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"The hard idea of truth: realtà, fiction e impulso etico in tre romanzi contemporanei"

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN

LETTERATURE E FILOLOGIE

EUROAMERICANE

TESI DI LAUREA

“The hard idea of truth": realtà, fiction e impulso etico in tre

romanzi contemporanei

CANDIDATO

RELATRICE

Marta Mosca

Chiar.ma Prof.ssa Roberta Ferrari

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Indice

Prefazione 3

CAPITOLO PRIMO: Il contesto storico e teorico 5

1.1 Dal realismo al modernismo 6

1.2 Dal modernismo al Postmodernismo 10

1.3 Immaginazione e storiografia 15

1.4 Prime reazioni 19

1.6 La svolta etica 23

CAPITOLO SECONDO: “Fatti” e narrazione in The Biographer’s Tale di A. S.

Byatt 35

2.1 Il contesto britannico 35

2.2 La vicenda e il rapporto con il Postmodernismo 38

2.3 La rinuncia al progetto biografico 45

2.3 La rinuncia alla fiction 49

2.4 La scoperta di sé e dell’altro 57

CAPITOLO TERZO: “We all stand somewhere on a spectrum”. “Dosare”

l’immaginazione in Atonement di Ian McEwan 64

3.1 Il contesto culturale 64

3.2 La vicenda e l’espiazione “narrativa” di Briony 66

3.3 Briony e l’empatia dello scrittore 73

3.4 L’ordine narrativo 76

3.5 Contro l’indecisione postmoderna 80

3.6 L’immaginazione letteraria: forma etica o no? 85

CAPITOLO QUARTO: “How can you make sense of the beginning unless you

know the ending?” Arthur & George di Julian Barnes 89

4.1 Il caso giudiziario e la vicenda del romanzo 91

4.2 La ricerca della verità: la giurisprudenza e i romanzi cavallereschi 95 4.3 La ricerca della verità: le detective stories e l’illusione della conclusione 98

4.4 Apertura e chiusura narrativa 106

4.5 La fiction e la ricerca della verità 109

Conclusioni 115

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Prefazione

La narrativa contemporanea non può evitare di misurarsi con alcune concezioni che sono state elaborate nella seconda metà del secolo scorso, durante la fase culturale e letteraria denominata Postmodernismo. Tra queste ha assunto senza dubbio un ruolo rilevante l’idea della distanza tra letteratura e realtà, cominciata con alcuni sviluppi filosofici e critico-letterari che hanno accentuato la natura “opaca” del linguaggio e l’artificialità della costruzione narrativa; come conseguenza, si è spesso negata la capacità denotativa o descrittiva della letteratura rispetto alla realtà, ma si è considerato allo stesso tempo inevitabile parlare di quest’ultima utilizzando i procedimenti propri del linguaggio e della narrazione. Questo paradosso ha ricevuto come prima risposta una celebrazione dei processi narrativi in sé, con l’idea secondo cui “tutto è narrazione”, e ha portato a una considerazione più fluida del confine tra “fatti” reali e la loro ricostruzione letteraria, cosa che si rispecchia in molta narrativa del periodo.

Il presente lavoro nasce dalla volontà di indagare l’evoluzione più recente di questo modo di vedere la realtà e la letteratura, prendendo come base tre opere di narrativa britannica scritte all’inizio degli anni 2000: The Biographer’s Tale di A.S. Byatt (2000), Atonement di Ian McEwan (2001) e Arthur & George di Julian Barnes (2005). Questi tre romanzi, anche se molto diversi tra loro, hanno in comune la volontà di esplorare lo statuto della fiction rispetto alla realtà, e, più o meno esplicitamente, inducono il lettore a riflettere sulle conseguenze etiche dell’impasse derivante dalle concezioni postmoderne: se letteratura e linguaggio non sono in grado di rappresentare la realtà in maniera fedele e possono parlare soltanto di sé, qual è il limite della rielaborazione letteraria? Qual è la responsabilità etica dello scrittore nel dispiegare la propria immaginazione? È ancora possibile scrivere un romanzo realista, o un romanzo storico, oppure tutta la narrativa scivola necessariamente verso il fantastico?

Si ritiene che, cercando di rispondere a queste domande, i romanzi analizzati presentino uno slittamento di interesse rispetto alla narrativa più propriamente postmoderna, in cui la mancanza di aderenza alla realtà viene percepita come una liberazione e come una rinuncia alle ipocrisie del realismo,

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considerato non più praticabile per via della distanza che inevitabilmente si pone tra la realtà e la sua rappresentazione letteraria. Con una svolta che è stata definita

ethical turn, invece, alcuni scrittori hanno cominciato a guardare con insofferenza

al “tutto è narrazione” tipico del Postmodernismo e a cercare una nuova connessione con la realtà.

Il primo capitolo traccia una panoramica dello sfondo filosofico e critico-letterario che ha determinato lo sviluppo delle idee postmoderne e delle successive tendenze riunite sotto il nome di ethical turn, al fine di individuare le caratteristiche dello scenario in cui gli autori dei romanzi analizzati si sono formati e da cui sono stati inizialmente influenzati. Ognuno dei capitoli successivi è dedicato a ciascuno dei romanzi presi in considerazione: The Biographer’s Tale permette di affrontare il problema del rapporto tra vita e scrittura, portando a riflessioni sul grado di artificialità di un certo tipo di narrazioni, comprese quelle biografiche; Atonement presenta una svolta narrativa che permette di fare considerazioni sul ruolo etico dello scrittore che mescola realtà e fantasia; Arthur

& George tematizza la difficoltà di ricostruire una serie di eventi in maniera

oggettiva, ripresentando il problema dell’artificialità delle narrazioni e del contemporaneo sforzo verso una descrizione veritiera dei fatti. I tre romanzi vengono analizzati sia dal punto di vista dei contenuti che della forma, cercando di mostrare come anche lo stile della scrittura, le caratteristiche della voce narrante ecc. contribuiscano a esprimere un certo approccio alla rappresentazione della realtà.

Nelle conclusioni verranno infine operati confronti tra i tre romanzi e si approfondirà la linea di pensiero che sembra accomunarli. Si cercherà inoltre di inserire le opere nel contesto un po’ più ampio della narrativa britannica, con la consapevolezza che si tratta di tre esempi in un panorama molto variegato, che contiene anche tipi di romanzi diversi. È comunque rilevante che tre autori appartenenti più o meno alla stessa generazione si siano interessati agli stessi problemi e abbiano fornito risposte che si trovano sulla stessa lunghezza d’onda, rendendo visibili alcune delle possibili strade da percorrere per uscire dall’apparente situazione di stallo determinata dal Postmodernismo.

