con l’ebraismo e con il suo aspetto messianico è però senza dubbio Scholem col suo testo Walter Ben- jamin e il suo angelo159. Com’è noto il titolo prende spunto dall’acquerello di Paul

Klee, Angelus Novus, che Benjamin ebbe modo di acquistare nel 1921 e che di- venne il simbolo anche della sua crescita filosofica. Dico questo perché, come riporta Scholem, si ebbero due diverse stesure di un appunto scritto da Benja-

157 Cfr. ivi, p. 76.

158 G. Agamben, op. cit., p. 77. «La lingua qui scompare come categoria autonoma, non è possi-

bile farsene alcuna immagine distinta né imprigionarla in alcuna scrittura: gli uomini non scri- vono più la loro lingua, ma la celebrano come una festa senza riti, s’intendono fra loro “come i nati di domenica intendono la lingua degli uccelli”», ivi, p. 81.

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min ad Ibiza nel 1933 dal titolo Agesilaus Santander, frammento che enuncia l’intimo rapporto in cui stavano l’immagine del dipinto e l’animo dello scrittore. L’immagine resa è quella di un angelo con le ali dispiegate, la bocca spalancata, sospeso fra il tentativo di avvicinarsi a colui che lo osserva e una forza che lo ri- chiama presso il suo luogo d’origine; delle sue sembianze fisiche ciò che cattura maggiormente l’osservatore è il capo ricoperto non da riccioli d’oro ma da rotoli di pergamena, espressione di un probabile messaggio da recapitare.

Sorvolando sulla prima interpretazione di stampo più personale-affettivo – che reca notizie su colui che guarda il dipinto160 – che dell’angelo ritratto è fornita, prendiamo in analisi la seconda descrizione, la quale legge invece nell’angelo dipinto tanto il presagio di un futuro dal quale esso giunge, e verso il quale è catturato nuovamente, quanto il messaggero di notizie che interessano il mondo storico attuale: ecco perché si parla a tale riguardo della famosa immagine “dell’angelo della storia”.

La spiegazione esatta di questa interpretazione benjaminiana dell’Angelus No- vus di Klee è espressa nella XI delle sue Tesi sulla filosofia della storia:

«[…]l’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti

160 Qui Scholem fa riferimento tanto alla figura femminile di Jula Cohn, della quale Benjamin

risultò fortemente invaghito senza essere ricambiato, quanto alla possibilità che l’angelo voglia rappresentare il distacco su Benjamin fu soggetto dovendo vestire i panni del fuggitivo essendo ebreo in un tempo che non accettava questa realtà individuale. E’ stato visto come l’angelo “e- spressione di ciò che Benjamin ha o è”, cfr. ivi, p. 47.

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e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresi- stibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta»161.

Anche per Benjamin allora il paradiso, oltre che essere inizio dell’umanità, si propone come la meta in un’utopica immagine futura di redenzione in linea con quanto l’ebraismo professava; ecco quindi che viene indicata l’unica via che condurrebbe alla felicità, ovvero la via del ritorno. L’angelo vorrebbe restaurare ciò che ha assunto nel passato, e continua ad avere nel presente, essenza fram- mentaria162, ma fallisce, è respinto: la causa è ravvisabile nella tempesta del “progresso” che la classe politica egemone pone come “norma della storia” su

161 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, op. cit., p. 80. La stesura di queste

tesi risale al 1940, periodo dell’accordo Molotv-Ribbentropp fra Hitler e Stalin (1939), accordo che scosse profondamente Benjamin tanto da cercare nella composizione di queste tesi, che sono poi il nucleo di quello che esporrà in Sul concetto di storia, un conforto per la distruzione cui l’idea comunista era andata incontro. (Corsivo mio). Barnaba Maj sottolinea il fatto che la stesu- ra della teoria della storia benjaminiana sia un modo di coniugare questo scritto col precedente sul dramma barocco e cita da Benjamin stesso:«[questo testo è] un tentativo di guardare al seco- lo XIX in modo affatto positivo, così come nel lavoro sul dramma barocco mi sono sforzato di vedere il XVII», Barnaba Maj, La teoria della storia in Walter Benjamin, in «Discipline filosofiche» IX,1 1999, pp. 177-212, p. 179.

