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L’esodo dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

provincia di Lubiana

5. L’esodo dalla Zona B del Territorio Libero di Trieste

[…] ci hanno reso la vita impossibile e per questo abbiamo preferito venire in Italia79.

Così nel dicembre 1953 una donna di Capodistria, da pochi giorni giunta a Trieste, rispondeva alla domanda di un giornalista de «L’Arena di Pola» sulle motivazioni che l’avevano spinta a lasciare la sua città.

Nella città giuliana, insieme a lei, erano già arrivati parecchi profughi provenienti dalla Zona B del Tlt. Le loro traiettorie si inserivano nell’ultimo grande fl usso dell’esodo che, iniziato nel 1953 si concluse uffi cialmente nel 1956, pur continuando, con uno stillicidio di partenze, fi no alla prima metà degli anni Sessanta.

Dopo una prima fase inseritasi a ridosso delle elezioni jugoslave del 16 aprile 1950, il fenomeno conobbe uno scatto signifi cativo nel 1953, subito dopo la dichiarazione della Nota Bipartita, che nella Zona B del Tlt portò allo scoppio di forti tensioni nei confronti della popolazione italiana, trova- tasi nuovamente al centro di pressioni e violenze volte a sollecitarne l’allon- tanamento dal territorio.

Il primo atto eseguito dalle autorità jugoslave fu l’isolamento del territo- rio mediante l’improvvisa chiusura dei valichi di terra e l’attuazione di un rigido blocco marittimo: a essere colpiti in misura maggiore furono i pen- dolari con Trieste e la Zona A e i titolari di attività commerciali, che videro fortemente limitate le opportunità di scambio e di movimento.

A ciò seguirono, fi n dalla sera dell’8 ottobre, numerose manifestazioni di protesta organizzate dagli organi locali dei poteri popolari, unite ad azioni intimidatorie che, sospinte da una propaganda nella quale riaffi orava la vec- chia equazione di italiano fascista, continuarono anche nei giorni seguenti senza incontrare l’opposizione delle autorità locali.

Queste ultime, sebbene non avessero emanato alcuna misura legislativa di carattere formale, non contrastarono né limitarono gli abusi, provveden-

do, al contrario, a consegnare a quanti la richiedessero la documentazione necessaria all’emigrazione. Si trattava di una strategia ben precisa, mirante ad accentuare la stretta verso la popolazione italiana, spingendo gli inte- ressati a richiedere formalmente una carta di emigrazione che, una volta concessa, avrebbe consentito all’amministrazione jugoslava di espellere le- galmente dal paese coloro i quali fossero ritenuti «pericolosi, poco duttili e

refrattari alla propaganda»80.

Tale meccanismo portò a un’intensifi cazione del ritmo delle partenze che, ridottesi verso la fi ne di ottobre (quando apparve chiara la rinuncia da parte alleata dell’applicazione della Nota Tripartita) ripresero con vigore nei mesi successivi, al punto che secondo una nota di Diego De Castro, rappre-

sentante diplomatico del governo italiano presso il Gma81, dall’emanazione

della Nota Bipartita (8 ottobre) al 16 dicembre 1953 furono poco più di

2.415 i profughi che avevano abbandonato la Zona B del Tlt82.

Gli abbandoni sancivano in maniera inequivocabile la fi ne della capacità di resistenza della componente italiana che, sfi nita da quasi un decennio di amministrazione jugoslava, vide svanire le aspettative di assegnazione dell’area all’Italia. Una convinzione divenuta reale a ridosso della fi rma del Memorandum di Londra, quando apparve chiaro che la spartizione del Tlt avrebbe comportato una sistemazione della Zona B entro i confi ni jugosla- vi. Franò così anche l’ultimo residuo di speranza e la popolazione italiana, spaesata, disillusa e traumatizzata dagli eventi, ruppe gli argini, dando vita a un grande esodo la cui scia si protrasse fi no al 1956, termine utile entro il quale poter usufruire del diritto di opzione concesso dal Memorandum di

80. M. Cuzzi, G. Rumici, R. Spazzali, Istria, Quarnero, Dalmazia. Storia di una regione

contesa dal 1796 alla fi ne del XX secolo, Istituto regionale per la cultura istriano-fi umano-

dalmata, Libreria Editrice Goriziama, Gorizia 2009, p. 277.

