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I Centri di servizio per il volontariato. Uno studio giuridico sull'esperienza italiana.

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(1)

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

I Centri di servizio per il volontariato.

Uno studio giuridico sull’esperienza italiana.

Candidata:

Giada Pagni Relatore:Prof. Emanuele Rossi

Correlatore: Prof. Luca Gori

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A Rita, Stefania, Chiara e Irene, non sempre vincitrici,

ma mai vinte.

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1

Sommario

I. Le alterne vicende della legislazione sul Terzo settore dall’Unità

d’Italia ai primi anni del XXI secolo ... 7

I.1. Sviluppo e regolazione del privato sociale nello Stato liberale ... 7

I.2. La fascistizzazione della società civile ... 15

I.3. La Costituzione, il Welfare State ed il Terzo Settore ... 19

I.4. La composita legislazione speciale sul Terzo settore degli anni Novanta ... 24

I.5. Il decreto Legislativo 4 dicembre 1997, n. 460: un primo tentativo di riordino ... 29

I.6. La legge n. 383/2000, la riforma del Titolo V e la disciplina sull’impresa sociale ... 32

I.7. Cosa resta del Codice civile? ... 36

I.8. Conclusione ... 37

II. La riforma del Terzo settore ... 38

II.1. Le premesse ... 38

II.2. La legge delega 6 maggio 2016, n. 106 ... 41

II.3. Il Codice del Terzo settore ... 49

II.4. Una zona ad alta tensione costituzionale ... 56

II.5. Il cantiere della riforma ... 61

II.6. La risposta del Terzo settore all’emergenza sanitaria ... 63

II.7. Atti normativi per il “rilancio” del Terzo settore... 66

II.8. Nuovi orizzonti per il Terzo settore ... 68

III. La natura giuridica dei Centri di servizio per il volontariato ... 73

III.1. La disciplina dei Csv prima della riforma del 2016-2017 ... 73

III.2. La legge delega n. 106 del 2016 ... 78

III.3. I Csv nel Codice del Terzo settore ... 80

III.4. La sentenza n. 185 del 2018 ... 82

III.5. I Csv e la distinzione tra ente pubblico o ente privato ... 84

III.6. I Csv come soggetti formalmente privati... 87

III.7. I vincoli all’autonomia privata ... 89

III.8. Le argomentazioni della Corte costituzionale ... 93

III.9. I Csv: la rilevanza pubblicistica ... 94

III.10. Conclusione ... 98

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2 IV.1. Forma giuridica dei Csv: associazioni riconosciute e altri enti del

Terzo settore ... 101

IV.2. Il Csv come associazione riconosciuta del Terzo settore (artt. 21-31 CTS) ... 107

IV.3. I requisiti statutari prescritti dal CTS (art. 61 CTS) ... 115

IV.4. L’accreditamento: profili generali ... 118

IV.5. Accreditamento: le Procedure ... 121

IV.6. L’elenco nazionale dei centri di servizio per il volontariato ... 133

IV.7. Revoca dell’accreditamento ... 135

V. Scopi, servizi offerti, presenza e legami con il territorio. ... 139

V.1. Profili generali dell’art. 63 del Codice del Terzo settore ... 139

V.2. La mission dei Csv ... 143

V.3. I servizi dei Csv ... 148

V.4. Presenza nel territorio dei Csv ... 153

V.5. Legami con le comunità locali: l’esperienza CESVOT e del Csv Genova ... 159

V.6. Il Volontariato Post-moderno: il caso del Csv di Milano ... 164

V.7. L’autocontrollo (art. 93, comma 5 CTS) ... 166

VI. Il finanziamento dei Centri di servizio per il volontariato ... 171

VI.1. Una introduzione ... 171

VI.2. Il sistema di gestione dei fondi speciali della legge n. 266/1991 ... 171

VI.3. L’atto di indirizzo Visco ... 177

VI.4. La giurisprudenza sulla disciplina del finanziamento dei Csv ex l. 266/1991 ... 180

VI.5. Il protocollo d’intesa del 2005 e le linee guida del 2007 ... 184

VI.6. L’accordo nazionale del 2010 ... 189

VI.7. Il finanziamento dei Csv nel Codice del Terzo settore: il Fondo Unico Nazionale ... 191

VI.8. La ripartizione delle risorse del FUN ... 196

VI.9. Altre fonti di finanziamento ... 201

VI.10. Un confronto tra il previgente meccanismo e quello del CTS ... 203

VII. Soggetti preposti all’attività di coordinamento e di controllo sui Csv, poteri e funzioni. ... 206

VII.1. Controlli e coordinamento in materia di Csv: una introduzione .. 206

VII.2. Il controllo sui Csv ex l. 266/1991 ... 208

VII.3. L’Organismo nazionale di controllo (art. 64 CTS) ... 213

(5)

3

VII.5. Il coordinamento ... 223

VII.6. Csv-net ... 224

VII.7. Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ... 228

VII.8. Un giudizio ... 231

VIII. Conclusione ... 235

Sigle

ACRI Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio

CTS Codice del Terzo settore

Csv Centro/i di servizio per il volontariato

Csv-net Associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato

ETS Ente/i del Terzo settore

FOB Fondazione/i di origine bancaria

FUN Fondo unico nazionale

Ipab Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza

ODV Organizzazione/i di volontariato

ONC Organismo nazionale di controllo

Onlus Organizzazione/i non lucrativa/e di utilità sociale OTC Organismo/i territoriale/i di controllo

RUNTS Registro unico nazionale del Terzo settore

(6)

4

Introduzione

Il presente studio approfondisce la normativa sui Centri di servizio per il

volontariato (Csv), enti del Terzo settore di secondo grado aventi la funzione di

sostenere e qualificare il volontariato, organizzando, gestendo ed erogando servizi di supporto tecnico, formativo ed informativo sia a beneficio degli enti del Terzo settore associati che degli enti non associati, riserbando particolare riguardo alle organizzazioni di volontariato.

La materia era originariamente contenuta in una pluralità di atti normativi e di accordi intervenuti tra gli attori del sistema, ma è stata recentemente oggetto di modifica legislativa in conseguenza dell’entrata in vigore del d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117, il cosiddetto Codice del Terzo settore, che innova considerevolmente la governance dei Csv, nonché il relativo sistema di finanziamento e di controllo i quali, per la prima volta, sono regolati da fonte di rango primario anziché da decreto ministeriale.

I Csv sono istituiti dalla l. 11 agosto 1991, n. 266, atto normativo che si inserisce in un anfratto dell’ordinamento, il Terzo settore, che ottiene un riconoscimento giuridico, formale ed espresso, soltanto venticinque anni più tardi, con la legge delega 6 giugno 2016, n. 106. L’analisi della l. n. 106/2016 è contenuta infatti nel secondo capitolo di questa tesi, dedicato alle dinamiche intervenute nell’ambito della Riforma

del Terzo settore, e non già nel primo capitolo, in cui sono invece illustrate le alterne vicende della legislazione sul Terzo settore dall’Unità d’Italia ai primi anni del XXI secolo.

Al terzo capitolo si riflette sulla natura giuridica dei Centri di servizio per il

volontariato, tema oggetto della prima sentenza della Corte costituzionale sulla nuova

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5 Il capitolo successivo scompone ed analizza ciascun elemento della definizione codicistica di Centro di servizio per il volontariato e rintraccia i requisiti necessari per l’accesso all’accreditamento, oltre che le procedure introdotte a tal fine dall’Organismo nazionale di controllo.

L’esame dei fini perseguiti e delle attività che il Codice prevede che i Centri possano svolgere è contenuta nel quinto capitolo, incentrato su scopi, servizi offerti,

presenza e legami con il territorio dei Csv ed avente la peculiarità di presentare alcune

iniziative e progetti intrapresi dai Csv attualmente esistenti, superando un approccio, altrimenti, strettamente teorico-formalistico. Il capitolo esamina anche il nuovo istituto dell’autocontrollo, introdotto dal d.lgs. 117/2017.

