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Anche in questo caso si parte da una domanda: «la traduzione per questo testo, è soltanto un tema, e soprattutto, è il suo primo tema?»185. Cerchiamo di trovare una risposta adeguata in linea con l’analisi compiuta circa il significato di nome proprio/confusione attribuito a Babele.

Analizzando il titolo del testo del ’21 di Benjamin il termine “compito” ne è il protagonista, e ciò rimanda alla presenza inestirpabile di quel debito cui sono destinati i traduttori di cui si parlava poc’anzi; ma se compare un debito è per- ché lo ha preceduto un’onta, una mancanza dalla quale ci si dovrebbe riscattare. Per Benjamin, abbiamo visto, tale colpa è descritta nella dinamica della caduta e della conseguente perdita della lingua pura nel testo del 1916, e il riscatto coin- cide invece con quella particolare tecnica della traduzione, modellata secondo la versione interlineare dei testi sacri, che riesce ad andare oltre la singolarità della lingue e rintracciare il nucleo puro della lingua delle lingue, compiendo una sorta di redenzione (parlo di “una sorta” di redenzione, perché vedremo la re- denzione in senso ebraico sarà descritta da Benjamin nelle sue Tesi di filosofia del- la storia più che in questo testo). Per Derrida questo lieto fine è fondamental- mente follia. Tutti i suoi testi sono costruiti per rendere impossibile il compito del traduttore (come testimoniano tutti coloro che si sono cimentati nell’impresa), per promuovere e moltiplicare l’equivoco, per facilitare la divulgazione del sen- so o la compossibilità di più sensi. A dimostrare ciò troviamo la predilezione

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per le frasi idiomatiche, che spesso costringono il traduttore a rinunciare alla traduzione e a ricorrere al trasporto del termine, lasciandolo intatto o modifi- candone semplicemente la grafia – come accadrà per il termine différance spesso resa nelle traduzioni italiane con diffe-renza -, dall’originale nella traduzione. Gli stessi testi di Derrida sono dunque concepiti per sfuggire il più possibile alla traduzione, per resistere a una interpretazione adeguata, a una comprensione che si pretenda totalizzante, per mostrare che non vi è mai restituzione del senso, che i conti non tornano mai, che ogni tentativo di soluzione non fa che rilanciare all’infinito il dado del debito. Sbandierare la possibilità di un’assoluta traducibi- lità equivarrebbe ad affermare, contro ogni evidenza dell’esperienza, che il sen- so può esistere e circolare senza personificarsi, che si può pensare senza segni, affidando così la lingua e il testo alla totale insignificanza del mero strumento. Al contrario, la resistenza di una lingua alla sua traduzione totale è l’indice del- la sua stessa capacità di significazione, del suo essere-lingua: il senso e la sua comprensione passano sempre attraverso lo profondità di un corpo, ne dipen- dono. Quest’ultimo periodo è l’anticipazione della conclusione cui Derrida giunge, e, più che la mia parafrasi, ciò che rende al meglio la sua idea è la se- guente citazione:

«Un testo - scrive Derrida - vive solo se sopra-vive, e non sopravive che a patto di esse- re ad un tempo traducibile e intraducibile (sempre ad un tempo, e: ama, nello stesso tempo). Totalmente traducibile, sparisce come testo, come scrittura, come corpo della

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lingua. Totalmente intraducibile, anche all’interno di ciò che si crede essere una lingua, muore subito dopo»186.

Alla luce di ciò, relazionandosi al saggio di Benjamin del ’21, Derrida definisce “il compito”- in accordo con i vari significati possibili che il termine tedesco Aufgabe può assumere - come dovere, missione, compito, problema da risolvere, ma soprattutto “restituzione di senso”187. Ma è possibile che si percorra un cammino la cui fine non esiste, ovvero si potrebbe trattare di un dovere insolvi- bile, di un senso irrintracciabile pur nella trasmissione genealogica dei tempi e dei saperi.