81. Nato a Pisino nel 1907, conseguì la maturità classica a Trieste e la laurea in giurispru- denza a Roma nel 1929. Iniziò subito la sua attività accademica nell’ateneo romano e, suc- cessivamente, in quello di Napoli. Nel 1937 fu docente di statistica all’Università di Torino, dove fondò l’Istituto di statistica che diresse fi no al 1972. Collaboratore de «La Stampa» e de «Il Piccolo», fu autore di numerose e fondamentali opere nel campo statistico. Tra il 1952 e il 1954 rivestì il ruolo di rappresentante del governo italiano presso il Gma di Trieste. Questa sua esperienza convogliò nella fondamentale opera La questione di Trieste. L’azione politica

e diplomatica italiana dal 1943 al 1954 (Lint, Trieste 1981). Ritiratosi dall’attività accade-

mica nel 1982, si spense a Pinerolo (To) nel 2003. Per un’analisi della sua vicenda biografi ca, accademica e politica, cfr. K. Knez, O. Lusa (a cura di), Diego De Castro 1907-2007, Società di studi storici e geografi ci di Pirano, Pirano 2011.

82. Nota informativa (prot.n. 4229), inviata da Diego De Castro al ministero degli Affari esteri, alla Presidenza del Consiglio e all’Uzc il 16 dicembre 1953. In Apcm-Uzc, Sezione II, Trieste, B. 45, F. 16.4, Cartella (C.) T. 279, Trattamento usato nei confronti degli italiani in Jugoslavia e nell’ex Zona B del Tlt.

Londra, che, contrariamente a quanto avvenuto in precedenza, garantì agli esuli la possibilità di portare con sé i propri beni mobili senza limitazioni e misure restrittive.

Anche in questo caso emergeva il legame esistente tra partenze, defi ni- zione fi nale dei confi ni e certezza dell’amministrazione jugoslava, eviden- ziando così un tratto di continuità con i processi che precedentemente ave- vano riguardato l’Istria e l’area fi umana. A mutare furono dunque i tempi, più dilatati, ma non le dinamiche, che videro le fughe collettive mescolarsi a quelle individuali. Si veda in tal senso una testimonianza di Michele Pavis- sich, inviato a Trieste del quotidiano cattolico «Il Popolo», organo della De- mocrazia cristiana, che nel novembre 1953 fi rmò una corrispondenza dalla città descrivendo l’arrivo dei profughi dalla Zona B, giunti con ogni mezzo: la maggior parte con il Vettor Pisani, il vaporetto che collegava il porto trie- stino con Capodistria, gli altri «con carretti, a piedi o a bordo di autocarri e

automobili»83.

Se il clima di ostilità e paura instaurato dalle autorità jugoslave rappre- sentava una delle maggiori spinte, le partenze furono però il frutto di un per- corso decisionale complesso alla cui elaborazione contribuirono elementi di natura economica, politica e sociale.

Fonti, documenti e memorie consentono di evidenziare come sui mecca- nismi collettivi e sulle percezioni individuali insistessero tre fattori principali riassumibili nell’assenza di prospettive economiche, nel progressivo proces- so di jugoslavizzazione che investì la regione toccando settori nevralgici e punti di riferimento imprescindibili per la comunità italiana (è il caso, della scuola e delle istituzioni religiose e culturali) e nella mancata applicazio- ne dello Statuto speciale previsto dal Memorandum. Elementi che acuirono nella popolazione italiana un senso di accerchiamento, spingendola così a intraprendere la via dell’esilio.