Un elevato grado di tecnicismo connota l’esposizione della normativa in materia di finanziamento e di soggetti preposti all’attività di coordinamento e di controllo sui Csv, di cui ai capitoli 6 e 7. L’esame, difatti, non può prescindere dalla comparazione con la previgente disciplina.

Il settimo capitolo analizza il ruolo rivestito dall’associazione nazionale dei Csv, Csv-net, nel Codice del Terzo settore.

L'indagine sui Csv è stata condotta tramite l’analisi diretta delle fonti del diritto ed è stata approfondita anche grazie ai documenti e alle pubblicazioni elaborate dagli enti del Terzo settore e rese disponibili alla consultazione. L’esito è uno studio giuridico, poiché condotto secondo gli schemi, le categorie e gli strumenti propri del giurista, di un’esperienza inedita sul panorama europeo ed extra-europeo.

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nella circolare del 29 dicembre 2017 di accompagnamento al d.lgs. 117/2017, dichiarava che con il Codice

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6 s’intendeva «fornire una disciplina organica in materia, superando la frammentarietà della legislazione preesistente», pur nella consapevolezza che il processo di adeguamento al nuovo quadro normativo avrebbe assunto tratti di complessità. Questa tesi infatti presenterà l’assetto così come previsto dal Codice del Terzo settore e descriverà il cantiere nato per la relativa attuazione, segnalando quei profili di cui è ancora attesa l’attuazione ed incongruenze rispetto a quanto stabilito dal legislatore delegante nel 2016.

Il Terzo settore è stato a lungo un fenomeno prettamente sociale, privo di riconoscimento per l’ordinamento giuridico italiano, fin quando la crisi economica ha condotto ad una riscoperta delle potenzialità insite a quella che è stata chiamata economia sociale, economia solidale o economia associativa. Prima di essere materia giuridica, il Terzo settore è luogo di incontro tra persone che agiscono per la realizzazione del bene comune. L’indagine non prescinderà da quegli accordi tra attori sociali che hanno permesso in passato l’evoluzione dell’ecosistema dei Csv, consentendone l’adattamento alle mutevoli istanze della società. Non potrà che porsi in conclusione all’opera l’interrogativo sul volume di spazio di libertà e di autonomia che il Codice del Terzo settore residua a favore dei privati.

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7

I.

Le alterne vicende della legislazione sul Terzo

settore dall’Unità d’Italia ai primi anni del XXI

secolo

I.1. Sviluppo e regolazione del privato sociale nello Stato liberale

“Terzo settore” è un’espressione di recente conio1 introdotta nell’ordinamento

giuridico al fine di recepire al proprio interno le multiformi aggregazioni sociali emerse spontaneamente dalla collettività per dare risposta ai bisogni che dalla società stessa scaturiscono, nonché al fine di offrirne una regolamentazione organica, a più voci richiesta.

Il termine “terzo”, stricto sensu, offre di sé una qualificazione in senso negativo quale identificativo di un soggetto che non è né mercato né stato, che agisce mediante un’azione che non è né privata né pubblica e che non persegue uno scopo particolare o egoistico, ma al contempo non si propone come surrogato dello stato2

svolgendo in forma privata attività che rispondono ad un interesse generale.

Maneggiamo una nozione descrittiva e pregiuridica che, se volessimo saggiare in un intento di perimetrazione, assorbe il catalogo, tutt’altro che omogeneo, dei soggetti giuridici collettivi la cui attività è realizzata senza pressione eteronoma pubblica né è motivata da calcolo egoistico o utilitaristico, ma è teleologicamente orientata verso «finalità di solidarietà o finalità di utilità sociale»3; soggetti che sono

1 La definizione generale di “Terzo settore” sarà dettata per la prima volta nella legge delega 6 giugno 2016, n. 106 e nel d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117

2 E. ROSSI, S. ZAMAGNI, Introduzione, in E. ROSSI, S. ZAMAGNI (cur.), Il Terzo settore nell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 2011, p. 13

3 E. ROSSI, P. ADDIS, F. BIONDI DAL MONTE, E. STRADELLA, E. VIVALDI, Identità e rappresentanza del Terzo settore, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, p. 83

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8 «manifestazione spontanee emerse nel tessuto sociale, indipendentemente dalla forma giuridica con cui esse operano»4.

Il “Terzo settore” acquista rilevanza giuridica solo in tempi odierni, ma il substrato materiale cui si rivolge e che tenta di descrivere è il prodotto di una storia umana che parte da lontano. Nel XIX secolo sul territorio italiano è possibile osservare uno spirito associativo particolarmente vitale e vivace: Corpi, Fraternità, luoghi pii elemosinieri, Ospedali maggiori, Monti di Pietà, orfanotrofi, ospizi, Corporazioni di arti e mestieri, Confraternite di beneficienza, conosciute in Toscana come Misericordie, ed altri variegati enti privati formano una rete autonoma costituente forma primaria di risposta alle necessità delle comunità locali grazie alle risorse assicurate da un sistema ininterrotto e continuo di lasciti testamentari e donazioni5.

«È questo il secolo delle associazioni, e chi saprebbe negarlo?» si legge negli

Annali universali di statistica del 1837, affermazione cui segue una minuziosa

elencazione di tipologie di enti che compongono quella che viene definita “la

macchina sociale”6 che, animata e mantenuta in movimento dallo spirito di

associazione, «dirige al bene e fa sì che possiamo tutto aspettarci dal di lei benefico impulso»7.

4 E. ROSSI, P. ADDIS, F. BIONDI DAL MONTE, E. STRADELLA, E. VIVALDI, Identità e rappresentanza del Terzo settore, cit., p. 83

5 E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, p. 83

6 F. LAMPATO (cur.), Annali universali di statistica, economia pubblica, geografia, storia, viaggi e commercio, vol. 51, I serie, Milano 1837, presso la Società degli editori degli Annali universali delle scienze e dell’industria, galleria Decristoforis, pp. 171-172

7 F. LAMPATO (cur.), Annali universali di statistica, economia pubblica, geografia, storia, viaggi e commercio, cit., pp. 171-172

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9 Con l’avvento dell’Età napoleonica, il dibattito pubblico pone al centro della riflessione due delle contemporanee e principali piaghe sociali, povertà ed emarginazione, e sostiene quella spinta, proveniente dall’ordinamento francese, all’assorbimento nella sfera pubblicistica dell’assistenza privata. Gli spunti del movimento riformista sono positivizzati con la legge piemontese del 20 novembre del 1859, nota anche come Legge Rattazzi8, dal nome del ministro proponente. Si

tratta di un testo normativo preunitario concernente le cosiddette Opere Pie, istituzioni caritatevoli operanti sul territorio piemontese e lombardo. La legge prevede un sistema di controllo pubblico affidato al Ministro degli Interni, il quale avrebbe esercitato i propri poteri nei confronti delle Opere che avessero ricevuto finanziamenti statali. L’autorità governativa era inoltre preposta alla approvazione di statuti e di regolamenti9. Si introducono dunque strumenti di supervisione incidenti,

seppur flebilmente e con precisi confini soggettivi, sull’autonomia di enti privati.

Nella legislazione inaugurata all’indomani dell’unità d’Italia le variegate formazioni sociali sviluppatesi negli stati italiani preunitari confluiranno nella denominazione di «Opere Pie» ovvero «Istituzioni di carità». In particolare la legge 3 agosto 1862, n. 753 sull’amministrazione delle Opere pie ha una sfera di operatività delimitata ex art. 1 agli «istituti di carità e di beneficienza, e qualsiasi ente morale avente in tutto od in parte per fine il soccorrere alle classi meno agiate, tanto in istato di sanità che di malattia, di prestare loro assistenza, educarle, istruirle od avviarle a qualche professione, arte o mestiere».

8 Come evidenziato da E. Bressan nel saggio citato, la legge Rattazzi del 1859 si ispira alla legislazione inaugurata da Vittorio Amedeo II nel 1716-1717.

