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R Pupo, Foibe ed esodo: un’eredità del fascismo?, cit.

provincia di Lubiana

69. R Pupo, Foibe ed esodo: un’eredità del fascismo?, cit.

70. L’Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza nella Venezia-Giulia, fu istituito da Mussolini nel 1942. Ricostituito dopo l’8 settembre come Ispettorato speciale, divenne un apparato esclusivamente predisposto all’attività di repressione anti-partigiana. Lo guidava il commissario Gaetano Collotti, distintosi per l’adozione di metodi di spietata efferatezza. Fuggito da Trieste il 27 aprile 1945 a bordo di un camion carico di oggetti di valore, preziosi e pellicce, insieme ad altri membri del gruppo e alla sua convivente, venne riconosciuto da un partigiano triestino di Giustizia e Libertà e fucilato sul posto insieme ai suoi collaboratori a Mignagola di Carnonera nel trevisano. Nonostante si fosse macchiato di crimini di inaudita ferocia, Collotti venne insignito della medaglia di bronzo al valor militare per le azioni con- tro il movimento partigiano sloveno compiute prima dell’8 settembre 1943. Sulla cosiddetta Banda Collotti e l’Ispettorato speciale, cfr. C. Cernigoi, La “Banda Collotti”. Storia di un

corpo di repressione al confi ne orientale d’Italia, Kappavu, Udine 2013; V. Coco, Polizie speciali. Dal fascismo alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 113, 127.Sulla cattura e l’esecuzione di Collotti, cfr. M. Gasparini, C. Razeto, 1945. Il giorno dopo la Liberazione, Castelvecchi, Roma 2015, p. 69.

Dopo il ritiro delle truppe jugoslave, gli anglo-americani aprirono un’in- chiesta sui fatti di Basovizza, tentando contemporaneamente il recupero del- le salme, reso però infruttuoso da complicanze logistiche, principalmente dovute alla mole di materiale presente nell’abisso.

Le diffi coltà di trovare riscontro oggettivo alle voci iniziate a diffondersi sempre più insistentemente in città, portò nell’estate del 1945 un giornali- sta italiano a ipotizzare che nel pozzo, la cui profondità era nota, potessero essere presenti circa 1.500 cadaveri. Si trattava di un’affermazione priva di riscontri oggettivi che però fi nì per essere accolta dai media del tempo al punto da sedimentarsi nella memoria collettiva e nell’uso pubblico, tanto da essere ripetuta ancora oggi senza il conforto di alcuna analisi critica. L’as- senza dei corpi, beninteso, non sta però certamente a signifi care che nulla sia avvenuto, dal momento che fonti e testimonianze piuttosto attendibili, parlano chiaramente dell’uccisione di alcune centinaia di persone. Nega- re quanto accaduto sulla base del mancato recupero dei cadaveri, equivale dunque a mostrare il fi anco a interpretazioni e posizioni negazioniste che, ancora oggi, trovano risonanza.

Luogo simbolo e simbolico, memoriale di tutte le vittime delle stragi del 1943 e del 1945, la foiba di Basovizza, che nel 1959 fu chiusa con una lastra di cemento armato, divenne nel 1992 monumento nazionale e l’area è stata oggetto, tra il 2007 e il 2008, di un progetto di risistemazione curato

dal Comune di Trieste71.

A essere arrestati e a scomparire furono però anche gli appartenenti ai carabinieri e alla Guardia di Finanza che, generalmente, non parteciparono ad attività anti-partigiana ma al contrario, a Trieste come a Gorizia, collabo- rarono attivamente con la Resistenza.

Sciolti dai tedeschi nel 1944 (rimase solo un uffi cio con personale di- sarmato) i carabinieri triestini si unirono al Corpo volontari della libertà. Ciononostante furono arrestati e deportati nei campi di prigionia jugoslavi, esattamente come i loro commilitoni di stanza a Gorizia che avevano col- laborato con il Cln ponendosi, nel marzo 1945, anche agli ordini del comi- tato misto italo-sloveno. Il fato fu meno benevolo con gli uomini dell’arma lasciati a guardia delle caserme goriziane: il 2 maggio, il giorno dopo l’in- gresso degli jugoslavi in città, vennero arrestati e scomparvero per sempre. Del ruolo assunto dai fi nanzieri nella liberazione di Trieste si è già det- to. I comandi jugoslavi lodarono pubblicamente il loro comportamento.

71. Cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foiba di Basovizza, in Irsrec-Fvg, Le vie della memoria, <https://www.irsml.eu/didattica-presentazione/materiali-mulimediali/213-le-vie-della-me- moria-video-pdf>, visitato il 25 giugno 2020.

Si trattò però di apprezzamenti di facciata: nel giro di breve tempo furono infatti disarmati e arrestati andando incontro a sorte diversa, che per alcuni assunse i lineamenti della prigionia nei campi jugoslavi prima di essere rilasciati tra giugno e luglio, per altri quelli della fucilazione e del succes-

sivo infoibamento72.

La vicenda dei carabinieri e dei fi nanzieri rende evidente come l’impe- gno di essersi schierati, combattendoli, contro i tedeschi non fosse consi- derato dagli apparati jugoslavi una garanzia suffi ciente. O meglio, non co- stituisse una valida discriminante a fronte della loro disponibilità a rico- noscere, condividendone il progetto, il nuovo potere jugoslavo. Entrambi i corpi non erano infatti disposti a compiere tale passo, per cui agli occhi di Belgrado rappresentavano degli scomodi nuclei di potenziale opposizione. Il loro arresto, la prigionia e, in alcuni casi, l’eliminazione, va dunque intesa in un’ottica puramente politica, tesa ad allontanare da Trieste e dagli altri centri della Venezia-Giulia, possibili fi gure in grado di costituire «cellule di

contropotere»73 non controllabili dalle autorità jugoslave.

Queste ultime operarono nella medesima direzione anche con gli espo- nenti del Cln triestino, nel frattempo entrato in clandestinità, i cui quadri di- rigenziali, rifi utatisi di collaborare e riconoscere il potere jugoslavo, furono considerati avversari. Nei loro confronti si abbatté un’ondata persecutoria che portò all’arresto, alla deportazione in Jugoslavia e in alcuni casi all’eli- minazione di alcune delle fi gure più in vista, come avvenne per i democri-

stiani Carlo Dell’Antonio e Romano Meneghello, uccisi e scomparsi74.

Sospetti più o meno fondati, delazioni e rancori personali accompagna- rono invece l’arresto dei civili fi niti nelle liste dell’Ozna.

Nelle sole province di Trieste e Gorizia, toccate dal fenomeno in misu- ra più signifi cativa rispetto all’Istria e a Fiume, i fermi riguardarono circa 10.000 persone, gran parte delle quali venne rilasciata a più riprese nelle set- timane e nei mesi successivi. Altri, invece, furono eliminati e scomparvero. Nel 1945 le vittime nell’area triestina e goriziana, cui si aggiunse anche la provincia di Udine, furono 2.627. La cifra, comprensiva sia degli scomparsi di cui non si ebbero più notizie, sia di quanti fi nirono nelle foibe, è frutto di un’indagine condotta nel 1956 dall’Istituto centrale di statistica di Roma, 72. Per la ricostruzione delle vicende dei carabinieri e dei fi nanzieri a Trieste e Gorizia, cfr. R. Pupo, Trieste ’45, cit., pp. 224-225.

73. Ivi, p. 224.

74. Cfr. G. Fogar, Trieste in guerra: 1940-1945. Società e Resistenza, Irsml, Trieste 1999, p. 254. La stessa sorte conobbero a Gorizia anche Augusto Sverzutti, azionista e il socialista Licurgo Olivi. Arrestati, furono incarcerati a Lubiana e poi dispersi. Cfr. J. Pirjevec, Foibe, cit., p. 268.

realizzata su precisa richiesta del governo italiano con lo scopo di stilare un elenco completo di quanti, dopo l’arresto, non fecero più ritorno a casa.

Secondo i dati raccolti furono 645 le persone morte per varie cause, 1.239 gli arrestati condotti nei campi di prigionia jugoslavi e in seguito rilasciati, e 1.982 quelli dei quali non si ebbe più alcuna informazione. È molto compli- cato stabilire quante siano le vittime perite nei campi di prigionia jugoslave e quante, invece, quelle eliminate nelle foibe, ma il dato che appare rilevan- te, al punto da essere giudicato soddisfacente dallo stesso governo italiano, è che durante l’occupazione jugoslava nelle province di Trieste, Gorizia e Udine si ebbero 2.627 morti.

