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Novecento di confine. L'Istria, le foibe, l'esodo

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F

RANCO

A

NGELI

€ 28,00

FrancoAngeli

La passione per le conoscenze

Novecento di confine

L’Istria, le foibe, l’esodo

1573.472

E. MILETTO

NOVECENTO DI CONFINE

Novecento di confine

Stupisce che le foibe e l’esodo istriano, temi spinosi quanto complessi,

siano tutto sommato ancora poco noti. Fatti avvolti per decenni da un fitto

cono d’ombra e intorno ai quali si è sviluppata una narrazione pubblica

decontestualizzata e senza filtri, spesso intrisa di luoghi comuni e

defi-nizioni approssimative.

Collocare gli eventi nel contesto in cui si snodano è un’operazione

essenziale per analizzare ogni processo storico. Lo è ancora di più per

comprendere quanto avvenuto al confine orientale d’Italia, territorio

segnato da tensioni e conflitti, dove si intrecciano irredentismi e

naziona-lismi, fascismo di confine, occupazione tedesca e comunismo jugoslavo.

Uscire dalle contrapposizioni strumentali, riportare queste tematiche

lungo i corretti binari storiografici e sgomberare il campo da interpretazioni

fittizie è l’obiettivo di questo libro, che intende consegnare al lettore gli

ele-menti necessari a comprendere la storia del lungo Novecento istriano.

Una storia nella quale le foibe e l’esodo della popolazione italiana

rappresentano soltanto un aspetto. Certamente drammatico, doloroso

e tragico. Ma non l’unico, in quella che appare come una tormentata

pagina del Novecento italiano.

Enrico Miletto

è assegnista di ricerca e docente a contratto in Storia

contemporanea presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere

e Culture Moderne dell’Università di Torino. Autore di contributi in

riviste e opere collettanee, ha pubblicato, tra gli altri:

Gli italiani di Tito.

La Zona B del Territorio Libero di Trieste e l’emigrazione comunista

in Jugoslavia 1947-1954 (2019); Istria allo specchio. Storia e voci di una

terra di confine (2007); Con il mare negli occhi. Storia, luoghi e memorie

dell’esodo istriano a Torino (2005). È inoltre curatore di Senza più tornare.

L’esodo istriano, fiumano e dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento

(2012).

Enrico Miletto

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S

tor

ia

1573.472es 20-10-2020

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Storia/Studi e ricerche

Collana fondata da Marino Berengo e Franco Della Peruta

Direttori

Giuseppe Berta,  Carlo Capra,  Giorgio Chittolini

Come  dichiara  nel  suo  titolo,  la  collana  è  aperta  alla  ricerca  storica  nella  varietà  e  ricchezza dei  suoi  temi:  politici,  culturali,  religiosi,  economici  e  sociali;;  e  spazia  dal  medioevo  ai  nostri giorni.

L’intento della collana è raccogliere le nuove voci e riflettere le tendenze della cultura storica italiana. Contributi originali, dunque, in prevalenza dovuti a giovani studiosi, di vario orientamento e provenienza. La forma del saggio critico non andrà a detrimento di un sempre necessario  corredo  di  riferimenti,  di  note  e  di  appendici,  pur  mantenendo  un  impianto  agile  ed essenziale  che  entra  nel  vivo  del  lavoro  storiografico  in  atto  nel  nostro  paese.

Comitato scientifico

Franco Amatori (Università Bocconi,  Milano);;  Maria Luisa Betri (Università degli Studi di Milano);;  Giorgio  Bigatti  (Università  Bocconi,  Milano);;  Christof  Dipper  (Freiburg  Institute for Advanced   Studies);; John Foot   (University   College   London);;   Andrea   Gamberini (Università   degli   Studi   di   Milano);;   Stefano   Levati   (Università   degli   Studi   di   Milano);; Salvatore  Lupo  (Università  degli  Studi  di  Palermo);;  Luca  Mannori  (Università  degli  Studi  di Firenze);;  Marco  Meriggi  (Università  degli  Studi  di  Napoli  “Federico  II”);;  Michela  Minesso (Università   degli   Studi   di   Milano);;   Giovanni   Muto   (Università   degli   Studi   di   Napoli “Federico   II”);;   Gilles   Pécout   (Ecole   Normale   Supérieure,   Paris);;   Lucy Riall (Birkbeck College,   University of London);;   Emanuela Scarpellini (Università   degli Studi di Milano);; Gian Maria Varanini (Università degli Studi di Verona).

Il  comitato  assicura  attraverso  un  processo  di  peer  review  la  validità  scientifica  dei  volumi pubblicati.

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I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati

possono consultare il nostro sito Internet: www.francoangeli.it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e-mail le segnalazioni delle novità.

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Enrico Miletto

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Novecento di confine

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In copertina: Pola, l'esodo degli italiani, 1947, Archivio Storico della Città di Torino, Fondo

«Gazzetta del Popolo» GDP_I_848_a (su concessione dell’Archivio Storico della Città di Torino; è vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione, con qualsiasi mezzo)

Progetto grafico di copertina: Elena Pellegrini

Copyright © 2020 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy

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Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22

aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni

Editoriali (www.clearedi.org; e-mail autorizzazioni@clearedi.org).

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Indice

Introduzione

I. Venezia – Giulia, Italia (1880-1924)

1. L’Istria e le identità plurime: italiani, sloveni, croati

2. Nazionalità, nazioni, nazionalismi

3. Viva l’Italia!

II. Fascismo di confi ne

1. Spalato

2. Trieste, Narodni Dom

3. Allogeni: il fascismo e la politica antislava

4. «…Si ammazza troppo poco». L’occupazione italiana della provincia di Lubiana

III. Foibe

1. Ribalton

2. Partigiani

3. Zona di Operazioni Litorale Adriatico

4. Foibe istriane

5. Foibe giuliane

IV. Esodo

1. Il lungo dopoguerra europeo

2. Confi ni (1945-1975) 3. Jugoslavia 4. Esodo pag. 7 » 21 » 21 » 24 » 28 » 38 » 38 » 40 » 49 » 60 » 66 » 66 » 69 » 75 » 80 » 84 » 97 » 97 » 103 » 114 » 121

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V. Partenze

1. Zara 2. Fiume 3. Pola

4. Monfalcone

5. L’esodo dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

6. Restare. La popolazione italiana rimasta in Istria

VI. Arrivi

1. La distribuzione dei profughi

2. La macchina dell’assistenza

3. Assistenza e provvedimenti legislativi

4. «A calcioni nel sedere!». Le dinamiche dell’accoglienza

5. Dai campi profughi ai borghi giuliani

VII. I profughi dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

1. Profughi a Trieste

2. Casa e lavoro: strategie e politiche di assistenza

3. Transoceanica: i profughi e l’emigrazione oltreoceano

Cronologia

Indice dei nomi

pag. 130 » 130 » 136 » 142 » 151 » 161 » 166 » 171 » 171 » 176 » 183 » 187 » 193 » 198 » 198 » 203 » 207 » 217 » 225

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Introduzione

Il 10 febbraio 2005 si celebrò, per la prima volta, il Giorno del Ricordo a seguito dell’approvazione, il 30 marzo dell’anno precedente, della legge n. 92 con la quale il Parlamento italiano decise – votando trasversalmente il

provvedimento, salvo alcune eccezioni1 – di istituire, nel novero del

calen-dario civile celebrativo dei passaggi più signifi cativi della storia del nostro paese, una data per preservare e rinnovare, riprendendo le parole del decreto istitutivo, «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fi umani e dalmati nel secondo

dopoguerra e della più complessa vicenda del confi ne orientale»2.

La legge, che si poneva come un doveroso, benché tardivo, atto di rico-noscimento nei confronti di coloro che morirono o persero i propri cari nelle cavità carsiche o che vissero direttamente la traumatica esperienza dell’e-sodo, provocò fi n dai suoi primi passi aspre discussioni che contribuirono a fornire una rappresentazione del lungo Novecento istriano come uno scon-tro tra paradigmi ideologici.

Il risultato fu quello di consegnare al discorso pubblico una narrazione tesa spesso a privilegiare la spettacolarizzazione degli avvenimenti, inca-pace di interrogarsi sulle cause che li provocarono, preferendo invece uti-lizzarli come strumenti di mobilitazione e legittimazione da parte di forze politiche desiderose di staccarsi, in maniera più o meno defi nitiva e ciascuna per svariate ragioni, dal proprio ingombrante passato.