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CAPITOLO PRIMO

Il contesto storico e teorico

Il romanzo è il genere letterario in cui, più che in ogni altro, si manifesta il problema del confine tra invenzione e aderenza alla realtà. Nei sottogeneri romanzeschi tradizionali, questo confine rimane netto e il lettore può essere sicuro del rapporto che un’opera intrattiene con il mondo: se si tratta cioè di una storia ad ambientazione verosimile o inverosimile (la differenza tra romanzo realista e fantastico), oppure di un resoconto di fatti realmente accaduti o inventati (la differenza tra la non-fiction e la fiction). La questione diventa più difficile quando il limite che separa la realtà dall’immaginazione viene superato e reso problematico all’interno di una stessa opera, che è ciò che succede, ad esempio, nel romanzo storico (quando a personaggi e circostanze storiche reali sono affiancati personaggi o fatti immaginari) o nelle storie riunite sotto l’etichetta di “realismo magico”. In questi casi, stabilire un limite per l’invenzione fantastica può diventare un fatto etico, cioè l’autore si assume una responsabilità nei confronti della rappresentazione della realtà e di ciò che di essa deciderà di modificare, ampliare, accentuare e così via. La storia del romanzo dall’inizio del XIX secolo alla fine del XX mostra come sia cambiata la percezione della “trasgressione” di detto confine, rendendo la mescolanza di fatti e finzione più o meno accettabile. Ad esempio, fino all’inizio del XX secolo venivano dati per scontati alcuni limiti nell’utilizzo dell’immaginazione: nel romanzo storico e realistico i fatti e personaggi immaginari potevano occupare solo lo spazio dei “buchi” della storia, cioè le aree non documentate (la vita delle persone comuni, o la vita interiore di personaggi storici), mentre il fantastico normalmente non entrava in collisione con la narrazione di fatti storici reali. La trasgressione di queste regole ha avuto notoriamente il suo apice a partire dalla seconda metà del secolo scorso, con la letteratura postmoderna; in questa fase il livello di accettabilità della manipolazione immaginativa si è alzato notevolmente, rendendo praticabili strategie di commistione tra fatti e immaginazione prima impensabili, anzi, mostrando come l’esistenza stessa di una simile distinzione potesse essere problematica. Nel giro di pochi anni però, con lo sviluppo, nel decennio ’90, di

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quello che è stato chiamato ethical turn, cioè un nuovo diffuso interesse per gli aspetti etici della letteratura, scrittori e critici si sono interrogati sulla validità di alcune delle operazioni narrative postmoderne, con conseguenze rilevanti sulla letteratura successiva.

Nei paragrafi che seguono si cercherà di tracciare una panoramica dei fenomeni che hanno portato allo sviluppo della letteratura postmoderna, e poi alla svolta in senso etico, come base per affrontare i cambiamenti avvenuti in tre romanzi dell’inizio degli anni 2000. Per capire come questi autori abbiano affrontato il tema del rapporto etico tra fatti e immaginazione occorre infatti capire in quali circostanze si sono trovati a scrivere, e dunque quali sono stati i fattori che hanno portato allo sviluppo della letteratura postmoderna prima, e della svolta etica poi.

1.1 Dal realismo al modernismo

È evidente che il grado di accettabilità della mescolanza tra fatti e finzione dipende dal modo in cui viene percepita filosoficamente la realtà e la sua rappresentazione: prima di capire come i fatti possano essere riportati in una narrazione occorre specificare qual è lo statuto di questi fatti, cioè il modo in cui essi si danno alla nostra percezione e la possibilità della loro rappresentazione. Al riguardo di solito si ritiene che l’inizio del XX secolo segni una rottura rispetto alla letteratura realista del secolo precedente. Il termine realismo è associato a un insieme di strategie di rappresentazione che aspirano a riprodurre la realtà nel modo più fedele possibile, un indirizzo che ha caratterizzato in particolar modo alcuni scrittori del XIX secolo. Il famoso studio di Auerbach sul realismo nella letteratura occidentale individua l’apogeo di questa corrente in alcuni autori francesi, soprattutto in Stendhal, Flaubert e Zola, i quali introducono “la trattazione seria della realtà quotidiana” e della vita dei ceti inferiori, prima affidata esclusivamente alla rappresentazione comica, oltre all’inserimento di queste persone ed eventi quotidiani “nel filone della storia contemporanea.”1

Secondo György Lukács, invece, l’essenza del realismo sta nella rappresentazione dell’uomo “totale”, completo, sia nelle sue componenti

1 Auerbach, Erich, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1956 (tr. Alberto Romagnoli e Hans Hinterhäuser), p.267.

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fisiologiche che psichiche; il realismo è “quell’arte sublime che ritrae interamente l’uomo, l’uomo totale nella totalità del mondo sociale”.2 Per fare ciò, lo scrittore

deve dedicarsi alla rappresentazione del “tipo”, cioè una sintesi che, “tanto nel campo dei caratteri, che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale”.3 Qualunque sia il criterio che si sceglie di portare in

primo piano, queste concezioni dipendono dalla visione che la realtà sia qualcosa di dato e rappresentabile in maniera oggettiva, anzi, che sia un dovere “etico” e “politico” dello scrittore rispecchiare la realtà come essa è. Dopo la parentesi romantica, gli scrittori si trovano in una nuova età del “mirror”, dell’arte come specchio della realtà.4 In uno studio più recente5 Alison Lee nota come in questa concezione del romanzo vengano dati per scontati una serie di presupposti:

The first of these is that “empirical reality” is objectively observable through pure perception. The second is that there can exist a direct transcription from “reality” to novel. Implicit in this is the idea that language is transparent, that “reality” creates language and not the reverse. [...] Finally, there is the notion that there is a common, shared sense of both “reality” and “truth”.6

Le numerose virgolette utilizzate da Lee per circoscrivere i termini “reality” e “truth” testimoniano da sole come sono cambiate queste concezioni dai tempi in cui scrivevano Auerbach e Lukács. La crisi del realismo ha inizio però fin dai primi decenni del XX secolo, caratterizzati da un dubbio sempre più diffuso riguardo alla rappresentazione della realtà esterna e influenzati da una serie di cambiamenti filosofici e culturali. Tra questi sicuramente spiccano lo sviluppo della filologia di Edmund Husserl e dello strutturalismo di Ferdinand de Saussure. La fenomenologia nasce come risposta a idee filosofiche precedentemente dominanti; in particolare, era negli intenti di Husserl combattere lo psicologismo, l’idea della mente come “scatola chiusa”, separata dal mondo reale e sicura soltanto della propria esistenza. Husserl auspicava un ritorno della filosofia alla realtà, e per raggiungere questo obiettivo diede un ruolo privilegiato alla

2 Lukács, György, Saggi sul realismo, Torino, Einaudi, 1976, p.14. 3 Ibidem, p.15.

4 Cfr. Abrams, M. H., The Mirror and the Lamp. Romantic Theory and the Critical Tradition, New York, Oxford University Press, 1953.

5 Lee, Alison, Realism and Power, London, Routledge, 1990. 6 Ibidem, p.12.

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coscienza. Secondo il filosofo, se gli oggetti del mondo vengono considerati come totalmente separati dalla nostra coscienza essi rimangono irraggiungibili e inconoscibili; per Husserl invece gli oggetti del mondo si danno alla nostra coscienza, e il mondo viene rianalizzato come vissuto di quest’ultima.7 Questo

rende il mondo conoscibile, ma con la conseguenza che esso finisce col coincidere con la coscienza stessa. La fenomenologia non nega l’esistenza di una realtà esterna, ma se l’unico modo per conoscere questa realtà è considerarla inseparabile dalla nostra coscienza, per molti essa apre la strada al soggettivismo. Husserl cercò di arginare questo problema parlando non di singole coscienze ma di un “ego trascendentale”, una pura coscienza ideale che non si identifica con nessuna delle coscienze empiriche che si trovano nel mondo. Questa mossa, che doveva porre le basi per una conoscenza oggettiva del mondo, apre invece le porte all’accusa di idealismo, e di allontanamento dalla realtà concreta. Se la realtà dipende dalla rappresentazione nella coscienza, allora “la cosa stessa si sottrae sempre, la presenza si trasforma in un sintomo, né c’è modo di distinguere in linea di principio la presentazione – il darsi della cosa in carne e ossa – dalla rappresentazione […]. Il mondo non è composto di cose bensì di rappresentazioni”.8

Con la pubblicazione del Corso di Linguistica Generale, trascrizione delle lezioni tenute da Saussure e pubblicate postume nel 1915, si stabilisce invece l’arbitrarietà del segno linguistico rispetto al mondo dei referenti, e si considera il linguaggio come una “griglia” di relazioni tra significanti (le parole come segni grafici o insieme di suoni) e significati (i concetti che esse comunicano). Questo non significa che Saussure neghi l’esistenza del referente, di un mondo fisico al di là della griglia linguistica che vi si sovrappone, ma nel triangolo che lega significante – significato – referente il terzo membro viene messo tra parentesi dai linguisti, il cui interesse va al linguaggio come sistema strutturato di relazioni arbitrarie tra parole e concetti.9

7 Cfr. Sokolovski, Robert, Introduzione alla fenomenologia, Roma, Università della Santa Croce, 2002.

8 Ferraris, Maurizio, Introduzione a Derrida, Bari, Laterza, 2005, p.32.

9 Norris, Christopher, The Contest of Faculties. Philosophy and Theory after Deconstruction, London, Methuen, 1985, pp.47-69.