Se si parla di genealogie è perche Benjamin per primo insiste, come si è visto in precedenza, sulla “parentela” delle lingue. Ma, nonostante il loro legame, risul- ta possibile tradurre più lingue al contempo? «Il compito di far maturare nella traduzione il seme della pura lingua sembra del tutto insolubile, indefinibile in alcuna situazione»188 risponde Derrida citando Benjamin. Ed è proprio Benja- min ad aver dato prova di ciò non traducendo nel saggio in analisi il passo di Mallarmé. Nel debito del tradurre occorreva rendere il senso dato originaria- mente, ma «non si sottrae il terreno ad ogni soluzione quando la riproduzione del significato cessa di essere determinante?»189.

186 J. Derrida, Sopra-vivere, trad. it. di G. Cacciavillani, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 43-44.

187 Sempre nel saggio del 1998 sopra citato - Che cos’è una traduzione rilevante? - Derrida scrive a

riguardo del rapporto traduzione rilevante/problema “senso”: «La misura del rilevamento (re-

lève) o della rilevanza (relevance), il prezzo di una traduzione consistono sempre in quello che è chiamato senso, addirittura valore, conservazione, verità come conservazione, ovvero ciò che, liberandosi dal corpo, si eleva al di sopra di esso, lo conserva nella memoria», cit., pp. 29-30.

188 W. Benjamin, Il compito del traduttore, op. cit., p. 48. (Corsivo mio). 189 Ibidem.

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La traduzione non si annuncia cioè come un’operazione secondaria, che si ag- giunge eventualmente, accidentalmente, alla storia di una lingua, di un testo, poiché ogni lingua e ogni testo non sono caduti dal cielo già fatti, sono essi stes- si in posizione di traduzione e di risposta, vale a dire originariamente indebitati e anticipati da altro. Un concetto analogo viene confermato da Derrida anche al- trove, esattamente in Che cos’è una traduzione rilevante?190, saggio del 1998, dove egli sbandiera ai sette venti, con toni quasi poetici, da grande oratore, questo suo spasmodico amore nei confronti della parola e della traduzione, per cui è il tradurre che diviene vita, esperienza, esperimento; è il tradurre che si spinge verso la parola sempre più per impossessarsene e alla fine rinuncia all’intento, risparmiandola, non senza però aver potuto con una carezza ridare vita ancora una volta al corpo di quella parola.

Già all’interno di ogni lingua e di ogni testo la traduzione, il trasferimento, lo scambio sono necessariamente all’opera: come farebbero altrimenti una lingua, un testo a significare? Non vi è insomma che transfert, traduzione, metaforizza- zione, contaminazione, debito e rapporto all’altro: il rapporto all’altro è all’origine.

Nel suo testo dell’87 invece Derrida procede andando avanti e indietro nel testo di Benjamin, modellandolo a suo piacere, infatti concentra la sua attenzione sul- la relazione fra restituzione e trasformazione che il testo originale191 assume nel-

190 J. Derrida, Che cos’è una traduzione rilevante?, op. cit., p. 22.

191 C’è anche chi, come Claude Lévi Strauss, ritiene che «parlando propriamente non esiste un

testo originale: ogni mito è per natura traduzione, ha la sua origine in un altro mito proveniente da una popolazione vicina ma straniera (…) che un uditore cerca di plagiare traducendolo nel

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la traduzione per cercare una risposta all’interrogativo appena espresso. I ter- mini “seme”, “vita”, “sopravvivenza”192 compaiono infatti all’inizio del testo benjaminiano e Derrida si rifà – forse, a mio avviso, un po’ forzatamente - all’interpretazione dialettica hegeliana del movimento dello Spirito per descri- vere la pretesa di Benjamin di voler fare storia non solo di ciò che ha vita orga- nica ma di tutto ciò che a questa sopravvive in un circolo costantemente rinno- vantesi, fino a raggiungere il nucleo puro della lingua – o lo Spirito nella sua pienezza per Hegel.

Citati quelli che possono essere i problemi iniziali per compiere un’indagine do- tata poi di risoluzione, Derrida sottolinea come il problema per Benjamin non è tanto quello di domandarsi che ruolo abbia la traduzione, ma solo e soltanto il traduttore. Quest’ultimo veste i panni di un “agente di sopravvivenza” non tan- to dei nomi degli autori delle opere originali, ma solo delle opere stesse. Derrida riassume le caratteristiche principali che abbiamo tracciato precedentemente circa l’attività del tradurre con lo slogan – se così mi è lecito definirlo - “tradu- zione non è ricezione, non è comunicazione, non è rappresentazione”193. Aven- do così espresso cosa non deve rispettare il dovere del traduttore, che definizione si dovrebbe utilizzare, si chiede Derrida, se questo ruolo lo si volesse determi- nare in positivo?

