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Allogeni: il fascismo e la politica antislava

II. Fascismo di confi ne

3. Allogeni: il fascismo e la politica antislava

Fin dagli albori del suo progetto totalitario, il nazionalismo, l’antislavi- smo e la violenza rappresentarono dunque il collante e i principali strumenti utilizzati dal fascismo di confi ne per consolidare la propria presenza sulla frontiera orientale. A partire dal 1922, con l’acquisizione del potere e l’as- sunzione del pieno controllo degli organi dello stato, esso iniziò a dare le- gittimità istituzionale al processo di assimilazione forzata della popolazione slovena e croata.

Identifi cata come allogena (termine entrato in vigore all’inizio degli anni

Venti per defi nire gli appartenenti ad altra etnia e nazionalità)36 e conside-

rata un corpo estraneo in un territorio «intrinsecamente italiano»37, essa fu

vittima di una linea politica di italianizzazione spinta, mirante a escludere, emarginare ed eliminare cultura, identità e appartenenza nazionale.

Il raggiungimento di un’omologazione rapida e defi nitiva fu attuato at- traverso una disarticolazione della società slovena e croata, basata da un lato sul rafforzamento della cultura e della lingua italiana, dall’altro sull’elimi- nazione degli strumenti e dei punti di riferimento che le due comunità ave- vano fi no ad allora sviluppato per affermare la loro presenza sul territorio. Venuti meno questi due elementi cruciali, sarebbe stato molto più semplice

riempire «di oasi italiane un deserto slavo»38.

Per portare a compimento la sua strategia, il fascismo promulgò, ancor prima di diventare regime, un apparato legislativo volto a ridurre al mini- mo la partecipazione pubblica della componente slovena e croata. Si trattò di una serie di provvedimenti che anticiparono quelli degli anni successivi quando la politica di snazionalizzazione procedette a ritmi sempre più in- calzanti.

Il primo terreno sul quale intervenire fu individuato nella scuola che, chiamata a plasmare le nuove generazioni dell’Italia fascista, conobbe un punto di svolta con l’approvazione, il 1° ottobre 1923, della riforma Gentile, ideata dal ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, i cui rifl essi non tardarono ad arrivare anche nella Venezia-Giulia.

36. Cfr. G. Sluga, Identità nazionale italiana e fascismo: alieni, allogeni e assimilazione

sul confi ne nord orientale italiano, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera,cit.,

pp. 171-172; E. Collotti, Sul razzismo antislavo, in A. Burgio (a cura di), Nel nome della raz-

za. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), il Mulino, Bologna 1999, p. 33-61.

37. A. Martella, Gli slavi nella stampa fascista a Trieste (1921-1922). Note sul linguag-

gio, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1(2006), p. 13.

38. G. Motta, Le minoranze nel XX secolo. Dallo stato nazionale all’integrazione euro-

Le istituzioni scolastiche, affi date al Provveditorato della Venezia-Giulia e Zara con sede a Trieste, avrebbero dovuto portare a termine un duplice compito: da un lato favorire il processo globale di identifi cazione tra italia- nità e fascismo, dall’altro accelerare l’azione assimilatrice delle minoranze linguistiche portata avanti in nome della cultura e della lingua italiana, de- stinate a prevalere defi nitivamente sulle altre.

Il primo passaggio fu quello di provvedere alla rimozione di ogni spa- zio d’uso della lingua slovena e croata imponendo nelle prime classi di tutte le scuole elementari l’utilizzo dell’italiano come lingua di insegna- mento. La stessa norma sarebbe stata applicata, a partire dall’anno succes- sivo, nelle seconde e, gradualmente, nelle classi superiori fi no ad arrivare all’eliminazione completa delle altre lingue. Per le quali però, almeno inizialmente, erano previste delle ore supplementari, durante le quali l’in- segnamento era impartito in forma esclusivamente orale e senza l’utilizzo di libri di testo.

