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provincia di Lubiana

5. Foibe giuliane

Nella primavera 1945 il confl itto stava per volgere al termine. L’Armata jugoslava, che il 4 aprile aveva lanciato la sua offensiva, avanzava rapida-

55. Rapido giro in Istria dopo le tragiche giornate di anarchia, «Il Piccolo», 8 ottobre 1943,

56. Sui modelli rappresentativi dei partigiani nelle comunità rurali dell’Istria, cfr. G. Ne- mec, Fuori dalle mura. Cittadinanza italiana e mondo rurale slavo, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera, cit., pp. 202-224; G. Nemec, Un altro essere che non è un ani-

male vive nei boschi. Percezione del partigianato e memoria collettiva in una comunità dell’I- stria interna, in D. Gagliani (a cura di), Donne, guerra, politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Clueb, Bologna 2000; G. Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 1998.

mente con l’obiettivo di liberare defi nitivamente l’Istria croata e il litorale sloveno. Tuttavia Tito coltivava piani più ambiziosi rivolgendo massima at- tenzione anche a Trieste. Un interesse dettato da una serie di motivazioni che legavano il valore simbolico assunto dalla città per gli sloveni e la sua importanza sul piano economico, alla convinzione che il capoluogo giuliano rappresentasse la chiave di volta necessaria per il compimento del progetto di annessione della Venezia-Giulia e rivestisse una funzione di ponte per la

penetrazione dell’ideologia comunista verso occidente57.

La sorte della città, così come quella dell’intera Venezia-Giulia, fu og- getto di un colloquio avvenuto alla fi ne del febbraio 1945 tra lo stesso Ma- resciallo e Harold Alexander, comandante supremo delle forze alleate nel Mediterraneo che propose al futuro leader jugoslavo l’occupazione Alleata della Venezia-Giulia, il controllo del porto di Trieste e di tutte le arterie di comunicazione con l’Austria. La proposta non incontrò il favore di Tito che aveva invece altri obiettivi, e cioè estendere la sovranità jugoslava sui terri- tori a est dell’Isonzo dopo il ritiro delle truppe anglo-americane e mantenere

l’amministrazione civile jugoslava nei centri occupati dagli Alleati58.

Quanto a Trieste, egli mirava ad assumerne il controllo politico e milita- re, per dichiararla città autonoma della Settima repubblica federativa, com- prendente la Venezia-Giulia annessa alla Jugoslavia. Per mettere a punto tale strategia, occorreva però arrivare prima degli Alleati, per nulla disposti a rinunciare ai loro obiettivi.

Alla fi ne di aprile si scatenò così una vera e propria corsa per Trieste che ebbe come protagonisti i due eserciti, ciascuno dei quali interessato a raggiungere la città prima dell’altro per trovarsi in posizione di forza all’atto della futura defi nizione dei confi ni.

Ad avere la meglio furono gli jugoslavi: il 1° maggio Tito poté così an- nunciare – come informa un rapporto della Cia – che «le truppe partigiane

avevano raggiunto l’Isonzo e occupato Trieste»59, precedendo la seconda di-

visione neo-zelandese giunta in città per conto degli Alleati il giorno succes- sivo. Nei giorni seguenti, gli jugoslavi, che avevano distolto le loro forze da altri scenari (Zagabria e Lubiana furono infatti prese soltanto l’8 maggio), 57. Cfr. N. Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati, Irsml, Trieste 2009, p. 11.

58. Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confi ne orientale, cit., pp. 283-284.

59. «[…] Partisans troop had reached the Isonzo River on a broad front and had

occupied Trieste». Offi ce of Strategic Services, Current Intelligence Study n. 22, The Crisis in Trieste and Venezia-Giulia, 5 maggio1945, in General Cia Records (d’ora in poi Gcr),

FOIA Collection, Document n. 0000709793, <https://www.cia.gov/library/readingroom/ docs/DOC_0000709793.pdf>, visitato il 29 aprile 2020.

entrarono a Gorizia, Pola (1° maggio) e a Fiume (3 maggio), per poi raggiun- gere, entro la metà del mese, gli altri centri dell’Istria.