1. Non votarono a favore della legge i senatori di Rifondazione comunista e dei Comu-nisti italiani.

2. Istituzione del Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo

giuliano-dalmata, delle vicende del confi ne orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati, Legge 30 marzo 2004, n. 92, «Gazzetta Uffi ciale» n. 86, 13 aprile

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A quindici anni dall’istituzione del Giorno del Ricordo, pur facendo re-gistrare dei signifi cativi passi in avanti, lo scenario di fondo che avvolge il dibattito pubblico non sembra essere mutato di molto. Ancora oggi, infatti, prevale una linea narrativa nella quale si addensano meccanismi retorici che, quasi esclusivamente improntati alla ritualizzazione del ricordo e all’enfa-tizzazione ideologica, continuano ad appiattire le vicende, senza fornirne un’adeguata contestualizzazione che rappresenta il punto di partenza per la comprensione di fenomeni la cui corretta chiave di lettura non può prescin-dere dall’analisi di un quadro storico ampio e articolato.

Ne emerge un panorama caotico e frastagliato, che tiene ai margini l’in-terconnessione tra i diversi momenti storici (nazionali ed europei) e sul qua-le ha inciso in maniera decisiva il linguaggio mediatico, soprattutto quello televisivo e cinematografi co. Un linguaggio volto a far assurgere le foibe e l’esodo a simboli onnicomprensivi di quanto accaduto sul confi ne orientale, puntando la lente di ingrandimento sulle cifre delle vittime e della diaspora istriana, che sembrano suscitare un interesse ben maggiore rispetto alle cau-se, ai processi e alle dinamiche che ne furono alla base.

Si volga lo sguardo, ad esempio, ai palinsesti televisivi e alle uscite ci-nematografi che dell’ultimo quindicennio, nel quale trovano spazio prodotti che, tralasciando ogni giudizio artistico, hanno affrontato il tema attraverso un approccio superfi ciale, non esente da elementi di faziosità, privilegiando aspetti emozionali e retorici, senza però fornire una lettura coerente con il piano storico e storiografi co.

La prima, in ordine cronologico, fu la fi ction televisiva della Rai prodotta

nel 2005, Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin3. Una pellicola

dalla trama romanzata, intrisa di stereotipi e omissioni, con deboli (ed errati) elementi ispirati alla realtà storica. Trasmessa in prima serata e riproposta periodicamente in occasione del Giorno del Ricordo, raggiunse uno share piuttosto elevato, ma la sua messa in onda suscitò più di una critica.

La stessa cornice ha accompagnato, nel 2013, lo spettacolo teatrale (poi trasmesso anche sui canali della televisione di Stato) di Simone Cristicchi intitolato Magazzino 18, che presenta molti aspetti opinabili sia sul piano

interpretativo, sia su quello di una corretta ricostruzione storica4.

Elementi di criticità dai toni decisamente più marcati si riscontrano

an-che nell’ultimo nato, ovvero Red Land-Rosso Istria5, fi lm di Maximiliano

3. Il cuore nel Pozzo, regia di A. Negrin, (Rai Fiction/Rizzoli audiovisivi, Italia 2005). 4. Dallo spettacolo è stato tratto S. Cristicchi (con J. Bernas), Magazzino 18. Storie di

italiani esuli d’Istria, Fiume e Dalmazia, Mondadori, Milano 2014.

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Hernando Bruno, uscito nelle sale italiane nell’autunno 2018, proiettato congiuntamente in oltre cento cinema nel febbraio 2019 e andato in onda in prima serata su Rai Tre in occasione del Giorno del Ricordo 2019 e 2020. Priva di un coerente inquadramento storico ridotto a una serie di informa-zioni elusive (per giunta totalmente inesatte) nei titoli di coda, la pellicola rappresenta un esempio eclatante di come si possa rileggere, senza fi ltri e in maniera del tutto decontestualizzata, un determinato passaggio storico.

Lo schema narrativo adottato appare il medesimo e prevede, oltre alla denuncia del silenzio e delle reticenze che hanno accompagnato questo seg-mento di storia nazionale, anche una presentazione molto semplifi cata degli avvenimenti, per chiudere con un’incursione sul terreno delle cifre fornen-do, in tutti i casi, dati numerici assolutamente lontani dalle dimensioni reali delle foibe e dell’esodo.

Si tratta di rappresentazioni a uso pubblico e politico che conducono il discorso su binari volti a una celebrazione strumentale del Giorno del Ricordo, sempre più contrassegnato da speculazioni, ingerenze politiche e forti richiami ideologici che non aiutano ma, al contrario, allontanano dalla piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’a-rea dell’Alto Adriatico.

Le stesse dinamiche si ritrovano, fatte salve alcune eccezioni, anche in trasmissioni televisive, articoli, contributi editoriali e interventi di esponenti politici nazionali o di amministratori locali, volti a proporre, nel clima di sovraesposizione mediatica che caratterizza ogni 10 febbraio, un messaggio che privilegia la lettura delle foibe utilizzando la categoria di pulizia etnica e genocidio programmato. Una visione che appare francamente inaccettabile. A scanso di equivoci, sgomberiamo il campo da ogni possibile minima-lizzazione: le foibe furono delle stragi compiute a più riprese nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 da parte degli apparati del movimento di liberazione jugoslavo, volti a colpire quanti, ai loro occhi, fossero ascrivibili alla categoria, piuttosto generica, di nemici del popolo. A guidare le esecu-zioni, come il lettore potrà apprendere dalla lettura del volume, vi erano tre obiettivi: punire quanti fossero sospettati di essersi macchiati di crimini con-tro il movimento popolare di liberazione, epurare gli elementi che avrebbero potuto opporsi all’annessione delle terre giuliane e istriane alla Jugoslavia e intimidire la popolazione italiana per scoraggiare ogni possibile opposizio-ne al progetto politico jugoslavo.

Non è però corretto ricondurre le foibe, che furono molto più sovente metodo di occultamento di cadaveri piuttosto che di eliminazione vera e propria, a un atto di pulizia etnica, poiché, come si è visto, a guidare le stragi

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intervennero altri criteri. Allo stesso tempo esse non possono essere ascritte a logiche genocidiarie, i cui rifl essi sul territorio sono unicamente richiamati

«dagli aspetti locali della shoah»6. Le foibe furono quindi un passaggio di

violenza politica, messo in atto dal movimento di liberazione jugoslavo du-rante la presa di potere del territorio. Affermare il contrario signifi ca, a vari livelli, proporre una narrazione distorta del fenomeno, favorendo l’emergere di posizioni di chiusura assai diffi cili da emarginare.

Un altro passaggio che merita più di una rifl essione riguarda l’esodo e le sue modalità di rappresentazione nella dimensione pubblica italiana, tesa a considerare la diaspora istriana come un caso esclusivamente nazionale, senza invece inserirlo, come sarebbe opportuno, nelle pieghe di un fenome-no europeo, e cioè quello degli spostamenti forzati di popolazione avvenuti nell’immediato dopoguerra ed eredi diretti del confl itto. Un confl itto senza il quale, per lo meno nello specifi co caso istriano, non sarebbe toccato ai giuliano-dalmati pagare in prima persona il prezzo, certamente elevatissimo, affi bbiato all’Italia per le colpe del fascismo e di una guerra che Mussolini aveva fortemente voluto.

Occorre però precisare come l’esodo riguardò un’ampia fascia di popo-lazione, assumendo così i lineamenti di un trauma che, a ridosso e subito dopo la defi nizione dei confi ni, coinvolse trasversalmente l’intera comunità italiana.

Se da un lato assistiamo a un racconto mirante, colpevolmente, a ridurre al minimo le responsabilità del fascismo, come è noto effettive ed evidenti, dall’altro notiamo la contemporanea presenza sulla scena pubblica di un modello narrativo teso a proporre, in un serrato ordine consequenziale, la successione fascismo, foibe ed esodo. L’intento sembra essere quello di in-serire vittime ed esuli nella categoria, anche in questo caso piuttosto fl es-sibile, di fascisti che pagarono con la vita o con l’esilio colpe presunte o effettivamente tali.

Ciò che deve far rifl ettere di fronte a una visione di questo tipo, non è tanto il deplorabile (e deplorevole) tentativo di marginalizzazione, riduzione e in certi casi negazione (leggasi negazionismo) delle foibe, quanto il rifi uto ad accettare, in nome di pregiudiziali politiche, ciò che la documentazione ha saputo suggerire alla ricerca storica, ovvero la presenza, dietro alle stragi, di un progetto politico piuttosto chiaro, che non può certo essere limitato a scelte e responsabilità locali o a episodi di vendetta (che pur vi furono) nel drammatico clima della resa dei conti seguito alla caduta del fascismo prima e alla fi ne della guerra poi.

6. Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Vene-zia Giulia (Irsrec-Fvg), Vademecum per il giorno del ricordo, Irsrec-Fvg, Trieste 2020, p. 36.

