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Il lungo dopoguerra europeo

provincia di Lubiana

1. Il lungo dopoguerra europeo

La prima settimana di pace e di libertà è trascorsa. […] La fi ne delle ostilità in Italia ha portato le prime liete conseguenze: fi ne dell’oscuramento, fi ne del coprifuoco […]. Sono passi piccoli, ma molto signifi cativi: oscuramento e coprifuoco erano due simboli dell’opprimente cappa che gravava su di noi. E le luci che adesso tagliano con un lucente chiarore queste illuni notti di maggio, sono per tutti la prima e tangibile prova che la guerra è fi nita, realmente fi nita1.

Così nelle pagine del suo diario Carlo Chevallard, dirigente industriale e antifascista liberale, descriveva Torino nei primi giorni del maggio 1945, salutando la libertà e la normalità fi nalmente ritrovate dopo gli anni bui del- la guerra, che aveva stravolto la quotidianità e lasciato alla città, così come

all’intero paese, un’eredità di «fame, macerie e stracci»2.

Piegata da anni di lutti, sofferenze e miserie, la popolazione, in Italia come nel resto d’Europa, poteva scendere nelle piazze e nelle strade per celebrare il ritorno alla vita. Scatti anonimi e di grandi fotografi immorta- lano quegli attimi, restituendo città brulicanti di uomini, donne e bambini i cui volti sorridenti e festanti non potevano però cancellare con un colpo di spugna gli effetti di un confl itto che aveva trasformato il panorama fi sico e morale dell’intero continente.

Quella uscita dalla guerra era infatti un’Europa inquieta, travagliata e distrutta nella quale, parafrasando le parole del poeta gradese Biagio Marin,

la pace appariva ancora lontana3.

1. C. Chevallard, Diario 1942-1945. Cronache del tempo di guerra, (a cura di) R. Mar- chis, Blu Edizioni, Torino 2005, p. 526.

2. G. Crainz, L’ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Donzelli, Roma 2007, p. 19. 3. Cfr. B. Marin, La pace lontana. Diari 1941-1950, Leg, Gorizia 2005.

A permeare lo scenario di fondo vi era infatti una situazione di estrema fragilità, spesso esclusa dalle narrazioni del tempo che, privilegiando il desi- derio di lasciarsi alle spalle le ombre del recente passato, rischiano di trascu- rare le contraddizioni di un periodo dai contorni spigolosi che costituì per l’intero continente (Italia compresa) il punto di partenza di una transizione di grande portata, avviata negli anni del confl itto e gradualmente conclusasi nel decennio successivo.

Per milioni di europei il ritorno alla pace coincise dunque con passag- gi di estrema complessità, primo tra tutti l’esigenza di sopravvivere in un continente disastrato, piagato e prostrato, dove sembrava impossibile anche soltanto trovare un tetto sotto il quale riparare.

I bombardamenti danneggiarono il patrimonio abitativo di intere città e centri rurali, disegnando un paesaggio di edifi ci feriti e sofferenti. Una realtà che avvolgeva interi paesi, colta anche, ad esempio, da un attento osservatore come Primo Levi che ne La tregua, il romanzo del suo lun- go ritorno a casa dall’inferno di Auschwitz, restituisce la visione spettrale di Budapest, ridotta a un nugolo «di ruderi, baracche provvisorie e stra- de deserte» e dipinge Vienna come una città «macinata e sconvolta dai

bombardamenti»4.

Non stupisce, quindi, che ancora alla metà degli anni Cinquanta restasse irrisolto il problema dei senzatetto, che nel primo periodo post-bellico am-

montavano a circa venti milioni di persone5.

La fotografi a è impietosa e ritrae paesi nei quali mancava tutto: case, scuole, strade, ferrovie, mezzi di trasporto e, più di ogni altra cosa, cibo, al

punto che la fame rappresentava «una minaccia reale»6 per buona parte della

popolazione, il cui indice di nutrimento, come rivelato da una statistica del Consiglio sociale ed economico dell’Onu, si attestava nel 1946 al di sotto

delle 1.500 calorie giornaliere7.

Città distrutte e agonizzanti defi nivano dunque il panorama europeo. Gli strascichi del confl itto continuavano a incidere sulla vita di milioni di persone, al punto che anche Winston Churchill in un discorso pronun- ciato all’Università di Zurigo nel settembre 1946 rifl etteva sul «dramma dell’Europa», popolata «da masse tremanti di esseri umani tormentati,

4. P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 2014, pp. 190, 193.

5. S. Colarizi, Novecento d’Europa. L’illusione, l’odio, l’incertezza, la speranza, Laterza, Roma-Bari 2015, p. 296.

6. S. O’Broin, Storia della Fao in sette decenni, in Uffi cio per la comunicazione istituzio- nale della FAO (a cura di), 70 anni della Fao (1945-2015), Fao, Roma 2015, p. 17.