Trieste era insorta all’alba del 30 aprile in una situazione di grande in- certezza, fi glia della presenza di due distinte Resistenze: da un lato quella fi lo-jugoslava, appoggiata dai comunisti e favorevole all’annessione alla Ju- goslavia, dall’altro il Comitato di liberazione nazionale (Cln) che si batteva invece per l’italianità della città.

La prima fazione era composta da operai italiani e sloveni, organizzati in nuclei clandestini denominati comitati di Unità Operaia (Delavska enotnost) inizialmente impegnati nella raccolta di armi, munizioni e approvvigiona- menti per rifornire le unità partigiane dislocate in montagna. Con l’appros- simarsi della fi ne della guerra, il loro raggio d’azione si spostò decisamente verso la città, organizzandone la difesa attraverso cellule di fabbrica e rionali guidate da un Comitato circondariale responsabile di coordinare le opera-

zioni nel momento dell’insurrezione60.

Sorto nell’ottobre 1943, il Cln triestino attraversò fasi problematiche a causa dei contrasti tra le diverse componenti che portarono, nel luglio 1944, alla fuoriuscita dei comunisti a seguito del rifi uto di socialisti, democristia- ni, azionisti e liberali a collaborare con le unità partigiane slovene, come invece disposto dal Comitato di liberazione Alta Italia (Clnai), l’organo di coordinamento delle unità partigiane dell’Italia settentrionale.

Nell’ottobre 1944 si formò così un Cln composto dai medesimi schie- ramenti politici, esclusi i comunisti, che si rifi utava di riconoscere la guida jugoslava, contravvenendo alle disposizioni del Clnai, con il quale i rapporti erano ridotti ai minimi termini, che continuava invece a invitare gli antifasci-

sti triestini ad appoggiare e collaborare con il IX Korpus61.

All’insurrezione parteciparono entrambi gli schieramenti, ma l’ingresso in città dell’armata jugoslava costrinse il Corpo volontari della libertà (Cvl),

60. Sui Comitati di Unità Operaia e sul loro ruolo nella liberazione di Trieste, cfr. B.C. Novak, Trieste 1941-1954, Mursia, Milano 1996, pp. 68-69; M. Pahor, Sloveni e italiani in-

sieme nella liberazione della città di Trieste. L’azione militare del Comando Città di Trieste e di Unità Operaia, in «Qualestoria», 1 (2006), pp. 73-93. Per uno sguardo all’area goriziana,

con puntuali riferimenti a Trieste, cfr. A. Cattunar, La liberazione di Gorizia:1° maggio 1945.

Identità di confi ne e memorie divise: le videointerviste ai testimoni, in «Storicamente», 5 (2009), in <http://storicamente.org/cattunar>, visitato il 30 aprile 2020.

61. Per una dettagliata ricostruzione delle vicende del Cln triestino e dell’insurrezione generale a Trieste, cfr. R. Spazzali, L’Italia chiamò. Resistenza politica e militare italiana a

Trieste 1945-1947, Leg, Gorizia 2003; L. Felician [et al.] (a cura di), La Resistenza patriot- tica a Trieste 1943-1945, Leg, Gorizia 2009. Sul contributo del Partito d’Azione all’interno

del Cln, cfr. R. Spazzali, «Ragione e volontà di rinnovamento». Il Partito d’Azione e gli anni

braccio armato del Cln triestino composto anche da unità della Guardia di Finanza, ad abbandonare il campo per evitare scontri e possibili ritorsioni.