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Certamente, come oramai rilevato da molti percorsi di ricerca, gli aspetti di una rivolta dal basso verso l’alto e cioè contro la classe dirigente italiana, i simboli del partito fascista e dello stato italiano, entità divenute indistingui-bili agli occhi della popolazione slovena e croata, sembrarono caratterizzare in maniera prevalente, sebbene non esclusiva, gli avvenimenti dell’autunno 1943, al punto da richiamare l’immagine, fortemente evocativa, dell’antica

jacquerie contadina.

Il medesimo criterio non solo non può essere applicato, ma non appare nemmeno molto credibile se riferito alla primavera del 1945 e cioè a un pe-riodo nel quale il partito comunista jugoslavo (declinato anche nelle sue arti-colazioni slovene e croate) rappresentava un’entità ampiamente consolidata e la sua rigida struttura verticale sembrava essere l’unico modello accettato. Si trattava, in sintesi, di direttive la cui applicazione era demandata dall’alto ai singoli poteri locali che, dal loro punto di vista, potevano decidere se ac-crescere o diminuire il peso della resa dei conti. Ma in tale contesto il ruolo assunto dai vertici appare comunque cruciale.

Lo stesso discorso si ritrova anche nella proposizione dell’esodo come rifl esso diretto del fascismo: secondo tale visione i profughi istriani avrebbero abbandonato le loro terre non perché obbligati e forzatamente espulsi, ma poiché fascisti in fuga, perseguitati da eventuali vendette e possibili ritorsioni. Anche in questo caso siamo di fronte a una rappre-sentazione che si limita ad affrontare un aspetto del tutto marginale del fenomeno, dimostrando la sua debolezza interpretativa se confrontata con il peso delle fonti.

Sebbene queste ultime dimostrino come un piano preordinato di espul-sione della popolazione italiana non fosse stato approntato dal potere jugo-slavo, è però la loro analisi a rivelare l’avvio di un processo di jugoslavizza-zione del territorio che per una serie di ragioni (che sarebbe molto riduttivo ricondurre soltanto a una reazione al fascismo) interessò pesantemente la popolazione italiana al punto da far diventare l’esodo come l’unica opzione possibile.

Questo libro intende discostarsi dai codici interpretativi appena delineati, nell’intento – parafrasando il passaggio di un appello lanciato da un grup-po di storici in occasione di alcune grup-polemiche legate al passato Giorno del

Ricordo – di «raccontare la storia, ma raccontarla tutta»7. Laddove il tutta

non può certamente esimersi dal contestualizzare gli eventi, collocandoli nella cornice all’interno della quale si snodarono. E ciò vale sia per quanto 7. Appello in difesa del lavoro delle storiche e degli storici, <https://www.lastoriatutta. org/appello-eric/>, visitato il 10 luglio 2020.

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concerne il ventennio fascista, sia per il periodo del comunismo jugoslavo e della politica di Tito, la cui mancata analisi renderebbe piuttosto diffi cile la piena comprensione di quanto accadde nell’autunno 1943, nella primavera 1945 e negli anni immediatamente successivi.

Separare uno di questi elementi dagli altri non porta a una consapevo-lezza storica ma contribuisce, al contrario, a comprimere il discorso, spo-standone l’asse su un fragile piano consequenziale che non coglie a pieno i complessi processi di trasformazione che interessarono l’area dell’Alto Adriatico lungo l’intero arco del secolo scorso. Un asse rovente, alimen-tato da tensioni e confl itti che scandirono la progressiva affermazione di nazionalismi, totalitarismi e regimi autoritari che fecero della negazione dell’altro e della prevaricazione sull’altro uno dei loro tratti distintivi, por-tando nella fase fi nale della guerra e nel primo dopoguerra a esplosioni e cortocircuiti.

Dividere il campo non favorisce nemmeno, come sarebbe auspicabile, il superamento di reticenze e rimozioni, passaggio indispensabile non solo per avviare un confronto tra memorie diverse, ma anche per porre il fulcro del discorso al di fuori di ogni contrapposizione strumentale del fenomeno che rischierebbe di danneggiare le vittime e gli esuli, che invece devono divenire parte integrante della storia del nostro paese.

Utilizzando un approccio divulgativo, capace però di dialogare con le fonti e la ricerca storica e di allargare lo sguardo al composito panorama letterario il volume ricostruisce le vicende che, a più riprese, hanno segna-to la ssegna-toria di quello che comunemente viene defi nisegna-to il confi ne orientale d’Italia.

Le pagine seguenti hanno dunque l’ambizione di consegnare al letto-re le chiavi di lettura e le coordinate necessarie a orientarsi negli intricati passaggi di un’epoca articolata e complessa, nella quale le foibe e l’esodo della popolazione italiana rappresentarono soltanto un aspetto. Certamente drammatico, doloroso e tragico. Ma non l’unico.

Il trauma dell’esodo, la sofferenza dei campi profughi, la quotidianità sospesa tra il costante senso di precarietà e la perdita di certezze e punti di riferimento, costituirono l’insieme degli elementi caratterizzanti l’arrivo in Italia dei giuliano-dalmati. Un paese ancora profondamente segnato dalle ferite della guerra, che sebbene li avesse soccorsi con i limitati mezzi a di-sposizione, lasciò i profughi a confrontarsi con le diffi coltà dell’accoglien-za, confi nandoli a lungo ai bordi della società, rendendo così molto faticoso il loro percorso di integrazione, che trovò pieno compimento soltanto molti anni più tardi.

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Non pensiamo di sbagliare quando affermiamo che sulla pelle e nella memoria di quanti ne siano stati travolti, l’esodo abbia lasciato cicatrici

«diffi cilmente rimarginabili»8. Ciò ha contribuito, negli esuli, alla

matura-zione di un sentimento di spaesamento e a un rafforzamento della propria identità istriana, in realtà mai del tutto perduta da donne e uomini che hanno continuato a seguire il richiamo della terra natale, quasi fosse, come scrive la poetessa Ilma Rakusa, rievocando la sua infanzia da esule nell’Europa

dell’immediato dopoguerra, «una voce mandata da un pastore fi dato»9.

A ciò si aggiunge il ruolo e il valore assunto dalla memoria degli esuli, non solo strumento essenziale per tenere in vita momenti e passaggi di una storia per lungo tempo rimasta ai margini, ma anche prezioso giacimento cui gli storici hanno iniziato ad attingere a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e, con maggiore intensità, negli anni Novanta quando sullo scenario mondiale si delineava la fi ne della guerra fredda. Una memoria che costi-tuisce un punto di vista importante che presuppone però, elemento affatto secondario, il ricorso al supporto interpretativo delle fonti, portato avanti dagli storici attraverso un lungo, complicato e paziente lavoro di ricerca.

Si tratta dunque, per riprendere una metafora proposta da Walter

Benja-min, di «spazzolare la storia contropelo»10, applicando all’interpretazione

della memoria le dovute istanze mediatrici che consentano di ricondurla al contesto in cui è stata prodotta, senza con ciò rinunciare alla sua signi-fi catività.

Una memoria, si è detto, per lungo tempo esclusa dallo spazio pubblico dove, a differenza del dibattito storiografi co che aveva maturato già da

tem-po un proprio percorso di rifl essione11, il tema dell’esodo, così come quello

più generale dell’intero confi ne orientale, rimase per lungo tempo isolato, eccezion fatta per il ristretto ambito locale giuliano-dalmata e gli ambienti legati all’associazionismo degli esuli.

L’interesse, legato alla defi nizione dei confi ni che contrassegnò il perio-do dell’immediato perio-dopoguerra, era infatti destinato a svanire, portanperio-do così a una progressiva rimozione del tema dal discorso pubblico italiano. Ciò avvenne a causa di motivazioni che affondavano le proprie radici in elementi di politica internazionale e interna.

8. C. Magris, Microcosmi, Garzanti, Milano 1997, p. 28.

9. I. Rakusa, Il mare che bagna i pensieri, Sellerio, Palermo 2001, p. 34.

10. W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchet-ti, Einaudi, Torino 1997, p. 31.

11. Cfr. M. Bresciani, M. Orlić, Il confi ne orientale e i confl itti dell’alto Adriatico.

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Sul primo versante, pervaso dalle dinamiche della guerra fredda, giocò un ruolo decisivo il Memorandum di Londra, che chiuse defi nitivamente i giochi riducendo al minimo gli spazi di manovra: Trieste era tornata all’Ita-lia e la Zona B, dove comunque continuava a vivere una quota di popolazio-ne italiana, era stata anpopolazio-nessa alla Jugoslavia.