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Questi sviluppi si riflettono inevitabilmente sulla narrativa e sulla critica letteraria del periodo. Nella fase denominata modernista l’approccio realista, certo della possibilità di rappresentare la realtà esterna fedelmente e nel dettaglio, viene giudicato inadeguato: la nuova percezione della realtà è frammentaria, la sua rappresentazione non trova punti di appiglio stabili e dipende largamente dalla diversa percezione dei singoli. L’accento viene spostato da ciò che si vede a come lo si vede,10 e c’è una nuova attenzione per il linguaggio e i processi di narrazione, non più visti come mezzi “trasparenti” per la rappresentazione della realtà, ma come principi ordinatori: il linguaggio artistico viene elevato a mezzo privilegiato di conoscenza in quanto esso è in grado di rendere conto di questa visione e di sostituire alla frammentarietà dell’esperienza empirica una struttura formale dotata di senso. A tutto ciò si aggiunge un interesse per la visione “impressionista” della coscienza: la realtà non è più quella descritta obiettivamente dal narratore esterno, ma viene filtrata attraverso le coscienze dei singoli personaggi.

Da una parte questa nuova visione si contrappone al realismo, ma allo stesso tempo può essere considerata come una forma di ricerca realista “più alta”: Roman Jakobson ha parlato di due diverse “scuole” possibili di realisti, da una parte coloro che restano attaccati alle vecchie strategie come unico mezzo di rappresentazione fedele della realtà, dall’altra coloro che intendono il realismo come ricerca di mezzi innovativi di avvicinamento alla realtà:

“A₁ : la tendenza a deformare i canoni artistici in voga, interpretata come un ravvicinamento alla realtà;

A₂ : la tendenza conservatrice all’interno di una tradizione artistica, interpretata come fedeltà alla realtà.”11

Quindi è vero che i modernisti non credono più nella possibilità di rappresentare i fatti esterni in maniera oggettiva, ma ritengono che sia possibile dare una raffigurazione veritiera dei moti interiori; è per questo che, mentre Lukács si oppone strenuamente alla letteratura modernista, che, con la sua

10 Barry, Peter, Beginning Theory. An Introduction to Literary and Cultural Theory, Manchester, Manchester University Press, 2009, p.79.

11 Jakobson, Roman, “Il realismo nell’arte”, in Jakobson, Roman, Poetica e poesia. Questioni di

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accentuazione degli aspetti psicologici a scapito di quelli fisiologici e, soprattutto, politici e sociali, manca di rappresentare l’uomo in maniera “completa”,12

Auerbach termina invece il suo studio sul realismo nella letteratura occidentale con un capitolo dedicato a Virginia Woolf. Allo stesso modo, il flusso di coscienza alla Joyce può essere visto come un mezzo di riavvicinamento alla realtà, una riproduzione “più vera” dei moti della mente umana rispetto alle descrizioni del narratore esterno.

1.2 Dal modernismo al Postmodernismo

È a partire dal secondo dopoguerra, con la fase denominata postmoderna, che gli sviluppi filosofici e letterari dei decenni precedenti si radicalizzano ulteriormente. Questa nuova fase è determinata da un nuovo clima filosofico e culturale, in parte conseguente agli sviluppi già notati all’inizio del secolo. In questa nuova fase lo strutturalismo lascia il posto al post-strutturalismo, che può essere visto sia come sua diretta continuazione che come ribellione ad esso. Nel post-strutturalismo si assiste a un’accentuazione dell’idea strutturalista del linguaggio come sistema con un proprio funzionamento indipendente rispetto al mondo dei referenti. Come si è visto, una delle mosse di base dello strutturalismo consiste nel mettere da parte il referente nello studio della linguistica, per poter meglio comprendere le relazioni che i segni intrattengono tra sé. Il problema sorge quando la dimensione del referente non viene messa da parte per una questione di metodo di studio, ma perché giudicata irrilevante dal punto di vista filosofico, o addirittura inesistente.13 Una simile “svolta linguistica” radicale è caratteristica anche della filosofia analitica, che da Wittgenstein in poi attribuisce un ruolo di primo piano al linguaggio nella risoluzione dei problemi filosofici:

In the analytical tradition, the linguistic turn contended that the limits of philosophy, and of what was understood to be “reality,” could manifest themselves

12 Cfr. Lukács, György, op. cit., p.18 : “la pedanteria psicologica della scuola opposta [a quella naturalista, incentrata esclusivamente sugli aspetti fisiologici dell’esistenza], la trasformazione dell’uomo in una caotica corrente di fantasticherie, distrugge ugualmente ogni possibilità di plasmare poeticamente la figura umana.”

13 Cfr. Norris, Christopher, op. cit., p.62: “It is the interest of linguistics as a systematic study that Saussure brackets (as it were) the referential dimension and concentrates on the ‘arbitrary’ relation between signifier and signified. The problem with much post-structuralist thinking is that it takes this methodological convenience for a high point of philosophic principle.”

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11 only within language. It was a turn from ideas to words, from an idealist philosophical focus to a language-centered one [...]. For analytical philosophers, the ultimate facts were seen to be those of language.14

La conseguenza è che l’idea dell’affidabilità del linguaggio come mezzo di conoscenza e descrizione neutrale del mondo viene a mancare, e la realtà diventa sempre più inaccessibile. Con il post-strutturalismo “we enter a universe of radical uncertainty, since we can have no access to any fixed landmark which is beyond linguistic processing, and hence we have no certain standard by which to measure anything.”15 Il post-strutturalismo inizia a emergere in Francia negli anni ’60 ed è

di solito associato alle figure di Jacques Derrida e Roland Barthes.

Derrida ha una formazione fenomenologica (la prima opera pubblicata è proprio un lavoro su Husserl16) ed è il fondatore del decostruzionismo, un paradigma filosofico e letterario che ha avuto il suo massimo sviluppo tra la pubblicazione della Grammatologia di Derrida nel 1967 e la metà degli anni ’80.17 Definire il concetto di decostruzione non è facile, anche perché Derrida

stesso l’ha definita più spesso in contrapposizione ad altri concetti, ovvero come ciò che non è (non è un analisi, non è un metodo, non è un’operazione, e così via18). Cos’è la decostruzione viene dimostrato, più che spiegato, dalle letture di testi effettuate da Derrida, che hanno avuto una notevole influenza sulla critica letteraria americana, con figure come J. Hillis Miller e Paul de Man. La decostruzione è “il tentativo, condotto attraverso la lettura di testi della tradizione, di esplicitare le contrapposizioni del discorso filosofico, mettendo in luce le rimozioni su cui si istituiscono, i giudizi di valore che incorporano spesso inavvertitamente o almeno implicitamente, e dunque di rivelare la struttura totale della nostra razionalità”.19 L’intento è quello di mettere in evidenza le

contraddizioni del logocentrismo, il pensiero caratteristico della cultura

14 Connor, Steven (ed.), The Cambridge Companion to Postmodernism, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, p.37.