Per completezza vanno poi aggiunti i dati relativi a Fiume, dove furono accertate circa 500 vittime, e a all’Istria con particolare riguardo alla provin- cia di Pola, dove secondo fonti del Governo militare alleato, gli scomparsi ammontarono a 827 persone. Inoltre, come hanno rilevato ricerche recenti, mancano dal computo i militari della Rsi, spesso non distinti dagli altri pri- gionieri di guerra. Partendo dai dati appena presentati, si può stimare in una forbice compresa tra le 3.000 e le 4.000 persone il numero complessivo delle

vittime perite nella primavera del 194575.

Gli infoibamenti, che anche in questo caso rappresentarono un metodo di occultamento dei cadaveri e non di esecuzione, riguardarono solo una percen- tuale ridotta degli scomparsi, dal momento che la gran parte morì nei campi di prigionia in Jugoslavia o nei trasferimenti da un campo all’altro, durante i quali i feriti, gli ammalati e i più deboli vennero abbandonati lungo la strada. All’insieme delle vittime è convenzionalmente assegnato l’appellativo di infoibati, utilizzato però impropriamente, poiché generatore di frainten- dimenti e non in grado di distinguere le modalità di uccisione e di occul- tamento dei cadaveri nel ben più ampio fenomeno delle stragi, che nella primavera del 1945 si caratterizzarono rispetto all’ondata dell’autunno 1943 per due aspetti.

75. La cifra di 2.627 vittime, cui si giunge a seguito dell’indagine promossa dall’Istituto centrale di statistica, è frutto di un’accurata ricerca condotta dalla storica slovena Urska Lampe, i cui risultati sono pubblicati in U. Lampe, Guerra gelida a Belgrado. Le deportazioni

in Jugoslavia dalla Venezia-Giulia nel secondo dopoguerra. La questione degli elenchi e nuove fonti, in «Acta Histriae», 3 (2018), pp. 691-712. I dati su Fiume si trovano in R. Pupo, Fiume città di passione, cit., p. 228. Relativamente al caso fi umano, occorre sottolineare

come tra le vittime compaiano anche gli esponenti del movimento autonomista cittadino, dichiaratamente antifascisti, depositari di una radicata identità fi umana e non disposti a cedere al nuovo potere jugoslavo. Per i dati relativi a Pola, cfr. R. Pupo, R. Spazzali, Foibe, cit., p. 29. La stima complessiva delle vittime dell’autunno 1943 e della primavera 1945, trova un’equilibrata e approfondita sintesi in Irsrec-Fvg, Vademecum per il giorno del ricordo, cit., pp. 16-17.

Da un lato, come si è visto, il maggior numero di vittime, dall’altro lo svelarsi di una strategia politica volta a eliminare dal territorio quanti po- tevano impedire o contrastare la presenza del nuovo potere rivoluzionario titino e opporsi all’annessione della Venezia-Giulia alla Jugoslavia.

A essere maggiormente colpiti furono gli appartenenti alla popolazione italiana. E ciò avvenne per due motivi di fondo: il primo fu una sorta di resa dei conti come conseguenza del fascismo, e cioè si chiusero i conti aperti dalla guerra, il secondo fu che, nella loro maggioranza, gli italiani si dimo- strarono profondamente contrari al nuovo potere jugoslavo.

In proposito è però doveroso puntualizzare come appaia profondamente fuorviante ricondurre le uccisioni a una pratica volta a eliminare gli italiani in quanto tali, riassumibile nell’oramai consolidata espressione uccisi solo

perché italiani, fatta propria ed erroneamente divulgata a più riprese da buo-

na parte della pubblicistica italiana.

