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3.2 Le problematiche di costituzionalità a seguito del nuovo art

3.1.3 Imparzialità e terzietà del giudice

Successivamente rispetto alla modifica di art 111, gran parte della dottrina aveva rilevato, in ambito fallimentare, la presenza di molteplici norme positive in contrasto con i principi di terzietà e imparzialità del giudice.

-Terzietà:

Per quanto concerne la terzietà̀ i casi più emblematici erano

rappresentati dal procedimento per dichiarazione di fallimento (ex art. 6 e art. t8 R.D n.267 del 1942) e dalle misure cautelari che il giudice delegato poteva emettere d’ufficio in relazione ad azioni di

responsabilità̀ nei confronti di amministratori e sindaci di società̀. Al riguardo, come abbiamo visto, la giurisprudenza della corte costituzionale, ancorata ancora al disposto dell’art 51 c.p.c come parametro della terzietà e imparzialità, respinse tali ipotesi di incompatibilità. Nella sentenza n.240 del 30/06/2003, la corte fu chiamata a esprimersi sull'incompatibilità di art. 8 del r. d. n. 267 del 1942 (il quale prevedeva che il giudice dovesse riferire

dell’insolvenza di un imprenditore emersa nel corso di un giudizio civile al tribunale competente per la dichiarazione di fallimento anziché́ al pubblico ministero presso detto tribunale) e art. 6 (ove stabiliva che il fallimento potesse essere dichiarato d’ufficio dal tribunale) con il nuovo art. 111 cost. La corte respinse le ipotesi di illegittimità costituzionale affermando:

-In merito all’art 8 che in tale ipotesi, la notitia decoctionis era stata acquisita ab externo, e di conseguenza non era sostenibile che il giudice, chiamato ad accertare i presupposti del fallimento,

rivestito il ruolo dell'attore.

-per quanto riguarda l'art 6 invece bisogna intendere come questo ricomprenda tutte le ipotesi ove la notitia decoctionis sia giunta al giudice per un canale differente rispetto a quello dell’art 8 del suddetto decreto. Sul punto si ripete che non può dirsi compromesso il principio di terzietà-imparzialità” ove la conoscenza di una

situazione di fatto in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza derivi, non già da quella che, attesa l’informalità della fonte, ben può definirsi scienza privata del giudice, bensì da una fonte qualificata, perché formalmente acquisita nel corso di un

procedimento, del quale il giudice sia, come tale, investito”108. La corte quindi riaffermò dunque il principio per cui le finalità pubblicistiche, che caratterizzano la procedura fallimentare,

impongono al tribunale di attivarsi anche in assenza di un’iniziativa di parte, dando così attuazione alla volontà della legge, che ha già valutato l’interesse pubblico sotteso; conseguentemente non può dubitarsi che il tribunale, procedendo d’ufficio, "agisca non

come attore, ma nella sua veste giurisdizionale e

quindi super partes"109, rispettando dunque la terzietà e imparzialità. Tale posizione venne appoggiata in dottrina da alcuni autori che sostenevano la legittimità dell'iniziativa d'ufficio e liquidavano le critiche in materia di violazione del principio di terzietà come meri formalismi:” Non mi pare che nella concreta vita del diritto questo

sia un grave problema. Nessuno ha mai visto giudici fallimentari mettersi alla ricerca di imprenditori insolventi e la dichiarabilità d'ufficio rappresenta di sicuro un'opportuna semplificazione quando si tratti di estendere il fallimento per esempio al socio tiranno o a quello illimitatamente responsabile. Ma, se la cosa non piace nei

108 Corte cost sentenze n. 141 e n. 142 del 1970, n. 110 del 1972,

minimi termini in cui viene praticata, o se si temono abusi che forse potrebbero verificarsi (e magari talvolta si verificano) togliamola pure di mezzo. Avremo un giro di carte tra giudice fallimentare e p.m., che ritornerà al giudice la richiesta di dichiarazione del fallimento, e qualche ora di (inutile) impegno lavorativo in più. Pazienza, ma almeno il formalismo delle garanzie avrà segnato un punto a suo favore”110

Altro profilo rilevante di illegittimità̀ riguardava l’art. 146, comma terzo, del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui prevedeva che, prima dell’inizio della causa di merito, le misure cautelari, strumentali rispetto all’azione di responsabilità̀ contro gli amministratori e i sindaci, potevano essere disposte d’ufficio dal giudice delegato al fallimento, anziché́ su ricorso del curatore secondo le norme ordinarie (artt. 669-bis – 669-quaterdecies c.p.c.). La corte costituzionale si era espressa al riguardo ben prima della riforma

111(mantenendo tale orientamento in virtù del disconoscimento del

nuovo art 111 come elemento di novità) affermando che:” il giudice

delegato, nell’esercizio del potere cautelare attribuitogli dalla disposizione impugnata, pur valutando gli elementi risultanti dall’istanza del curatore e con l’ulteriore ausilio di sommarie e dirette informazioni, agiva non come attore ma nel suo ruolo giurisdizionale, valutando la sussistenza dei requisiti che devono essere la sicura base di qualsiasi provvedimento cautelare

(il fumus boni juris ed un effettivo periculum in mora), sentendo le parti - seppure dopo l'adozione del provvedimento per non

pregiudicare l'attuazione della misura stessa - e sempre con la garanzia dei successivi mezzi di impugnazione. Anche ai fini di

110 S.Chiarloni “Giusto processo e fallimento”in Riv. trim. dir. proc. civ., fasc.2,

2003, pag. 493

questo successivo riesame, il giudice deve motivare sulla ricorrenza in concreto dei requisiti che legittimano il

provvedimento, nonché sugli elementi di fatto e di diritto (da versare negli atti del giudizio principale) che giustificano quelle misure cautelari da lui ritenute "opportune".

