• Non ci sono risultati.

Profili problematici inerenti il rito camerale contenzione alla luce del “giusto processo regolato dalla legge”: critiche dottrinal

e orientamento della corte costituzionale

Dopo aver sinteticamente affrontato l'argomento delle garanzie necessarie nel processo, affinché questo possa essere definito giusto, e dopo aver analizzato alcune teorie in merito alla conformità del rito camerale con il giusto processo vediamo come molti autori che si sono occupati di tale argomento, abbiano invece sollevato dubbi in merito alla costituzionalità del rito camerale contenzioso alla luce del mutato assetto normativo. Com’è noto, il dibattito giurisprudenziale e dottrinario sugli usi ed abusi del legislatore in materia di giudizio camerale sui diritti, era nato molti anni prima della novella dell’art. 111 Cost89 (soprattutto in merito al diritto di difesa, la tutela del

contraddittorio, la terzietà del giudice e l'instabilità del provv. Conclusivo), ma tale occasione consentì a parte della dottrina di ribadire e confermare le posizioni contrarie rispetto alla legittimità costituzionale del giudizio camerale. Il focus di tali critiche si concentrò soprattutto in merito alla novità rappresentata dall'espressione “regolato dalla legge” che per molti autori era traducibile come il riconoscimento in costituzione della necessità di una disciplina processuale determinata in ogni suo aspetto dal legislatore. Da ciò discendeva inevitabilmente l'illegittimità̀ di qualsiasi tutela giurisdizionale contenziosa decisoria, concretata da un giudizio di merito esclusivamente camerale e sommario: infatti in tale ottica l’unico procedimento che doveva essere ritenuto conforme alle garanzie del giusto processo era il procedimento ordinario a

89FAZZALARI E., Procedimento camerale e tutela dei diritti, in Riv. dir. proc.,

1988, 909 e ss.; DENTI V., I procedimenti camerali come giudizi sommari di cognizione: problemi di costituzionalità ed effettività della tutela, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1990, 1097 e ss.; LANFRANCHI L., I procedimenti camerali decisori nelle procedure concorsuali e nel sistema della tutela giurisdizionale dei diritti, in I procedimenti in camera di consiglio e tutela dei diritti, 1990, 906 e ss.

cognizione piena, in quanto l'unico rispondente al criterio della predeterminazione legislativa. Al contrario la disciplina ex 737 e s.s c.p.c sui procedimenti in camera di consiglio, delineava un rito privo di un'adeguata regolamentazione, che lasciava all'arbitrio del giudice la determinazione delle modalità di svolgimento del processo, delineando un'incompatibilità con la previsione dell’art 111. cost.

“Una cosa l’espressione regolato dalla legge ci dice con assoluta sicurezza: non è , non sarebbe in regola con la Costituzione, un processo nel quale le forme e i termini (cioè̀ i poteri delle parti e del giudice) attraverso cui realizzare i poteri di domanda, eccezione ecc., i poteri istruttori, il potere di difesa scritto o orale, fossero tutti rimessi quanto alla modalità̀ ed ai tempi alla discrezionalità̀ del giudice”.90Nell'ambito di questa interpretazione è necessario

riportare un'importante distinzione in merito ai poteri esercitabili dal giudice 91: ove si tratti di poteri che sono volti all'organizzazione del

processo e siano quindi ininfluenti sul contenuto della decisione, si riconosce che pur dovendo rispondere a una predeterminazione legale possano poi essere esercitati discrezionalmente, in quanto a tempi e modalità̀, per adeguarli alle esigenze delle singole

controversie. Per quanto riguarda invece quei poteri suscettibili di incidere sul contenuto della decisione, ”nessuna discrezionalità va

lasciata al giudice e il valore del giusto processo (a fortiori se regolato dalla legge) ne richiede la rigida predeterminazione legale”92.Tale orientamento, quindi si poneva in maniera