Tale possibilità venne però defi nitivamente cancellata nel 1925, quando il decreto n. 2191 del 22 novembre sancì, in tutte le scuole, l’insegnamento dell’italiano come unica lingua.

L’eliminazione dello sloveno e del croato era inoltre accompagnata da una profonda revisione dei programmi scolastici che prevedevano la can- cellazione di ogni riferimento al patrimonio storico e culturale delle due comunità, sostituito da una rilettura nazionalistica del passato nella quale affi orava una vera e propria esaltazione della patria italiana.

L’opera di snazionalizzazione trovò dunque nella scuola uno dei suoi principali strumenti, portando alla chiusura e alla trasformazione in scuole

italiane poco meno di 500 istituti scolastici sloveni e croati39.

Oltre agli allievi, il processo di italianizzazione coinvolse anche gli inse- gnanti: quelli in possesso della cittadinanza italiana sarebbero stati confer- mati in servizio, mentre gli allogeni vennero travolti dall’epurazione. Il già citato decreto 2191, obbligava infatti questi ultimi a ottenere, entro due anni, il certifi cato di abilitazione all’insegnamento della lingua italiana, pena la loro messa a riposo. Da sottolineare, però, come il conseguimento della li- cenza di insegnamento non fosse suffi ciente a porre maestri e professori al riparo da eventuali trasferimenti d’uffi cio in altre regioni o da programmi di sorveglianza, la cui rigidità fu tale da far maturare in molti di loro la decisio- ne di trasferirsi in Jugoslavia.

39. Cfr. M. Kacin Wohinz, J. Pjrievec, Storia degli Sloveni in Italia: 1866-1998, Marsilio, Venezia 1998, p. 55.

Tra il 1928 e il 1943, circa 400 insegnanti sloveni e croati furono così

allontanati o trasferiti40: al loro posto arrivò personale docente proveniente

direttamente dall’Italia.

Fu il caso, ad esempio, del maestro Francesco Sottosanti, fervente ca- micia nera, partito da Piazza Armerina, in provincia di Enna, alla volta di Verpogliano, borgo a maggioranza slovena della Carniola, la cui particolare vicenda (per uno scambio di persona cadde vittima di un agguato per mano di

alcuni antifascisti sloveni) è stata recentemente ricostruita da Adriano Sofri41.

La sua storia è simile a quelle di molti altri suoi colleghi che, incoraggiati da riconoscimenti economici e prospettive di carriera, aderirono alla leva magistrale fascista, ovvero l’appello con il quale l’Associazione nazionale degli insegnanti fascisti e il ministero della Pubblica istruzione esortavano i «migliori giovani maestri fascisti» a trasferirsi nelle scuole dei territori allogeni per compiervi «opera altamente meritevole a favore dell’italianità

e del fascismo»42.

Al pari dei docenti istriani, essi avrebbero dovuto soddisfare le imposi- zioni del regime, spesso utilizzando metodi coercitivi, dei quali Boris Pahor ci fornisce una toccante testimonianza nel suo racconto La farfalla sull’at-

taccapanni che ha come protagonista Julka, una bambina slovena redargui-

ta platealmente dal suo maestro (un uomo dai «capelli neri e impomatati, lucidi come il catrame […], all’occhiello il distintivo del fascio littorio»), che la appese per le trecce all’appendiabiti della classe dopo averla sentita pronunciare una parola in sloveno durante la ricreazione:

Vieni qui, le disse con gli occhi lampeggianti. Julka si mosse e già le dita impazienti l’af- ferrarono per l’orecchio. Non voglio più sentire quella brutta lingua, disse camminando tra i banchi e tirandosela dietro per l’orecchio. Non voglio! La sua voce ansimava: avete capito che non lo voglio?43.