Quest'ultima espressione è stata usata dalla norma non come equivalente di misura "conveniente" ad una parte, ma nel significato - quello più obiettivo, che si addice ad un

provvedimento giudiziale - dell'equilibrata adeguatezza...In questo procedimento, pertanto, i soggetti passivi delle misure cautelari vengono a trovarsi in contraddittorio, non col mero convincimento di un giudice-attore, ma con gli interessi e le ragioni sostenute dalla controparte, e con strumenti processuali, certo peculiari per la specificità della materia, ma pur sempre sufficienti a garantire la tutela del diritto di difesa, sia sotto il profilo

della terzietà del giudice, sia per l'essenziale dialettica processuale.”

-Imparzialità

In merito a tale aspetto vediamo che si trovavano molte disposizioni della legge fallimentare incompatibili, nello specifico parliamo di tutte quelle in cui si consentiva al giudice che aveva già assunto una decisione di svolgere la sua funzione di giudice in altre fasi del processo, o di giudicare in merito all'opposizione alla sua decisione (sentenza di fallimento e opposizione alla sentenza; decreto di esecutività̀ dello stato passivo e successive opposizioni e

impugnazioni). Sul secondo punto vediamo che la corte era rimasta ancorata al concetto di “altro grado” ex art 51c.p.c n4 considerando quindi l'obbligo di astensione solo ove il giudice avesse conosciuto la causa in un altro grado canonico del giudizio (primo grado, appello o

ricorso ordinario in cassazione). In tal senso dobbiamo registrare un’apertura della corte costituzionale, nella sentenza 5 ottobre 1999 ove, in contrasto con l'orientamento precedente affermò:

“l espressione "altro grado" non può avere un ambito ristretto al solo

diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere - con una interpretazione conforme a Costituzione - anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata (per la peculiarità del giudizio di opposizione di cui si discute) da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario.”Grazie a tale riconoscimento allora la corte

effettuò una distinzione fra i casi in cui l'oggetto del giudizio su cui il giudice fosse stato chiamato a giudicare fosse lo stesso rispetto a quello già esaminato (chiamando di fatto il magistrato a compiere valutazioni identiche a quelle già compiute) con pronuncia idonea ad acquisire la stabilità propria del giudicato, e i casi che invece non riguardavano il ”medesimo oggetto e la medesima valutazione”. Solo nei confronti della prima casistica la corte ritenne violato il principio costituzionale dell’imparzialità̀ e terzietà̀ della giurisdizione,

escludendo dalle ipotesi di incompatibilità a giudicare ex at 51 n.4 c.p.c, tutti i tutti i casi in cui il giudice si era occupato della causa ad altro titolo. In applicazione di tale orientamento, la giurisprudenza costituzionale nei primi anni 2000 si espresse su molte ipotesi di incompatibilità, dichiarando:

-La piena legittimità degli art. 98 e 99 legge fall., nella parte in cui il primo designa il giudice delegato al fallimento a decidere le

delegato sia il giudice istruttore della causa di opposizione.112

-infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51 c.p.c. ove non prevede che il giudice delegato del fallimento, il quale abbia autorizzato il curatore a promuovere contro gli amministratori della società̀ fallita azione di responsabilità̀ nonché́ il sequestro dei beni degli amministratori medesimi, debba astenersi dal giudicare nella causa medesima, in riferimento agli art. 3 e 24 cost.113

-manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 146 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, ove fissa la competenza del giudice delegato ad adottare le opportune misure cautelari, in luogo della normale competenza ante causam del giudice competente sul merito dell’azione e dell’art. 51 n. 4, c.p.c., ove non preveda che il giudice delegato, che abbia autorizzato l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ed ex amministratori della società fallita, debba astenersi dall'adottare le misure cautelari, ex art. 111, 2°comma, cost.114

Questa linea mortificatrice della corte costituzionale come vedremo porterà il legislatore a intervenire attraverso un ripensamento della disciplina (ex D. lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e il D.lgs 12 settembre 2007, n. 169) volto a bilanciare i valori costituzionali in gioco; la riforma travolse l'assetto precedente e soppresse tutte le ipotesi di incompatibilità che destavano sospetti:

a) Venne soppressa l'ipotesi di iniziativa officiosa ex art 6 e tutte le ipotesi residuanti che ad essa si richiamavano (artt. 147, 162, 173, 180, 186).

112 Corte Cost ordinanza 28/05/2001, n. 167 ,ordinanza 19/03/2002, n. 75

113 Corte cost.,ordinanza 31/05/2001, n. 176

b) Venne fissata la competenza della corte d'appello per

l'impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal tribunale;

c)Art. 98 fissa le impugnazioni proponibili davanti al tribunale avverso il decreto del giudice delegato che rende esecutivo lo stato passivo, e art 99 stabilisce che del collegio non possa fare parte il giudice delegato.

d)Ex art 25-26 l. fall contro i decreti del giudice delegato è proponibile reclamo al tribunale in formazione collegiale ma dal collegio viene esclusa la partecipazione del giudice delegato; e) Il potere di emettere misure cautelari ex art. 146 è stato soppresso.