Seguirono ore convulse, che videro i vertici del Cln cercare di consegna- re la città alle truppe neozelandesi, giunte però quando gli jugoslavi aveva-

no oramai preso possesso della prefettura e del palazzo comunale62, centri

nevralgici del potere, sui cui edifi ci il tricolore italiano lasciava spazio a quello jugoslavo, annunciando l’inizio dell’occupazione che si protrasse per quaranta lunghissimi giorni. Cessò soltanto il 9 giugno con l’instaurazione, come vedremo, di un Governo militare alleato a seguito dell’Accordo di Belgrado.

Un puntuale e partecipato affresco di una «città sospesa»63 e divisa tra

l’arrivo degli jugoslavi e quello degli Alleati, i combattimenti contro i tede- schi e l’insurrezione partigiana, si trova nelle pagine di Primavera a Trieste, scritto da Pier Antonio Quarantotti Gambini, all’epoca direttore della Bi- blioteca civica cittadina.

Nella sua narrazione, sviluppata sotto forma di diario che abbraccia un periodo compreso dal 29 aprile al 12 giugno, lo scrittore istriano (era nato a Pisino nel 1910) restituisce le atmosfere che impregnavano la città impat- tando, inevitabilmente, sulla condizione emotiva della maggioranza dei trie- stini. Questi ultimi, profondamente scossi, osservavano «le ronde jugoslave, armate come se andassero al fuoco», sfi lare per le strade e sorvegliare gli edifi ci pubblici, dai quali sventolava – annotava Quarantotti Gambini – «in mezzo al bianco rosso e blu delle bandiere jugoslave e slovene, una bandiera

rossa con falce e martello e un grande tricolore italiano con stellette rosse»64.

Il passaggio appena citato restituiva però un’emozione che non abbrac- ciava l’intera popolazione, dal momento che l’insediamento dell’ammi- nistrazione jugoslava trovò vasti consensi non soltanto nella componente slovena della città, ma anche tra la classe operaia di lingua italiana di orien- tamento comunista.

Nel corso dell’occupazione le autorità jugoslave cercarono di accelerare la creazione di propri organismi civili per l’amministrazione della città, af- fi data al Comitato esecutivo antifascista italo-sloveno (Ceais), costituitosi il 17 maggio, data nella quale i poteri popolari convocarono le consultazioni elettorali a suffragio universale maschile e femminile per l’elezione dell’as- semblea costituente della città. Le consultazioni, svoltesi senza il rispetto

62. Cfr. M. Cattaruzza, 1945: alle origini della «questione di Trieste», in «Ventunesimo Secolo», 7 (2005), pp. 98-99.

63. D. Picamus, Trieste 1945. Una città ferita, in «Quaderni Cird», 16 (2018), p. 35. 64. P.A. Quarantotti Gambini, Primavera a Trieste, Mondadori, Milano 2018, pp. 134-135.

delle più elementari procedure, consentirono così l’elezione di 1.384 dele- gati, tutti favorevoli alla soluzione jugoslava, che poterono così partecipare

ai lavori del neo costituito organismo65.

L’obiettivo delle autorità jugoslave era quello di guadagnare i favori di fasce sempre più ampie di cittadini, coinvolgendoli sia nell’organizzazione del nuovo potere, sia cercando di lenire le loro necessità primarie, riassumi- bili nella formula, pane, lavoro e giustizia. Aspetto, quest’ultimo, che trovò realizzazione nell’istituzione di un Tribunale del popolo che aveva compe- tenze sull’epurazione ed era altresì chiamato a giudicare su reati e crimini fascisti66.

Un atteggiamento al quale fece però da contraltare l’applicazione di nor- me molto restrittive come ad esempio l’imposizione dell’immediata con- segna delle armi, l’instaurazione del coprifuoco e il divieto di spostamento dalla città. Ma, soprattutto, l’inizio di una repressione organizzata, che as- sunse le forme di un’ondata di violenza di vaste proporzioni, la cui attuazio- ne venne affi data all’Ozna (Odeljenje za Zaštitu Naroda), la polizia politica

jugoslava, fondata nel 1944 e posta sotto le dirette dipendenze di Tito67.