Tra gli allievi sloveni e croati maturava così un sentimento di estranei- tà, distacco e avversione verso la lingua e la scuola italiana, vissute come un’imposizione e una costrizione quotidiana. Lo comprese, fi n da subito, Guido Miglia, che affi dava al suo diario il ricordo dell’esperienza di maestro elementare in un piccolo paese dell’Istria interna. Pagine che suonano come

40. J. Pirjevec, Serbi, croati, sloveni, cit., p. 181.

41. Cfr. A. Sofri, Il martire fascista, Sellerio, Palermo 2019.

42. Associazione nazionale degli insegnanti fascisti, Circolare del 15 giugno 1927. Il documento si trova in A. Grussu, Società, educazione e minoranze nazionali al confi ne orien-

tale tra regime liberale e fascismo, Tesi di Dottorato (XX Ciclo), Università degli Studi di

Messina, a.a. 2004-2005, p. 121.

43. B. Pahor, La farfalla sull’attaccapanni, in Id., Il rogo del porto, Nicolodi, Rovereto 2001, p. 128.

una lucida voce di denuncia del ruolo esercitato durante il fascismo dai mae- stri e dalla scuola italiana nelle terre istriane:

Ricordo la gioia della prima nomina, un lavoro per me anche se lontano dalla mia casa. […] Passo attraverso paesini sperduti […], ogni tanto qualche casa intonacata, il fumo che esce dal camino, la porta socchiusa e gente che mi guarda con indifferenza. Final- mente arrivo […]: c’è una bidella che mi attende, capisce che sono il nuovo maestro, mi fa entrare in un’aula grande e disadorna del pianterreno, tutti i banchi sono occupati da decine di bambini, che mi guardano con ansia, le guance arrossate, gli occhi che brilla- no di curiosità e di speranza. Poveri bambini, io parlo nell’unica lingua che conosco, e comprendo che i più piccoli non capiscono. Durante la ricreazione li sento parlare piano tra loro, nel dialetto croato, e credo allora che il mio dovere sia quello di rimproverarli e di farli parlare italiano. Solo a mie spese, da adulto […] capirò l’aberrazione di voler impedire all’altro gruppo etnico di manifestarsi liberamente nella lingua materna. Ma quando lo capirò nulla potrà essere modifi cato nel destino della penisola44.

Dopo la scuola toccò alla pubblica amministrazione, riformata con l’a- dozione di un impianto normativo che, entrato in vigore nel 1924, consentì la rimozione immediata di impiegati e funzionari (ma anche di magistrati) sia perché ritenuti dai vertici fascisti non affi dabili, sia per la loro limitata conoscenza dell’italiano o – come recita il testo del decreto – «per qualun-

que altra ragione»45. A pagare furono soprattutto quadri sloveni e croati,

sostituiti con personale giunto appositamente dall’Italia (i cosiddetti regni-

coli cui accennavamo in precedenza) che, proiettato in una realtà pressoché

sconosciuta, si trovò, il più delle volte, a essere un corpo estraneo al contesto sociale in cui venne inserito.

Se la scuola e la pubblica amministrazione rappresentavano due tassel- li fondamentali nel progetto di allineamento dell’area giuliana, altrettanto importante si dimostrava la necessità di esercitare un controllo capillare sul territorio, in particolar modo nelle zone rurali dell’entroterra, dove la popolazione slovena era più numerosa. In tal senso va intesa la creazione dell’Ispettorato speciale del Carso, una struttura autonoma di carattere mili- tare nella quale confl uirono gli elementi più intransigenti dello squadrismo triestino che, esclusi dalla politica di normalizzazione seguita alla marcia su Roma, furono inquadrati nell’organismo e impiegati in operazioni di con- trollo della campagna slovena. A guidare la struttura fu chiamato Emilio Grazioli, squadrista lombardo che iniziò la sua carriera nella Milizia volon- taria per la sicurezza nazionale (Msvn), per poi acquisire rilievo e prestigio

44. G. Miglia, Dentro l’Istria. Diario 1945-1947, Tipografi a Moderna, Trieste 1973, pp. 17-18.

nel fascismo triestino diventando segretario federale del partito e, dal 1941

al 1943, alto commissario per la provincia di Lubiana46.