9 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, in E. ROSSI, S. ZAMAGNI (cur.), Il Terzo settore nell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 2011, p. 143

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10 La legge del 1862 persegue un obiettivo di uniformità, pur adottando un atteggiamento di sostanziale deferenza quanto alla salvaguardia dell’autonomia statutaria. Ne traiamo conferma dalla disposizione contenuta all’art. 4, che prevede che «l’amministrazione delle Opere pie è affidata ai corpi morali, consigli, direzioni collegiali o singolari, istituiti dalle rispettive tavole di fondazione o dagli speciali regolamenti in vigore o da antiche loro consuetudini. Quando venga a mancare l’amministrazione di un’Opera pia, e non dispongano sufficientemente in proposito gli statuti o regolamenti speciali, sarà provveduto con Decreto reale, sentita la Deputazione provinciale». Si aggiunge la previsione di obblighi di inventario e di tenuta del bilancio contabile, preventivo e consuntivo, ancorché i controlli fossero meno intensi di quelli imposti dalla Legge Rattazzi. Ogni Opera pia era sottoposta al controllo di una deputazione provinciale, cui si aggiungevano altre forme di interferenza governativa in caso di trasformazione, mutamento del fine e costituzione di nuovi enti. Si stabilì anche l’istituzione presso ciascun comune del Regno di una Congregazione di carità, il cui scopo era la amministrazione di «tutti i beni destinati genericamente a pro’ dei poveri in forza di legge, o, quando nell’atto di fondazione non venga determinata l’Amministrazione, Opera pia o pubblico stabilimento in cui favore sia disposto»10. Le Congregazioni di carità erano costituite

da concentramenti, imposti ex lege, di Opere pie elemosiniere ed avevano il compito di amministrarne i relativi patrimoni in una prospettiva di maggiore utilità sociale.

La Gran legge sulle Opere pie del 1862 attua il cosiddetto centralismo debole, con la predisposizione di «un sistema pubblico fondato sulle iniziative e sui capitali dei privati»11 che dà luogo ad un Terzo settore «da una parte istituzionalizzato ma

10 Art. 29 l. n. 753/1862

11 E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, cit., p. 35

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11 dall’altra chiamato a far da sé»12. La legge accorda tutela all’autonomia delle

organizzazioni caritative, ma gli esiti conseguiti furono tutt’altro che pienamente soddisfacenti. A tal proposito, al termine dei lavori di una Commissione reale di inchiesta appositamente istituita e presieduta da Cesare Correnti, Pasquale Villari evidenziò che «la legge del 1862 s’era proposta due scopi: unificare la legislazione italiana sulle Opere pie e di beneficienza, […] emanciparle dalla ingerenza governativa, affidandole a loro stesse, fidando nella libertà»13, ma la «libertà delle

amministrazioni»14 fu all’origine di disordini gestionali cui non riusciva a porre rimedio

il sistema di controlli, che fu successivamente riconosciuto come inadeguato. Inoltre la legge del 1862 si innestava in un ordinamento profondamente segnato dalla diversità di componenti e situazioni che connotavano il Regno d’Italia ed era mancata la predisposizione di opportune cautele per arginare le difficoltà da ciò derivanti. La Commissione rilevò ingenti sperequazioni territoriali ed enti dotati di patrimoni superiori al più del doppio delle entrate statali. Esponenti della classe dirigente meridionale avallarono fin dagli anni Settanta proposte a riforma, avanzate a fronte di fenomeni di collusione fra amministratori delle opere e amministratori locali. Francesco Nitti scriveva che «le Opere pie della compagna, lontane dai grandi centri, prive di ogni tutela, erano palestre di lotte locali e servivano assai spesso a scopi personali e di partito»15.

La legge Crispi del 17 luglio 1890, n. 6972 interviene sul quadro giuridico esistente imponendo una riconduzione degli enti esistenti ed operanti nel Terzo

12 E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, cit., p. 35

13 P. VILLARI, La riforma della beneficienza, in P. VILLARI, Scritti sulla questione sociale in Italia, Firenze 1902, p. 363

14 E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, cit., p. 39

15 F. S. NITTI, L’assistenza pubblica in Italia. L’assistenza della Chiesa e l’assistenza dello Stato, Tip. Editore Cav. Vecchi, Trani 1892, p. 138

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12 settore nell’ambito diritto pubblico. L'art. 1 definisce infatti le Opere pie «Istituzioni pubbliche di beneficienza», vietando correlativamente il mantenimento della natura privata o ecclesiastica, salvo che per i comitati di soccorso, le fondazioni private in favore di una o più famiglie, le società e associazioni regolate nel Codice civile e nel Codice di commercio. La legge Crispi coarta gli enti all’assunzione di una specifica veste giuridica, con trasformazione in enti pubblici, e si compone di disposizioni puntuali inerenti all’assetto organizzativo e amministrativo delle Opere pie, sulla gestione patrimoniale e contabile, su tutela e relativa vigilanza ad opera di soggetti pubblici16, sia periferici che centrali. Si prevede infine che la Giunta provinciale

amministrativa17 sia titolare del potere di controllo pubblico sulle Istituzioni. La

pubblicizzazione coattiva imposta dalla legge Crispi è frutto della tradizionale diffidenza dello Stato liberale nei confronti dei corpi intermedi, cui si accompagna il proposito ulteriore di sottrazione degli enti privati dalla influenza della Chiesa cattolica. Inoltre le Istituzioni pubbliche di beneficienza erano tenute ad investire in titoli del debito pubblico dello stato o in altri titolo emessi o garantiti dallo Stato18,

con incanalamento di capitali privati in forme di sostegno alla di finanza pubblica del Regno.

La legge fu oggetto di critiche. Scontri e polemiche riguardarono soprattutto il Titolo VI ove si disponeva la trasformazione (art. 70) delle Opere pie laddove fosse venuto «a mancare il fine o il cui fine non fosse più rispondente alle finalità del momento e all’interesse della pubblica beneficienza». La trasformazione poteva

16 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., pp. 146-147

17 P. CONSORTI, L. GORI, E. ROSSI, Diritto del Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2018, p. 17

18 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., p. 158

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13 essere promossa dall’amministrazione, dalla Congregazione di carità, dai Consigli comunali e provinciali interessati e, in caso di inadempienza, dalla Prefettura.

Il giudizio espresso da Bressan sul sistema così tratteggiato ne riduce il portato a mera «azione di vigilanza e di controllo limitata agli aspetti formali e patrimoniali, a garanzia delle stesse istituzioni, senza entrare nel merito della gestione della beneficienza stessa, di coordinamento generale e ancor meno di un raccordo con le iniziative promosse dalla società»19. Egli aderisce a quanto sostenuto da De Siervo,

secondo cui «malgrado la formale pubblicizzazione degli enti, il fatto di riconoscere una permanente decisiva importanza alla volontà dei fondatori in tutta la vita di queste istituzioni, denota come di vera e propria pubblicizzazione non possa certo parlarsi»20.

Il principio ispiratore della legge Crispi, espressamente individuato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 173 del 1981, è rappresentato dal rispetto della volontà dei fondatori cui consegue l’introduzione di controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività svolta in situazioni di autonomia. La Corte riconosce nel 1981, nella citata sentenza, come la maggiore preoccupazione della legge Crispi sia stata l’unificazione «sul piano delle figure soggettive (al fine di sottoporle al controllo dell'autorità civile) [de]i vari tipi di Opere Pie formatesi nel corso di una vicenda di durata ultrasecolare», senza spazi riservati alla riflessione sulla pluralità di forme e diversità di modi con cui l’attività assistenziale viene prestata21.