15 Barry, Peter, op.cit., p.59.

16 Ferraris, Maurizio, op.cit., pp.3-50.

17 Cfr. Groden, M. et al. (ed.), Contemporary Literary & Cultural Theory. The Johns Hopkins

Guide, Baltimore, John Hopkins Guide University Press, 2012, pp.104-16.

18 Critchley, Simon, The Ethics of Deconstruction: Derrida and Levinas, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1999, pp.21-22.

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occidentale, che tende a ridurre le differenze favorendo uno dei due termini di un’opposizione. La decostruzione deve far emergere le strutture portanti di questo pensiero, che si presenta come neutrale, per farne emergere i pregiudizi e gli “a priori” nascosti. Questo processo può svilupparsi soltanto su testi; Della

Grammatologia contiene infatti la famosa affermazione secondo cui “non c’è

nulla al di fuori del testo”,20 una frase che è stata interpretata in maniera diversa da sostenitori e detrattori del decostruzionismo. Per i primi l’affermazione non nega l’esistenza di una realtà al di fuori del testo, ma stabilisce puramente che la nostra comprensione della realtà è testuale, cioè si può avere accesso alla realtà solo tramite testi. Ma se la conoscenza non è che un insieme di rimandi testuali, la realtà viene continuamente allontanata fino a diventare irraggiungibile,21 e per alcuni questo equivale a dire o che la nostra conoscenza dei fatti e della verità è inevitabilmente mediata e viziata da un pregiudizio personale o culturale, o che i fatti in sé non esistono, in quanto si danno soltanto diverse interpretazioni di essi.22 Derrida ha negato che la sua fosse un’affermazione nichilista, volta a

negare l’esistenza di una realtà al di là delle sue rappresentazioni testuali e dunque a rendere vana qualsiasi ricerca di verità. Sarebbe cioè possibile, come si vedrà a breve, un’interpretazione “messianica” del decostruzionismo, “perché fa parte della ricerca della verità e della presenza la consapevolezza dello scacco e al tempo stesso il rilancio continuo della posta”.23

È indubbio però che il rapporto con la realtà diventi sempre più problematico, e con ciò si modifica ancora il concetto di realismo. Per Barthes il romanzo realista si basa sull’”illusione referenziale”: il problema non è più, come nel modernismo, che una visione obiettiva e uniforme nei confronti della realtà esterna è venuta a mancare, ma che l’idea di un accesso diretto del linguaggio al mondo dei referenti viene ora considerata illusoria. Gli scrittori realisti hanno cercato di collegare direttamente i significanti ai referenti, ad esempio tramite una descrizione dettagliata degli oggetti che compongono l’ambientazione del

20 Derrida, Jacques, Della grammatologia, Milano, Editoriale Jaca Book, 1989, p.187. 21 Come si è visto, un aspetto simile veniva rimproverato già alla fenomenologia.

22 È questo l’approccio di Rorty e dei neopragmatisti, che rifiutano l’esistenza di verità universalmente condivisibili o paradigmi teorici in grado di spiegare la realtà: «First-order narratives are all we have, and the truth is what is given only from a limited perspective which other such narratives can always claim to demistify» (Norris, Christopher, op.cit., p.21)

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romanzo. Ma per Barthes quegli oggetti non stanno per la realtà, sono solo un “effetto di reale”: “il barometro di Flaubert, la porticina di Michelet non dicono insomma nient’altro che questo: noi siamo il reale, fondamento di quel verosimile inconfessato che costituisce l’estetica di tutte le opere correnti della modernità”.24

Quegli oggetti non stanno a indicare la realtà, ma il fatto che li si debba intendere come la realtà. Il realismo diventa una convenzione che ha per oggetto se stessa, e non il mondo.

È in questa fase culturale che si inserisce la letteratura postmoderna. Il termine postmoderno non è facile da definire. Per lo più, esso indica una fase culturale corrispondente a un momento storico ben preciso, di solito individuato tra gli anni ’60 e ’80 del secolo scorso. Il termine è indissolubilmente legato al filosofo post-strutturalista Jean-François Lyotard, autore, nel 1979, de La

condizione postmoderna.25 Il volume è famoso per la descrizione del postmoderno

come la fine di grandi metanarrazioni quali l’illuminismo o l’oggettività della scienza, che per secoli hanno fornito una base ideologica alle società occidentali. Queste ideologie, che hanno preteso di fornire uno sguardo obiettivo sulla realtà e hanno guardato al linguaggio di altri campi, come la narrativa, con sufficienza, non si sono rese conto di utilizzare esse stesse processi narrativi per autolegittimarsi. Se non si crede più nella trascendenza delle grandi narrazioni è il momento della nascita delle “piccole narrazioni”, che favoriscono il locale, il particolare e l’immanente rispetto all’universalità, e la diversità e l’eterogeneità rispetto all’omogeneità.

In conseguenza di questi cambiamenti, la narrativa postmoderna si rinnova sia rispetto a quella realista che a quella modernista, e tra le sue caratteristiche principali si trovano:

- Un carattere autoriflessivo, cioè la presenza di spunti per una riflessione metanarrativa sulle strategie linguistiche del romanzo, della letteratura, della storia, o della scienza;

24 Barthes, Roland, “L’effetto di reale”, in Barthes, Roland, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, Torino, Einaudi, 1988, p.158.

25 Lyotard, François, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Milano, Feltrinelli, 1985 (tr. Carlo Formenti).

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- Una percezione sfumata dei “limiti” in vari ambiti: quelli che separano un genere letterario dall’altro (portando alla formazione di ibridi e “pastiche” letterari), la teoria dalla letteratura (da cui l’autoriflessività di cui sopra), l’arte d’élite da quella popolare, la fiction dalla vita reale o dalla storia; da quest’ultimo punto derivano le due caratteristiche che seguono:

o Un trattamento tendenzialmente indistinto da parte dell’autore di fatti reali e immaginari;

o Il superamento (o la simulazione del superamento) dei confini che separano il mondo dell’autore o del lettore da quello dei personaggi (ad esempio con lo scrittore che interviene nella vicenda narrata o in fenomeni di frame-breaking, in cui lo scrittore “rompe” l’illusione affermando che quanto sta scrivendo è pura fiction, oppure con l’utilizzo dello spazio materiale della pagina, che normalmente dovrebbe rimanere invisibile al fine di rafforzare la mimesi);

- Una moltiplicazione degli sviluppi possibili e alternativi, ad esempio nel finale o all’inizio della storia;

- Accentuazione dell’intertestualità, con riferimenti più o meno diretti ad altre opere;

- Affermazione della provvisorietà ed eterogeneità dei valori e dell’identità, la quale, al pari della realtà esterna, non si presenta come un qualcosa di “dato”, ma come un fluido insieme di esperienze.