Con la trasformazione in una dittatura a viso aperto il fascismo accelerò il processo di snazionalizzazione, che continuava a individuare nella lingua uno dei campi sui quali insistere con maggior vigore.

Alla Riforma Gentile e agli altri provvedimenti intrapresi nel 1923 (ob- bligo per i giornali croati e sloveni di pubblicare il testo degli articoli in italiano ed entrata in vigore delle leggi toponomastiche che mutavano, italia- nizzandoli i nominativi di paesi, città e toponomastica stradale), seguirono infatti nuove e più aspre normative. Ne conseguì che dal 1925 il divieto di comunicare nelle lingue alloglotte, fi no ad allora limitato ai telegrammi da e per la Venezia-Giulia, ai procedimenti giudiziari, ai sindaci e agli impiegati degli uffi ci pubblici, venne esteso all’intero spazio pubblico (luoghi di lavo- ro, esercizi commerciali e persino i cimiteri dove venne imposta l’abolizione delle scritte slovene e croate da lapidi e corone mortuarie) dando così una spinta decisiva al processo di deslavizzazione linguistica, ritenuto fonda- mentale per cancellare la dimensione culturale e identitaria delle comunità slovene e croate.

Attraverso il controllo dell’utilizzazione pubblica della lingua, il regi- me intendeva dunque imprimere la propria impronta culturale e nazionale sull’intera Venezia-Giulia, dove l’italiano divenne così l’unica lingua uffi -

cialmente ammessa47.

Quella che si snoda è dunque una storia di parole espropriate e negate, colta in tutta la sua interezza dallo scrittore dalmata Enzo Bettiza, che in un passaggio del suo struggente romanzo Esilio restituisce la soffocante atmo- sfera del tempo:

Mandava in furia mio padre il fatto che negli uffi ci della questura, del comune, la gente slava dovesse non solo sforzarsi di parlare l’italiano che spesso non conosceva, ma addirittura salutare col braccio levato funzionari e impiegati ignoranti e arroganti che provenivano dalle Puglie o dalla Sicilia. In diversi uffi ci amministrativi era appeso il cartello minatorio che ingiungeva: qui si parla italiano e si saluta romano. Ricordo che il papà esclamava infuriato: vogliono non solo italianizzare, ma fascistizzare col manganello, in ventiquattro ore, migliaia di slavi che neppure sanno che Mussolini si chiama Benito!48.

46. Cfr. P. Dogliani, Il fascismo degli italiani. Una storia sociale, Utet, Torino 2008, p. 288.

47. Per i dettagli sulla politica linguistica del fascismo nel processo di italianizzazione, cfr. G. Klein, La politica linguistica del fascismo, il Mulino, Bologna 1986.

Un altro obiettivo entrato nelle mire dell’offensiva fascista fu il fi tto reti- colo dell’associazionismo sloveno e croato che attraverso l’applicazione di direttive del ministero dell’Interno andò incontro a un debellamento coatto. A partire dal 1927, provvedimenti prefettizi e di polizia, portarono così allo scioglimento di oltre 500 tra circoli culturali, ricreativi, politici e sportivi, soppressi di autorità con motivazioni che si richiamavano al testo unico di pubblica sicurezza che, entrato in vigore nel 1926, concedeva ai prefetti la facoltà di sciogliere associazioni, enti e istituti la cui attività fosse «contraria

all’ordine nazionale dello stato»49.

Resistettero invece, seppur per un breve arco di tempo, l’Edinost, la cui traduzione italiana (Unità) esprime in maniera esaustiva il ruolo di fulcro della coscienza nazionale e culturale slovena ricoperto dall’associazione (fondata nel 1874), le società di assistenza, mutuo soccorso, cooperative e di piccolo credito che però tra il 1928 e il 1931 furono progressivamente

indebolite fi no alla defi nitiva eliminazione50.