Un’ulteriore ragione era rappresentata dalla nuova collocazione della Ju-goslavia nello scacchiere internazionale, divenuta dopo la rottura tra Tito e Stalin nel 1948, un interlocutore privilegiato dello schieramento occidentale atlantista. Quest’ultimo non nutriva alcun interesse a riportare alla luce le pressioni e le violenze jugoslave nei confronti della popolazione italiana e fi nì quindi per accettare la versione del leader jugoslavo, volta a sostenere il carattere politico e antifascista delle eliminazioni.

Il discorso della rimozione riguardò però anche la politica italiana, che nel frattempo aveva visto mutare gli orizzonti verso i quali guardare. Intanto occorre sottolineare il progressivo avvicinamento tra Italia e Jugoslavia sul piano economico. Per l’Italia del boom, la cui economia era in una fase di straordinaria espansione, la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia rappresentava un partner commerciale dall’elevato potenziale.

Occorreva quindi avviare, da ambo le parti, una politica di «buon

vicinato»12 che diede i suoi frutti attraverso la stipula di accordi, convenzioni

e scambi commerciali, unitamente a un aumento dei passaggi tra i valichi di frontiera dei due paesi. Erano dunque iniziate le prove generali di un’intesa divenuta molto stretta con lo scoccare degli anni Settanta. Il ritrovato dia-logo e la normalizzazione dei rapporti portarono all’abbandono dei terreni di scontro che fi no ad allora avevano contribuito ad alimentare le tensioni tra i due paesi: da parte jugoslava il ricordo dei crimini compiuti dallo stato fascista durante l’occupazione dei territori jugoslavi (la cui analisi scalfi sce il falso mito del bravo italiano diffusosi anche grazie alla compiacenza di

buona parte della pubblicistica nazionale)13, da parte italiana le violenze

mo-rali, fi siche e materiali inferte con le foibe e con l’esodo. A calare fu quindi un silenzio di fondo.

Sul versante italiano vi furono ancora altri due elementi che già in pre-cedenza avevano contribuito in maniera determinante alla rimozione e che ebbero come protagonisti i principali attori della scena politica nazionale del

12. R. Pupo, 10 febbraio, Giorno del Ricordo, in A. Portelli, (a cura di), Calendario

Civile. Per una memoria laica, popolare e democratica degli italiani, Donzelli, Roma 2017,

p. 30.

13. La Jugoslavia richiese anche, senza ottenerla, l’estradizione di alcuni alti uffi ciali dell’Esercito italiano.

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tempo. Da un lato vi era il Partito comunista italiano che non aveva alcun interesse ad approfondire le vicende giuliano-dalmate per non far emergere la posizione del suo segretario, Palmiro Togliatti, che aveva sostenuto l’e-sercito jugoslavo avallando, per lo meno in un primo momento, le richieste territoriali di Tito. Dalla parte opposta troviamo la Democrazia cristiana, decisa a non approfondire la questione giuliana per non rendere ancora più esplicita la debolezza della diplomazia italiana in campo internazionale, emersa in maniera piuttosto evidente nel febbraio 1947 durante la fi rma del Trattato di pace, che vide il governo di Roma cedere alle richieste jugoslave e a quelle anglo-americane.

Se la denuncia, a più riprese richiamata dalla pubblicistica e dai media italiani, di una ripetuta e lacunosa assenza dalla scena pubblica delle tema-tiche delle foibe e dell’esodo può trovare una sua motivazione nello scarso interesse riservato all’intera storia del confi ne orientale, essa appare invece una sollecitazione irricevibile per quanto concerne la produzione storiogra-fi ca che ha registrato consistenti spazi di approfondimento, storiogra-fi gli non soltanto dei tempi più recenti.

Pur non volendo addentrarci in un’analisi troppo specifi ca, è suffi ciente richiamare in questa sede alcune importanti stagioni di studi: la prima,

conclusasi con la pubblicazione, nel 1980, de Storia di un esodo14,

volu-me che ancora oggi rappresenta un rilevante punto di riferivolu-mento e il cui merito principale fu quello di aprire il campo visuale utilizzando nuovi approcci metodologici e interpretativi, iniziando così un percorso in grado di rapportarsi con le complessità dei processi storici snodatisi nei territori di confi ne.

Gli anni Novanta coincisero con l’avvio di piste di ricerca che portarono, a partire dai primi Duemila, alla pubblicazione di lavori capaci di collocare il tema dell’esodo in una dimensione di lungo periodo, inserendolo in una narrazione che attraversava l’intero arco del Novecento, nel quadro più am-pio della storia nazionale.

A ciò si aggiunsero produzioni che riservavano spazio alla prospettiva antropologica, caratterizzate dall’ampio utilizzo di testimonianze e storie di vita. Tale approccio rappresentò uno snodo signifi cativo non solo per il recupero delle memorie dei protagonisti, ma anche per la capacità di ricom-porre l’universo di cultura materiale, linguaggi, mentalità e valori che stava alla base della società istriana e che costituiva un patrimonio faticosamente

14. C. Colummi [et al.], Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia-Giulia (Irsml), Trieste 1980.

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ricostruito, mantenuto e trasformato dagli esuli nelle nuove località in cui si trasferirono dopo l’abbandono della loro terra.

Un’altra rilevante acquisizione storiografi ca, emersa durante questa fl o-rida stagione di studi e rafforzatasi negli ultimi anni, è infi ne rappresentata dalla collocazione dell’esodo giuliano-dalmata nello scenario degli sposta-menti forzati di popolazione che attraversarono l’Europa postbellica, rile-vando così come la diaspora istriana rappresenti un tassello di un mosaico decisamente più ampio.

Questa panoramica, per nulla esaustiva, rivela dunque come in realtà il tema dell’esodo e del confi ne orientale abbia da tempo trovato spazio nella produzione storiografi ca, rimandando al mittente le critiche circa un presun-to silenzio sulla materia da parte degli spresun-torici che, al contrario, hanno sapupresun-to rifl ettere e confrontarsi non solo a livello nazionale, ma anche con il versante sloveno e, seppur con meno profi tto, con quello croato.

In proposito occorre menzionare l’istituzione, nel 1993, di due Com-missioni culturali miste italo-slovena e italo-croata. Un passaggio favori-to anche dalla dissoluzione della Jugoslavia e dai differenti approcci con i quali la Slovenia e la Croazia iniziavano a guardare alla loro storia recente. Se la Commissione italo-croata interruppe i lavori dopo una sola seduta, decisamente differente fu il percorso tracciato da quella italo-slovena che, insediatasi su iniziativa del governo italiano e di quello sloveno, rimase in

attività per otto anni15.

L’obiettivo dell’organismo era ricostruire la storia dei rapporti tra i due paesi dal 1880 al 1956. Dopo nove incontri, si arrivò all’elaborazione di un documento che, fi rmato a Capodistria il 25 luglio 2000, tracciava una panoramica delle ricerche svolte e sottolineava differenze e affi nità sul pia-no metodologico e interpretativo da parte italiana e slovena. Il dialogo e il confronto tra storiografi e nazionali diverse ha avuto il merito di favorire una visione più articolata della dinamica storica che, pur attenta alle continuità, tendeva a superare i paradigmi interpretativi del passato facendo spazio a nuove ipotesi basate sull’analisi dei diversi fi li che si erano intersecati nella storia dell’Alto Adriatico.

Resta da chiedersi quanto e in che termini il Giorno del Ricordo, al di là dei suoi aspetti più liturgici e strumentali, abbia effettivamente contri-buito a stimolare interessi e costituito un’occasione di rifl essione. Dopo

15. Per ripercorrere l’attività della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, cfr. R. Pupo, Due vie per riconciliare il passato delle nazioni? Dalle Commissioni storico

culturali italo-slovena e italo-croata alle giornate memoriali, in «Italia contemporanea», 282

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quindici anni, appare infatti possibile provare a stilare un bilancio in tal senso.

Tralasciando le criticità dettate dalle già delineate speculazioni politiche, appare evidente come l’istituzione della data abbia avuto un impatto rile-vante, sia incoraggiando lavori di ricerca in ambito nazionale o rivolti alle diverse dimensioni locali, sia favorendo la divulgazione attraverso convegni, seminari, interventi pubblici, attività e percorsi didattici che, sostenuti dal rigore scientifi co e storiografi co, hanno saputo superare la retorica celebra-tiva, proponendo un quadro di analisi dallo spettro più ampio, capace di andare oltre alle foibe e all’esodo, per rifl ettere sulle tematiche che la legge istitutiva del Giorno del Ricordo indica come «le altre vicende» del confi ne orientale.