La maggior parte di queste caratteristiche sono individuate da due tra i primi e principali teorici del Postmodernismo in letteratura, Linda Hutcheon e Brian McHale. McHale in Postmodernist Fiction26 contrappone il postmoderno al modernismo: il prefisso post- può infatti indicare un’opposizione alla fase modernista, oppure una continuità con essa, con l’approfondimento o l’esasperazione di certi temi. Secondo McHale, anche se alcune strategie letterarie sono condivise da modernismo e postmoderno, tra i due c’è una differenza di dominante culturale: nel modernismo prevale un interesse per i problemi epistemologici, cioè per il modo in cui conosciamo il mondo, mentre la dominante

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del Postmodernismo sarebbe ontologica, volta all’esplorazione dei mondi alternativi possibili e dei limiti che li separano. Secondo questa visione lo scrittore modernista percepisce nostalgicamente la perdita della certezza positivista riguardo alla possibilità di rendere in maniera oggettiva la realtà circostante, e cerca di esplorare i modi in cui possiamo conoscere questa realtà, o, fenomenologicamente, il modo in cui essa si dà alla coscienza. Lo scrittore postmoderno abbandona (almeno in parte) questa ricerca frustrante e sposta la sua attenzione dall’inconoscibile mondo “reale” ai vari mondi finzionali che ne costituiscono una rappresentazione. “Abandoning the intractable problems of attaining to reliable knowledge of our world, they improvise a possible world; they fictionalize”.27 Da qui una fondamentale differenza di atteggiamento tra lo

scrittore modernista e postmoderno: la nostalgia modernista per un’epoca in cui esistevano credenze ritenute inconfutabili si era tradotta nella tendenza a domare la molteplicità e frammentarietà della realtà con un qualche schema ordinatore (ad esempio il metodo mitico di T.S. Eliot). Al contrario per l’artista postmoderno “the multiple becomes a promise or horizon to which art must try to live up. [...] what used to look like disorder now looks like brimming plenitude”.28

1.3 Immaginazione e storiografia

In A Poetics of Postmodernism29 Hutcheon si occupa di quello che ritiene essere il genere più rappresentativo del romanzo postmoderno, che l’autrice chiama “historiographic metafiction”. Si tratta di romanzi che fanno riferimento a eventi storici ma allo stesso tempo contengono una forte componente autoriflessiva, oltre alla maggior parte delle caratteristiche delineate sopra per la letteratura postmoderna.30 La componente metaletteraria fa sì che in questi romanzi si rifletta più o meno implicitamente sul modo di rappresentare o riportare i fatti storici, mettendo in discussione sia le tecniche del romanzo storico

27 Cfr. ibidem, p.10.

28 Cfr. Connor, Steven (ed.), op.cit., p.83.

29 Hutcheon, Linda, A Poetics of Postmodernism. History, Theory, Fiction. New York, Routledge, 2000.

30 Tra gli esempi più spesso citati nell’ambito della letteratura anglosassone si trovano: Gravity’s

Rainbow di Thomas Pynchon, Slaughterhouse-Five di Kurt Vonnegut, Ragtime di E. L. Doctorow e i lavori di John Barth e Donald Barthelme per quel che riguarda la narrativa americana; The French Lieutenant's Woman di John Fowles, Midnight’s Children di Salman Rushdie, Waterland di Graham Greene, Flaubert’s Parrot di Julian Barnes per quanto riguarda la letteratura britannica.

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tradizionale sia quelle della storia stessa. L’altra caratteristica principale è la libertà con cui vengono trattati i fatti storici: se, come si è visto, la possibilità di rappresentare la realtà (presente o passata, esterna o interiore) in maniera esatta e oggettiva non esiste più, allora diventa legittimo intervenire sulla storia con manipolazioni immaginarie, anacronismi e via dicendo. È ovvio che nel genere del romanzo storico il problema dei fatti, che dovrebbero potersi supporre documentati e quindi incontestabili, suscita problemi etici molto evidenti, di cui gli scrittori di epoche precedenti non erano del tutto inconsapevoli. In Writing

History as a Prophet31, Elisabeth Wesseling ripercorre la storia del romanzo storico, dalle sue origini con le opere Sir Walter Scott al postmoderno. In realtà la posizione del romanzo storico non è mai stata del tutto facile: in quanto genere “ibrido” tra romanzo e storiografia, gli autori hanno dovuto di volta in volta elaborare strategie per difendersi dalle accuse di mescolare fatti e fiction, con effetti manipolatori. Wesseling riporta come Scott si sentisse sempre in dovere di aggiungere note e prolegomeni ai suoi romanzi onde sottolinearne la finzionalità ed evitare di essere accusato di ingannare i lettori o di interferire con il lavoro dello storico. Scott riteneva che il romanzo potesse aggiungere qualcosa alla storiografia, cioè renderne piacevole l’apprendimento tramite il suo inserimento in una narrazione. La questione non era però sempre così semplice: per Manzoni ad esempio, la mescolanza di storia ed elementi finzionali nel romanzo divenne a poco a poco sempre più intollerabile, fino a spingerlo a una vera e propria “nevrosi” e a un rifiuto della finzione a favore della storia pura.32 Ovviamente né a

Scott né a Manzoni sarebbe mai venuto in mente di difendere le proprie opere sostenendo che anche la storiografia non era esente da “contaminazioni” narrative o fantastiche:

While the historical novel legitimated itself as a means of spreading historical knowledge, the value and validity of this type of knowledge seems to have been taken for granted and was apparently beyond dispute. With respect to later developments in historical fiction [...], it is important to note the fact that Scott did not counter the charge of adulterating the pure sources of historical knowledge by

31 Wesseling, Elisabeth, Writing History as a Prophet. Postmodernist Innovations of the Historical

Novel, Amsterdam, John Benjamins Publishing Company, 1990

32 Cfr. ivi e D’angelo, Paolo, Le nevrosi di Manzoni. Quando la storia uccise la poesia, Bologna, Il Mulino, 2013.

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17 retorting that there was no such thing anyway, because history itself is a hybrid combination of facts and fictions as well, which would have been a possible mode of defense. Here we have to remind ourselves that Scott was active during "the age of historiography," in which historical knowledge became a more and more highly prized body of knowledge.33

Ciò che causava problemi allo scrittore di romanzi storici era proprio che il discorso della storiografia e quello della fiction erano percepiti come nettamente separati e dallo statuto diverso, e dunque difficili da mescolare. Tuttavia proprio la diffusione del romanzo storico favorì lo sviluppo di un nuovo tipo di storiografia, dal taglio più “narrativo” e dunque più appetibile per i lettori, oltre ad avere una grande influenza sul romanzo realista, soprattutto nel modo di inserire i personaggi in circostanze storiche e sociali ricostruite nel dettaglio.34 Quello che fu rimproverato a Scott in epoca vittoriana invece, oltre ad alcuni errori o anacronismi nella rappresentazione storica, fu la piattezza psicologica dei personaggi. La rappresentazione della vita interiore crea però un ulteriore problema: gli scrittori contemporanei non possono che descrivere tale vita interiore in base alle proprie esperienze, rischiando dunque l’“anacronismo psicologico”:

If they were to focus on the depiction of externals, as Scott did, they would fail as novelists by not living up to the demands of penetrating moral analysis. If they were to attempt to detail the workings of the minds of characters from previous epochs, however, they ran up against the strictures on psychological anachronism. [...] In this situation, authors of historical fiction can hardly avoid incurring the censure of either the novelist or the historian. Understandably, more than one critic, including Leslie Stephen, declared the writing of historical fiction to be an impossible task.35

Agli inizi del XX secolo il romanzo storico avrebbe finito in effetti con l’essere considerato decisamente datato36, ma non per i motivi di cui sopra: per lo

scrittore modernista, come si è visto, il vero “realismo” è dato dalla rappresentazione accurata dei moti della coscienza dell’uomo contemporaneo, e non del milieu esterno in cui si trovano a vivere i personaggi. È in questa fase che

33 Wesseling, Elisabeth, op.cit., p.46. 34 Ibidem, p.53.

35 Ibidem, pp.57-58.

36 Ci sono ovviamente alcune eccezioni: col senno di poi, romanzi modernisti come Orlando di V. Woolf e Absalom, Absalom! di W. Faulkner possono essere definiti storici, ma non erano percepiti come tali al tempo (Cfr. ibidem, p.75).

