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Dai campi profughi ai borghi giulian

4 « A calcioni nel sedere!» Le dinamiche dell’accoglienza

5. Dai campi profughi ai borghi giulian

Come precedentemente accennato, dopo l’arrivo in Italia per i giuliano dalmati si aprirono le porte di campi e centri di raccolta al cui interno la per- manenza si protrasse per molti anni. Istituiti per fare fronte a un’emergenza ritenuta di carattere temporaneo, fi nirono invece per durare decisamente più a lungo del previsto, se è vero che nel 1963 erano ancora circa 8.500 i pro-

fughi ospitati nei quindici campi ancora attivi62.

L’amministrazione dei campi era affi data al ministero dell’Interno che, coadiuvato da altri soggetti, primi tra tutti l’Assistenza post-bellica e gli Enti comunali di assistenza, si occupava non soltanto della gestione delle strutture, ma anche di corrispondere ai profughi forniture alimentari, generi di prima necessità e un sussidio giornaliero in denaro.

Il trasferimento avveniva seguendo una trafi la dai meccanismi collauda- ti, che iniziava con una prima tappa nel centro di sosta ricavato nei pressi dell’Arsenale a Venezia, capace di accogliere fi no a 2.000 persone, o in quel-

lo del porto di Ancona che aveva una capienza di 600 posti63, oppure al Silos

di Trieste, vecchio deposito del grano nei pressi della stazione ferroviaria, descritto da Marisa Madieri come «un tenebroso villaggio stratifi cato» nel

quale si assisteva «a un incessante andirivieni di persone»64.

Da qui, dopo essere stati censiti e aver usufruito di un primo ricovero, vettovagliamento e cure sanitarie, i profughi venivano trasferiti al centro di smistamento di Udine, una caserma costruita durante il fascismo e poi utilizzata dalla Gioventù Italiana del Littorio (Gil), che nel dopoguerra di- venne un punto nevralgico dell’esodo giuliano-dalmata. Tra il 1947 e il 1960 transitarono nei locali dell’edifi cio circa 100.000 persone, in attesa di essere smistate e raggiungere il campo di destinazione, assegnato non in base alle singole preferenze, ma in virtù delle effettive disponibilità ricettive delle

diverse strutture della penisola65.

Nei centri di raccolta la vita quotidiana scorreva all’interno di grandi camerate, dove interi nuclei familiari spartivano box di pochi metri quadrati,

62. G. Oliva, Profughi, cit., p. 273.

63. Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione profughi, B. 12, volume I, F. A 1, Direttive del presidente del consiglio dei ministri. Relazione sulle operazioni di esodo da Pola.

64. M. Madieri, Verde acqua e La radura, cit., pp. 68-69.

65. Cfr. A. Clara, Il campo di via Pradamano, in «Aestovest», <https://www.balcanicau- caso.org/Dossier/AestOvest/Approfondimenti/Il-campo-di-via-Pradamano-124696>, visita- to il 20 giugno 2020; E. Varutti, Il campo profughi di via Pradamano e l’associazionismo

giuliano dalmata a Udine: ricerca storico sociologica tra la gente del quartiere e degli adria- tici dell’esodo, 1945-2007, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Comitato

separati gli uni dagli altri da coperte, lenzuola o, nei casi più fortunati, da barriere di compensato.

Una condizione di costante precarietà, eloquentemente richiamata non solo dai profughi, ma anche da relazioni prefettizie e corrispondenze gior- nalistiche. Si veda, a titolo esemplifi cativo, quanto denunciato dal prefetto di Massa, che nel febbraio 1947 informava il ministero degli Interni come nel campo «sorto affrettatamente» nei locali della Colonia Edison, in pros- simità della spiaggia di Marina di Massa, fosse affl uito un numero di profu- ghi (circa 800) più elevato rispetto alla capacità ricettiva della struttura. Ne derivava, si legge nella corrispondenza, un trattamento «assolutamente in-

suffi ciente», che generava tra gli ospiti «un sempre più vivo malcontento»66.

Sulle medesime frequenze, nello stesso periodo, si sintonizzavano anche il

prefetto di Napoli, che defi niva «precarie»67 le condizioni del migliaio di

esuli alloggiati nei campi della provincia e quello di Bologna, che annotava come in città risiedesse «stabilmente un notevole numero di profughi giu- liani», ospitati all’interno del Campo profughi numero 12 «in condizioni

veramente pietose»68, dovute principalmente a scarsità di igiene e agli insuf-

fi cienti rifornimenti alimentari.