Lo sforzo di proporre un ragionamento capace di muoversi in un’ottica di lungo periodo, di problematizzare il ruolo assunto dagli italiani (non

esclu-sivamente vittime)16 e allargare la prospettiva alla dimensione europea,

sem-bra infatti procedere proprio in tale direzione, testimoniando un auspicabile cambio di rotta e dimostrando come una data legata al calendario civile non si esaurisca con il solo – benché doveroso – momento celebrativo, ma possa divenire un’occasione per avviare costruttivi percorsi di studi e rifl essione.

Nonostante l’argomento sia stato ricondotto alle sue dimensioni reali, continuano però a permanere alcune criticità che traggono linfa da posizioni nazionaliste e negazioniste.

Da un lato si notano i rigurgiti nazionalisti non solo della destra extra-parlamentare, ma anche di quella che siede sugli scranni del Parlamento italiano ed europeo, i cui esponenti inneggiano al ritorno dell’Istria e della Dalmazia italiana (provocando la comprensibile reazione dei governi di

Lu-biana e Zagabria)17 o sventolano, a più riprese, il paradigma della pulizia

etnica, ignorando però, volutamente, ogni richiamo al fascismo di confi ne18.

Su posizioni diametralmente opposte, ma altrettanto insostenibili, si attesta la sinistra radicale, sia nei suoi rappresentanti politici sia nelle sue ali più oltranziste, impegnata a focalizzare il discorso quasi esclusivamen-te sul nesso esisesclusivamen-tenesclusivamen-te tra le responsabilità del fascismo, che abbiamo già richiamato, e le foibe, intese come una reazione alle politiche adottate dal

16. Ivi, p. 249.

17. Cfr. Foibe. Slovenia e Croazia contro la frase di Tajani: «Viva Istria e Dalmazia

ita-liane», «Corriere della Sera», 11 febbraio 2019.

18. Cfr. Matteo Salvini: «le foibe furono pulizia etnica. Sono Slovenia e Croazia a doversi

scusare», «Il Gazzettino», 15 febbraio 2019; Foibe: Meloni zittisce tutti, «Il secolo d’Italia»,

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regime nei confronti della popolazione slovena e croata. Un orientamento che porta a sostenere con una certa disinvoltura la tesi, prima piuttosto diffusa nella storiografi a di sinistra e in quella jugoslava, volta a defi nire le foibe come un fenomeno marginale se non inesistente e a ridurre la por-tata dell’esodo, ignorandone così le dinamiche e circoscrivendo le parten-ze degli italiani nell’ambito di una scelta volontaria, come conseguenza del diritto di opzione offerto dal Trattato di Parigi e dal Memorandum di Londra.

Seppur differenti tra loro, tali posizioni evidenziano la presenza di un dibattito politico e culturale svuotato, teso a schiacciare la narrazione su un piano slegato dalla contestualizzazione e che predilige un approccio volto a sezionare la storia, scegliendone solo le trame che più si addicono a so-stenere il proprio codice interpretativo. E ciò vale, lo ripetiamo ancora una volta, tanto per chi riduce, sminuisce o addirittura nega i crimini del regime fascista, quanto per coloro che compiono un’operazione altrettanto avven-tata evitando di ragionare a fondo sulle pratiche e sui tratti, anch’essi duri e spietati, del sistema autoritario instaurato da Tito nella Jugoslavia comunista dell’immediato dopoguerra.

Per mantenersi viva ed essere compresa, la storia non necessita di mani-polazioni strumentali, ma di un processo che riesca a mettere in contatto il discorso pubblico con i percorsi della ricerca che andrebbero non solo inter-rogati più spesso, ma dovrebbero costituire il principale punto di riferimento al quale guardare e dal quale muovere le fi la per costruire il discorso pub-blico. Anche perché col tempo gli storici hanno saputo passare al setaccio, mettendoli a fuoco, fatti, eventi e interpretazioni, fornendo risposte convin-centi che hanno contribuito a gettare fasci di luce sui coni d’ombra calati su questo passaggio della storia italiana. E non riconoscerlo signifi ca non voler fare i conti con il proprio passato. Che a oltre settant’anni da quelle vicende sarebbe invece ora di fare, guardando non solo al proprio dolore, ma anche a quello degli altri.

Una necessità colta dai capi di stato di Italia, Slovenia e Croazia che il 13 luglio 2010, ovvero novant’anni dopo l’incendio del Narodmi Dom (la casa del popolo sloveno) da parte delle squadre fasciste, si incontrarono a Trieste, visitando i luoghi della memoria cittadina e partecipando, in Piazza Unità, al Concerto dell’amicizia, diretto da Riccardo Muti. La giornata rappresentò un primo e signifi cativo atto di riconciliazione tra i tre paesi, dopo le frizioni diplomatiche seguite alle prime celebrazioni del Giorno del Ricordo quan-do, da parte italiana, vi furono alcuni interventi che sollevarono la reazione dei governi di Slovenia e Croazia.

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Il primo, in contrapposizione alla ricorrenza italiana, decise di istituire, nel 2005, la Festa del ritorno del litorale sloveno alla madrepatria, sceglien-do la data simbolica del 15 settembre, che richiamava l’entrata in vigore del Trattato di pace (15 settembre 1947), mentre l’allora presidente croato Stje-pan Mesić, dimostrò apertamente di non gradire le affermazioni di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica italiana, che nel 2007, durante il suo discorso commemorativo del Giorno del Ricordo, defi nì le foibe come

un evento che assunse «i sinistri contorni della pulizia etnica»19. Ne

nac-que un serrato contenzioso, poi ricomposto dalle diplomazie dei due paesi e chiuso a Trieste nel 2010.

Dieci anni più tardi, il 13 luglio 2020, in occasione della restituzione dell’edifi cio del Narodni Dom alla comunità slovena, viene posto, ancora una volta a Trieste, un altro importante pilastro sulla strada della riappa-cifi cazione. A esserne protagonisti sono Sergio Mattarella e Borut Pahor, rispettivamente capo di stato italiano e sloveno che, prima davanti al me-moriale della foiba di Basovizza e successivamente di fronte al monumento dei Caduti sloveni (un cippo non molto distante che ricorda i fucilati sloveni per mano fascista), depongono delle corone di fi ori tenendosi per mano e restando in silenzio per un minuto.

Un gesto simbolico, con il quale i due presidenti hanno tentato di sutura-re una ferita durata settant’anni, che rischia di essesutura-re riaperta dall’emergesutura-re di vecchi e nuovi nazionalismi, i cui rigidi schemi è auspicabile vengano emarginati dall’attivazione di un percorso di dialogo e confronto comune che, scevro da polemiche, ponga la storia al centro di ogni rifl essione futura, fornendo così le necessarie chiavi interpretative a riconnettere le vicende del confi ne orientale nel quadro più ampio della storia italiana ed europea.

19. Intervento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione

del-la celebrazione del Giorno del Ricordo, 10 febbraio 2007. In Presidenza deldel-la Repubblica,

<http://presidenti.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Discorso&key=930>, visitato il 15 luglio 2020.

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I. Venezia – Giulia, Italia (1880-1924)

1. L’Istria e le identità plurime: italiani, sloveni, croati

Tra tutte le province della monarchia austriaca, di certo non ce n’è una che sia ancora così poco conosciuta come l’Istria. […] Per lo storico, per lo statistico e per il geografo, l’Istria è di solito una terra incognita.

Così Istrien, una guida storica, geografi ca e statistica austriaca edita nel 1863 a Trieste, apriva la sua descrizione dell’Istria, evidenziando non solo la perifericità della regione nel novero dei territori dell’impero austro-unga-rico, ma anche la sua capacità di attrarre lo sguardo del viaggiatore, «il cui

piede» – si legge nel testo – «era deviato all’interno»1 e sospinto a esplorare

un panorama variopinto, tratteggiato dalla terra rossa e dalle rocce del Carso che scendevano fi no al mare.

Emergeva l’istantanea di una terra semisconosciuta, resa ancor più attra-ente dal variegato paesaggio umano e culturale, frutto dei contatti tra le varie popolazioni che nel corso dei secoli avevano posato il loro sguardo su questo spicchio di Adriatico, dove vivevano, in uno spazio geografi co ridotto, tre grandi mondi culturali e linguistici: latino (italiano), slavo (sloveno, croato) e germanico (tedesco).

Connotati solo più tardi da una matrice nazionale, essi avviarono tra loro confronti tesi e serrati, ma seppero anche incontrarsi reciprocamente, contribuendo a forgiare un microcosmo multiculturale contrassegnato da un forte senso di appartenenza al territorio e da un’identità istriana in grado di 1. Istrien. Historische, geographisce und Statistische Darstellung det Istrischen

Halbin-sel, Tipografi a del Lloyd, Trieste 1863, p. 1. Il testo originale con relativa traduzione si trova

in G. Mellinato, L’estremità periferica. Una prospettiva economica dell’Istria (1891-1943), in G. Mellinato, L. Dorigo, B. Mannino, Istria Europa. Economia e Storia di una regione

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racchiudere il carattere plurietnico della regione che, tralasciando le entità dal peso specifi co minore, aveva negli italiani, negli sloveni e nei croati le comunità più rappresentative.