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comincia la diffidenza verso l’accuratezza della rappresentazione storica, la cui visione non può non essere contaminata dalla visione soggettiva dello scrittore. Più tardi, il radicale scetticismo postmoderno rispetto alla rappresentazione sia della realtà esterna che interna è concomitante a una nuova visione della storiografia, non più come descrizione trasparente dei fatti, ma come narrazione: tra gli storici responsabili di questo cambiamento occorre senza dubbio citare Hayden White, per il quale non si può parlare di storiografia senza che sia coinvolto un processo di narrazione. Per comprendere e rappresentare il passato occorre dare un significato alla cronologia degli eventi, e questo può avvenire soltanto tramite l’applicazione di una forma narrativa alla realtà: “the historical account endows this reality with form and thereby makes it desirable by the imposition upon its processes of the formal coherency that only stories possess.”37

Questo significa che alla stessa sequenza di eventi possono essere dati significati differenti in base alla narrazione che si sceglie di utilizzare, ma allo stesso tempo non implica che i fatti non esistano o che la forma narrativa possa essere imposta su di essi secondo il gusto dello storico:

For the narrative historian, the historical method consists in investigating the documents in order to determine what is the true or most plausible story that can be told about the events of which they are evidence. A true narrative account, according to this view, is less a product of the historian’s poetic talents, as the narrative account of imaginary events is conceived to be, than it is a necessary result of a proper application of historical “method”. [...] insofar as this representation resembles the events that it represents, it can be taken as a true account.38

È evidente che White non nega la differenza di statuto tra fatti reali e immaginari, ma sostiene che fiction e storia condividono il mezzo narrativo per la rappresentazione di questi fatti. Per molti storici, però, l’atteggiamento di White rimane potenzialmente pericoloso, in quanto se la forma narrativa emerge dai fatti stessi, resta da spiegare come mai più narrazioni degli stessi eventi siano possibili. E se la forma da dare agli eventi è condizionata dall’“intuizione” dello storico, allora diventa difficile parlare di fatti storici oggettivi. Ma White ritiene che il

37 White, Hayden, The Content of The Form. Narrative Discourse and Historical Representation, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1987, p.20.

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fatto che in campo storico non si possa parlare di “oggettività” come nel campo scientifico non implica che la storia (come la letteratura) non sia in grado di dire qualcosa sulla realtà.39

Le idee di White hanno incontrato maggior favore presso gli scrittori di

fiction in ambito postmoderno40. Se storia e fiction condividono la stessa forma narrativa molti dei problemi del romanzo storico riguardo alla mescolanza tra generi dallo statuto diverso vengono a cadere, e il romanzo storico può incontrare una nuova fase di splendore, reinventandosi come historiographic metafiction.

1.4 Prime reazioni

L’insieme di queste caratteristiche del Postmodernismo non fu accolto con uguale favore da tutti gli studiosi. La sfida sempre più accentuata alla possibilità di rappresentazione della realtà “come essa è” è stata interpretata da molti come un disimpegnato richiudersi del romanzo su se stesso e sul proprio linguaggio, e un’indifferenza verso le conseguenze etiche di questo atteggiamento. I primi attacchi alla letteratura (o in generale all’arte) postmoderna giunsero dal fronte della critica marxista, in particolare dai suoi due principali rappresentanti in ambito statunitense e britannico, Frederic Jameson e Terry Eagleton. In due saggi pubblicati su rivista nello stesso anno (1985) i due critici esprimono il loro dissenso nei confronti di un’arte che vedono come chiusa nei suoi mondi di finzione: una tale arte si limiterebbe a riflettere le strutture sociali e ideologiche della società contemporanea, senza aspirare a criticarle o cambiarle, essendone completamente assorbita. In Postmodernism and Consumer Society,41 Jameson ritiene che il Postmodernismo si limiti a riprodurre in forma artistica (e dunque a rinforzare) la logica tardo-capitalista, caratterizzata da “new types of consumption; planned obsolescence; an ever more rapid rhythm of fashion and styling changes; the penetration of advertising, television and the media generally

39 Ibidem, pp.26-27.

40 Cfr. Hutcheon, Linda, op.cit., p.143: “It is interesting that the work of Hayden White has arguably had more impact in literary than in historical circles. By opening history up to the rhetorical strategies of narrative, White has also raised questions that contemporary fiction has been asking. What constitutes the nature of reference in both history and fiction? (Is it the same? Totally different? Related?) How exactly does language hook onto reality?”

41 Jameson, Fredric,“Postmodernism and Consumer Society” in Brooker, Peter (Ed.)

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to a hitherto unparalleled degree throughout society”,42 e via dicendo. Il Postmodernismo riproduce e accentua alcune delle novità espressive del modernismo, ma in maniera superficiale, senza la carica sovversiva che caratterizzava quest’ultimo. Jameson disapprova anche la nuova visione della storia e del passato di cui si è trattato sopra, che condannerebbe l’arte a rimanere chiusa in sé, a non avere accesso al mondo esterno:

Cultural production has been driven back inside the mind, within the monadic subject: it can no longer look directly out of its eyes at the real world for the referent but must, as in Plato’s cave, trace its mental images of the world on its confining walls. If there is any realism left there, it is a ‘realism’ which springs from the shock of grasping that confinement and realizing that, for whatever peculiar reasons, we seem condemned to seek the historical past through our own pop images and stereotypes about the past, which itself remains forever out of reach.43

Anche Eagleton ritiene che il Postmodernismo abbia perso la carica eversiva dell’avanguardia modernista: infatti è vero che anche la seconda si era distaccata dal mondo “for an art which would be less ‘reflection’ than material intervention and organizing force”,44 ma ciò avveniva come forma di protesta; invece

The aesthetics of postmodernism is a dark parody of such anti-representationalism: if art no longer reflects it is not because it seeks to change the world rather than mimic it, but because there is in truth nothing there to be reflected, no reality which is not itself already image, spectacle, simulacrum, gratuitous fiction.45

Le proteste di Jameson e Eagleton partono da una visione dell’arte come punto di vista privilegiato di critica sociale e resistenza alla logica capitalista, criteri che il la concezione postmoderna non soddisferebbe. Di solito, fin da Auerbach e Lukacs, il tipo di romanzo che soddisfa questi criteri è considerato quello realista. Al contrario, per alcuni critici l’arte postmoderna si presenta come profondamente politica, e proprio in contrasto col realismo. Federico Bertoni, nel suo studio sul realismo,46 nota come da Roland Barthes in poi molti studiosi

42 Ibidem, pp.178-79. 43 Ibidem, p.9.

44 Eagleton, Terry, “Capitalism, Modernism and Postmodernism”, in Eagleton, Terry, Against the

Grain, Essays 1975-1985, London, Verso, 1988, p.133.

45 Ivi.

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“abbiano insistito sul carattere ideologico, intrinsecamente autoritario e repressivo del discorso realista, che tende al riconoscimento del già noto, alla conferma del familiare, al mantenimento di un ordine ‘naturale’ delle cose che è invece sapientemente costruito”.47 Per Alison Lee gli scrittori realisti partivano da un

pregiudizio di fondo, che era quello di considerare possibile l’accesso alla realtà al di là del linguaggio, mentre “reality is a purely linguistic construct and, if any mirroring takes place, it is of linguistic structures.”48 Le strategie postmoderne

sono sovversive perché portano allo scoperto l’ideologia nascosta dietro il procedimento realista, che intende presentarsi come mezzo di accesso diretto alla verità mentre è invece una strategia linguistica al pari delle altre. Un critico di stampo liberal-umanista come Gerald Graff ha però notato che proprio questo atteggiamento sarebbe inevitabilmente superato, perché l’ideologia che stava dietro al realismo, e che il Postmodernismo combatterebbe, non esiste più: la società tardo-capitalista di oggi non è più quella monolitica ottocentesca che tenta di reprimere ogni eterodossia, al contrario è una società dalle grandi capacità di cambiamento e adattamento, in cui “values, ideas, artworks, and other products of the spirit are assimilated into the logic of the fashion industries.”49 Graff

condivide inoltre l’idea di Jameson e Eagleton rispetto a un pericoloso allontanamento dalla realtà della letteratura postmoderna, oltre che della critica coeva, che insiste sul fatto che la letteratura non possa veramente parlare del mondo, ma solo di se stessa.50 Auerbach notava come la letteratura realista aspirasse a una descrizione veritiera del mondo che condividesse l’obiettività della scienza51; nell’era postmoderna si nega che qualunque forma di conoscenza, scienza compresa, abbia possibilità di accesso alla verità del reale.52 Ma per Graff sostenere che non si può parlare del mondo in nessun modo è tanto il frutto di un’ideologia quando credere che i fatti siano sempre descrivibili oggettivamente, mentre i metodi sperimentali della letteratura postmoderna perdono di forza se

47Ibidem, p.34.