Si tratta di un’affermazione che trova validità se intesa nel senso politico di eliminare quanti intendessero l’appartenenza all’Italia come realtà socia- le, culturale e statuale. Al contrario, la formula non appare condivisibile se si considera il signifi cato etnico del termine italiano, dal momento che le autorità jugoslave non intendevano procedere a una liquidazione della comunità italiana, ma ambivano a mobilitarla, non escludendo certamente l’uso di metodi coercitivi, nel progetto di annessione della Venezia-Giulia, assorbendola, successivamente, negli ingranaggi del nuovo stato jugoslavo. Le violenze avevano quindi un duplice intento: decapitare la popolazio- ne italiana della sua classe dirigente, in larghissima misura favorevole al mantenimento della sovranità italiana sulla Venezia-Giulia e, nel contempo, intimidire l’intera comunità affi nché non si opponesse al progetto annessio- nistico.

Quella che si verifi cò nella Venezia-Giulia nella primavera del 1945 non fu quindi una stagione di violenza dovuta all’ostilità anti-italiana, quanto invece una presa di possesso rivoluzionaria del territorio, che prevedeva l’e- liminazione di quanti potessero rappresentare un potenziale o effettivo osta- colo alle strategie jugoslave.

Lo schema repressivo adottato nella Venezia-Giulia non fu però un caso isolato, ma rappresentò un modello riproposto, nei medesimi giorni e con proporzioni decisamente maggiori, negli altri territori jugoslavi liberati dai tedeschi, dove il movimento partigiano attuò la presa del potere procedendo all’eliminazione di massa di nemici e avversari politici. A pagare il prezzo più alto in termini di vite umane furono i membri delle forze collaborazioni- ste e cioè i cetnici, gli ustascia e i domobranci. Ciò valse non solo per quanti

caddero nelle mani dei partigiani che furono subito passati per le armi, ma anche per i prigionieri arresisi agli Alleati, che provvidero però a restituirli immediatamente alle autorità jugoslave.

Fu così, ad esempio, in Carinzia, dove circa 12.000 domobranci, riusciti a riparare in Austria insieme a gruppi di cetnici, furono rimandati in Slove- nia a bordo di treni dell’esercito britannico, pensando invece di essere diretti in Italia e di avere salva la vita. Una parte fu trasferita nel castello di Skofja Loka, per essere poi eliminata, un’altra terminò il proprio viaggio nel cam- po di Šentvid e da qui venne condotta nell’altopiano carsico del Kočevski Rog, dove fu eliminata: nel giro di pochi giorni morirono circa 9.500-10.000 persone.

Un’altra sanguinosa resa dei conti riguardò gli ustascia croati che ab- bandonarono Zagabria dopo la caduta della città insieme a gruppi di cetnici e domobranci. Si trattava di circa 200.000 persone che ritirandosi conti- nuarono a combattere fi no al 15 maggio con la speranza di raggiungere il confi ne austriaco per arrendersi agli inglesi. Un gruppo, circa 25.000 arrivò a Bleiburg, dove ebbe un colloquio con gli uffi ciali britannici che rifi utarono però la resa, poiché gli accordi militari intrapresi dagli stati vincitori pre- vedevano che le forze dell’Asse si arrendessero agli eserciti contro i quali avevano combattuto. Il gruppo più numeroso, circa 175.000 persone, che non riuscì a oltrepassare il valico confi nario, formò una colonna lunga circa sessanta chilometri snodatasi sul territorio croato e giunta quindi in un’area posta sotto l’autorità dei partigiani jugoslavi. Agli ustascia non restò quindi che arrendersi. Ciò che seguì fu una vera e propria mattanza, meglio nota come il massacro di Bleiburg, compiuta subito dopo la resa oppure durante il trasferimento nei campi di prigionia che portò alla morte di circa 50.000-

60.000 persone76.

Come precedentemente accennato, la maggioranza degli italiani arrestati trovò la morte nei campi di prigionia jugoslavi. Tra i più tristemente noti vi fu quello di Borovnica, vicino a Lubiana, dove tra il 1945 e il maggio 1946, data uffi ciale della sua chiusura, furono rinchiusi circa 3.300 detenuti.

Utilizzati per ripristinare il ponte di Borovnica, sul quale passava la linea ferroviaria Postumia-Lubiana gravemente danneggiato dalle bombe britan- niche, i prigionieri si occuparono inizialmente di ricostruire il campo, ripa- rando quattro edifi ci coevi alla costruzione del ponte.