7. D. W. Ellwood, L’Europa ricostruita: politica tra Stati Uniti ed Europa occidentale

affamati e smarriti che guardano con sconcerto le rovine delle loro città e

delle loro case»8.

Tra le masse tremanti di esseri umani cui faceva riferimento l’ex pri- mo ministro britannico, vi erano certamente anche i milioni di profughi e fuggitivi che, eredità e conseguenza diretta del confl itto, attraversavano le strade del continente. Milioni di storie individuali e collettive ridisegnarono così gli scenari di centinaia di città, che in campi di transito o in rifugi di fortuna ricavati tra le rovine ospitarono queste nuove e improvvise presenze, sradicate dalla propria terra di origine e coinvolte nelle migrazioni forzate direttamente o indirettamente connesse al secondo confl itto mondiale.

Si trattava di persone vittime delle politiche aggressive, sfruttatrici e di sterminio della Germania nazista: lavoratori e lavoratrici forzati, internati militari, ebrei sopravvissuti alla deportazione, detenuti nel sistema concen- trazionario, apolidi e altre fi gure.

«Fiumane di civili disperati»9 li defi nisce Tony Judt, Displaced Persons

(DPs) li chiamarono invece gli Alleati, applicando un neologismo coniato nella primavera del 1944 nel tentativo di fornire una defi nizione formale a una vicenda che si inserì nelle convulsioni del confl itto, rappresentandone una drammatica eredità. Altri profughi post-bellici furono successivamen- te inseriti nella categoria di refugees, riferita a chi era impossibilitato (o contrario) a rientrare in patria dove sarebbe stato vittima di persecuzioni a sfondo etnico, religioso, politico o razziale.

Il 90%, circa 7-8 milioni di persone, venne dislocata nella Germania oc- cidentale e assistita dalla United Nations Relief and Rehabilitation Admi- nistration (Unrra) che, fondata a Washington nel 1943 dai quarantaquattro stati futuri membri delle Nazioni Unite, si presentò al mondo come il «brac-

cio umano degli Alleati»10. Attivando uno specifi co programma denominato

Displaced Persons Operation, l’organizzazione si occupò del rimpatrio e

dell’assistenza di un considerevole numero di profughi e rifugiati, buona parte dei quali provenienti dall’Europa orientale. Nell’estate del 1947, ad esempio, l’Unrra arrivò ad assistere circa 11,5 milioni di persone, ospitate

negli 800 campi e centri di accoglienza amministrati dall’organizzazione11,

8. W. Churchill, The United States of Europe, in M. Gilbert, Churchill: The Power of

Words. His remarkable life recounted through his writings and speeches, Bantam Press, Lon-

don 2012, p. 378.

9. T. Judt, Postwar. La nostra storia 1945-2005, Laterza, Roma-Bari 2017, p. 19. 10. S. Salvatici, The Sights of Benevolence. Unrra’s Recipients Portrayed, in H. Fehren- bach, D. Rodogno (a cura di), Humanitarian Photography. A History, Cambridge University Press, New York 2015, p. 201.

ubicati soprattutto in Germania occidentale, Austria e, in misura minore, Italia12.

Nell’immediato dopoguerra a questa ingente moltitudine di profughi si aggiunsero i milioni di uomini e donne espulsi a forza dai loro paesi, soprat- tutto da quelli dell’Europa centro-orientale, le cui traiettorie diedero origine a un altro fenomeno caratterizzante le dinamiche dell’Europa post-bellica, e

cioè quello degli spostamenti forzati di popolazione13.

Uno scenario nel quale assunse un ruolo di assoluta centralità la vicenda della popolazione tedesca residente in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania (Volksdeutsche) che, già in fuga nei mesi fi nali della guerra di fron- te all’avanzata dell’Armata Rossa fu, dopo la fi ne del confl itto, forzatamente allontanata da territori nei quali viveva da generazioni.

Complessivamente le espulsioni coinvolsero quasi 12 milioni di persone, riguardando maggiormente Polonia (8 milioni) e Cecoslovacchia (3 milio- ni), seguite da Ungheria (170.000), Romania (65.000) e Jugoslavia, dove la

maggioranza dei tedeschi lasciò il paese prima della fi ne della guerra14.