48 Lee, Alison, op.cit., 1990, p.25.

49 Graff, Gerald, Literature against Itself. Literary Ideas in Modern Society, Chicago, Ivan R. Dee, 1995, p.119.

50 Graff si riferisce soprattutto a personalità come Barthes, Fish, de Man e Hillis Miller. 51 Auerbach, Erich, op.cit., p.272.

52 Cfr. Graff, Gerald, op.cit., p.15: “We reconcile science and literature not by rehabilitating the truth-claims of literature but by undermining those of science”.

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ripetuti all’infinito o portati all’esagerazione. Quello che Graff auspica è un approccio in grado di restaurare “that state of balance between unchecked fabulation and objective social realism without which fiction [...] must ‘go slack,’ degenerating into trivial playing with the infinity of imaginative possibilities.”53

Per Hutcheon, invece, contrapporre il romanzo postmoderno a quello realista sostenendo che il primo si distacca dalla realtà del mondo per chiudersi su se stesso è errato; questa è una critica che va mossa semmai al modernismo, che vede l’opera d’arte come oggetto autonomo che si regge sulle relazioni formali tra le sue parti, mentre la forma della historiographic metafiction torna a confrontarsi con il mondo e con la realtà storica. Questa realtà non può però più essere direttamente quella empirica, ma solo quella di testi e intertesti attraverso i quali accediamo a quella realtà. Ciò, come per White, non vuol dire negare l’esistenza dei fatti, ma riconoscere che possiamo accedere a questi fatti soltanto tramite documenti in forma narrativa: “The past really did exist. The question is: how can we know that past today? – and what can we know of it? [...] What is the ontological nature of historical documents?”54 Così la letteratura postmoderna si

trova a essere doppiamente sovversiva: “What historiographic metafiction challenges is both any naive realist concept of representation but also any equally naive textualist or formalist assertions of the total separation of art from the world.”55 Il romanzo postmoderno è quindi mimetico e non mimetico allo stesso

tempo, non è anti-referenziale ma vede l’accesso al mondo dei referenti come puramente testuale. Questa indecidibilità però è proprio ciò che molti hanno rimproverato al Postmodernismo: in questo modo il romanzo si limiterebbe a criticare le rappresentazioni della realtà che l’hanno preceduto, senza proporre nulla di positivo, come per molti il decostruzionismo «non porta a una soluzione, ma illustra i caratteri e i limiti, i presupposti inespressi e le premesse storiche del concetto preso in esame.»56 Wesseling rimprovera a Hutcheon proprio questo atteggiamento decostruzionista, che vede l’aspetto emancipatorio del Postmodernismo solo nel sovvertimento dello status quo e nel rifiuto di risolvere

53 Ibidem, p.238.

54 Hutcheon, Linda, op.cit., pp.92-93. 55 Ibidem, p.125.

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le contraddizioni anziché in una proposta “positiva”. Wesseling insiste invece sull’intento politico utopico di molta historiogaphic metafiction, cioè la volontà di sovvertire le leggi della storia e di mescolare fatti e immaginazione al fine di portare in primo piano eventi e personaggi marginalizzati dalla storiografia ufficiale, con un atteggiamento dunque ben lontano dal disimpegno rimproverato dai critici marxisti.

In questo dibattito si trovano alcuni dei temi che hanno contrapposto i difensori e i detrattori del Postmodernismo; le critiche di personalità come Eagleton, Jameson e Graff sono di natura “politica”, nel senso che contestano il disimpegno del Postmodernismo nel suo distacco dalla realtà. Questa critica contiene già un aspetto etico, e le risposte dei difensori della letteratura postmoderna non sono bastate a interrompere l’ulteriore sviluppo di questo dibattito.

1.6 La svolta etica

Rüdiger Heinze in Ethics of Literary Forms57 individua alcuni dei fattori

storico-culturali che hanno favorito il rinnovato interesse per le questioni etiche negli anni ‘90, tra cui la diffusione di internet, nuove scoperte nel campo della genetica, le discussioni sull’AIDS negli anni ’80, la globalizzazione. Di fronte a questi nuovi problemi, per Heinze, si rivelavano ugualmente inadatti i modelli etici tradizionali e le teorie post-strutturaliste. Tra i fattori che favoriscono la svolta in ambito critico e letterario, invece, vanno enumerati quelli che gettano un’ombra sempre più pesante su decostruzionismo e post-strutturalismo. Tra questi, la scoperta, nel 1987, di alcuni articoli di stampo marcatamente anti-semita scritti da Paul de Man per il giornale belga Le Soir durante la guerra.58 L’approccio decostruzionista di de Man era già stato visto come eticamente inadeguato da molti, soprattutto nella sua affermazione che l’etica è “a discursive mode among others”59, e ora questi articoli compromettevano gravemente una

57 Heinze, Rüdiger, Ethics of Literary Forms in Contemporary American Literature, Münster, LIT Verlag, 2005.

58 L’episodio è giudicato rilevante sia inBarry, Peter, op.cit., pp.279-281 che in Groden, M. et al. (ed.), op.cit., p.111.

59 De Man, Paul, Allegories of Reading, cit.in Parker, David et al. (ed.), Renegotiating Ethics in

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delle personalità più importanti della critica post-strutturalista. Ma secondo Barry, a fare ancora più danno fu la difesa pubblicata da Derrida, un articolo di più di sessanta pagine in cui il filosofo comincia le sue riflessioni speculando sul concetto di responsabilità. Le conseguenze vengono così descritte da Barry:

Derrida did feel the need to defend de Man, but he seemed to be using all the subtleties of deconstruction in order to do so, so that all those convictions about the unreliability of language, and the fragility of notions of truth and the self, were brought into play. The result was inevitable – such concepts begin to seem themselves morally suspect, for questioning the very concept of responsibility seems to glide towards denying that we are responsible for what we do and say.60

Un altro episodio riportato da Barry è la pubblicazione dell’articolo The

Gulf War Did Not Take Place di Jean Baudrillard nel 199161. In questo testo il filosofo analizza la guerra del Golfo, sostenendo che essa si è giocata quasi tutta sul piano mediatico, diventando, secondo la terminologia di Baudrillard, il “simulacro” di una vera e propria guerra e testimoniando il potere dei media nel condizionare gli spettatori rendendoli incapaci di distinguere la realtà dalla sua rappresentazione. L’articolo non fu preso metaforicamente, ma alla lettera, trasformando Baudrillard nel filosofo che negava l’esistenza della guerra del Golfo:

Hence, he became the whipping-boy of anti-theorists and the target for high-moral-ground condemnations of postmodernism, which was now, in the 1990s, being seen as representative of literary theory in general (following the sequence of linguistics in the 1960s, structuralism in the 70s, and deconstruction in the 80s).62

L’accusa che è stata rivolta in questi anni agli scrittori postmoderni, così come ai critici post-strutturalisti, è stata dunque quella di aver spinto tanto in là lo scetticismo sui valori etici e sull’affidabilità della rappresentazione della realtà da arrivare, da una parte, a un pericoloso relativismo morale, e, dall’altra, alla negazione dell’esistenza stessa della realtà in sé, legittimandone dunque la manipolazione, con ulteriori conseguenze negative dal punto di vista etico.