Sul piano economico furono soprattutto le normative di natura buro- cratico-organizzativa introdotte dall’autorità jugoslava (come ad esempio il monopolio sui prodotti agricoli e l’equiparazione dei regimi salariali al

resto del paese con una riduzione di circa il 30%84), lo smantellamento delle

attrezzature industriali, la fi ne della libertà degli scambi, la disoccupazio- ne, i licenziamenti – che colpirono maggiormente la popolazione italiana favorendo l’assunzione di lavoratori che conoscevano lo sloveno e il croato

83. M. Pavissich, Dalla Zona B a Trieste in cerca di pane e libertà, «Il Popolo», 9 no- vembre 1953.

84. Cfr. C. Colummi, L’ultimo grande esodo, in C. Colummi [et al.], Storia di un esodo, cit., p. 477.

– unitamente alla crisi di alcuni settori vitali per l’economia del territorio come la pesca e l’artigianato a far precipitare la situazione, contribuen- do a diffondere tra gli italiani della Zona B la percezione di «un’indifesa

precarietà»85.

Non a caso, anche nella Zona B del Tlt l’esodo coinvolse trasversalmente le differenti stratifi cazioni sociali, dagli impiegati agli operai, dai manovali agli elettricisti fi no ad arrivare a pescatori (soggetti al sequestro e al blocco delle imbarcazioni), commercianti e liberi professionisti.

Un’altra categoria professionale ampiamente toccata fu quella dei conta- dini (in larga misura proprietari di aziende agricole), prima di allora coinvol- ta solo limitatamente dal fenomeno: infatti se fi no alla primavera del 1954 le loro partenze avevano assunto un peso specifi co piuttosto marginale, con l’arrivo dell’autunno, il loro contributo all’esodo divenne consistente.

A dettare i tempi non fu l’incertezza, quanto piuttosto il ritmo della sta- gione agricola, che portò proprietari terrieri e braccianti a decidere di segui- re fi no all’ultimo le fasi del raccolto, nel tentativo di riuscire a ricavare più utili possibili prima della partenza.

Cooperativizzazione, collettivizzazione delle colture, introduzione di normative limitanti le esportazioni private e gli scambi commerciali con Trieste e la Zona A, indebolirono fortemente produttori e agricoltori sul pia- no economico, consentendo loro di trarre profi tti minimi di poco superiori alla soglia di sussistenza. Fu dunque l’insieme di tali condizioni che li spinse alla partenza.

Provando a stilare una quantifi cazione numerica dell’esodo dalla Zona B del Tlt, possiamo affermare come esso riguardò complessivamente 41.500 persone, equivalenti a circa i due terzi della popolazione. Tra queste furono circa 17.000 quelle che abbandonarono i territori tra il 1948 e la dichiarazio- ne della Nota Bipartita, mentre le altre partirono tra il 1953 e il 1956.

Occorre infi ne sottolineare come a tali cifre vadano aggiunte circa 2.750 unità provenienti dall’area del muggesano passata alla Jugoslavia a seguito della nuova defi nizione dei confi ni sancita dal Memorandum di Londra e altre 3.000 unità costituite da nuclei di popolazione slovena e croata, non

disposta ad accettare il passaggio sotto l’amministrazione jugoslava86.

85. R. Spazzali, Le ragioni dell’esodo del 1953. Spunti e interpretazioni, in «La Ricerca. Bollettino del Centro Ricerche Storiche Rovigno», 20 (1997), p. 4.

86. Le cifre proposte sono frutto di un’elaborazione condotta su fonti documentarie con- servate presso l’Archivio di Stato di Trieste (Ast), Commissariato generale del governo, Ga- binetto, B. 31, Classe 8/1, Situazione giornaliera profughi. In particolare di veda: Telespresso n. 666/217 inviato dal Commissariato generale del governo di Trieste alla Presidenza del Consiglio il 2 ottobre 1955; Telespresso n. 1718/588 inviato dal Commissariato generale del

A restare furono tra le 5.000 e le 9.000 persone87, evidenziando come

quello che le autorità jugoslave defi nirono nel 1954 un fenomeno naturale consistente nel ritorno in patria di persone trasferitesi nella Zona B durante il periodo fascista, avesse in realtà assunto una dimensione collettiva e quasi universale.