Assimilati ai nazisti sconfi tti, i tedeschi caddero vittime non soltanto di espulsioni indiscriminate, ma anche di intimidazioni e violenze che causa- rono poco meno di un milione di vittime dovute alla brutalità, alle malattie

e alle privazioni che accompagnarono gli allontanamenti15.

Sotto la spinta di pressioni divenute sempre più insostenibili, milioni di persone lasciarono così l’Europa centro-orientale per dirigersi verso la Ger- mania occidentale ancora lacerata dalla guerra. Odissee descritte con grande intensità da Günter Grass ed Helga Schneider che, rispettivamente, ne Il

12. L’Unrra gestiva una serie di centri in varie città italiane (Milano, Bologna, Genova, Torino, Venezia, Firenze, Roma, L’Aquila, Napoli, Salerno, Potenza e Bari) che svolgevano una funzione direttiva e dai quali dipendeva un sistema di campi su scala regionale affi dati all’organizzazione. Per un approfondimento sui campi Unrra in Italia, cfr. M. Sanfi lippo,

L’assistenza ai profughi e ai rifugiati presenti in Italia nel secondo dopoguerra, in L. Gorgo-

lini (a cura di), Le migrazioni forzate nella storia d’Italia del XX secolo, il Mulino, Bologna 2017, p. 137-160.

13. Per una trattazione più ampia del tema degli spostamenti coatti di popolazione nell’Europa post-bellica, cfr. A. Ferrara, N. Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e

deportazioni in Europa 1853-1953, il Mulino, Bologna 2012; S. Salvatici, Senza casa e senza paese. Profughi europei nel secondo dopoguerra, il Mulino, Bologna 2008; G. Crainz, Raoul

R. Pupo, S. Salvatici (a cura di), Naufraghi della pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise

d’Europa, Donzelli, Roma 2008; P. Audenino, La casa perduta. La memoria dei profughi nell’Europa del Novecento, Carocci, Roma 2015.

14. A. Applebaum, Iron Courtain: The Crushing of Eastern Europe 1945-1956, Penguin Books, London 2013, pp. 171-172.

15. Cfr. I. Kershaw, To Hell and Back: Europe 1914-1949, Penguin Books, London 2016, p. 454.

Passo del gambero e ne L’usignolo dei Linke16 danno voce ai traumi e alle

lacerazioni di intere comunità. Gli stessi passaggi trovano spazio anche nella narrazione di Elisabeth Åsbrink che consegna alle pagine di 1947 il travaglio morale ed esistenziale di donne e uomini «alla deriva», mentre attraversava- no l’Europa per dirigersi «dove non erano mai stati, perché nel passato non

potevano più vivere»17.

Spostamenti e trasferimenti coatti si intersecarono con le scelte del- la politica internazionale, che lungo una linea immaginaria tracciata dal Mar Baltico all’Adriatico ridefi nì i nuovi assetti del continente. Fu infatti la conferenza di Postdam che nell’estate del 1945 vide Stalin, Truman e Churchill, poi sostituito dal laburista Clement Attlee fresco del suo suc- cesso elettorale, dare legittimità normativa e prosecuzione formale alle espulsioni spontanee della prima fase, decidendo di attuare veri e pro- pri spostamenti coatti di popolazione. Con l’approvazione delle potenze vincitrici, trovò così compimento un disegno che, emerso fi n dal termine

del primo confl itto mondiale18, portò a scambi e spostamenti forzosi di

popolazione.

Una pratica che ebbe tra i suoi maggiori sostenitori Churchill. Vale la pena, in proposito, citare un suo discorso tenuto il 15 dicembre 1944 alla Camera dei Comuni:

per quanto è dato vedere l’espulsione è […] la soluzione più soddisfacente e defi nitiva. Non vi saranno più commistioni di popoli che causano guai infi niti come in Alsazia-Lo- rena. Si farà piazza pulita. La prospettiva di sradicare una popolazione non mi spaventa affatto, così come non mi spaventano questi trasferimenti di massa, oggi più possibili che in passato grazie alle tecniche moderne19.

A Postdam venne dunque stabilito come la popolazione tedesca rimasta in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria dovesse essere trasferita in Germa- nia. Il protocollo fi nale redatto al termine dei lavori specifi cava però, nell’ar- ticolo XII, che tali trasferimenti avrebbero dovuto essere effettuati «in modo

umano e ordinato» («orderly and humane manner»)20. In realtà un milione e

16. G. Grass, Il passo del Gambero, Einaudi, Torino 2002; H. Schneider, L’usignolo dei

Linke, Adelphi, Milano 2004.