90 P.PISANI il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile;Il Foro Italiano;Vol

123, No. 10 (OTTOBRE 2000), p242

91Distinzione operata da Giovanni Fabbrini nella voce”potere del giudice” in

Enciclopedia del diritto,Milano,1985

92 P.PISANI il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile;Il Foro Italiano;Vol

123, No. 10 (OTTOBRE 2000), pp. 241/242-249/250

L'applicazione di questa linea interpretativa comportava conseguenze

assolutamente critica verso quella visione del rito camerale come “contenitore neutro”93 data dalla corte di cassazione e riteneva

assolutamente incostituzionale la disciplina di art 737 e ss. Contrariamente a questa linea interpretativa (che partendo dalla formulazione dell'espressione “regolato dalla legge” per affermare una coincidenza tra giusto processo e procedimento a cognizione piena) è utile riportare il pensiero di altri autori, che affermavano la necessità di superare questo nesso tra giusto processo e cognizione piena e, analogamente, escludere l'applicazione, per le controversie regolate dagli artt. 737 ss. c.p.c., della disciplina del processo

ordinario di cognizione innanzi al tribunale, ai sensi degli artt. 163 ss. c.p.c 94. Infatti il fenomeno crescente del ricorso a tutele differenziate

e sommarie, aveva dimostrato come il processo ordinario di cognizione non fosse da considerarsi autonomamente sufficiente nell'ambito della tutela giurisdizionale dei diritti. L'ambito

processuale infatti data la sua strumentalità all'ambito sostanziale, deve attribuire, nei limiti del possibile, a chi ha un diritto “tutto

quello e proprio quello ch’egli avrebbe diritto di conseguire alla stregua del diritto sostanziale”95. In conseguenza di ciò è evidente come, in ragione delle diverse tipologie di diritti, sia necessario prevedere forme di tutela differenziate che consentano a ciascun soggetto di conseguire effettivamente il “bene della vita” che gli spetterebbe. Dunque non bisogna considerare illegittimi quei

frutto di una predeterminazione legislativa, e una volta appurato che solo il

procedimento ordinario di cognizione possiede tale caratteristica ,ne consegue che solo questo sarà costituzionalmente giusto mentre tutti i riti a cognizione sommaria, o comunque diversa da quella più garantista,andrebbero ritenutii incostituzionale.

93Cassazione sent. 9/06/1999 n 5629

94 G. COSTANTINO, “Il nuovo art. 111 della costituzione e il giusto processo civile:convegno dell'Elba 9-10giugno 2000”;Milano 2001

procedimenti, che si distacchino dalla pienezza delle garanzie, previste nella cognizione piena, in quanto, come sancito dalla corte costituzionale, tale standard non è da considerarsi parametro di costituzionalità e vanno considerate sufficienti anche “garanzie procedimentali minime”96. Pur potendosi condividere l'orientamento

che negava l'unicità del procedimento ordinario di cognizione come processo giusto, ciò non dissolse i forti dubbi in merito alla

compatibilità del principio di legalità processuale introdotto dalla novella con la disciplina ex artt 737 e s.s c.p.c; questa forte

incertezza nell'ordinamento, portò una corte di merito a sollevare la questione di legittimità costituzionale degli artt. 737-739 c.p.c. e 336 c.c. nella parte in cui prevedono l’applicabilità̀ del rito camerale ai procedimenti aventi ad oggetto l’affidamento dei figli, conteso tra genitori non uniti in matrimonio (ricordiamo al riguardo una differenziazione di trattamento per i figli di genitori uniti in

matrimonio per cui l'affidamento veniva stabilito attraverso le forme più garantiste del procedimento di separazione e divorzio) e più̀ in generale ai procedimenti di limitazione o decadenza dalla potestà genitoriale. Nello specifico la madre, richiedente l’affidamento del minore, si era vista respingere la richiesta sulla base di una relazione dei servizi sociali, posta a fondamento della decisione del giudice senza essere portata a conoscenza dell’interessata. L’autorità̀ rimettente(Corte di appello di Genova) pur ricordando che la Corte aveva talora giudicato compatibile la procedura camerale ex art. 737 ss. c.p.c. con il diritto di difesa nonostante la lacunosità̀ della

disciplina, aveva rilevato che a diversa valutazione avrebbe dovuto indurre l’esigenza del giusto processo regolato dalla legge posta dal

96G. COSTANTINO, Il nuovo art. 111 della costituzione e il giusto processo

civile:convegno dell'Elba 9-10giugno 2000;Milano 2001, cit p364, in conformità con C.cost sent n 202/75

nuovo art. 111 Cost., che vede le parti titolari di precise facoltà e poteri processuali, nell’ambito di un procedimento sempre controllabile sulla base di precise indicazioni normative e non rimesso alla discrezionalità̀ del giudice; aggiungeva che un’interpretazione adeguatrice della disciplina ex art. 24 Cost. avrebbe lasciato aperta la via a prassi applicative lesive del diritto di difesa e difformi per ogni ufficio giudiziario, cui non potrebbe sempre compiutamente rimediare il giudice del reclamo. “Nel