19 E. BRESSAN, Percorsi del Terzo settore e dell’impegno sociale dall’Unità alla Prima Guerra Mondiale, cit., p. 52

20 U. DE SIERVO, Quale nuova legislazione per le Ipab?, in AA.VV., L’autonomia delle Ipab: storia, problemi, prospettive, Maggioli, Rimini 1996, pp. 72-93

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14 Nella successiva sentenza n. 369 del 1988 la Corte costituzionale evoca la sentenza del 1981 rilevando come «già in tale occasione la Corte aveva avuto modo di rilevare che la legge del 1890 n.6972, avendo disciplinato una serie di istituzioni aventi uno “spessore storico” del tutto peculiare, era ispirata a due principi fondamentali, quali il rispetto della volontà dei fondatori e i controlli giustificati dal fine pubblico dell'attività svolta in situazione di autonomia. Questa posizione ambivalente di dette istituzioni è stata ancora più di recente messa in evidenza nella sentenza n. 195 del 1987, in cui si è rilevato come il loro regime giuridico sia caratterizzato dall'intrecciarsi di una disciplina pubblicistica in funzione di controllo, con una notevole permanenza di elementi privatistici, il che conferisce ad esse una impronta assai peculiare rispetto agli altri enti pubblici.

La legge Crispi consente l’ingerenza della mano pubblica nell’apparato di risposta ai bisogni della popolazione, ma la sua attuazione pratica fu condotta con scarsa solerzia e fu resa ardua dalla rigidità dell’apparato amministrativo, oltre che essere contrastata dall’ostruzionismo proveniente dagli enti già esistenti e dalla Chiesa cattolica.

La straordinaria longevità della legge Crispi, rimasta formalmente in vigore per tutta l’età fascista e per più di cinquant’anni nell’ordinamento repubblicano fino alla dichiarazione di parziale incostituzionalità prima22 e abrogazione espressa poi23, è

stata spiegata in termini di «difficoltà politica di riscrivere una normativa che

22 La Corte costituzionale, con sent. 24 marzo 1988 n. 396, disponibile su www.cortecostituzionale.it, dichiara la parziale incostituzionalità dell’art. 1 della legge Crispi nella parte in cui non prevede che le IPAB regionali e infraregionali possano continuare a sussistere assumendo la personalità giuridica di diritto privato, qualora abbiano tuttora i requisiti di un'istituzione privata.

23 La legge 8 novembre 2000, n. 328 abroga la restante disciplina sulle IPAB ancora in vigore stabilendo all’art. 30, comma 2 che «alla data di entrata in vigore del decreto legislativo di cui all'articolo 10 è abrogata la disciplina relativa alle IPAB prevista dalla legge 17 luglio 1890, n. 6972».

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15 regolasse la forma giuridica delle Ipab armonizzandola con i principi di pluralismo e garanzia della libertà di assistenza privata previsti dalla costituzione repubblicana»24.

I.2. La fascistizzazione della società civile

La nascita dell’ordinamento corporativo inaugura una stagione di contrasto ai corpi intermedi spontaneamente sorti, come testimonia la breve storia del Consiglio superiore di assistenza e beneficienza, istituito dalla legge del 18 giugno 1904 n. 390 e soppresso con regio decreto n. 2841 del 1923. Fu questo destino comune di numerose aggregazioni della società civile che, quando non sciolte, furono incorporate nei gangli dell’ordinamento. Zanobini scriveva infatti che «il principio fascista, mentre riconosce, da un lato, il valore sociale e pubblico dei fini perseguiti dalle secondarie organizzazioni, afferma dall’altro la necessità politica di conservare tali organizzazioni come parti ineliminabili della complessa struttura della società: realizza, tuttavia, l’unità di questa nello Stato, attraverso l’assunzione delle minori associazioni nella sua stessa organizzazione»25.

L’attività legislativa fascista in materia di Istituzioni pubbliche di beneficienza è inaugurata dal Regio decreto n. 2841 del 1923. L’atto elide le innovazioni alla legge Crispi apportate durante il periodo giolittiano, con soppressione delle commissioni provinciali di assistenza e beneficienza e del consiglio superiore di assistenza e beneficienza; si rafforza il ruolo delle Congregazioni di Carità disponendo raggruppamenti obbligatori tra Opere pie con affinità di scopi, perseguiti su iniziativa prefettizia d’ufficio. La figura del prefetto beneficiò di una accentuazione dei poteri ispettivi e di controllo, con attribuzione del potere di coordinamento tra le forme di

24 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., p. 161

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16 assistenza e beneficienza situate nel territorio del comune e di vigilanza sulle Congregazioni di carità. Fu inoltre riconosciuto al prefetto il potere di ordinare inchieste sugli uffici e sugli atti amministrativi delle Istituzioni nonché di promuoverne la fondazione di nuove.

Con i decreti del 26 aprile 1923, n. 970 e 30 dicembre 1923, n. 3048 la denominazione delle Istituzioni si arricchisce del termine «assistenza», veicolandosi il retropensiero che queste potessero assurgere al ruolo di antidoto contro l’insorgenza della povertà. Si accorda al Ministro dell’Interno la facoltà di dichiarare sciolte quelle amministrazioni, sia di Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza – d’ora in avanti semplicemente Ipab - che di Congregazioni di carità, esistenti in uno stesso circondario comunale e di affidarne la gestione a speciali commissioni preposte alla riformulazione degli statuti. I prefetti avrebbero potuto altresì proporre d’ufficio la trasformazione delle Opere pie di culto qualora non rispondenti alle esigenze della popolazione.

La legge Crispi viene rafforzata nei propri contenuti, con strumenti di controllo maggiormente pervasivi ed una più efficace politica di pubblicizzazione coattiva di quelle istituzioni che erano riuscite a sottrarsi dall’applicazione della legge del 1890.

Limitandosi alla disamina dei provvedimenti che direttamente incisero sul regime delle Opere pie e rinviandosi a dopo per l’analisi delle disposizioni contenute nel Codice civile del 1942, è con interesse che possiamo osservare il modificarsi dell'impianto legislativo fascista nella regolazione dei rapporti con la Chiesa cattolica e con gli enti che vi accedono.

L'attenuarsi della politica anti-clericale fascista emerge dapprima nel 1926, con la cosiddetta legge Federzoni (n. 1187): l’obbligatorietà di raggruppamento e di

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17 concentramento delle Ipab fu sostituita dalla facoltatività, si riconobbe l’eleggibilità degli ecclesiastici nelle Congregazioni di Carità (esclusa in base alla formulazione del 1890 della legge Crispi) e si impose al prefetto di procedere d’intesa con le autorità ecclesiastiche competenti quanto alla riforma delle Opere pie di culto.

Alla legge Federzoni segue l’approvazione della legge 27 maggio 1929, n. 810 che rende esecutivi gli accordi raggiunti tra Stato e Chiesa Cattolica, i Patti Lateranensi. Nel Concordato lo Stato riconosce l’autonomia per gli enti assistenziali che avessero esclusiva o prevalente finalità di religione o di culto, con competenza dell’autorità ecclesiastica quanto ad amministrazione e funzionamento. È stato riconosciuto26 che grazie a tale accordo si «lasciava la possibilità [alla Chiesa] di

continuare ad occuparsi delle più tradizionali attività di assistenza agli anziani, agli inabili, agli indigenti». Nel testo sono presenti anche disposizioni in favore dell’associazionismo di stampo cattolico, ma esse non riuscirono a superare i sospetti dello Stato totalitario fascista sui corpi intermedi e ben presto le tensioni sfociarono in una aperta crisi27.

Emanato nel 4 ottobre del 1948 e divenuto nel 17 marzo del 1861 Carta fondamentale dell’Italia unita, lo Statuto albertino non offriva tutela diretta alla libertà di associazione, una tutela conseguita in base ad una lettura estensiva, sostenuta dalla dottrina, del primo comma dell’art. 3228 o sulla base di interpretazioni

sistematiche alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Numerose erano purtuttavia criticità, tra cui la caratterizzazione dello Statuto albertino in

26 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., p. 170

27 Il riferimento è alla crisi del 1931 che comportò la chiusura di tutti i circoli dell’Azione cattolica e lo scioglimento di tutte le associazioni giovanili non dipendenti direttamente dal Partito nazionale fascista e dall’Opera nazionale Balilla

28 Art. 32, primo comma: «E’ riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi, uniformandosi alle leggi che possono regolarne l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica».