La condizione in cui versa il traduttore è comunque una condizione di passivi- tà, dal momento che, se la traduzione è forma, tale forma trova la sua legge

suo linguaggio personale e tribale, sia per appropriarsene che per smentirlo, quindi deforman- dolo sempre», Cfr. Claude Lévi-Strauss, L’Homme Nu (Mythologiques IV), Paris 1971, p. 576.

192 Cfr. Ivi, p. 41.

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nell’originale, che il traduttore deve rispettare in quanto delegato della sua so- pravvivenza, giacché «la dimensione sopravvivente è un a priori – dice Derrida – e la morte non vi cambierebbe niente»194. Il solo fattore che rende possibile l’attività del traduttore è la corrispondenza rintracciabile fra l’opera originale e un pensiero di Dio – affermazione giustificata dalla descrizione riportata fra le righe del saggio benjaminiano del 1916 -, corrispondenza che si trasmette anche nella relazione fra il traducibile e il tradotto. Ed è così che riutilizzando la ter- minologia biologica si afferma che l’originale sopravvive come dono nella tra- duzione mai in sembianze definite senza revocabilità, ma in costante metamor- fosi, in quella che Benjamin chiama “la crescita santa delle lingue”195.

Avendo definito in parte in cosa tale tradurre consista, Derrida, fermo nella sua concezione di “traduzione come debito”, afferma nuovamente la rilevanza della posizione dei nomi propri: è essenziale evidenziare la differenza fra la firma apposta all’originale e quella leggibile al fondo della traduzione. La situazione si complica dal momento che anche nell’originale si riscontra una mancanza a- priori, una necessità di esser tradotta, e dunque una richiesta di traducibilità che diviene debito anch’essa.

Tale sorte tocca anche a Dio e al suo nome nell’episodio babelico – sottolinea Derrida – giacché egli impone la confusione, ma vorrebbe poi che il suo nome ritornasse ad essere compreso tramite l’opera di traduzione che gli uomini do- vrebbero portare a termine a seguito della loro punizione. E’ come se si volesse

194 Ivi, p. 389.

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mettere in scena una situazione dominata dal telefismo196, per la quale ciò che provoca dolore a Dio, la confusione, sarà poi ciò che lo guarirà dal dolore, dal momento che l’uomo, traducendo dalla confusione ad una forma ordinata e chiara, nella versione interlineare del testo sacro, a detta di Benjamin, ritroverà il Suo nome, ritroverà la lingua pura. Derrida è invece dell’idea che non ci sarà fine al pianto divino, perché il tradurre non assolverà mai il suo debito. Questo accadrà perché, come egli affermava inizialmente, il nome proprio non è mai traducibile (e “confusione”, “Babele”, si è spiegato che altro non sono che nomi di Dio).

Ma se tra l’originale e la traduzione si instaura un debito reciproco è come se, per Derrida, si firmasse un “contratto”:

«[…]un contratto fra due lingue straniere impegna a rendere possibile una traduzione che in seguito autorizzerà ogni sorta di contratti nel senso corrente. […]In un codice classico lo si sarebbe detto trascendentale poiché in verità rende possibile ogni contrat- to in generale, a cominciare da quello che si chiama il contratto di lingua nei limiti di un solo idioma. […] Si dirà che la parentela fra le lingue suppone questo contratto o che gli dà il suo primo luogo?»197.

Grazie alla domanda di chiusura della citazione Derrida introduce un tema che sarà centrale delle pagine successive (anche se sotto una prospettiva diversa, re-

196 Il termine è derivato dal mito greco per cui Telefo, figlio di Eracle, ferito da Achille fu guarito

poi dalla ruggine della stessa spada che lo colpì. Tema ripreso nel Parsifal di Wagner dove si legge “la spada che ferisce è la spada che guarisce”.