novellato quadro costituzionale, ‘giusto processo’ non può essere che quello ‘regolato dalla legge’: e quindi non si può non dubitare della legittimità costituzionale di una scelta normativa che affida la tutela dei diritti, in un settore fondamentale dell’ordinamento, ad un modello processuale nel quale la decisione sui diritti è emessa a seguito di un processo le cui cadenze sono affidate esclusivamente ai poteri del giudice, tenuto bensì a garantire i fondamentali diritti processuali delle parti, ma secondo modalità̀ non predeterminate, e rimesse al suo apprezzamento. La previsione costituzionale di una riserva di legge, in un contesto tanto delicato e rilevante, implica la necessità che sia il Legislatore a disciplinare le regole del

procedimento”97.La corte costituzionale, così interpellata si espresse

in maniera conforme alle sue precedenti pronunce e con una motivazione stringata, respinse la censura, affermando che l’ordinanza di rimessione non era sufficientemente motivata circa l’impossibilità di interpretazione in senso conforme a Costituzione della disciplina censurata (riproponendo il precedente orientamento in ordine alla piena legittimità di una interpretazione adeguatrice delle norme processuali) senza però spendere una parola in merito all'argomento centrale (la coerenza con il ‘nuovo’ principio di

legalità̀ processuale di un modello procedimentale ‘in bianco’), che era stato esattamente e motivatamente individuato dal Giudice a

quo98.”La corte quindi si limitò a dichiarare inammissibile la

questione di illegittimità costituzionale, senza però dissolvere i dubbi in merito al problema dell'assenza di una predeterminazione

legislativa nell'ambito del rito camerale in ambito contenzioso; problematica che, come parte della dottrina aveva ampiamente dimostrato e ripetuto, non era assolutamente di poco conto.

L'obiettivo proprio dell’attività̀ giurisdizionale contenziosa infatti, è quello di decidere sui diritti attraverso una pronuncia idonea al giudicato, frutto di un procedimento cognitivo predeterminato, controllabile in iure e garante di una dialettica ad armi pari. Da questo disegno si distacca inevitabilmente quella decisione, che invece è risultato di scelte discrezionali, condotte sia sul piano dell'individuazione delle fonti di conoscenza sia sul modo di

introdurle nel procedimento, e che quindi si basa convincimento al di fuori di una reale possibilità̀ di interlocuzione delle parti. In tale ottica, ne l'osservanza di garanzie sull’instaurazione del

contraddittorio e sull’esercizio dei diritti di difesa e di prova ne l'ammissione del ricorso per cassazione possono compensare l'illegittimità derivante da una decisione che, sul piano cognitivo e decisorio, consegue all’attribuzione al giudice di deleghe in bianco in merito allo svolgimento del processo e all'attuazione delle garanzie fondamentali. Nel 2009 la corte costituzionale fu nuovamente

chiamata e esprimersi in merito alla legittimità costituzionale del rito camerale, e nuovamente dichiarò infondata la questione di legittimità dimostrando l'intenzione di mantenere la propria posizione in merito al rito camerale:

“ più̀ volte questa Corte ha ribadito la piena compatibilità̀

costituzionale della opzione del Legislatore processuale, giustificata da comprensibili esigenze di speditezza e semplificazione, per il rito camerale (ex multis: sentenza n. 103 del 1985, ordinanza n. 35 del 2002), anche in relazione a controversie coinvolgenti la titolarità̀ di diritti soggettivi; in particolare, come già̀ in passato osservato, ‘la giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che la previsione del rito camerale per la composizione di conflitti di interesse mediante provvedimenti decisori non è di per sé suscettiva di frustrare il diritto di difesa, in quanto l'esercizio di quest'ultimo può essere modulato dalla legge in relazione alle peculiari esigenze dei vari procedimenti ..., purché́ ne vengano assicurati lo scopo e la funzione’ (sentenza n. 103 del 1985, ordinanze n. 121 del 1994 e n. 141 del 1998); più̀ nello specifico, può escludersi sia