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18 termini di carta otoiatra e flessibile. Peraltro al secondo comma dell’art. 32 dello Statuto si attribuiva prevalenza applicativa alle leggi di polizia laddove un’adunanza avvenisse in luogo pubblico o aperto al pubblico.

La «pervasività del pubblico su ogni forma di autonomia privata»29 d’età fascista

conduce all’approvazione del nuovo codice penale Rocco (Regio Decreto del 19 ottobre 1930, n. 1398) e di due testi unici in materia di pubblica sicurezza (1929 e 1931), contenenti previsioni repressive della libertà di associazione. L'art. 210 del Testo unico sulle leggi di pubblica sicurezza riconosceva ai prefetti la facoltà di disporre lo scioglimento di associazioni, enti o istituti che agissero «contro gli ordinamenti politici dello stato» e di disporne altresì la confisca del patrimonio sociale.

Nel perseguimento della «fascistizzazione forzata della vita collettiva italiana», come affermato da Trentin30, fiorì, per volere del regime fascista, la nascita di enti,

opere nazionali ed organizzazioni al cui interno inquadrare la popolazione e si consolidarono forme di previdenza nazionali che si sostituirono al mutualismo associativo. Le società operaie furono esautorate31. Si procedette alla costituzione di

enti nazionali il cui scopo era organizzare la risposta ai bisogni primari promananti dalla popolazione, ma dalla relativa gestione si esclusero i corpi intermedi e le amministrazioni locali realizzando «una sorta di monopolio della cura dei diritti delle persone, con la conseguenza che là dove lo Stato non arriva la persona rimane priva di qualsiasi forma di tutela»32.

29 P. CONSORTI, L. GORI, E. ROSSI, Diritto del Terzo settore, cit., p. 21

30 S. TRENTIN, Dieci anni di fascismo totalitario in Italia. Dall'’istituzione del Tribunale speciale alla proclamazione dell’Impero (1926-1936), Editori riuniti, Roma 1975, pp. 45-47

31 C. DE MARIA, L’evoluzione del Terzo settore dal Novecento ad oggi (1915-2011), in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 91-92

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19 L’art. 2 del Regio decreto legge del 12 febbraio del 1930, n. 84, consentì infine lo scioglimento dell’associazioni non riconosciute operanti nel settore assistenza su proposta del ministro dell’Interno con decreto reale e conseguente trasferimento delle attività patrimoniali alla Croce Rossa.

Il complesso dei provvedimenti normativi adottati durante il regime fascista rese il potere pubblico « l’unica vera forma di organizzazione della comunità»33 e

permise di consolidare «un apparato ideologico, politico e amministrativo che, pur oscillando tra gli estremi del liberismo individualista e del nazionalismo statalista, ha riconosciuto nelle istituzioni l’unico o principale erogatore dei servizi sociali»34. Lo

stato fascista, non in discontinuità rispetto al passato, porta a compimento ed offre il supporto teorico «a quanto lo stato liberale aveva già messo in opera»35.

I.3. La Costituzione, il Welfare State ed il Terzo Settore

Il dettato della costituzione repubblicana, come si può evincere dalla relazione esposta da Aldo Moro in sede di Assemblea costituente, introduce un inedito paradigma che avrebbe dovuto conformare i rapporti tra individuo, società ed istituzioni. Nella seduta tenutasi il 24 marzo del 1947, Aldo Moro, esponente della Democrazia Cristiana, presenta un emendamento all'art. 2 della Costituzione, stimolato dagli onorevoli Lucifero e Bassa ai fini di una «migliore specificazione ed individuazione di queste formazioni sociali»36 cui erano «riconosciuti i diritti

essenziali di libertà» e «da un altro punto di vista, il parlare in questo caso di diritti dell’uomo, sia come singolo, e sia nelle formazioni sociale, mette in chiaro che la

33 C. DE MARIA, L’evoluzione del Terzo settore dal Novecento a oggi (1915-2011), cit., pp. 91-92 34 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, p. 155

35 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, cit., p. 155

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20 tutela accordata a queste formazioni è niente altro che un ulteriore esplicazione, uno svolgimento dei diritti di autonomia, di dignità e di libertà che sono stati riconosciuti e garantiti in questo articolo costituzionale all’uomo come tale […] poiché lo Stato assicura veramente la sua democraticità, ponendo a base del suo ordinamento il rispetto dell’uomo guardato nella molteplicità delle sue espressioni, l’uomo che non è soltanto singolo, che non è soltanto individuo, ma che è società nelle sue varie forme, società che non si esaurisce nello stato. La libertà dell’uomo è pienamente garantita, se l’uomo è libero di formare degli aggregati sociali e di svilupparsi in essi. Lo stato veramente democratico riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell’uomo isolato, che sarebbe in realtà una astrazione, ma i diritti dell’uomo associato secondo una libera vocazione sociale».

Il trait d’union costituzionale tra individuo-società-stato non sarà sviluppato dal legislatore che in tempi più recenti, coincidenti con la crisi del modello di welfare state universalistico. A partire dagli anni Sessanta, evidenzia Gian Paolo Barbetta, la tesi dominante è quella secondo cui «solo un sistema di welfare universalistico e a prevalente presenza pubblica potesse garantire lo sviluppo e la diffusione uniforme di servizi indispensabili alla crescita sociale ed economica della società»37. Se i paletti

rigidi della Costituzione non consentivano una esclusione degli enti privati dalla tutela dei diritti sociali, la posizione ad essi riservata non era di primo piano.

Nel corso degli anni Cinquanta manifestazioni del perdurante vigore dell’impegno sociale possono essere riscontrate nel campo della promozione del pacifismo, della nonviolenza, della pedagogia e dell’educazione comunitaria, nell’ambito dell’assistenza e del lavoro sociale, del meridionalismo, del lavoro di

37 G. P. BARBETTA, Il settore non profit italiano: solidarietà, democrazia e crescita economica negli ultimi vent’anni, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, p. 209

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21 comunità e dell’impresa responsabile38. Possiamo menzionare in tal senso i Centri di

orientamento sociale, il Centro di orientamento religioso, il Cepas (prima scuola italiana per assistenti sociali), l’esperienza siciliana degli scioperi a rovescio, le Sepeg (Semaines internationales d‘études pur l‘enfance victime de la guerre) promossi dal Dono Svizzero, la nascita del Movimento di cooperazione educativa per promuovere l’alfabetizzazione culturale e sociale basata sulla cooperazione. Il Cepas fornì, tramite centri sociali, servizi concreti e strutture di aggregazione, incontro, educazione popolare. Nel 1947 è istituita la comunità di Nomadelfia, che ospitò migliaia di bambini orfani.

A partire dagli anni Settanta il fiume dell’associazionismo accolse in sé coloro che, militati nella politica, se ne stavano distaccando a seguito dei primi segnali della crisi dei partiti di massa tradizionali ed il «1980 può essere preso come crinale simbolico della crisi di una certa militanza politica e sindacale (potremmo dire novecentesca) e della crescita di nuove forme di agire collettivo»39. È stato stimato

che tra il 1970 ed il 1980 si costituirono quasi ventiduemila associazioni e nel decennio successivo quarantaseimila, tra cui quindicimila gruppi di volontariato, lavoro sociale di base e comitati40. D’altro canto un progetto della Johns Hopkins

University del 1994, diretto da L. Salamon e H. Anheier, dimostra come il settore del non profit italiano nel 1990 avesse dimensioni piuttosto modeste se comparato ad altri paesi industrializzati coinvolgendo non più del 1,8% dell’occupazione complessiva contro una media del 3,4% ed il 2% della spesa in rapporto al PIL contro una media del 3,5%.