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ligiosa, ci ha accompagnati anche nei capitoli precedenti): l’origine delle lingue e della società. Vedremo infatti come con Della Grammatologia si esporranno va- rie ipotesi al riguardo. Per ora basti quello che serve a collegare tale quesito con il testo di Benjamin. Ovvero: è sufficiente parlare di parentela sovrastorica delle lingue rintracciabile grazie a ciò che abbiamo definito con Benjamin “tonalità af- fettiva” che le lingue hanno con sé, e quest’affinità è forse per Derrida un ana- logo dell’alleanza siglata dal contratto di traduzione, per cui tutte le lingue sono imparentate in ciò che vogliono dire. Infatti:

«La traduzione rende presente in una maniera solamente anticipatrice, annunciatrice, quasi profetica, un’affinità che non è mai presente in questa presentazione»198.

In relazione a ciò si chiede Derrida: forse che tradurre non è un problema eco- nomico, un modo sintetico che porti però dei vantaggi, trasportando un nome proprio in altri vocaboli, in altre descrizioni o metafore? Benjamin non osa par- lare di metafore come ponti fra tradotto e traducibile, come contratto fra le due parti che prende forma, ma, dice Derrida, suggerisce una lettura in questa dire- zione utilizzando l’anafora, o, come la definisce con un neologismo lo stesso Derrida, ammetafora – metafora della metafora. L’originale non viene sovrastato dalla traduzione: dunque, permane invece modificandosi, e con tale metamor- fosi non dimentichiamo quanto Benjamin ci ha insegnato, ovvero, il traduttore

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si concede quella libertà senza la quale farebbe violenza al senso piuttosto che recarvi beneficio.

A questa crescita senza una dimensione risolutiva determinata Derrida associa il gioco dei SUPPLEMENTI ammetaforici, che pure Benjamin utilizza: dalla tan- gente al cerchio, al vento che sfiora l’arpa eolia e ai frammenti del vaso da ri- comporre. Tutte immagini che rendono visibile di sfuggita la possibilità di una comprensione del linguaggio originario e pieno, solo nel breve istante di una carezza, in quello che viene definito “l’infinitamente piccolo del senso”199 ed è proprio questo il limite della traduzione.

Ed essendo così in tema di metafore, tale sequela di rapporti testo originale- traduzione viene resa da Derrida tramite l’immagine del matrimonio inteso come contratto, appunto, con l’obiettivo di generare un figlio desideroso col tempo di autonomia; bene, quest’ultimo elemento ha il suo equivalente nel linguaggio dato dalla fusione degli estremi, che pretende di articolarsi ed esprimersi auto- nomamente. Il fatto poi che questa autonomia risulti irraggiungibile non impli- ca che non si debba comunque provare a conquistarla200.

Quando Derrida vuole cercare di definire ulteriormente cosa sia questo “irrag- giungibile” sono ancora le ammetafore a guidarlo, e indicano tale elemento co- me un nucleo nella traduzione non ulteriormente traducibile, come il centro di un frutto – l’opera originale - ricoperto dalla scorza: metafora naturale quindi.

199 J. Derrida, Des tours …, op. cit., p. 399.

200 Cfr. Raoul Kirchmayr, Possiamo sempre cercare di tradurre. Nota su decostruzione e traduzione, in

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L’artificio tecnico entra in scena laddove la descrizione si concentra sul passag- gio successivo, sul legame fra l’originale e la traduzione; perciò si parla di un mantello dalle ampie pieghe – cioè la traduzione – capace di coprire un’originale che appare e non appare, viene annunciato ma non mostrato e l’elemento temporale gioca un ruolo di primo piano in quanto non riesce a fare combaciare ermeneutica e fenomenologia potremmo dire; così la traduzione prende la forma del corpo che veste ma non si appiattisce su di esso, rimane ondeggiante e sinuosa.