Inviati a Trieste dai vertici del potere jugoslavo, agenti e funzionari dell’Ozna eseguirono un gran numero di arresti: agirono sulla base di liste di proscrizione stilate da tempo e seguirono disposizioni provenienti dall’al- to e cioè direttamente dagli apparati direttivi del partito comunista sloveno, la cui indicazione era quella di operare su scala ideologica piuttosto che nazionale. Lo stesso Kardelj, il 30 aprile, in un dispaccio inviato ai comandi partigiani sloveni, si espresse in merito piuttosto chiaramente: «è necessario imprigionare tutti gli elementi nemici e consegnarli all’Ozna per processarli. [...] Epurare subito, ma non sulla base della nazionalità, bensì su quella del

fascismo»68.

Le parole del dirigente sloveno vanno però codifi cate, non tanto relati- vamente all’epurazione, che corrispondeva all’eliminazione vera e propria,

65. N. Troha, Le organizzazioni fi lo-jugoslave nella Zona A della Venezia-Giulia, in T. Catalan [et al] (a cura di), Dopoguerra di confi ne, Irsml-Università di Trieste-Regione Auto- noma Friuli Venezia-Giulia, Trieste 2007, p. 204.

66. Cfr. R. Spazzali, Epurazione di frontiera. 1945-1948: le ambigue sanzioni contro il

fascismo nella Venezia-Giulia, Leg, Gorizia 2000, pp. 51-56.

67. Per una storia complessiva dell’Ozna, cfr. W. Klinger, Il terrore del popolo: storia

dell’Ozna, la polizia politica di Tito, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2012. Sul ruolo assunto

dall’Ozna in Istria, cfr. O. Moscarda Oblak, Forme di violenza in Istria tra guerra e secondo

dopoguerra, in «Storia e problemi contemporanei», 74 (2017), pp. 59-75.

68. Il testo del telegramma di Kardelj si trova in R. Pupo, Violenza politica tra guerra e

dopoguerra: il caso delle foibe giuliane, in G. Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia 1997, p. 42.

quanto piuttosto al concetto di fascismo, utilizzato in senso molto ampio, al punto da rendere labile il confi ne tra la responsabilità collettiva e quella effettivamente individuale.

Gli arresti coinvolsero innanzitutto elementi collusi con il nazifascismo: dirigenti del partito fascista, squadristi, esponenti delle organizzazioni del regime, tedeschi, collaborazionisti, sloveni anti-comunisti e, naturalmente, uomini delle forze armate della Repubblica sociale italiana. Le manette si strinsero così attorno ai polsi di militari repubblichini, elementi arruolati nella X Mas e nella Milizia territoriale, che nei territori del Litorale Adria- tico aveva sostituito la Guardia nazionale repubblicana attiva invece nella

Repubblica di Salò. Ritenuti «nemici certi»69, dopo l’arresto furono subito

eliminati, così come i membri della polizia, molto attivi nella repressione anti-partigiana, che aveva nell’Ispettorato speciale, operante in seno alla

questura triestina, il suo organismo più temuto70.

Sottoposti a interrogatori sommari, vennero uccisi e successivamente gettati nelle foibe vicino a Trieste, come avvenne ad esempio a Basovizza, villaggio del Carso triestino a pochi chilometri dalla città, teatro tra il 29 e il 30 aprile 1945 di aspri scontri tra tedeschi e forze partigiane. Alla fi ne dei combattimenti, militari e carcasse di cavalli furono gettati nel pozzo della miniera di Basovizza (scavato a inizio secolo), solitamente chiamato foiba di Basovizza, profondo circa 250 metri. Nei giorni successivi nel villaggio fu costituito un tribunale militare che processò sommariamente alcune cen- tinaia di italiani, in buona parte agenti e uffi ciali di polizia che, condannati a morte, vennero fucilati. I loro corpi, successivamente, fi nirono nel pozzo insieme ad altri materiali e a munizioni inesplose.