38 C. DE MARIA, L’evoluzione del Terzo settore dal Novecento a oggi (1915-2011), cit., p. 102 39 C. DE MARIA, L’evoluzione del Terzo settore dal Novecento a oggi (1915-2011), cit., p. 115 40 G. MARCON, Le utopie del ben fare. Percorsi della solidarietà: dal mutualismo al Terzo settore, ai movimenti, L’ancora del Mediterraneo, Napoli 2004, p. 165

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22 La crisi fiscale ed il crollo del sistema politico della Prima Repubblica porta alla scoperta del non profit in Italia. Lo Stato italiano aveva tentato, nei decenni precedenti, di farsi carico dei bisogni dei cittadini con un incremento delle proprie strutture istituzionali, sostenuto in ciò da una «pretesa superiorità morale del pubblico»41 da contrapporsi «all’operatore privato […] come soggetto rivolto

essenzialmente al proprio tornaconto e incapace di perseguire degli interessi pubblici»42.

L'ostilità ideologica nei confronti delle iniziative private cessa quando dalla società civile iniziano ad organizzarsi forme spontanee ed autonome di risposta alle esigenze sociali cui il welfare state a forte matrice pubblicistica non riesce più a presentare soluzioni efficaci. Il «modello di protezione sociale»43 sarà oggetto di una

metamorfosi riconducibile, nei suoi primi stadi, alla riforma regionale.

Nel 1975 viene nominata una commissione di esperti, presieduta da Massimo Severo, che aveva l’incarico di articolare le norme attuative della riforma regionale prevista a livello costituzionale. I decreti delegati del 1972 e del 1977 – le cosiddette

“prima e seconda ondate di trasferimenti” –pongono le radici della riforma

dell’ordinamento che condurrà allo scardinamento della struttura centralizzata dello Stato e alla attuazione di forme di decentramento amministrativo. Congiuntamente al «federalizing process»44 si assiste alla valorizzazione «del privato sociale nello

svolgimento di servizi pubblici»45. Negli spazi di governo regionali accordati, si

41 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, cit., p. 164

42 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, cit., p. 164

43 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, cit., p. 166

44 A. PIN, La sussidiarietà in azione. Le buone pratiche e i nuovi orizzonti, in S. ZAMAGNI (cur.), Libro bianco sul Terzo settore, Il Mulino, Bologna 2011, p. 181

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23 innesta quella che è stata definita dalla dottrina come “la prima stagione di leggi speciali degli anni Novanta”, di cui sono antesignane le leggi regionali di riordino del sistema assistenziale. La giurisprudenza costituzionale degli anni Settanta aveva infatti fornito delle indicazioni indispensabili in merito all’attività legislativa regionale nelle materie rimesse, ai sensi dell’art. 117 Cost., alla potestà legislativa concorrente Stato-Regioni: il preventivo intervento statale era non «affatto necessario»46, potendo

le Regioni rintracciare i principi fondamentali delle materie nella normativa vigente. La Corte propone di tal fatta temporaneo rimedio alla perdurante lacuna, imputabile all’inerzia del legislatore statale, di leggi quadro.

In attesa dell’esercizio della potestà legislativa statale e posto che la competenza a dettare una legge cornice in materia di diritto all’assistenza sociale per gli inabili al lavoro e gli sprovvisti dei mezzi necessari è accordata dall’art. 38, primo comma della Costituzione, allo Stato, notiamo come le disposizioni introdotte dalle regioni connettano il riconoscimento del ruolo assunto dalle Organizzazioni di volontariato con la funzione meritoria perseguita: all’art. 1 della legge della Regione Veneto 15 dicembre 1982, n. 55 si enuncia che «la Regione riconosce le funzioni di utilità sociale del volontariato e ne promuove l’apporto per il coordinato utilizzato» mentre la legge giugno 1988, n. 21 della Regione Liguria riporta che «la regione riconosce e valorizza la funzione di utilità sociale del volontariato come espressione di effettiva partecipazione, di solidarietà e di pluralismo sociale, e ne favorisce e promuove l’apporto e la coordinata utilizzazione».

Procedendo per sommi capi, la legislazione sul Terzo settore degli anni Novanta si compone di leggi di definizione e disciplina di peculiari tipi organizzativi,

46 E. MALFATTI, Le Regioni e gli enti locali, in R. ROMBOLI (cur.) Manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo. Vol. 1, Giappichelli, Torino 2015, p. 498

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24 leggi che concedono sgravi fiscali o di regolazione della redistribuzione del prelievo fiscale e di leggi recanti principi generali in materia tributaria. La stratificazione normativa, di difficile lettura e che rimette allo sforzo interpretativo dell’operatore del diritto la riconduzione a sistema, poggiava su di un minimo comun denominatore, l’assenza di finalità di lucro ed il perseguimento del fine di solidarietà. In una prima fase sarà tesa alla ricerca di nuovi modelli su cui improntare la collaborazione tra soggetti collettivi e pubblica amministrazione e la primigenia concretizzazione di tale obiettivo interesserà le organizzazioni di volontariato (Odv).

I.4. La composita legislazione speciale sul Terzo settore degli anni

Novanta

La legge quadro sul volontariato (legge 11 agosto 1991, n. 266) svolge funzione di tassello nella costruzione del welfare mix, un apparato deputato al soddisfacimento dei diritti sociali della persona ispirato al principio del pluralismo sociale che lascia dietro di sé, quale appannaggio del passato, la tendenza consolidata che prescriveva l’astensione del legislatore dalla normazione di modelli organizzativi di enti privati e che, condotta fino ai suoi esiti più estremi, finiva per accordare spazi di immunità a vantaggio degli enti collettivi di maggior rilievo, specificamente in favore di partiti politici e sindacati. Con la legge quadro sul volontariato invece si sancisce che «il pericolo di un’invadenza statale nell’autonomia privata è […] meno importante rispetto all’esigenza di realizzare una legislazione di tipo premiale e promozionale per quelle organizzazioni che, senza scopo di lucro e per fini di solidarietà, si prendono cura dell’interesse altrui»47. La legge quadro prevede la costituzione dei

Centri di servizio per il volontariato e contestualmente, dispone anche l’istituzione dell’Osservatorio nazionale del volontariato. Nello stesso anno nasce la Conferenza

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25 permanente dei presidenti delle associazioni e federazioni nazionali del volontariato (Convol).

L’impugnazione48 della legge quadro, avanzata dalle province autonome di

Trento e Bolzano, offre alla Corte costituzionale l’opportunità di affermare il valore del volontariato alla luce dei principi costituzionali49. Le ricorrenti avevano sollevato

questione di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 1, secondo comma, 3, 6, 7, 10, 12, primo comma, lettere d), e) e g), e 15 della legge 11 agosto 1991, n. 266 (Legge-quadro sul volontariato) per violazione delle attribuzioni assegnate alla competenza esclusiva delle Province di Trento e Bolzano, «non essendo queste ultime soggette ai "principi fondamentali" ex art. 117 della Costituzione e non contenendo quelle disposizioni alcuna norma fondamentale di riforma economico-sociale»50. La Provincia di Trento sostenne che, nonostante la legge si

autoqualificasse come legge-quadro, il volontariato non costituisse, in effetti, una "materia" oggetto di disciplina legislativa, della quale si potesse affermare la competenza statale ovvero quella regionale o provinciale, ma fosse, piuttosto, «un fenomeno che si presenta (ed è suscettibile di disciplina) nell'ambito di una pluralità di materie e che costituisce un "aspetto" delle materie di spettanza provinciale nella misura in cui si riferisce ad oggetti attribuiti alle competenze delle province autonome. Riguardo a tali ultimi "aspetti" la legge impugnata, per non essere incostituzionale, deve restare nei limiti propri dei poteri dello Stato quando questi incidono in materie di competenza delle regioni o delle province autonome»51.