La stessa istantanea arrivava anche dal Comitato Alta Italia per la Venezia Giulia e Zara, principale organizzazione dell’associazionismo degli esuli poi trasformatasi nel 1948 in Associazione Nazionale Venezia-Giulia e Dalmazia (Anvgd), che nel 1947 inviò un promemoria al presidente del consiglio De Gasperi denunciando la «sempre più grave situazione dei profughi giuliani», costretti a vivere forzatamente dalla mancanza di abitazioni e di opportunità

lavorative in campi «insuffi cienti e pessimamente amministrati»69. Le faceva

eco «L’Arena di Pola», che nell’autunno 1947 pubblicò una serie di articoli sulla situazione di alcuni centri di raccolta sorti nelle varie città italiane.

A Firenze, nel campo di via Guelfa, gli esuli vivevano in una trentina di stanzoni, in ciascuno dei quali alloggiavano tre le otto e le dieci famiglie in 66. Nota (prot.n. 200/197) inviata il 27 febbraio 1947 da Attilio Gargiuli, prefetto di Massa, al ministero degli Interni. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 1, F. 44, Marina di Massa, colonia Edison per ricovero profughi dalla Venezia Giulia.

67. Telegramma (prot.n.26265) inviato da Riccardo Ventura, prefetto di Napoli, il 27 febbraio 1947 all’Uzc. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B. 19, volume I, F. 50, Napoli. Assistenza esuli da Pola.

68. Nota (prot. n. 691) inviata il 21 marzo 1947 da Giovanni D’Antoni, prefetto di Bolo- gna, all’Uffi cio per le Zone di Confi ne. In Apcm-Uzc, Sezione II, Sottosezione Profughi, B.2, Volume I, F. 88, Bologna: Campo profughi n. 12.

69. Lettera inviata il 16 gennaio 1947 dal Comitato Alta Italia per la Venezia-Giulia e Zara ad Alcide De Gasperi. In Apcm-Uzc, Sezione II, Profughi, Busta 1, Fasciolo 60, Situa- zione dei profughi giuliani e dalmati. Promemoria della prof.ssa Lina Gerin.

una situazione di grave disagio al punto che, riferiva nel suo contributo Steno Califfi , i letti erano costituiti da «semplici brande in ferro», le coperte «face- vano la funzione di lenzuola», mentre le donne erano costrette a «spogliarsi a letto» per la mancanza di spazi divisori, delimitati solo successivamente da alcuni cartoni che consentivano una suddivisione degli spazi in maniera tale

che una famiglia di quattro persone potesse disporre di trenta metri quadrati70.

Non si presentava migliore, per portare altri esempi, la situazione di Luc- ca, dove nei cameroni del campo di Piazza del Collegio «non esistono [esi- stevano] neanche i tramezzi» e di Parma, città nella quale i circa 430 esuli erano «sistemati malissimo» e, dopo mesi dal loro arrivo, la loro quotidia- nità appariva ancora scandita da mancanza di lavoro, «alloggio inesistente, mangiare miserevole». In poche parole, concludeva l’articolo, «da indigenza

assoluta»71.

Ambienti malsani, sovraffollati e promiscui, nutrizione defi citaria, pre- carie condizioni igieniche, mancanza di spazi intimi e personali, rigide nor- me atte a regolare entrata e uscita degli ospiti e isolamento dal contesto sociale, divennero i tratti distintivi dei campi, vere e proprie città nella cit- tà, che presentavano al proprio interno infermerie, scuole elementari, asili, chiese, empori commerciali, luoghi di svago e ricreazione come ad esempio, cinema, circoli e campi da gioco per la pratica di attività sportive.

Per molti profughi l’impatto con la realtà dei centri di raccolta fu trauma- tico, generando insofferenza, irrequietezza e apatia, sfociate in una condi- zione di scoramento e disillusione sempre crescente, che trova una sua con- creta espressione nelle considerazioni degli esuli ospitati a Caserta. Riunitisi in assemblea, redassero un documento che defi niva i campi come «bruttura umana e vergogna di una nazione civile, perché campo profughi signifi ca promiscuità, vita antigienica, abitudine all’ozio, vita antisociale, demoraliz-

zazione completa e conseguente annullamento della personalità umana»72.

Smistati nei campi e senza più nulla, i profughi si sentirono abbando- nati, segregati e reclusi. Una sensazione acuitasi nel maggio 1949, quando il ministro dell’Interno Scelba dispose che tutte le questure provvedessero all’accertamento individuale degli esuli che avessero richiesto il rinnovo della carta d’identità mediante «scheda segnaletica con relative fotografi e e

impronte digitali»73.

70. S. Califfi , Via Guelfa 23, Firenze, «L’Arena di Pola», 3 ottobre 1947.

71. Anche a Lucca troppe cose non vanno, «L’Arena di Pola», 3 ottobre 1947; Tragica

situazione a Parma, «L’Arena di Pola», 17 ottobre 1947.

72. La bruttura dei campi deve venire eliminata, «L’Arena di Pola», 5 dicembre 1951. 73. Ministero degli Interni, circolare 224/17437, 5 maggio 1949.