Stessa sorte conobbero, nel medesimo lasso di tempo, quotidiani e perio- dici sloveni e croati che, già colpiti dalle azioni squadriste, furono costretti dai prefetti a sospendere le pubblicazioni.

Il processo di assimilazione, divenuto oramai irreversibile, conobbe un altro passaggio cruciale nel 1927 quando vennero allargate all’intera Ve- nezia-Giulia le disposizioni che, poco più di un anno prima, erano state ri- servate all’Alto Adige, altra regione nella quale il fascismo pose in essere un’accesa linea di italianizzazione. Si trattava, nello specifi co, del Regio decreto n. 17 del 10 gennaio 1926 (convertito poi in legge il 24 maggio dello stesso anno) che, presentato dal guardasigilli Alfredo Rocco e fi rmato, oltre che da Mussolini, anche dal ministro degli Interni Luigi Federzoni, stabiliva la restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie di Trento.

Il 7 aprile 1927 il Regio decreto n. 494 stabilì l’estensione del provve- dimento a tutti i territori annessi al Regno d’Italia nel 1920, ivi compresi, quindi, quelli della frontiera orientale.

La restituzione poggiava le sue basi su un concetto di fondo risalente all’Impero austro-ungarico, ovvero un presunto favoritismo austriaco, in chiave anti-italiana, della componente slovena e croata che a sua volta – questa la lettura fascista – avviò attraverso l’azione di preti e sacerdoti una

49. Regio decreto n. 1848, 6 novembre 1926, Testo Unico di Pubblica Sicurezza, art. 215. In «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Italia», n. 257, 8 novembre 1926.

50. Sullo scioglimento dell’associazionismo sloveno e croato cfr. l’ancora attuale, E. Ma- serati, Alcuni documenti sulla repressione delle associazioni slovene e croate della Venezia-

manipolazione dei registri parrocchiali, aggiungendo ai cognomi le desinen- ze -z oppure -ich, contribuendo così a una sostanziale riduzione dei patroni- mici italiani sull’intera area.

Il compito di stilare gli elenchi contenenti la lista dei cognomi da ordinare e restituire in forma italiana spettò ai prefetti che operarono sulla base della defi nizione dei suffi ssi o di quelle che essi ritenevano – spesso con interpre- tazioni del tutto arbitrarie – delle deformazioni straniere dei cognomi stessi.

Il mutamento, obbligatorio per tutti coloro che risultavano inseriti negli elenchi ministeriali compilati alla data del 5 agosto 1926, presentava un’evi- dente natura imperativa, acuita anche da un’ulteriore misura coercitiva che prevedeva l’applicazione di una sanzione pecuniaria oscillante tra le 500 e le 5.000 lire a quanti continuassero a utilizzare, a seguito dell’avvenuto cambiamento, il proprio cognome nella forma straniera. Ciò portò dunque i diretti interessati a soddisfare, nella gran parte dei casi, le imposizioni del

regime51.

L’ultimo, ma non meno rilevante, campo sul quale si abbatté la scure del regime riguardò l’altro grande punto di riferimento delle comunità slovene e croate e cioè il clero, anch’esso vittima, a ogni livello, di una politica dai tratti fortemente discriminatori.

Considerati dal fascismo come «agitatori slavi»52 in grado di frapporre

una pericolosa barriera al processo di assimilazione, preti e sacerdoti furono vittime di aggressioni e violenze (talvolta anche fi siche) fi n dagli albori del fascismo di confi ne, che intendeva impedire la predicazione e il catechismo nelle due lingue, rompendo così una consuetudine in vigore da anni nei ter- ritori della Venezia-Giulia.