48 decisa con sentenza n. 75 del 1992, consultabile su www.cortecostituzionale.it

49 E. ROSSI, Principio di solidarietà e legge quadro sul volontariato, in Giur. cost., 2, 1992, 2348 ss., p. 2348

50 Così nel Ritenuto in fatto della sentenza n. 75 del 1992, consultabile su www.cortecostituzionale.it 51 Ritenuto in fatto della sentenza n. 75 del 1992, consultabile su www.cortecostituzionale.it

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26 La Corte costituzionale, nella sentenza n. 75 del 1992, accoglie la tesi sostenuta dalla Provincia di Trento e, anzi, espressamente riconosce quale premessa interpretativa erronea della censura sollevata dalla Provincia di Bolzano l’aver ritenuto «che il volontariato costituisca una materia, seppure formata dalla confluenza di segmenti o di profili riconducibili a più settori di attività» poiché esso rappresenta «un modo di essere della persona nell'ambito dei rapporti sociali o, detto altrimenti, un paradigma dell'azione sociale riferibile a singoli individui o ad associazioni di più individui» che rifugge rigide classificazioni di competenza «nel senso che può trovare spazio e si può realizzare all'interno di qualsiasi campo materiale della vita comunitaria, tanto se riservato ai poteri di regolazione e di disposizione dello Stato, quanto se assegnato alle attribuzioni delle regioni o delle province autonome (o degli enti locali)».

Il volontariato «rappresenta l’espressione più immediata della primigenia vocazionale sociale dell’uomo», «la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale, per il quale la persona è chiamata ad agire non per calcolo utilitaristico o per imposizione di un’autorità, ma per libera e spontanea espressione della profonda socialità che caratterizza la persona stessa».

La Corte riconosce altresì che la legge n. 266 del 1991 include disposizioni che «attengono strettamente a valori costituzionali supremi e, soprattutto, che contengono criteri direttivi così generali da abbracciare svariati e molteplici campi di attività materiali» e che quindi, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale consolidata, sono qualificabili come principi generali dell’ordinamento giuridico. Come corollario ne deriva l’idoneità della legge quadro di vincolare la competenza legislativa regionale. La Corte dunque riconosce che il legislatore possa predisporre una regolamentazione uniforme della materia su tutto il territorio nazionale «al fine

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27 specifico di garantire l'essenziale e irrinunciabile autonomia che deve caratterizzare le stesse organizzazioni di volontariato e le loro attività istituzionali».

Di poco successiva, la legge 8 dicembre 1991, n. 381, recante Disciplina delle

cooperative sociali, attribuisce rilevanza ad un fenomeno, radicatosi nella società civile,

di cooperazione finalizzata all’inserimento lavorativo di persone in difficoltà e di gestione di servizi socio-educativi. Il pregio della legge è il superamento della qualificazione commercialistica ex art. 2511 c.c. delle cooperative quali «società a capitale variabile con scopo mutualistico». Se l’impresa mutualistica mira alla realizzazione di un vantaggio patrimoniale dei soci, come possiamo evincere dalla Relazione al codice civile ove si statuisce che lo scopo prevalente consiste in “offrire beni, o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero sul mercato”52, nella normativa

sulle cooperative sociali si offre un modello cosiddetto mutualistico allargato, «capace di proiettare la propria azione meritoria anche al di fuori della propria struttura sociale»53 e che al contempo consiste in un esercizio abituale e non occasionale di

una data attività. Il requisito della professionalità54, elemento costitutivo ai fini della

nozione civilistica di imprenditore, ricorre quindi in un modello organizzativo impiegato per il perseguimento di un fine solidaristico, non lucrativo.

La società cooperativa costituisce un genus al cui interno è possibile discernere tra società cooperative a mutualità prevalente ed altre società cooperative. Le prime sono identificate in base al possesso di requisiti sostanziali di cui all’art. 2512 c.c.55,

52 G. F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. Vol 1: Diritto dell’impresa, Utet giuridica, Milano 2013, p. 35

53 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., p. 188

54 G. F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. Vol 1: Diritto dell’impresa, cit., p. 32

55 Art. 2512 c.c.: «sono società cooperative a mutualità prevalente, in ragione del tipo di scambio mutualistico, quelle che:

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28 con obbligo di documentazione circa la loro sussistenza nella nota integrativa al bilancio da adempiersi ad opera di amministratori e sindaci (art. 2513 c.c.), e sono loro riservate agevolazioni tributarie non spettanti alle cooperative che non dimostrino il possesso di tali requisiti. La normativa sulle cooperative sociali accorda l’accesso a peculiari enti ad un trattamento di favore, da cui le cooperative altre sono escluse, in ragione della mission propria dell’ente, realizzandosi un sostegno a livello fiscale di enti che attestino, mediante la documentazione contabile, il perseguimento di uno scopo «altruistico-solidaristico o di mutualità esterna»56.

La Corte costituzionale, sul finire degli anni Ottanta57, aveva avuto occasione

pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 17 luglio 1890 n. 6972 (c.d. legge Crispi) in quanto, riconducendo nell'ambito degli enti pubblici tutte le istituzioni di assistenza e beneficenza (Ipab), si sarebbe posto in contrasto con l'art. 38, ultimo comma, Cost. che tutela la libertà dell'assistenza privata.

La Corte ritiene che fossero «venuti ormai meno i presupposti che avevano presieduto, all'epoca della legge Crispi, al generalizzato regime di pubblicizzazione, oggi non più aderente alla mutata situazione dei tempi ed alla evoluzione degli apparati pubblici, per l'avvenuta assunzione diretta da parte di questi di certe categorie di interessi, la cui realizzazione era invece assicurata, nel sistema della legge del 1890, quasi esclusivamente dalla iniziativa dei privati, che veniva poi assoggettata

1) svolgono la loro attività prevalentemente in favore dei soci, consumatori o utenti di beni o servizi;

2) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, delle prestazioni lavorative dei soci;

3) si avvalgono prevalentemente, nello svolgimento della loro attività, degli apporti di beni o servizi da parte dei soci.

Le società cooperative a mutualità prevalente si iscrivono in un apposito albo, presso il quale depositano annualmente i propri bilanci».

56 A. FICI, La riforma del diritto societario e l’identità delle cooperative sociali, in A. FICI, Imprese cooperative e sociali. Evoluzione normativa, profili sistematici e questioni applicative, Giappichelli, Torino 2012, p. 33

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29 al controllo pubblico per costituire un sistema di “beneficenza legale”, che altrimenti sarebbe mancata del tutto. Una volta mutata tale situazione, non possono ormai non essere assecondate le aspirazioni di quelle figure soggettive sorte nell'ambito dell'autonomia privata, di vedersi riconosciuta l'originaria natura. Questa esigenza è imposta dal principio pluralistico che ispira nel suo complesso la Costituzione repubblicana e che, nel campo della assistenza, e garantito, quanto alle iniziative private, dall'ultimo comma dell'art. 38, rispetto al quale e divenuto ormai incompatibile il monopolio pubblico delle istituzioni relative».

La decisione della Corte è recepita dal legislatore solo nel 2000, con l’emanazione della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi (l. n. 328) che abroga espressamente la legge Crispi. L’attuazione con il successivo d.lgs. 4 maggio 2001, n. 207, recante Riordino del sistema delle Istituzioni

pubbliche di assistenza e beneficienza, a norma dell’art. 10 della legge 8 novembre 2000, n. 328,

individua un arco temporale entro il quale le Ipab avrebbero dovuto decidere se rimanere incardinate nell’alveo del diritto pubblico nella veste di Azienda di servizi alla persona (ASP) oppure assumere la forma di associazioni o fondazioni di diritto privato.