Il provvedimento, poi ritirato per intervento diretto di De Gasperi, creò scalpore, critiche e polemiche, soprattutto tra i profughi e tra i loro apparati associativi, primo tra tutti l’Anvgd, che con una circolare invitò i propri comitati regionali a prendere provvedimenti nei confronti di una norma che «in dispregio del diritto alla libertà sancito dalla costituzione», infl iggeva ai

profughi un «trattamento da comuni delinquenti»74.

Nei centri di raccolta maturava tra i profughi un senso di risentimento e spaesamento, nutrito dalla consapevolezza dell’impossibilità di ritornare al mondo precedente e dalle diffi coltà di trovarsi a convivere, forzatamente, con una realtà estranea e una condizione, quella di profugo, prima d’ora sconosciuta.

Sembravano così emergere, anche per gli esuli istriani, i lineamenti di quello che un pool di psicologi britannici, che aveva condotto un’inchiesta su un gruppo di ex lavoratori forzati ricoverati nei campi profughi dell’Unr-

ra in Germania, defi nì il «complesso della liberazione»75 e cioè una condi-

zione comune a molti dei profughi post bellici, per i quali la fi ne della guerra non aveva automaticamente coinciso con il superamento delle sofferenze e dei traumi fi sici e mentali che essa aveva lasciato. Una situazione che af- fondava le sue radici nell’insofferenza e nella consapevolezza della propria frustrazione, rinsaldata anche dall’assenza di piani concreti per un possibile miglioramento del proprio futuro.

Ciò induce a un’ulteriore rifl essione. Il campo ha rappresentato un para- digma del Novecento, attraversando l’intero secolo come luogo di prigionia, violenza e sterminio, ma anche come luogo nel quale si manifestò l’eredi- tà del confl itto che ebbe nei milioni di profughi europei (giuliano-dalmati compresi) una sua conseguenza diretta. Uomini e donne per i quali il campo assunse declinazioni differenti, che possono essere interpretate attraverso due chiavi di lettura: eccezionalità, e cioè il campo inteso come un’esperien- za mai provata prima che trascinò con sé sofferenze e disagi, ed esclusione che segnava il confi ne tra quanti si trovarono a vivere nei campi, isolati dal resto della società, e quanti invece ne restarono fuori.

Applicando il paradigma dell’antropologo Marc Augé, il centro di rac-

colta diventa così un non luogo76, uno spazio dell’anonimato e della sper-

sonalizzazione, un lemma che indica la perdita della propria terra e della

74. Circolare (n. 373) inviata dalla segreteria nazionale dell’Anvgd ai vari comitati regio- nali il 5 luglio 1949. In Archivio di Stato di Chieti, Fondo Prefettura, IV Versamento, Uffi cio Assistenza Post-bellica, F. 3, Comitato provinciale per la Venezia Giulia 1947-1957.

75. I. Buruma, Anno Zero. Una storia del 1945, Mondadori, Milano 2015, p. 17. 76. Cfr. M. Augé, Nonluoghi, Eleuthera, Milano 2018.

propria condizione. Un’esperienza che porta al rovesciamento dell’identità e a vivere un senso di dispersione, disequilibrio, turbamento e fragilità. Con- dizioni che defi nirono a pieno la profuganza dei giuliano-dalmati, soprattut- to per le generazioni più anziane, per le quali fu diffi cile superare il trauma e spesso impossibile pensare di poter ricominciare a vivere. «Per i nostri vecchi» – scriveva Fulvio Tomizza – fu infatti «duro lasciare la terra sulla

quale ti sono [erano] venuti i capelli bianchi»77.

Fu soltanto a partire dal 1952 che i centri di raccolta iniziarono gradata- mente a svuotarsi seppur, come si è visto, non completamente. Un passaggio reso possibile grazie alla già citata Legge Scelba i cui rifl essi si estesero anche sul piano edilizio.

Il provvedimento, infatti, rese possibile nell’arco di un quadriennio l’as- segnazione ai profughi del 15% dei quartieri di edilizia popolare edifi cati dagli Istituti autonomi delle case popolari. Sorsero così in circa quaranta cit- tà italiane i cosiddetti borghi giuliani, come ad esempio il Villaggio Trieste a Bari, il Villaggio Dalmazia a Novara, quello di San Bartolomeo a Brescia o di Santa Caterina a Torino: strutture autosuffi cienti dotate quasi sempre di propri servizi (chiese, scuole, esercizi commerciali e luoghi di ritrovo che, in qualche caso, appaiono però alquanto ridotti) edifi cate seguendo una precisa strategia edilizia tesa a separare i nuovi insediamenti dal resto della città, privilegiandone l’ubicazione nelle aree suburbane, non ancora o scar- samente edifi cate e popolate. Complessi edilizi che permisero ai giuliani di abbandonare progressivamente la precarietà dei campi per trasferirsi in abi- tazioni vere e proprie, facilitando così il loro inserimento nelle nuove realtà.