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Arthur & George di Julian Barnes

4.4 Apertura e chiusura narrativa

L’analisi di Weese è convincente sotto alcuni punti di vista, ma in altri casi non emerge dal romanzo in maniera così chiara, soprattutto per quel che riguarda il progresso di George verso una visione della realtà più aperta di quella di Arthur. Quando George si reca alla seduta spiritica cerca avidamente di “vedere”, di capire, e se alla fine non si dà una risposta è solo perché non può, e non perché si sia liberato dagli schemi narrativi che imprigionavano Arthur. La successione delle tre domande finali può anche essere interpretata come una sequenza concitata, l’espressione di una sorta di ansia conoscitiva che non si arrende neppure di fronte a ciò che non può essere conosciuto. Ci sono poi dei punti del romanzo in cui è Arthur a sembrare più disposto a versioni “aperte” dei fatti rispetto a George, come quando quest’ultimo si rifiuta di riconoscere il razzismo come possibile causa della propria condanna e Arthur ribatte che “[p]erhaps others can see what you cannot” (216). Arthur del resto è più postmoderno di George nella sua tendenza a confondere realtà e fiction, una tendenza di cui cerca di liberarsi riconoscendo i “pericoli” dell’immaginazione artistica. Tali pericoli trovano una perfetta incarnazione nel personaggio del padre di Arthur: debole, bevitore, incapace di mantenere la famiglia col proprio lavoro di artista, che è “irresponsabile” anche nel contenuto, dato che il pittore eccelle nella rappresentazione di soggetti fantastici (“what he liked to paint best, and was most remembered for painting, was fairies”, 8), il padre incarna quei risvolti dell’arte che Arthur disprezza e da cui intende liberarsi. L’influenza della fiction sulla realtà non viene dunque valutata in maniera positiva dai personaggi, ma mentre George è più deciso al riguardo, Arthur ha una posizione più ambigua. Le insidie del potere dell’immaginazione continuano a perseguitarlo: il successo di Sherlock Holmes, che lega la sua esistenza a un personaggio di fantasia, comincia a infastidirlo, tant’è vero che a un certo punto decide di liberarsene scrivendo una storia in cui il detective viene ucciso. Proprio la morte di Sherlock riempie Arthur di disgusto rispetto al potere della fiction, quando scopre che, mentre lui sta lottando contro la malattia di Touie e la notizia della morte del padre, i suoi lettori affezionati indossano segni di lutto per la morte di un personaggio fittizio (64).

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Anche il suo articolo su George, nonostante riceva ampia risonanza, non riscuote lo stesso interesse delle sue creazioni di fiction: “[i]n a seminal reversal of the priority of ‘facts’ over ‘stories’, Conan Doyle’s detective fiction elicits a much promoter public response than its intervention in a real-life case of injustice; in a sense, his fiction is more real to his readership than the plight of one of its members or the need for Courts of Appeal”.33 Doyle riceve lettere dai suoi lettori

indirizzate a Sherlock (209), e quando inizia le indagini sul caso Edalji viene rimproverato di star facendo confusione tra sé e il proprio personaggio non solo dai suoi avversari, ma anche, tacitamente, da George, che ritiene che la ricostruzione di Arthur non sia esente da errori e che ciò sia colpa del suo voler procedere con i metodi di Sherlock Holmes.34 Il capitano Anson rimprovera Arthur per la distanza che separa le sue storie dal “real world”, suscitando in lui una serie di riflessioni:

his [Arthur’s] mind had snagged on the phrase ‘the real world’. How easily everyone understood what was real and what was not. The world in which a benighted young solicitor was sentenced to penal servitude in Portland... the world in which Holmes unravelled another mystery beyond the powers of Lestrade and his colleagues... or the world beyond, the world behind the closed door, through which Touie had effortlessly slipped. Some people believed in only one of these worlds, some in two, a few in all three. Why did people imagine that progress consisted of believing in less, rather than believing in more, in opening yourself to more of the universe? (265)

Questo paragrafo è molto interessante, perché fa assumere ad Arthur una fisionomia decisamente “postmoderna” nella sua considerazione paritaria di mondi dallo statuto ontologico completamente diverso. Se si vede il personaggio sotto questo punto di vista, allora quello di George non rappresenta una maggiore apertura, ma semmai una correzione etica del punto di vista a tratti “troppo aperto” di Arthur. George ha pagato sulla propria pelle il prezzo della manipolazione immaginativa della realtà, e ritiene che fiction e realtà debbano rimanere ben separate (“it was all the fault of Sherlock Holmes”); è disturbato dalla sensazione che l’articolo di Arthur l’abbia trasformato nel personaggio di un

33 Schneider, Ana-Karina, op.cit., p.58.

34 “This was where Sir Arthur’s excess of enthusiasm had led him. And it was all, George decided, the fault of Sherlock Holmes. Sir Arthur had been too influenced by his own creation” (305).