I.5. Il decreto Legislativo 4 dicembre 1997, n. 460: un primo

tentativo di riordino

Nel 1993 la Fondazione italiana per il volontariato (Fivol) conduce una delle prime rilevazioni sulla diffusione e consistenza del volontariato in Italia, con oltre novemila organizzazioni all’attivo. Proponendo un confronto, le tavole di dati aggiornate al 31 dicembre 2018 - pubblicate dall’ISTAT il 9 ottobre 2020 nell’ambito

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30 della prima edizione del Censimento permanente delle istituzioni non profit58 del

2016 – indica 359.574 istituzioni nel 2018. Nel 1997 l’ISTAT intraprende le prime rilevazioni sulle Odv, con cifre più contenute rispetto ai dati Fivol ma che sono specchio di un settore «costantemente in crescita»59. Nelle indagini statistiche

condotte più recentemente troviamo conferma di tale trend: nel comunicato stampa «Struttura e profili del settore non profit» pubblicato in data 11 ottobre 2019 dall’Istat60, avente quale periodo di riferimento l’anno 2017, si legge che «le istituzioni

non profit attive in Italia sono 350.492 – il 2,1% in più rispetto al 2016 – e impiegano 844.775 dipendenti (+3,9%). Il settore non profit continua a espandersi con tassi di crescita medi annui superiori a quelli che si rilevano per le imprese orientate al mercato, in termini sia di numero di imprese sia di numero di dipendenti. Di conseguenza, aumenta la rilevanza delle istituzioni non profit rispetto al complesso del sistema produttivo italiano, passando dal 5,8% del 2001 all’8,0% del 2017 per numero di unità e dal 4,8% del 2001 al 7,0% del 2017 per numero di dipendenti», e, con essa, la esigenza di approntamento di una disciplina dedicata.

Il decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, "Riordino della disciplina tributaria

degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale", è stato definito

in passato dalla dottrina come «il provvedimento normativo più importante nella storia del Terzo settore»61 e «massimo tentativo di riorganizzazione complessiva della

legislazione del Terzo settore»62, concretizzatasi negli anni precedenti in interventi

eterogenei, frastagliati ed occasionali. Il legislatore elabora una razionalizzazione

58 In base a quanto reso noto sul sito www.istat.it la seconda edizione si terrà nel 2021. 59 CSV NET, Venti anni di servizio. Csv 1997-2017. Una storia di promozione del volontariato, Cavarretta Assicurazioni – Agenzia Cattolica di Parma Santa Brigida – Polizza Unica del Volontariato, Ascoli Piceno 2018, p. 32

60 Comunicato, allegati e tavole sono disponibili su https://www.istat.it/it/archivio/234269 61 P. ADDIS, E. A. FERIOLI, E. VIVALDI, Il Terzo settore nella disciplina normativa italiana dall’Unità ad oggi, cit., p. 190

62 G. P. BARBETTA, Il settore del non profit italiano: solidarietà, democrazia e crescita economica negli ultimi vent’anni, cit., p. 237

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31 della materia mediante la previsione di una nuova categoria giuridica al cui interno potevano essere ricondotti soggetti collettivi diversi con attribuzione della denominazione di Organizzazione non lucrativa di utilità sociale (Onlus). Alla reductio

ad unum conseguiva la formulazione di un regime tributario uniforme e privilegiato

giustificato dalla speciale meritevolezza delle attività svolte e dalle finalità perseguite dall’ente. L’art. 10, primo comma del decreto tipizza i settori in cui l’attività statutaria delle Onlus (lett. a) può dipanarsi e richiede l’esclusività del fine di solidarietà sociale (lett. b).

Fondazioni, comitati, associazioni, società cooperative, nonché altri soggetti presentanti i requisiti espressamente previsti, potevano richiedere l'iscrizione alla Anagrafe delle Onlus, godendo di agevolazioni fiscali e tributarie quanto ad imposte sui redditi, Iva ed altre imposte indirette, pur rimanendo sottoposti alle regole dettate dal Codice civile o dalla legislazione speciale.

L'acquisto della denominazione era escluso per alcuni tipi di organizzazioni63 -

incompatibili con la ratio della riforma -, invece attribuita ope legis in favore di altri. Agli enti non riconducibili a tali fattispecie era consentita l’iscrizione in base alla conformità a precisi criteri positivi, inerenti a finalità dell’ente, modalità di perseguimento degli scopi statutari o la natura di ente non profit con chiara affermazione del non distribution constraint, «requisito fondamentale per i privilegi tributari in favore del non profit in tutto il mondo»64. Si richiedeva anche

l’applicazione di specifiche regole organizzative interne.

63 Sono esclusi dalla qualifica di Onlus gli enti pubblici, le società commerciali diverse da quelle cooperative, gli enti conferenti di cui alla legge 30 luglio 1990, n. 218, i partiti ed i movimenti politici, le organizzazioni sindacali, le associazioni di datori di lavoro e le associazioni di categoria.

64 P. A. MORI, Non-profits and the Profit Distribution Constraint with Selfish Entrepreneurial Motivations, in Euricse Working Papers, 100/18, p. 2

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32 Il decreto ha avuto il merito di promuovere l’istituzione di una agenzia di promozione e vigilanza del Terzo Settore, l’Agenzia del Terzo settore65, ma non può

ritenersi esente da rilievi. Alcuni esponenti della dottrina hanno denunciato un atteggiamento di sfiducia del legislatore nell’apprestare una normativa organica per il Terzo Settore, rintracciabile alla stregua di un intervento, quale quello in esame, che offre una classificazione generale degli enti no profit ma ai soli fini fiscali, «senza che questo aiuti a individuare le caratteristiche giuridiche proprie della categoria»66 e

senza definire «sul piano civilistico quali siano i precisi contorni ed elementi giuridici»67 di questa.

I.6. La legge n. 383/2000, la riforma del Titolo V e la disciplina

sull’impresa sociale

Nella regolazione del Terzo Settore si inserisce la legge 7 dicembre 2000, n. 383 (“Disciplina delle associazioni di promozione sociale”). L'art. 2 della presente definisce quali associazioni di promozione sociale «le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati».

L'art. 1, rubricato “Finalità ed oggetto della legge”, disvela la ratio che orienta l’intera legislazione del Terzo settore, ovverosia il riconoscimento del «valore sociale

65 L'Agenzia per il terzo settore (ex Agenzia per le Onlus) è stata soppressa nel 2012 a seguito dell'entrata in vigore del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16 (art. 8 comma 23), convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012, n. 44. In merito E. ROSSI, Fine – ingloriosa – dell’Agenzia per il Terzo settore?, in Costituzionalismo.it, 13 febbraio 2012 e L. GORI, L’Autorità (o l’Agenzia?) del Terzo settore: il grande assente del disegno di legge?, in Non profit, 3/2014, pp. 129 ss.

66 G. TIBERI, La dimensione costituzionale del terzo settore, in C. CITTADINO (cur.), Dove lo stato non arriva. Pubblica Amministrazione e terzo settore, Firenze 2008, 25 ss., p. 3

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33 dell'associazionismo liberamente costituito e delle sue molteplici attività come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo» di cui si «promuove lo sviluppo in tutte le sue articolazioni territoriali, nella salvaguardia della sua autonomia; favorisce il suo apporto originale al conseguimento di finalità di carattere sociale, civile, culturale e di ricerca etica e spirituale».

La riforma del Titolo V (l. cost. n. 3/2001) esplicita un principio fondamentale già intessuto nella trama del testo costituzionale fin dalla sua originaria formulazione, il principio di sussidiarietà. Il quarto ed ultimo comma del rinnovato art. 118 cost. sancisce espressamente il principio di sussidiarietà orizzontale e quindi la coessenzialità delle formazioni sociali nel perseguimento del bene comune, non più rimesso al monopolio statale, bensì «vocazione nell’agire di ciascun cittadino e formazione sociale»68. Il principio di sussidiarietà orizzontale impegna il legislatore

a prefigurare politiche promozionali e di favor verso i corpi intermedi tese all‘incremento del dinamismo dell'iniziativa privata solidaristica diretta al conseguimento dell’utilità generale.

La sussidiarietà era stata dapprima indicata nella legge 15 marzo 1997, n. 59, la c.d. legge Bassanini I, quale criterio e principio cui informare il decentramento amministrativo. Rafforzato nella sua portata dalla legge costituzionale, il principio di sussidiarietà, quale regola nei rapporti tra iniziativa privata e pubblica amministrazione, diviene «baluardo contro le tendenze rivolte verso l’esclusività dell’intervento pubblico»69 e obbliga ciascuno dei diversi livelli di governo di

68 L. ANTONINI, A. PIN, Gli aspetti costituzionali, amministrativi e tributari del terzo settore, cit., p. 162

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