162 A proposito di “frammentarietà” Scholem fa riferimento ad un tema analogo nella descrizio-

ne di un mito, vivo soprattutto nella Qabbalah luriana, scandito nei tre momenti della creazione come autoeliminazione di Dio o Tsimtsum, della rottura dei vasi o Sheviràh e nel Tikkun come e- liminazione della macchia caduta sul mondo a seguito della frantumazione prima citata. La se- conda fase è quella che potrebbe suonare famigliare in Benjamin, dal momento che, a seguito della “rottura dei vasi”, nulla resta effettivamente com’era, tutto appare in esilio e tutto vorreb- be, dovrebbe essere redento. Per una descrizione precisa del mito rimando a G. Scholem, La

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una linea continua; non c’è tempo per l’angelo per fermarsi a lodare Dio e re- dimere l’umanità163.

Il perché di tale fallimento è esposto, spiega Scholem, anche nell’ultima Tesi sul- la filosofia della storia: deve essere il Messia e non un angelo ad avere un possibile accesso dalla porta di ogni singolo secondo del futuro per redimere il passato164. Posizione analoga è esposta nel Frammento teologico-politico165, testo breve ma

denso, dalla tonalità esoterica, in cui si legge come il regno di Dio sia fonda- mentalmente differente dal telos – profano - della dynamis storica, per cui nulla di storico può aver la pretesa di porsi in relazione al messianico.

Questo è quanto dovrebbe accadere secondo una valutazione congiunta fra filo- sofia e religione.

Leggiamo però, con le lenti del materialista storico, anche la seconda interpre- tazione per cui la redenzione può essere possibile.

Scholem non vide di buon occhio l’adesione dell’amico allo storicismo (e peggio ancora al marxismo) e persistette nella lettura delle intuizioni che Benjamin eb- be come intuizioni di un “teologo trasferito in campo profano tradotte - travesti- te - nel linguaggio del materialismo storico”166. Volendo spiegare i due estremi della frase appena esposta Scholem sintetizza come le categorie ebraiche che si fanno spazio nei testi dell’amico siano quelle di rivelazione, redenzione, mes- sianismo, ma non solo, poiché si riscontra anche una grande attenzione per

163 Cfr. Dario Gentili, Il tempo della storia, Guida editori, Napoli 2002, pp. 141-150. 164 Cfr. W. Benjamin, Tesi di filosofia …, op. cit., p. 86.

165 W. Benjamin, Frammento teologico-politico, in Opere, vol. 1, op. cit., pp. 512-513. 166 G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, op. cit., p. 93.

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l’analisi dei testi sacri - tutti temi che abbiamo incontrato analizzando la conce- zione della lingua in Benjamin.

Considerando ora l’altro estremo della frase - il linguaggio del materialismo storico – che ha costituito la base della dialettica benjaminiana, osserviamo co- me sul nesso redenzione/storia e sulla funzione della redenzione in particolare - capace di illuminare il senso del tempo e del passato - è fondamentale la III Te- si di filosofia della storia, dove leggiamo:

«Il cronista che enumera gli avvenimenti senza distinguere tra i piccoli e i grandi, tiene conto della verità che nulla di ciò che si è verificato va dato perduto per la storia. Certo, solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato»167.

Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una “citation à l’ordre du jour” – e questo giorno è il giorno finale. E quando in questa sede si parla di ve- rità si va oltre la “verità storicista dello storico” per avvicinarsi invece a quella del cronista168, la quale è valutata anche dal punto di vista temporale di Dio. Ovvero si registrano i fatti avvenuti, ma non ci si erige a giudice di questi in at- tesa della valutazione divina futura per la quale nessun evento preso nella sua singolarità acquista un senso rivoluzionario nel corso storico, dal momento che il nostro presente è già per Dio passato: è la teologia, come un nano gobbo, invi-

167W. Benjamin, Tesi di filosofia …, op. cit., pp. 75-86. (Corsivo mio).

168 O narratore che dir si voglia. A tale riguardo sarebbe interessante approfondire le considera-

zioni che Benjamin espone su Leskov nel saggio Il Narratore, cfr. W. Benjamin, Angelus Novus,

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sibile all’evolversi presente dei fatti, che – come afferma Benjamin nella celebre I Tesi169 - risulta indispensabile al materialista storico per ogni sua mossa.