Se con lo scoccare del 1956 l’ultimo grande esodo poteva dirsi conclu- so, occorre però sottolineare come esso conobbe un’appendice negli anni successivi, caratterizzati da una scia di partenze che coinvolsero soprattutto i giovani, schiacciati più di altri dal peso di un contesto incapace di offrire loro prospettive future. Nonostante i rigidi controlli esercitati dal regime per scongiurare i tentativi di fuga, le partenze continuarono ed ebbero come attori principali quanti potevano contare su conoscenze professionali e com- petenze lavorative di buon livello.

Per molti la principale via di fuga era rappresentata dalle acque dell’A- driatico, attraversate a bordo di batane (le tradizionali imbarcazioni istriane) o di barche di altro tipo, non senza pericolo, poiché oltre che dalle correnti e dai venti occorreva guardarsi dalla sorveglianza della polizia e dei suoi

informatori, particolarmente abili a infi ltrarsi in circoli e ritrovi giovanili88.

La fuga necessitava di una meticolosa pianifi cazione: al primo passo e cioè procurarsi un’imbarcazione, seguiva il reperimento del carburante, ope- razione piuttosto complessa, dati i modesti quantitativi messi a disposizione dei cittadini dalle autorità jugoslave per scongiurare e scoraggiare gli allon- tanamenti. Si viaggiava prevalentemente di notte, spesso senza poter contare sull’ausilio della bussola o di altri strumenti di navigazione, con il rischio concreto, di urtare non solo le mine, scarsamente visibili, che galleggiavano in mare dai tempi della guerra, ma soprattutto di incorrere nelle motovedet- te della marina jugoslava impegnate quasi ininterrottamente a pattugliare i confi ni delle acque territoriali.

Furono molti i giovani che affrontarono tale impresa: alcuni con esiti po- sitivi, altri decisamente meno. Caso, quest’ultimo, che trova corrispondenza ne La Traversata, racconto di Nelida Milani, i cui protagonisti, un gruppo di ragazzi, decisero di far rotta verso l’Italia, spinti dal desiderio di lasciarsi governo di Trieste al ministero degli Affari esteri e all’ambasciata italiana di Belgrado, 16 settembre 1955; Telespresso n. 7301/191 inviato dal Commissariato generale del governo di Trieste al ministero degli Affari esteri e all’ambasciata italiana di Belgrado il 6 marzo 1955. Per le stime relative alla popolazione partita dal muggesano e ai fl ussi di sloveni e croati, cfr. G. Nemec, Dopo venuti a Trieste. Storie di esuli giuliano- dalmati attraverso un manicomio

di confi ne 1945-1970, Edizioni Alpha Beta Verlag, Trieste 2015, p. 115.

87. V. Lisiani, Good-bye Trieste, cit., pp. 214-215. 88. Cfr. G. Nemec, Nascita di una minoranza, cit., p. 143.

alle spalle un presente di diffi coltà per raggiungere un futuro di libertà e be- nessere in un paese nel quale «le salsicce erano appese agli alberi» e i giova- ni indossavano «camicie fi ni e bianche» spostandosi «in moto o in automo- bile». Dopo aver preso contatto con un marinaio dalmata, profumatamente pagato, salparono di notte a bordo di un motoscafo che il mattino successivo avrebbe dovuto sbarcarli su una spiaggia delle Marche. Almeno così crede- vano, perché in realtà la costa era quella dalmata. Il loro contatto li aveva ingannati, certifi cando il fallimento dell’impresa. Ma, si dissero ridendo una

volta metabolizzato il colpo, «ci sarà una prossima volta, più fortunata»89.