60 Barry, Peter, op.cit., 2009, p.280.

61 Baudrillard, Jean, The Gulf War did not Take Place, Indianapolis, Indiana University Press, 1995 (tr. Paul Patton).

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25

Se questo portava all’esigenza di rispolverare l’etica nella critica letteraria, rimaneva la necessità di definire cosa si intendesse per etica, e perché questo concetto fosse “passato di moda”. Ripercorrendo lo sviluppo dell’ethical criticism dall’inizio degli anni ’90, Stef Craps63 nota come dagli anni ’70 alla prima metà

degli ’80 le questioni etiche fossero per lo più assenti nell’ambito degli studi letterari, incentrati, come si è visto, sull’analisi della natura linguistica dei testi e del confronto con la realtà. Anche alla fine degli anni ’80, quando il testualismo comincia a essere scalzato da altri approcci di interesse maggiormente storico e sociale,64 permane il sospetto nei confronti dell’etica, considerata come espressione dell’ideologia dei gruppi dominanti. Il fatto è che una visione etica della letteratura portava subito alla mente la posizione di critici umanisti dei primi decenni del secolo, in particolare degli esponenti britannici del new criticism, F. R. Leavis e I. A. Richards. Soprattutto il primo è noto per aver propagato uno studio critico dal taglio marcatamente morale, secondo il quale il fine della letteratura è “to teach us about life, to transmit human values.”65 Questo è reso

possibile da una specifica concezione della letteratura, tipica della cultura liberal-umanista del periodo e riassunta da Barry in una serie di punti principali, tra i quali: l’idea che il testo letterario possieda il suo significato in sé, indipendentemente dal momento storico o dall’ambito sociale in cui viene prodotto; la visione della natura umana come essenzialmente immutabile attraverso la storia, cosa che rende possibile l’elezione di opere letterarie senza tempo per la loro propagazione di valori universali; la fiducia nella capacità dei “buoni” scrittori di superare la distanza che separa le parole dalle cose, rendendo il linguaggio “sincero” e capace di “truth-to-experience, honesty towards the self, and the capacity for human empathy and compassion.”66 Tutti questi concetti di

base sono stati messi in discussione dagli sviluppi critici e teorici della seconda metà del secolo, la cui critica alla stabilità dei valori vien ancor più schematicamente riassunta da Barry nel seguente modo:

63 Craps, Stef, Trauma and Ethics in the Novels of Graham Swift. No Short-Cuts to Salvation, Brighton, Sussex Academic Press, 2005, pp.5-24.

64 Come il New Historicism, il Cultural Materialism, la letteratura e critica postcoloniale, quella femminista, i Gay Studies e via dicendo.

65 Barry, Peter, op.cit., 2009, p.16. 66 Ibidem, p.19.

(26)

26 Politics is pervasive,

Language is constitutive, Truth is provisional, Meaning is contingent, Human nature is a myth.67

Il problema per i nuovi critici etici diventa quindi quello di tenere in considerazione questi aspetti, ma impedire allo stesso tempo che essi sfocino in insostenibili forme di relativismo etico. Secondo Heinze la critica etica si è mossa in tre direzioni differenti:68

1- recupero di valori etici tradizionali, ad esempio secondo il modello pre-moderno aristotelico;

2- elaborazione di nuovi concetti che si adattino alla contemporaneità, spesso ponendo l’accento sul concetto di alterità;

3- tentativi di “salvare” il decostruzionismo mostrando che esso aveva sempre tenuto in considerazione gli aspetti etici.

Il primo sviluppo è riferibile a due dei principali rappresentanti degli inizi della svolta etica, Wayne Booth e Martha Nussbaum. Booth può esserne considerato il pioniere, con la pubblicazione di The Company We Keep69 nel 1988. Per Booth “ [an] ethical criticism attempts to describe the encounters of a story-teller’s ethos with that of the reader or listener.”70 Per etica si intende dunque un

insieme di valori esemplificati da un testo, con il quale il lettore si confronta e nei confronti dei quali esprime un giudizio. Infatti tutte le storie contengono “[the] author’s implied judgements about how to live and what to believe about how to live”,71 e chi le legge non può non essere invitato a una forma di giudizio etico. I

critici dei decenni precedenti hanno cercato di negare questa circostanza per diversi motivi, prima di tutto perché essa presuppone un’intenzione autoriale del testo, cosa che nell’era delle analisi testuali e della morte dell’autore non era

67 Ibidem, p.35.

68 Heinze, Rüdiger, op.cit, 2005, p.17.

69 Booth, Wayne, The Company We Keep. An Ethics of Fiction, Los Angeles, University of California Press, 1988.

70 Ibidem, p.8.

71 Booth, Wayne, ”Why ethical criticism can never be simple” in Davis, Todd F. And Womack, Kenneth (ed.), Mapping the Ethical Turn. A Reader in Ethics, Culture and Literary Theory, Charlottesville, University Press of Virginia, 2001, p.19.

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considerata accettabile, e in secondo luogo per via della problematicità dei giudizi etici, che sono per loro natura controversi, dal momento che esiste una così vasta pluralità di punti di vista e di valori. Questa variabilità deve sicuramente essere presa in considerazione, anzi è proprio dal dialogo tra punti di vista differenti che deve nascere il giudizio letterario che Booth chiama “coduction”: un giudizio etico sul testo letterario che tiene conto delle esperienze pregresse di chi lo formula e del confronto con altri giudizi di valore diversi. Ma il tener conto di questa pluralità non deve significare sfociare nell’indecidibilità decostruzionista o nel relativismo:72 innanzitutto su un’opera o un fatto non può esistere un’infinità di punti di vista, ma solo una molteplicità; a differenza di critici come Stanley Fish, Booth torna all’idea che il testo contenga un senso, un valore, almeno in potenza, e che il pluralismo interpretativo che ne può derivare sia un “pluralism with limits”73. Se non è possibile formulare un giudizio universale e definitivo sul

senso e il valore di un testo, per Booth è ugualmente innegabile che tutti i testi mettano i lettori a confronto con delle “ethical challenges”, nei confronti delle quali essi non possono restare indifferenti: “The fact that no narrative will be good or bad for all readers in all circumstances need not hinder us in our effort to discover what is good or bad for us in our condition here and now.”74

Nussbaum condivide l’idea di Booth che ogni testo sia inseparabile dal giudizio etico che propone sul mondo, e questo in contrasto con una visione puramente estetica della letteratura.75 Per Nussbaum al cuore dell’etica si trova il processo di immedesimazione, cioè la capacità di comprendere i sentimenti di un’altra persona e di provarne compassione, e la letteratura è profondamente etica perché permette di coltivare quelle capacità immaginative che favoriscono questo processo. Leggere una storia significa proiettarsi in un’esistenza che non è la nostra e capire dunque quali sono le nostre responsabilità nei confronti degli altri. L’immedesimazione è un processo fondamentale dal punto di vista etico e civico, cioè la letteratura fornisce gli insegnamenti che tutti dovrebbero ricevere per

72 Ibidem, p.27: “An ethical criticism that merely describe the conflicts, without permitting any statement of agreement or disagreement, is cowardly.”

73 Booth, Wayne, The Company We Keep, op.cit., p.489. 74 Ivi.

75 Nel saggio “Exactly and Responsibly. A Defense of Ethical Criticism” ( in Davis, Todd F. And Womack, Kenneth (ed.), op.cit., pp.59-79) Nussbaum rivendica la propria posizione di fronte alle critiche di Richard Posner, espresse nel saggio Against Ethical Criticism.

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