A partire dal 1929, dopo la fi rma dei Patti Lateranensi, l’allontanamen- to del clero slavo dalle gerarchie ecclesiastiche divenne una pratica adot- tata con frequenza sempre maggiore dal regime, che poteva contare anche sull’appoggio della Santa sede, disposta a rimuovere dai propri incarichi fi gure chiave come monsignor Francesco Borgia Sedej e Luigi Fogar, vesco- vi, rispettivamente, di Gorizia e Trieste.

51. Cfr. Regio decreto n. 17 del 10 gennaio 1926, in «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Ita- lia», n. 11, 15 gennaio 1926; Regio Decreto n. 494 del 7 aprile 1927, in «Gazzetta Uffi ciale del Regno d’Italia», n. 93, 22 aprile 1927. Per un approfondimento sull’italianizzazione dei cognomi, cfr. A. Pizzagalli, Per l’italianità dei cognomi nella provincia di Trieste, Libreria Treves, Trieste 1929.

52. A. Sema, Minacce su Trieste. Aspetti della pianifi cazione difensiva italiana al confi ne

orientale tra anni venti e trenta, in P. Ferrari, A. Massignani (a cura di), Conoscere il nemi- co. Apparati di intelligence e modelli culturali nella storia contemporanea, FrancoAngeli,

Pur riconoscendo il ruolo istituzionale dello stato italiano, entrambi cer- carono di limitare le ingerenze del regime in materia religiosa, salvaguar- dando l’autonomia della chiesa e battendosi nei loro episcopati a difesa del diritto dei fedeli di ricevere l’insegnamento religioso e le predicazioni nella loro lingua madre. Una posizione che non poteva essere tollerata né dai ver- tici del regime né, tanto meno, da quelli ecclesiastici che di comune accordo provvidero al loro allontanamento: Sedej fu sollevato dal suo incarico nel 1931, Fogar nel 1936. A sostituirli fu chiamato Carlo Margotti, arcivescovo di Gorizia, pronto ad appoggiare e applicare il principio fascista di snazio-

nalizzazione del clero sloveno e croato53.

L’intera comunità ecclesiale del territorio giuliano uscì profondamen- te lacerata da tale situazione che portò a una divisione del corpo sacerdo- tale: da un lato i sacerdoti italiani, disposti, in maggioranza, a coniugare la missione pastorale con un’azione «nazionalistica, normalizzatrice e

italianizzatrice»54, dall’altro il clero sloveno e croato, trasformatosi in uno

strumento di contrasto e resistenza agli attacchi fascisti. Una funzione che gli consentì di mantenere ben saldo il legame con le comunità di fedeli per i quali continuò a essere un punto di riferimento di grande rilievo, contribuen-

do così al rafforzamento del loro radicamento nazionale55.

Fedele alla sua linea, il fascismo unì alle politiche di italianizzazione forzata la repressione poliziesca dell’opposizione slovena e croata, cresciuta in maniera esponenziale alla durezza della politica attuata dal regime nei confronti delle due comunità.

La reazione assunse anche i contorni di un movimento di lotta armata che, prevalentemente composto da giovani appartenenti alle élites culturali molto vicine agli ambienti irredentisti jugoslavi e alle associazioni sciol- te dal fascismo, prese la denominazione di Tigr, mutuando le iniziali delle quattro province (Trst, Istra, Gorica, Rijeka/Trieste, Istria, Gorizia, Fiume) che l’organizzazione intendeva liberare dal giogo fascista rivendicandone, nel contempo, l’appartenenza nazionale.

Sorto all’inizio degli anni Venti, il Tigr operava in condizioni di as- soluta clandestinità sul modello dell’Irish Repubblican Army (il braccio

53. Sulle fi gure di Sedej e Fogar, cfr. I. Santeusanio, La diocesi di Gorizia nell’episcopato

Margotti (1934-1941), in F.M. Dolinar, L. Tavano (a cura di), Chiesa e società nel goriziano tra guerra e movimenti di liberazione, Istituto di storia sociale e religiosa – Istituto per gli