Furono soprattutto i poeti e i letterati a cogliere, dandone voce, le pecu-liarità dell’area guardandola da una prospettiva che rifl ette e restituisce una luce nella quale legami e relazioni oltrepassano estraneità e dissonanze.

Versi e parole maturati in diversi momenti storici, eppure in grado di comporre un romanzo dalle trame concentriche e connesse tra loro dipin-gono uno scenario composito nel quale ogni differenza si assottiglia e si ingigantisce o, allo stesso tempo, si respinge e si attrae.

Fu così per Giani Stuparich, triestino di nascita ma di radici istriane (il padre Marco, di origine dalmata e austriaca, era nato a Lussino), collabora-tore de «La Voce» prezzoliniana e volontario sul Carso durante la Grande guerra, che scelse come terra di origine e di elezione l’Istria, popolata, scrive nei suoi Ricordi istriani, da «due mondi», ciascuno «con la propria

atmosfe-ra, coi loro aspetti singolari e diversi»2.

Una pluralità restituita anche da Scipio Slataper, che in una lettera scritta

a Luisa Carniel, sua futura moglie, si defi niva «slavo, tedesco, italiano»3,

concedendo così piena cittadinanza alla cultura slovena e croata. Lungo gli stessi binari viaggiavano anche Guido Miglia e Fulvio Tomizza, due tra i più sensibili narratori delle terre istriane.

Il primo, fondatore de «L’Arena di Pola», principale voce della città dal 1945 fi no al grande esodo del 1947, riconobbe l’esistenza di due Istrie, una veneziana lungo la costa, l’altra slava nell’entroterra: entrambe di presenza secolare, si ritrovavano in una «mescolanza di lingue, voci, colori e persino

di odori»4.

Tomizza, nato a Giurizzani piccolo borgo nei pressi di Umago da padre italiano e madre croata, modellò come una scultura la grande anima istriana, nella quale convergevano affi nità e differenze, dando luogo a una pluralità di appartenenze e a una coscienza multietnica divenute, nella sua scrittura, il tratto distintivo di un crocevia che trovava nell’identifi cazione col territorio e con le sue caratteristiche storiche e culturali la naturale condizione del

vivere5.

2. G. Stuparich, Ricordi istriani, Einaudi, Torino 1994, p. 94. 3. S. Slataper, Alle tre amiche, Mondadori, Milano 1958, p. 421.

4. G. Miglia, L’Istria una quercia, Edizioni Circolo di Cultura «Istria», Trieste 1994, p. 64.

5. Per un approccio alla narrativa di frontiera di Fulvio Tomizza si consiglia la lettura di

Materada, il suo primo romanzo edito nel 1960 e di La ragazza di Petrovia pubblicato nel

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Quasi fossimo di fronte a un patchwork, l’Istria si presenta cucita con scampoli diversi, la cui forma non trova una piena comprensione se non at-traverso l’analisi minuziosa di ogni singolo pezzo di stoffa. Un tessuto grez-zo e frastagliato nel quale le differenti parti, ciascuna strutturata e distribuita a suo modo, assumono le sembianze di identità storiche, sociali, linguistiche e culturali che, come si è visto, possono combaciare oppure respingersi.

Illustre erede della Repubblica di Venezia, incontrastata dominatrice dell’area fi no al 1797, quando il Trattato di Campoformio ne decretò il pas-saggio all’impero austriaco che la amministrò (salvo una breve parentesi na-poleonica tra il 1806 e il 1813) fi no al termine della prima guerra mondiale, la componente italiana prevaleva nei centri urbani dislocati lungo la costa occidentale della penisola, riuscendo comunque ad aggregare tra le sue fi la i nuclei italofoni sparsi nelle zone rurali dell’interno.

Differente si presentava invece la situazione in Dalmazia, dove la popola-zione italiana, del tutto minoritaria, rappresentava un’élite culturale, politica ed economica, distribuita soprattutto a Zara e nelle principali città costiere. Appare comunque evidente come la cultura e la lingua italiana, peraltro in-serite in un contesto dove, oltre a quella veneziana, monumenti, edifi ci e strutture architettoniche richiamavano anche le passate vestigia dell’Impero romano, si espandessero ben oltre le appartenenze nazionali, dando vita a

«un’identità dalmata di carattere regionale»6.

La presenza della Serenissima contribuì inoltre alla diffusione sull’intera area della lingua italiana o, per meglio dire, veneziana. Nel corso dell’intera età moderna fu infatti questo l’idioma più utilizzato lungo le sponde dell’A-driatico orientale, non solo nella comunicazione, ma anche nel commercio e nella marineria, diventando uno dei principali simboli dell’identità istriana. Lingua viva che ha resistito al tempo, considerata dai linguisti una va-riante del veneto, l’istro-veneto costituisce, ieri come oggi, la principale for-ma di espressione verbale degli italiani d’Istria, arrivando però a permeare anche alcune porzioni dell’interno sviluppando, grazie ai contatti con il dia-letto croato, vere e proprie forme di ibridismo.

Se la fascia costiera e i centri urbani della penisola istriana contavano una prevalenza italiana, differente è il discorso inerente le zone rurali dell’en-troterra nelle quali, adottando come chiave di lettura primaria la dicotomia

dall’Adriatico all’Europa, ma non solo. Una raccolta dei suoi contributi pubblicati su vari quotidiani si trova in F. Tomizza, Adriatico e altre rotte. Viaggi e reportage, (a cura di M. Moretto), Diabasis, Reggio Emilia 2007.

6. M. Cattaruzza, L’Italia e il confi ne orientale 1866-2006, il Mulino, Bologna 2007, p. 16.

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città/campagna e fascia costiera/territori interni, spesso utilizzata dalla sto-riografi a italiana, appariva maggioritaria la concentrazione di popolazione slovena e croata.

La prima trovava il proprio riferimento soprattutto nell’Istria settentrio-nale, mentre la seconda, a sua volta suddivisa in sottogruppi tra loro diffe-renti per lingua e origine, era maggiormente distribuita nelle campagne e nell’Istria orientale.

Un’effi cace sintesi interpretativa di tale situazione è restituita dal model-lo proposto da Carmodel-lo Schiffrer: soffermandosi sulle caratteristiche storiche del popolamento della regione, sulla sua composizione etnico – linguistica e sulla rappresentazione dualistica del territorio istriano, lo storico triestino

indicò la defi nizione di «nazione cittadina» e «nazione campagnola»7

inse-diate, rispettivamente, nelle aree urbane e costiere e in quelle rurali dell’in-terno. Alla prima apparteneva, in linea generale, l’ambito italiano costituito dai ceti di condizione elevata, mentre alla seconda si legava la componente slovena e croata che presentava divisioni sociali esigue e piuttosto limitate.

È però opportuno sottolineare come quello appena proposto non possa essere considerato un paradigma utilizzabile in termini assoluti e applicabile

in toto all’intera area, che presentava almeno tre signifi cative varianti: da

una parte la presenza, lungo il tratto costiero che da Duino si spinge fi no alla periferia di Trieste, di un gruppo sloveno che, sebbene non numeroso, assunse caratteri di compattezza tali da creare una discontinuità con il resto del territorio, dall’altra l’esistenza di un blocco italiano rurale costituito da grandi, piccoli e medi proprietari terrieri.

In ultimo, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, si ebbe la nasci-ta nei grandi centri urbani di Trieste e, in particolar modo, di Fiume di un ceto borghese urbano slavo, in grado di crescere e consolidarsi al punto da creare non poche diffi coltà alla classe dirigente italiana, contribuendo così a un progressivo deragliamento dei rapporti e, soprattutto, a un innalzamento dello scontro sulla base della confl ittualità nazionale.

2. Nazionalità, nazioni, nazionalismi

Nel contesto appena descritto, la possibilità di continuare a coltivare un dialogo tra le parti venne meno anche per il contemporaneo emergere dei movimenti nazionali, pronti a invadere il campo, generando così un clima di

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ostilità e tensioni nel quale lo spazio per le diverse anime dell’Istria sembra-va essere soffocato quasi del tutto.