l'irragionevolezza della scelta legislativa sia la violazione del diritto di difesa sia, infine, la violazione della regola del giusto processo garantita dall'art. 111, 1° comma, Cost., ove il modello processuale pre- visto dal Legislatore, nell'esercizio del potere discrezionale di cui egli è titolare in materia (da ultimo sentenza n. 221 del 2008), sia tale da assicurare il rispetto del principio del contraddittorio, lo svolgimento di un'adeguata attività̀ probatoria, la possibilità̀ di avvalersi della difesa tecnica, la facoltà della impugnazione - sia per motivi di merito che per ragioni di legittimità - della decisione assunta, la attitudine del provvedi- mento conclusivo del giudizio ad acquisire stabilità , quanto meno allo stato degli atti”. 99Da questa pronuncia appare evidente l'intenzione della corte di trascurare nella sua giurisprudenza quell’elemento di novità rappresentato dal principio di legalità processuale. Principio che come abbiamo più volte ripetuto comporta il sorgere di obbligo per il legislatore di

regolamentare l’esercizio delle garanzie processuali ( il rispetto del

principio del contraddittorio, lo svolgimento di un'adeguata attività̀ probatoria, la possibilità̀ di avvalersi della difesa tecnica, la facoltà della impugnazione) con disposizioni ad hoc aventi un contenuto

sufficientemente ‘chiaro e certo e conseguentemente l'impossibilità di demandare al giudice, attraverso le “norme in bianco” (concretanti una vera e proprio ‘delega’ al Potere giudiziario), l'attuazione di queste. Prendendo atto di una assoluta inamovibilità della corte costituzionale, parte della dottrina sostenne la necessità di superare questo scoglio tramite l'intervento del legislatore, volto una volta per tutte, a disciplinare tale materia, garantendo finalmente il rispetto della costituzione. Purtroppo tale auspicata riforma normativa non è ancora giunta e quindi persiste tutt'ora la prassi di affidare alla discrezionalità del giudice il compito di integrare il procedimento camerale con le garanzie procedimentali minime previste dalla Costituzione, valutando nel contempo le modalità e l'intensità di tale integrazioni.

CAPITOLO II°: IL RITO CAMERALE NEL DIRITTO FALLIMENTARE

Il diritto fallimentare si pone in un'ottica di specialità rispetto al diritto comune, in quanto è una materia interdisciplinare che unisce elementi della sfera privatistica e pubblicistica, unendo la necessità di tutela di interessi privati e di interessi sovraordinati rispetto a questi ultimi. Proprio a causa di questa peculiarità in tale materia ha trovato applicazione il rito camerale con tutte le sue lacune e

inadeguatezze nell'ambito della tutela dei diritti; per tali ragioni, una volta radicato in ambito fallimentare, si sono resi necessari molti interventi su tale rito, fino all'intervento del legislatore che ha

sostanzialmente rivoluzionato la procedura concorsuale.

1 La specialità del diritto Fallimentare

“Il diritto fallimentare regola l'imprenditore commerciale individuale

o sociale quando versa in una situazione di crisi accertata giudizialmente, di cui è manifestazione più rilevante (ma non

esclusiva cfr 160 l.fall) l'insolvenza, ovvero l'incapacità di adempiere, con i normali mezzi, i rapporti obbligatori di cui è parte (art

5,1.fall.).”100 E' dunque evidente che il fulcro delle procedure

concorsuali sia l'imprenditore commerciale nella sua fase patologica di crisi. Partendo da questa osservazione bisogna però evitare di considerare questo fenomeno come isolato, inidoneo ad avere conseguenze sulla collettività. La scienza economica ha infatti rilevato, come anche una singola impresa, data la sua tendenza a creare un ampio numero di rapporti con altre imprese, nel momento in cui non sia più in grado di adempiere alle proprie obbligazioni potrà a sua volta rendere difficoltoso ad altre imprese sue creditrici adempiere a loro volta alle proprie obbligazioni, determinando un circolo vizioso con la conseguenza dell'espansione del dissesto e il dilagare della crisi. Da questi rilievi appare subito chiaro che il diritto fallimentare sia una materia volta alla tutela di interessi pubblici oltre che privati, caratterizzata da una connaturata esigenza di una tutela urgente, volta alla soppressione tempestiva dell'impresa o al suo risanamento (ove si tratti di un'impresa con un ruolo insostituibile nel tessuto economico) prima che si espandano gli effetti dell'insolvenza. Sin dall'inizio il diritto fallimentare si è posto in un rapporto di specialità rispetto al diritto comune, sia sul piano sostanziale, con la

100 C.Cecchella in “Il processo per la dichiarazione di fallimento un rito camerale

previsione di regole peculiari (spossessamento materiale e giuridico dell'imprenditore) sia attraverso le modalità con cui viene regolata l'impresa in crisi, e cioè attraverso un ruolo primario ricoperto dal processo. Anche ove sia necessario applicare una regola di diritto sostanziale, si usa questa procedura, da intendersi come insieme di atti ordinati in cui uno è il presupposto dell'altro per giungere all'atto finale che poi sarà produttivo degli effetti giuridici regolati. Si tratta quindi di un procedimento ove alle parti è data continua possibilità di condizionare il risultato finale e che quindi è assolutamente aperto al contraddittorio.