Ma tutto ciò che il presente può ricevere dal passato, assodato come ciò non sia verità di sola competenza divina, consiste in una debole forza messianica che ha momentaneamente il compito di “strappare la tradizione al conformismo”170 per permettere poi a Dio, nella sua discesa, di “sconfiggere l’Anticristo” – VI Te- si171. A tale riguardo, avevamo imparato con Scholem nella chiusura del testo Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio che esistono epoche, come quella a loro contemporanea, in cui la traduzione ammutolisce, diventa incomprensi- bile, e il Nome di Dio non ha più possibilità di essere compreso tramite quelle parole che restano arcani. Nel Benjamin del 1940 questa concezione pare avere un risvolto più ottimistico, spostando la sfera d’azione dal linguaggio alla prassi politica: agendo l’uomo poteva sperare ancora in una redenzione, poteva ancora “riscattare il futuro irredento del passato dalla tradizione del conformismo che pretendeva di ammutolire il suono della verità”172.

Come meglio concludere questa serie di collegamenti fra Benjamin e il messia- nismo se non con una citazione di Scholem che, da grande ebraista e da grande

169 W. Benjamin, Tesi di filosofia …, op. cit., p. 75.

170 E qui si potrebbe rileggere la metafore del mare ondoso come interpretazione della Torah per

comprendere ancor meglio i propositi benjaminiani.

171W. Benjamin, Tesi di filosofia …, op. cit., p. 78. Storicamente si riscontra l’equivalente

dell’Anticristo nel Terzo Reich che a sua volta si oppone al socialismo come liberazione dei la- voratori dalle catene del capitalismo, come redenzione della disoccupazione. Quindi la forza messianica deve mettersi in atto dal versante politico in aiuto ai propositi socialisti. Si compie qui una sintesi viva fra politica ed ebraismo. Un’analisi precisa di questo genere di posizione si trova in W. Benjamin, Critiche e recensioni, Einaudi, Torino 1979, p. 301.

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amico non poteva non rintracciare nell’amico quel sottofondo teologico applica- to a temi profani di vario genere:

«All’ebraismo che ci viene incontro in queste frasi [si riferisce all’ultima tesi di filosofia della storia], Walter Benjamin si è avvicinato asintoticamente per tutta la vita, senza tuttavia raggiungerlo. Ma al tempo stesso si può dire che ogni sua più profonda intuizio- ne, sotto l’aspetto sia creativo che distruttivo, proveniva dal cuore dell’ebraismo: una con- statazione sul pensatore Benjamin, la cui dialetticità non perde nulla della sua ampiez- za di tensione per il fatto d’illuminare a fondo, contemporaneamente, il corso d’una vi- ta continuamente minacciata dall’orrore della solitudine mentre si struggeva nel desi- derio di una comunità, fosse pure la comunità apocalittica della rivoluzione»173.

Quelli qui riassunti sono i motivi per cui la prima parte di questa mia ricerca ha voluto soffermarsi sull’analisi della valutazione mistico-ebraica che della lin- gua, della sua origine, della sua corruzione e della sua prospettiva futura di re- denzione contro il caos babelico è stata fornita da due pensatori, non a caso e- brei, del calibro di Scholem e Benjamin. Ma, ovviamente, come ogni tesi che si rispetti ha la sua antitesi, il prossimo obiettivo che mi propongo è quello di rin- tracciarla grazie soprattutto all’impegno critico e decostruttivista che un altro filosofo del ‘900, ebreo anch’esso, ha posto nella sua analisi di denuncia della maggior parte di quei valori e di quelle posizioni che l’Occidente ha fatto propri e che hanno perlopiù sorretto anche le teorie finora enunciate: costui è Jacques Derrida.

112 II PARTE

« Derrida abbraccia il niente, cambia di segno

la nostalgia genealogica benjaminiana, e rimette sull’orizzontale il momento verticale di redenzione puntuale su cui si fondava

l’immagine della traduzione per Benjamin»

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Capitolo 1

La traduzione come decostruzione: Jacques Derrida e il suo Des