Si trattò di un passaggio iniziato nella seconda metà dell’Ottocento, che conobbe un’accelerazione a partire dal 1866 (data della Terza guerra di

indi-pendenza), quando nell’intero Litorale austriaco8, il confronto tra gli opposti

nazionalismi assunse toni sempre più accesi. Uno scontro dettato dall’affer-mazione e dalla rivendicazione delle rispettive idee nazionali sia da parte della popolazione italiana, che a seguito della creazione del Regno d’Italia accrebbe la propria consapevolezza nazionale, sia della componente slove-na e croata, che vide il consolidamento dell’identità slove-nazioslove-nale procedere parallelamente alla crescita del peso economico, culturale e politico oramai assunto nella società istriana.

La monarchia asburgica, chiamata a confrontarsi con i processi di moder-nizzazione e trasformazione economica che avevano interessato tanto l’Eu-ropa centrale quanto l’area adriatica, fu sostanzialmente incapace di conte-nere tali contrasti. Essa dimostrò un’effettiva debolezza nella creazione di un sistema politico in grado di concedere nelle strutture statuali i necessari spazi di rappresentazione alle differenti componenti dell’impero, che trova-rono così nelle singole istanze nazionali uno dei principali terreni di attrito.

Se gli italiani miravano a tutelare la posizione di egemonia culturale, politica, economica e sociale maturata negli anni, sloveni e croati avevano invece l’obiettivo di sovvertire la situazione esistente. Ciò allarmò non poco gli apparati più in vista della popolazione italiana che reagì amplifi cando e rafforzando le politiche di difesa della propria nazionalità, contribuendo così a rendere più aspri i rapporti tra i gruppi, ciascuno dei quali aspirava a imprimere sul territorio la propria impronta e a rivendicare un’identità nazionale tesa a cancellare la comune appartenenza alla terra nella quale

affondavano le radici9.

Il processo di nazionalizzazione condusse così alla progressiva forma-zione di due distinte società nazionali che sebbene si muovessero tra i con-torni del medesimo stato, si ponevano su posizioni opposte e slegate tra loro, trovando però un denominatore comune nella volontà di procedere alla

con-8. Regione amministrativa dell’impero austro-ungarico, il Litorale austriaco si estendeva dalla valle del fi ume Isonzo a nord, fi no alla penisola istriana a sud, con i centri urbani di Trieste, Gorizia, Postumia e Pola.

9. Sul rapporto tra il nazionalismo italiano e quello sloveno, cfr. M. Verginella, Il confi ne

degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena, Donzelli, Roma 2008, pp. 87-113.

Per una prospettiva che prenda in considerazione il versante italiano, cfr. M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico orientale

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quista delle istituzioni. Erano infatti proprio queste ultime, come suggerisce

Raoul Pupo, a «condizionare fortemente i processi di nazionalizzazione»10.

In tale ottica, acuita dalla crisi dell’Impero asburgico e del suo sistema di larghe autonomie, uno spartiacque decisivo fu rappresentato dalla Grande guerra.

Il confl itto allargò infatti il campo, spostando il fuoco dei movimenti nazionali italiano, sloveno e croato, non più impegnati a prevalere soltan-to sul piano locale, ma decisi a guardare ciascuno verso il proprio stasoltan-to nazionale di riferimento, considerato come l’unica entità in grado di pro-teggere l’identità nazionale. Uno stato disposto ad appoggiare sul piano politico, istituzionale e militare le istanze della sua parte irredenta con lo scopo di raggiungere la piena convergenza tra i confi ni statali e quelli della nazione.

Alla vigilia del primo confl itto mondiale maturava così tra la popolazio-ne italiana la perceziopopolazio-ne di essere vittima di un vero e proprio accerchia-mento da parte dell’antagonista nazionale sloveno e croato impegnato, dal canto suo, a reclamare a gran voce parità di diritti sul piano linguistico e cul-turale. Si veda in proposito un effi cace quadro proposto da Ernesto Sestan che ritrae gli intellettuali della regione impegnati a profondere ogni sforzo verso quello che lo storico trentino di origine istriana defi nisce il «punctum

dolens, ossessionante, della nazionalità»11.

Echi giunti fi no alla madrepatria che non poteva rimanere indifferente di fronte al grido di aiuto dei suoi fi gli d’oltre confi ne. Grazie anche al sa-piente utilizzo di un apparato propagandistico che poggiava sul supporto di riferimenti letterari, argomentazioni storiche e geografi che, si diffuse infat-ti molto rapidamente l’immagine dei territori italofoni dell’Alto Adriainfat-tico soggiogati dallo spietato artiglio dell’impero austriaco che vi esercitava un governo tanto ostile quanto illegittimo.

Alimentata dal mito dell’identità etnica sul quale, soprattutto dopo l’ina-sprimento delle tensioni tra Italia e Austria, sferzava con forza dirompente il vento dell’irredentismo, oramai entrato in maniera spettacolare sulla scena

politica italiana12, la questione del confi ne orientale iniziò dunque a trovare

nel discorso pubblico del paese attenzioni sempre maggiori.

10. R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005, p. 17.

11. E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, Centro libra-rio, Bari 1965, p. 103.

12. Un contributo di notevole interesse per approccio e quadro fattuale relativo all’irre-dentismo italiano viene offerto da R. Lunzer, Irreall’irre-dentismo Italiano (1880-1915). Irredenti,

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Penetrando nell’immaginario e nella coscienza degli italiani e assumen-do uno spessore sempre più ampio nella sfera politica, essa divenne uno spazio simbolico collocato a pieno titolo nel lessico della nazione, che non solo riteneva fondate le aspirazioni alla rivendicazione dei territori dell’A-driatico orientale (e dell’Alto Adige), ma li considerava vitali per la difesa dei confi ni e per il compimento dell’unità nazionale.

Una visione che traeva linfa da un impianto argomentativo di mazziniana memoria (si veda il noto articolo La pace pubblicato il 25 agosto 1866 su l’«Unità Italiana», quotidiano politico milanese, nel quale Mazzini afferma-va come l’Italia non potesse rinunciare ai suoi territori in Austria) e troafferma-vaafferma-va più di un riferimento anche nelle parole di Prospero Francesco Antonini.

Patriota friulano, costretto all’esilio a Torino dopo la fi rma dell’armistizio di Villafranca del 1859 che pose fi ne alla Seconda guerra d’indipendenza, scrisse Il Friuli orientale, dato alle stampe nel 1865. Nella sua corposa opera egli defi nì l’Istria come «il compimento naturale della Venezia», indicandola come un’area spettante «indubbiamente per ragione geografi ca alla nazione italiana», che ne «abbisogna volendo compiere la propria unità politica».

Tale posizione, nella quale non sembrava trovare spazio alcun richiamo a popoli, culture e lingue differenti da quella italiana, posava il suo fondamen-to ideologico su due elementi.

Da una parte vi era il legame storico risalente al disegno risorgimentale di unifi cazione di lingua, popolo e cultura entro le frontiere dello stato na-zionale italiano ingiustamente rimaste sotto l’amministrazione austriaca a seguito delle guerre d’indipendenza, dall’altra emergeva la questione dei confi ni naturali, geografi ci, storici e strategici «dell’Italia continentale verso Oriente», individuati nelle Alpi Giulie e nel golfo del Quarnaro. Soltanto dopo aver raggiunto «quelle frontiere che la natura le ha segnato», l’Italia –

affermava Antonini – avrebbe potuto ritenersi «paga e contenta»13.

L’italianità della regione era sostenuta anche da Graziadio Isaia Ascoli, glottologo goriziano appartenente a una benestante famiglia ebraica, che suggerì di sostituire la denominazione uffi ciale di Litorale austriaco (Österreichisches Küstenland) con il termine Venezia-Giulia.

La sua proposta venne lanciata dalle colonne di «Museo di famiglia», rivista illustrata stampata a Milano dai Fratelli Treves, che il 23 agosto 1863 ospitò un suo contributo intitolato Le Venezie nel quale individuava nell’Eu-ganea, nella Tridentina e nella Giulia le tre Venezie irredente:

Noi diremo Venezia Propria il territorio rinchiuso negli attuali confi ni amministrativi delle provincie venete; diremo Venezia Tridentina o Retica (meglio Tridentina) quello

13. P. F. Antonini, Il Friuli orientale. Uno studio, Francesco Vallardi, Milano 1865, pp. 21, 35, 663.

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che pende dalle Alpi Tridentine e può aver per capitale Trento; e Venezia Giulia sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia e Trieste e l’Istria.

Ad animare Ascoli non vi era però alcun disegno separatista. Lo di-mostrano le sue ripetute prese di posizione contro le tesi annessionistiche promosse dagli ambienti irredentisti più radicali, ai quali contrapponeva, nell’ottica di un auspicabile riordinamento istituzionale della regione, una

pacifi ca convivenza con la parte di popolazione slovena e croata14.

Alla base del neologismo stava dunque la volontà del suo ideatore di fornire visibilità alla componente italiana dell’impero asburgico, ponendo l’accento sull’unità linguistica e quindi, dal suo punto di vista, anche nazio-nale del Litorale austriaco.