Dal momento che Benjamin ha parlato nel suo saggio di una discendenza sem- pre in metamorfosi dal rapporto originale-traduzione, Derrida ha reso tale rap- porto tramite l’immagine di un matrimonio fra le parti, è come se “avesse ag- giunto mantello a mantello traducendo una traduzione sulla traduzione”201. Per Benjamin dunque “non c’è traduzione della traduzione” all’infinito verifi- cabile, ponendosi con fine la tutela della possibilità del linguaggio puro, e in più per Derrida egli riconosce un diritto pertinente alle opere e all’autore, ed è sem- pre Derrida a darne prova tramite lo spoglio di alcuni luoghi comuni del diritto francese. Infatti, la traduzione, in quanto espressione, si differenzia dal contenu- to e dall’originale nel suo insieme, o meglio, dice Derrida, da ciò che i giuristi chiamano “composizione dell’originale”, ed è la stessa traduzione a divenire espressione di un diritto d’autore “come traduttore”, con il dovuto riconosci-

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mento di una sua originalità personale202. Rilevante è al riguardo la citazione di Desbois tratta dal suo Le droit d’auteur en France (1978) riportata da Derrida:

«Traduttore traditore, dicono gli italiani in una battuta che come tutte le medaglie ha un diritto e un rovescio: se è da cattivi traduttori moltiplicare i controsensi, altri ven- gono citati grazie alla perfezione del loro compito. […] il traduttore coscienzioso e competente “mette del suo” e crea, proprio come il pittore che fa la copia di un model- lo [in questo si trova differenza con Benjamin, avendo egli più volte sottolineato la dif- ferenza fra il tradurre e la mimesi].[…] Il compito del traduttore dà occasione a delle manifestazioni di personalità»203.

Tale originalità dovrebbe condurre per Benjamin – tenendo bene a mente tutti i presupposti precedentemente citati - al raggiungimento di una “lingua della ve- rità”, la quale, spiega Derrida, per essere meglio intesa deve esser accompagna- ta da una possibile relazione con l’analisi delle intenzioni che Benjamin nutriva nel definirla. Parlando di “intenzionalità” Derrida dona un tono più impegnati- vo al discorso, riferendosi al vocabolario fenomenologico proprio di Brentano e Husserl, dove proprio “intenzionalità” (coscienza come coscienza “di” qualco- sa) è il termine base, e Benjamin – per la lettura che ne offre Derrida – pare ri- trovare proprio l’origine comune delle lingue nell’unione degli scopi intenzio- nali dei vari singoli linguaggi, che nella traduzione si completano – per Derrida

202 Nel testo Derrida, citando Colombet, afferma che «solo la forma può diventare proprietà e

non le idee, i temi i contenuti, che sono proprietà comune e universale»; o ancora citando Sava- tier questa volta afferma che «il genio di ciascuna lingua dà all’opera tradotta una fisionomia propria; e il traduttore non è un semplice operaio», ivi, p. 409.

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invece senza farlo mai totalmente – e tendono ad un obiettivo comune che è, ancora una volta, la lingua pura, “l’essere lingua della lingua”204. Invece ora siamo davanti ad un altro registro, a quello derridiano, che definisce appunto come “l’uomo può solo intuire la condizione unitaria e paradisiaca”.

Grazie al richiamo alla fenomenologia Derrida apre una griglia di comprensio- ne per cui si dovrebbe distinguere fra inteso, cosa intesa e modo d’intendere. Ma senza aprire scenari ulteriori capaci di complicare ciò che già è complesso risolviamo il riferimento fenomenologico sottolineando come solo l’ultimo ele- mento, il modo d’intendere, è quello che la traduzione rileva come essenziale per raggiungere un’armonia, e che dalla molteplicità delle forme con cui si pre- senta cerca di orchestrare a sua volta un’armonia producente per colui che in- tende.

Traduzione allora come “supplementarietà linguistica” che annuncia il suo fine messianico, per Benjamin ravvisabile nella costante crescita cui le lingue sono soggette. Proviamo a leggere ora in parallelo la conclusione cui giunge Derrida con quella, già riportata in precedenza, cui giunge Benjamin. In questo confron- to conclusivo sarà possibile individuare il cuore della critica derridiana alla tra- dizione occidentale:

B: «la versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione»205.

204 Cfr. ivi, p. 414.

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D: « ciò che accade in un testo sacro è l’evento di un pas de sens. […] Esso si affida alla traduzione che gli si dedica. Non sarebbe nulla senza di lei, lei non avrebbe luogo sen- za di lui»206.

Queste due citazioni si sintetizzano rispettivamente nelle seguenti coppie d’opposti: monolinguismo, LOGOCENTRISMO (per cui, nonostante gli sforzi di evoluzione e metamorfosi delle lingue, lo sguardo del traduttore è sempre