La struttura arrivò a contare una decina di baracche di diverse dimen- sioni, cui si aggiunsero degli stabili in pietra riservati alla direzione e alle

76. K. Lowe, Il continente selvaggio. L’Europa alla fi ne della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 274-276, 282.

guardie. In ogni baracca, ciascuna delle quali lunga una sessantina di metri e larga una decina con un’altezza di due metri e mezzo, si sistemarono tra i

200 e i 300 prigionieri77, buona parte dei quali appartenenti a corpi militari,

paramilitari e di polizia arrestati nella Venezia-Giulia tra la fi ne di aprile e il maggio 1945.

Nel campo, utilizzato anche come centro di smistamento verso altre strutture nell’interno della Jugoslavia, vigevano condizioni di vita tremen- de, sia sul piano igienico-sanitario, che su quello alimentare e disciplinare. Sottoposti a un lavoro incessante, che consisteva – come si legge nell’in- terrogatorio di alcuni militari rientrati in Italia nel luglio 1945 – nel ripristi- no del ponte e nello scaricare «vagoni merci per sette ore al giorno in due turni di 100 uomini ciascuno», i prigionieri, che si svegliavano alle 2,30 del mattino per iniziare il loro lavoro alle 4, ricevevano due gamelle di minestra, di circa mezzo litro, costituiti da «verdura secca, cotta senza sale e senza

condimento, mai pane o companatico»78.

Alla fame si accompagnava anche una disciplina durissima, come ricor- da nelle sue memorie Gianni Barral, uffi ciale degli Alpini di origine pie- montese che combatté contro i partigiani italiani e sloveni prima di essere arrestato e internato. Le punizioni, comminate per motivazioni futili come il furto di una cipolla, oppure per tentativi di fuga o per essersi avvicinati al reticolato del campo, erano terribili.

La più temuta consisteva nel cosiddetto palo e prevedeva – racconta Bar- ral – che il punito venisse «appeso con la schiena dietro al palo mediante un fi l di ferro che gli passava sotto le ascelle, con i piedi ad almeno mezzo metro dal suolo. In genere lo lasciavano appeso due o tre ore. Quando lo tiravano giù il malcapitato non era più in grado di camminare e aveva pro- fonde piaghe alle braccia, provocate dal fi l di ferro che apriva le carni come

un coltello. […] Quelle piaghe diventavano talvolta mortali»79.

Un’altra testimonianza arriva da Giacomo Ungaro, giunto a Borovnica il 23 maggio 1945. Affi dò i suoi ricordi alle pagine de «La Voce Libera», organo del Cln triestino. Il suo racconto tocca vari aspetti della quotidianità nel campo: dalla carenza di cibo, vera e propria fame («ci davano solo un po’ di brodo con qualche buccia di patata»), alle dure condizioni di lavoro

77. R. Pupo, Trieste ’45, cit., p. 213.

78. Sintesi di un interrogatorio di un gruppo di prigionieri rientrati da Borvnica il 14 luglio 1945, redatta dal SIM del Ministero della Guerra. Il documento si trova in C. Di Sante,

Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941- 1952), Ombre corte, Verona 2007, p. 116.

79. G. Barral, Borovnica 1945, al confi ne orientale d’Italia. Memorie di un uffi ciale ita-

(«eravamo scalzi, a piedi nudi con le pietre sotto i piedi e senza coperte per proteggersi dalle intemperie e colpiti dal moschetto dei soldati») fi no ad arrivare alle punizioni infl itte ai prigionieri, che potevano portare anche alla morte, come accadde a un soldato di origini calabresi, catturato dalle guardie dopo un tentativo di fuga, condotto nel cortile e «falciato da una raffi ca di mitra e seppellito in una buca scavata da noi stessi qualche minuto

dopo»80. L’anonimo militare menzionato da Ungaro andò così ad accrescere

l’elenco delle vittime che a Borovnica, secondo alcune stime di massima, ammontarono a circa 500 persone, gran parte delle quali perite per fame che

costituì una delle principali cause di morte81.

80. Racconta uno scampato dall’inferno di Borovnica, «La Voce Libera», maggio 1947. In Archivio Irsrec- Fvg, Fondo Novecento Venezia-Giulia Nuova Serie, Busta 15NS, Fascicolo 2135.1.

IV. Esodo