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“Fatti” e narrazione in The Biographer’s Tale di A S Byatt

2.1 Il contesto britannico

I cambiamenti avvenuti nella narrativa britannica della seconda metà del secolo scorso si collegano ai fattori delineati nel capitolo precedente, con alcuni elementi peculiari. In Inghilterra l’esperienza modernista era stata particolarmente intensa, con scrittori del calibro di Woolf e Joyce, e il primo impulso degli autori che si trovarono a scrivere dopo il secondo conflitto mondiale fu quello di rifiutare l’elitarismo e la sperimentazione linguistica che aveva caratterizzato i loro precursori. Questa generazione di autori, a cui appartengono i cosiddetti “angry young men”,1 intendeva riportare in vita un realismo classico, ispirato alle

tecniche di Dickens e Fielding e in grado di evidenziare problemi di natura sociale e politica da cui la narrativa modernista si era inevitabilmente distaccata, tra i quali:

the social frustrations and aspirations of many people of that time, including a concern for the condition of the working and lower middle classes after the war; a discontent that theWelfare State had not reached far enough in eliminating remaining class privileges and inequalities; an implicit criticism of the British class structure; a distaste for the profit motive; a mockery of the old bases of morality and of any kind of gracious living; and a loathing of all forms of pretentiousness.2 Questa tendenza al realismo viene però interrotta dall’affermarsi delle teorie e delle pratiche letterarie legate al Postmodernismo, le cui caratteristiche sono già state evidenziate. Tuttavia, secondo Patricia Waugh, “British novelists on the whole responded somewhat cautiously to the contemporary theoretical turn by assimilating continental versions of textual self-referentiality and social constructionism into an indigenous fictional tradition.”3 Waugh si riferisce, da una parte, alla presenza molto forte di una tradizione legata all’empirismo, tale che

1 Nella narrativa ci si riferisce soprattutto a Kingsley Amis, Iris Murdoch e John Wain. Cfr. Salwak, Dale, “The ‘Angry’ Decade and After”, in Shaffer, Brian W. (ed.), A Companion to the British and Irish Novel. 1945-2000, Oxford, Blackwell Publishing, 2005, pp. 21-31.

2 Ibidem, p.23.

3 Waugh, Patricia, “Postmodern Fiction and the Rise of Critical Theory”, in Shaffer, Brain W. (ed.), op.cit., p. 69.

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“even overtly experimental novelists have usually conducted their textual playfulness in tension with an underlying if conflicted attachment to an attenuated realism”;4 dall’altra, al fatto che l’Inghilterra aveva già conosciuto autori e filosofi “pre-postmoderni”, come Beckett e Wittgenstein, e dunque la rottura con la tradizione, portata dall’avvento del Postmodernismo continentale, sarebbe sembrata meno netta.

Gli esordi di A. S. Byatt sono in effetti ben lontani dalla poetica del Postmodernismo e più vicini al realismo, ma la scrittrice ha spesso parlato delle sue difficoltà nel trovare dei modelli precisi a cui fare riferimento. Il suo primo romanzo, The Shadow of the Sun, fu pubblicato nel 1964 e nell’introduzione alla ristampa quasi trent’anni dopo, Byatt ha confessato molte indecisioni riguardo alla forma da dare al suo primo tentativo narrativo:

I had awful problems with the form of the novel. I had no model I found at all satisfactory. I should say now that the available models, Elizabeth Bowen, Rosamund Lehmann, Forster, Woolf, were all too suffused with ‘sensibility’, but that I disliked the joky social comedy of Amis and Wain considerably more than I disliked ‘sensibility’.5

È solo con la pubblicazione del suo romanzo più conosciuto, Possession (1990), che Byatt ha cominciato a essere associata ad alcune caratteristiche della narrativa postmoderna, tra cui l’autoriflessività, il pastiche letterario, la forte intertestualità e un’affermazione dei limiti e della relatività della conoscenza della realtà, soprattutto quella passata. D’altra parte il romanzo contiene anche noti spunti di critica nei confronti delle teorie postmoderne, sulle quali Byatt si è pronunciata spesso negativamente non solo come scrittrice, ma anche come critica letteraria. La sua posizione riguardo al Postmodernismo, come quella verso il realismo, presenta dunque una certa ambivalenza, che accentua la difficoltà, o meglio la non volontà della scrittrice di inserirsi in una specifica corrente letteraria. In ogni caso, sebbene Byatt abbia continuato a dichiarare anche in seguito di non riconoscersi completamente né nella generazione di scrittori più

4 Ivi.

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anziani di lei né in quella di scrittori più giovani,6 Alfer e de Campos trovano che la sua scrittura si inserisca molto bene nella narrativa dell’inizio del secondo millennio:

By the turn of the millennium, Byatt seemed to sit much more comfortably on the map of contemporary British writing than she had done as a young novelist in the 1960s and 1970s. Back then, and in an environment in which novels of gritty social realism, at one end of the spectrum, or anglicised reworkings of the nouveau roman, at the other, were considered to be desirable literary models, it was somewhat easier to dismiss Byatt as an elitist or overly intellectual literary figure than it is in today’s literary climate, where more and more contemporary novelists are rediscovering the power of narrative to grapple with important questions of our time.7

È proprio all’inizio del millennio che appartiene l’opera qui presa in esame,

The Biographer’s Tale, pubblicato nel 2000. Questo romanzo condivide con Possession una certa ambivalenza nei confronti delle teorie postmoderne, e vi

aggiunge, come si vedrà a breve, alcuni spunti di riflessione etica sulla narrativa in generale. L’ambiguità nei confronti del Postmodernismo è anzi direttamente connessa a problemi di natura etica. Franken,8 ad esempio, ritiene che il rifiuto di Byatt rispetto ad alcuni aspetti del post-strutturalismo dipenda da una sua parziale condivisione delle idee di Leavis sul valore etico della letteratura. Non è dunque sbagliato inserire Byatt nella fase di interesse per l’etica della narrativa caratteristica della fine degli anni ’90 e dell’inizio del 2000, e The Biographer’s

Tale, a questo riguardo, costituisce un esempio interessante.

6 Cfr. l’intervista a Byatt di Chevalier, Jean-Louis (1994), cit. in Alfer, Alexa e de Campos, Amy J. Edwards, A. S. Byatt. Critical Storytelling, Manchester e New York, Manchester University Press, 2010, p.155: “[T]here aren’t really any English novelists of my generation. There is a generation older than me, which consists of, say, Anita Brookner, Malcolm Bradbury, David Lodge, Penelope Lively, Penelope Fitzgerald, who is older than those, and Iris [Murdoch] . . . [a]nd Doris Lessing who is more than ten years older than I am. Then there is what I think of as the flamboyant generation, which is largely male and a lot of it not British in origin: Barnes, Rushdie, Mo, Ishiguro, Graham Swift, Caz Phillips, all of whom write wonderfully, but I don’t think they bear much relation to what I do. And then, there’s the generation after that, which does interest me, the generation of Lawrence Norfolk, Patricia Duncker, A. L. Kennedy. . . . But I don’t think there is a kind of schoolof Byatt.”

7 Ibidem, pp.9-10.

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