Se si eccettua la comparsa in alcune opere di carattere storico e geogra-fi co edite tra il 1878 e il 1888, la denominazione Venezia-Giulia faticò a prendere piede, iniziando a diffondersi con maggior vigore soltanto dopo lo scoppio del primo confl itto mondiale quando, non estranea a strumentaliz-zazioni propagandistiche di stampo nazionalista, fi nì per trovare piena inve-stitura nella retorica delle terre irredente che accompagnava l’elaborazione delle richieste territoriali italiane e, successivamente, ne celebrava l’acquisi-zione sancendone così l’anelato ritorno tra i confi ni patri.

Un mito del ritorno alimentato per legittimare una guerra giusta,

combat-tuta in nome di una «rivendicazione nazionale»15 intorno alla quale avrebbe

dovuto saldarsi il consenso dell’intero paese.

3. Viva l’Italia!

Dopo aver falcidiato intere generazioni di uomini e provocato un nume-ro impressionante di caduti (tra i 680.000 e i 709.000, considerando anche quanti morirono negli anni immediatamente successivi alla guerra per

ra-gioni a essa connesse16), il fragore delle armi cessò il 4 novembre 1918. Il

14. Cfr. F. Salimbeni, G.I. Ascoli e la Venezia Giulia, in «Quaderni giuliani di storia», 1 (1980), pp. 51-68. Sulla fi gura di Ascoli cfr. I. Santeusanio, L’idea di Friuli nelle lotte

politi-co-nazionali del Goriziano, in F. Tassin (a cura di), Cultura friulana nel goriziano, Istituto di

storia sociale e religiosa, Gorizia 1988, pp. 198-200.

15. M. Isnenghi, Storia d’Italia. I fatti e le percezioni dal Risorgimento alla società dello

spettacolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 283.

16. La cifra realtiva ai caduti italiani durante la Grande guerra si trova in F. Cappellano,

La guerra sul fronte italiano, in N. Labanca (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2016 p. 99.

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giorno precedente, infatti, a seguito di segrete e concitate trattative iniziate il 1° novembre, il Comando supremo militare italiano e il suo equivalente austriaco fi rmarono alle porte di Padova, in quella che era stata la residenza di Vittorio Emanuele III dopo Caporetto, l’armistizio di Villa Giusti.

Redatto in francese, lingua corrente nella diplomazia dell’epoca, il do-cumento sanciva quindi la fi ne delle ostilità, la dissoluzione dell’impero austro-ungarico e il disfacimento del suo esercito, «i cui resti», come an-nunciava il Bollettino della Vittoria fi rmato da Armando Diaz, capo di stato maggiore dell’esercito italiano, risalivano «in disordine e senza speranza le

valli che avevano sceso con orgogliosa sicurezza»17.

Il 4 novembre, dopo che l’Audace, il cacciatorpediniere della Regia ma-rina con a bordo il generale Carlo Pettiti di Roreto fece il suo ingresso trion-fale a Trieste riportando, come affermava Diaz, il «tricolore italiano» a

sven-tolare «sulla Torre di San Giusto»18, le truppe del Regio esercito italiano,

mossero alla volta della Dalmazia e dell’Istria per assumere, come previsto

dal Patto di Londra, il pieno possesso del territorio19.

In Dalmazia gli sforzi del Comando supremo militare si concentrarono immediatamente verso Zara, dove nel pomeriggio attraccò sulla Riva Vec-chia la A.S.55, una torpediniera di modeste dimensioni comandata dal baro-ne Felice De Boccard, salpata qualche ora prima dal porto di Vebaro-nezia.

Nato a Verona nel 1880, formatosi all’Accademia navale di Livorno, De Boccard partecipò alla guerra italo-turca (1912-1913) per poi prendere parte come comandante di torpediniera alla Grande guerra, al termine della quale fu decorato, come riporta il Dizionario biografi co della Marina italiana, con

«la croce di guerra al valor militare»20.

17. Il Bollettino di guerra n. 1268, meglio noto come Bollettino della Vittoria, diffuso il 4 novembre 1918, fu pubblicato su tutti i principali quotidiani italiani. Per una sua immediata consultazione si rimanda al Testo integrale del Bollettino della vittoria, presente sul portale del Ministero della Difesa, in <https://www.difesa.it/Primo_Piano/Documents/Ottobre%20 2012/IL%20TESTO%20INTEGRALE%20DEL%20BOLLETTINO%20DELLA%20VIT-TORIA.pdf>, visitato il 23 marzo 2020.

18. Gli italiani a Trento e Trieste, in «Il Momento», 4 novembre 1918. Sull’ingresso dell’Audace a Trieste, cfr. L. Nacci, Trieste selvatica, Laterza, Roma-Bari, 2019, p. 109.

19. Il 26 aprile 1915 Antonio Salandra e Sidney Sonnino, rispettivamente Primo ministro e ministro degli Esteri del governo italiano, fi rmarono, segretamente e senza informare il Parlamento, con i rappresentanti della Triplice Intesa il cosiddetto Patto di Londra. Si trattava di un accordo che poneva fi ne alla neutralità italiana, sancendo l’ingresso del paese nel con-fl itto a fi anco dell’Intesa entro un mese dalla sigla dell’accordo. In cambio, oltre al Trentino, al Tirolo (fi no alla zona del Brennero), all’arcipelago del Dodecaneso e alla base militare di Valona in Albania, l’Italia avrebbe ottenuto, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana, a esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia e numerose isole dell’Adriatico.

20. P. Alberini, F. Prosperini, Uomini della Marina:1861-1946. Dizionario biografi co, Uffi cio storico della Marina, Roma 2015, p. 175.

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Fu dunque lui a entrare per primo in città, prendendone possesso in nome del re e issando sul municipio, già sede della Luogotenenza austriaca, il tri-colore italiano. Ad accoglierlo, insieme al podestà Luigi Ziliotto, vi era una folla in tripudio dalla quale, come riferisce una corrispondenza di Arnaldo Fraccaroli pubblicata sulle pagine del «Corriere della Sera», venne

«attor-niato, festeggiato, abbracciato, coperto di fi ori e di baci»21.

Le stesse scene di giubilo e irrefrenabile entusiasmo si registrarono an-che nelle città costiere dell’Istria a maggioranza italiana e a Pola dove, come annunciava un comunicato dello Stato maggiore della Regia marina del 6

novembre, i militari italiani furono ricevuti «festosamente dalla folla»22.

Alla testa dei reparti dell’esercito e della marina vi era il vice-ammiraglio Umberto Cagni. Astigiano, frequentò l’Accademia navale di Napoli, per poi partecipare a missioni esplorative al Polo nord e maturare importanti espe-rienze militari: guidò le operazioni navali di soccorso dopo il terremoto di Messina (1908), prese parte all’impresa di Libia e assunse il comando degli incrociatori della marina italiana durante la guerra appena terminata.

L’esaltazione per l’arrivo dell’esercito italiano non coinvolse invece la popolazione slovena e croata residente nelle zone dell’Istria interna e della Dalmazia (a Sebenico, ad esempio, la presa di possesso della città avvenne soltanto il 9 novembre), contribuendo a esasperare contrapposizioni nazio-nalistiche e attriti già esistenti.

Non poche diffi coltà accompagnarono anche l’ingresso dei militari ita-liani a Fiume.

La città, esclusa dai territori attribuiti all’Italia dal Patto di Londra, pote-va contare oltre alla popolazione italiana, maggioritaria, anche un cospicuo nucleo di abitanti di origine croata, distribuiti soprattutto nel sobborgo di Sussak e in altre zone limitrofe dell’entroterra, che guardavano invece con favore all’opzione jugoslava.

Le manovre italiane suscitarono dunque più di una preoccupazione all’interno del Consiglio nazionale jugoslavo di Zagabria. Si trattava del più elevato organo istituzionale dello stato degli Sloveni, Croati e Serbi, formatosi il 29 ottobre 1918 e sostituito, il 1° dicembre dello stesso anno,

dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS)23, la cui proclamazione a opera

21. A. Fraccaroli, Le trionfali accoglienze di Fiume e di Zara alle truppe italiane, «Cor-riere della Sera», 8 novembre 1918.

22. La citazione del comunicato della Regia Marina del 6 novembre 1918 è tratta da L’ammiraglio Cagni con soldati e marinai è entrato a Pola, in «La Stampa», 7 no-vembre 1918

23. Dal 1929 il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, assunse uffi cialmente la denominazio-ne di Regno di Jugoslavia. Sui processi di formaziodenominazio-ne e sulla fondaziodenominazio-ne del Regno dei Serbi,

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