Questa specialità che caratterizza quindi la materia fallimentare, oltre che da un punto di vista sostanziale ebbe alcuni risvolti anche sul rito da utilizzare, dato che con il R.D 16 marzo 1942, n. 267 il legislatore optò per un'adozione delle forme camerali della volontaria

giurisdizione, anche per tutela dei diritti. Il rito camerale infatti data la scarna regolamentazione che emerge dagli artt. 737 c.p.c e s.s, comportava un'espansione pressoché illimitata dei poteri d'ufficio del giudice che era coerente con l'impostazione pubblicistica (a deriva inquisitoria) volta alla tutela di interessi collettivi; inoltre a causa della struttura sommaria della cognizione, garantiva una

accelerazione del merito rispetto al procedimento ordinario

consentendo di offrire una tutela più rapida. Questo rito non era però l'unico utilizzato nel panorama delle procedure concorsuale, in quanto il legislatore sin dall'inizio attuò in tale materia una molteplicità di riti diversi, per cui oltre al camerale erano stati utilizzati altri due modelli alternativi che, pur garantendo o l'anticipazione della tutela, a differenza del rito camerale aprivano per la prima volta a una tutela piena dei diritti: il modello

sommario-monitorio, utilizzato per il procedimento di accertamento del passivo e il modello misto usato nel procedimento per la

dichiarazione di fallimento. Il modello sommario-monitorio era strutturato in una duplice fase: la prima a cognizione sommaria che si concludeva con un provvedimento idoneo al giudicato, ove non opposto nei termini indicati, e la seconda che era una fase eventuale, introdotta mediante l'opposizione al provvedimento conclusivo della prima fase e che si caratterizzava per una cognizione piena.

Il procedimento per la dichiarazione di fallimento invece seguiva il modello misto, che fondeva insieme il rito sommario-monitorio e il rito camerale, con il risultato quindi di un rito caratterizzato dalla bifasicità del sommario-monitorio con una prima fase a cognizione sommaria regolata secondo le forme del rito camerale (con

l'eccezione rappresentata dall'uso della sentenza come provvedimento conclusivo, invece del decreto, in caso di

accoglimento della domanda), e una seconda fase che si instaurava con opposizione alla sentenza conclusiva, tramite atto di citazione introducendo un procedimento a cognizione piena di primo grado che si concludeva con una sentenza appellabile.

2 L'applicazione del rito camerale nel sistema del 1942

Dunque l'ordinamento fallimentare, a eccezione del procedimento per l'accertamento del passivo e per la dichiarazione di fallimento, prevedeva l'applicazione della disciplina pura ex art 737 e s.s c.p.c che demandava alla totale discrezionalità del giudice la

determinazione dello svolgimento del processo e dell'attuazione delle garanzie del contraddittorio e del diritto di difesa. Ad aggravare la situazione vi era una disciplina per i reclami altrettanto priva di garanzie: ai sensi degli art 26 e 36 l. fallimentare, erano ammesse contestazioni verso gli atti di amministrazione o liquidazione fallimentare compiuti dal curatore o dal giudice delegato, al fine di

lamentare l'illegittimità dell'atto, ove difforme rispetto allo schema stabilito ex lege (per gli atti a carattere vincolato), o la sua

opportunità (per gli atti a carattere discrezionale compiuti dall'organo fallimentare). Analizzando gli articoli enunciati vediamo che l’Art 26 nella sua formulazione originaria, recitava: “Contro i decreti del

giudice delegato, salvo disposizione contraria, è ammesso reclamo al tribunale entro tre giorni dalla data del decreto, sia da parte del curatore, sia da parte del fallito, del comitato dei creditori e di chiunque vi abbia interesse.

Il tribunale decide con decreto in camera di consiglio.

Il ricorso non sospende l'esecuzione del decreto.” Era dunque

ammesso un controllo ulteriore avverso verso i provvedimenti emessi dal giudice delegato.

L’art. 36 invece stabiliva che ” Contro gli atti d'amministrazione del

curatore il fallito e ogni altro interessato possono reclamare al giudice delegato, che decide con decreto motivato. Contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale entro tre giorni dalla data del decreto medesimo. Il tribunale decide con decreto