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romanzo (297). Il punto di vista generale di Arthur & George sembra essere più vicino a quello di George che a quello proposto da Arthur, in quanto la linea di separazione tra fiction e fatti non viene confusa, ma semmai sottolineata. Childs trova che “[p]art of the intrigue of Arthur & George is directed at the play on distinctions between fact and fabulation, and Barnes seems deeply sceptical throughout his fiction of the notion of an accurate version of events”.35 Ma lo

scetticismo nei confronti della possibilità di arrivare ai fatti in sé non porta a una celebrazione del processo di fabulation, quanto semmai, come nei romanzi analizzati nei precedenti capitoli, a una sua critica: se le forme di narrazione tradizionali sono viste come potenzialmente false o manipolatorie, la percezione della loro distanza dalla realtà non porta a una celebrazione dell’apertura e delle possibilità della narrazione, ma viene presentata come un problema. I personaggi continuano a insistere sulla ricerca della verità e di nuove narrazioni che si adeguino meglio alla loro posizione, anziché arrendersi alla pluralità. E, come si è visto, la loro caparbietà viene trattata con rispetto dal narratore: la profondità con cui i protagonisti affrontano il problema del rapporto tra narrazione e realtà rende evidente il fatto che le loro preoccupazioni riguardo alla necessità etica della ricerca della verità non rappresentano idee datate di una fase storica in declino, ma problemi con cui ancora oggi uno scrittore sente il bisogno di confrontarsi. Il processo narrativo viene visto in maniera negativa se non aspira a una rappresentazione il più possibile “vera” della realtà, vista, nonostante le difficoltà, come scopo della narrazione, e non come punto irraggiungibile da cui non resta che distanziarsi. La mancanza di aderenza alla realtà delle narrazioni non è infatti assoluta, ma si presenta sempre in maniera “percentuale”:36 Barnes, come visto,

ritiene che la forma del romanzo da lui praticata sia più vicina alla realtà rispetto a quella del racconto giallo, dunque non tutte le forme narrative si equivalgono: occorre selezionare quella che cerca di ridurre al minimo il “potere” della fiction sui fatti. Tale forma non è necessariamente la più aperta o sperimentale; la ricerca

35 Childs, Peter, Julian Barnes, op.cit., p.139.

36 “We all know objective truth is not obtainable, that when some event occurs we shall have a multiplicity of subjective truths which we assess and then fabulate into history […]. But while we know this, we must still believe that objective truth is obtainable; or we must believe that it is 99 per cent obtainable; or if we can’t believe this we must believe that 43 per cent objective truth is better than 41 per cent” (Barnes, Julian, A History of the World in 10½ Chapters, London, Picador, 1989, p.246).

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di forme chiuse e lineari da parte di Arthur e George si scontra con una maggiore complessità della realtà, ma non con una sua apertura illimitata: nonostante giochi sul significato delle parole beginning e ending, Arthur & George possiede un inizio, una parte centrale e una conclusione, basati sullo sviluppo delle vite dei protagonisti, la descrizione delle circostanze che portano al loro incontro, e l’ultimo “contatto” che si stabilisce tra i due con la morte di Arthur. Presenta quindi una struttura narrativa tradizionale, diversa da quella di A History of the

World, che Finney definisce “discontinuous” e “achronological”,37 e di Flaubert’s

Parrot, che si presenta come un collage di capitoli potenzialmente

interscambiabili nell’ordine. Il tono incerto del finale è in parte paragonabile a quello di Flaubert’s Parrot, con l’affermazione che una versione certa degli eventi relativi al caso di Great Wirley non potrà essere data, ma non tutto rimane nell’incertezza, ad esempio l’ipotesi di colpevolezza di George non viene presa in considerazione.38