17. E. Åsbrink, 1947, Iperborea, Milano 2017, p. 80.

18. Il riferimento va alla pace di Losanna del 1923, dove per la prima volta la comunità internazionale approvò uno scambio di popolazione e cioè i trasferimenti di greci e turchi a seguito della guerra greco-turca.

19. Il discorso di Churchill, si trova in N. Naimark, La politica dell’odio, Laterza, Roma- Bari 2001, p. 130.

mezzo di tedeschi era già stato espulso dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia, nel periodo che più tardi fu defi nito delle espulsioni selvagge, per diffe- renziarlo da quelle successive alla conferenza, in generale portate avanti in modo meno caotico e brutale.

All’atto pratico non fu comunque lasciata alle popolazioni tedesche nes- suna possibilità di scelta.

Lo comprese anche Anne O’Hare McCormick, tra le più note reporter di guerra in Europa e fi rma di punta del «The New York Times». Il 26 otto- bre 1945, pubblicò sul quotidiano statunitense una sua corrispondenza nella quale annotava come le espulsioni si svolgessero in condizioni che

non hanno [avevano] precedenti nella storia. Chiunque veda con i propri occhi gli orrori che le accompagnano, non può avere il minimo dubbio che si stia compiendo una delle decisioni più disumane mai prese dai governi che dovrebbero essere votati alla difesa dei diritti umani21.

Non sembrava dunque esserci spazio per i trasferimenti umani e ordinati richiamati a Potsdam dai capi di governo delle tre potenze alleate.

Tanto in Polonia quanto in Cecoslovacchia, concentrandoci sui casi di maggior rilievo, le pratiche espulsive furono dettate dall’avversione di mas- sa per il nazismo e per quanto esso aveva rappresentato. Ciò portò così a identifi care la popolazione di lingua tedesca, stanziata da secoli in quei ter- ritori, con il nazismo stesso.

Accompagnate dall’applicazione di norme legislative, le espulsioni av- vennero con ritmi incalzanti: rastrellate e individuate, le persone avevano poche ore per raccogliere minimi effetti personali, oltrepassare il confi ne e trasferirsi in territorio tedesco. Quanti non partirono a piedi, vennero tra- sportati in treno su vagoni che in Polonia non differivano molto da quelli che, solo qualche mese prima, erano stati utilizzati dai nazisti per condurre gli ebrei nei campi di sterminio.

Come ha recentemente evidenziato Guido Crainz, il caso dei tedeschi espulsi dalla Polonia e dalla Cecoslovacchia presenta, pur con la sua speci- fi cità, più di una corrispondenza con quello istriano. Due elementi appaiono infatti contigui in entrambe le vicende: da un lato le questioni lasciate aper- te dai trattati successivi alla Grande guerra, che avevano attribuito all’Ita-

Proceedings, August l, 1945, Art. XII, Orderly Transfer of German Populations, in The

Avalon Project, Yale Low School, <https://avalon.law.yale.edu/20th_century/decade17.asp>, visitato il 9 maggio 2020.

lia un’area popolata da consistenti nuclei di popolazione slovena e croata, dall’altro lo spostamento dei confi ni dopo la seconda guerra mondiale, che consegnò alla Jugoslavia comunista di Tito ampie porzioni di questa fascia di territorio, determinando un consistente indebolimento della presenza ita- liana, scomparsa quasi del tutto, come vedremo, dall’area orientale dell’Alto

Adriatico22.

Alla luce di tali considerazioni, il richiamo alla dimensione europea ap- pare dunque un elemento fondamentale e costituisce una premessa essen- ziale per lo studio della diaspora istriana, che rappresenta così una tessera del più ampio mosaico degli spostamenti forzati di popolazione, portando gli esuli dall’Istria a diventare parte integrante dell’enorme fl usso di profu- ghi e rifugiati sradicati a forza e costretti a spostarsi in maniera defi nitiva dai loro paesi natali. Il riferimento alla prospettiva europea, con il conse- guente allargamento della cornice temporale e geografi ca, consente dunque di contestualizzare al meglio la vicenda giuliano-dalmata, evidenziando similitudini con altri fenomeni coevi e dando così voce ai diversi esodi caratterizzanti la fi ne della seconda guerra mondiale, alle trasformazioni e alle contraddizioni seguite, su coordinate geografi che differenti, allo spo- stamento dei confi ni.

2. Confi ni (1945-1975)

Parigi, 10 febbraio 1947. Alle 11,15 nella Sala dell’Orologio del Quai d’Orsay, sede del ministero degli Affari esteri francesi, Antonio Meli Lupi di Soragna, segretario della delegazione italiana, appose la sua fi rma sul Trattato di pace. Il documento suggellava la sconfi tta dell’Italia nel secondo confl itto mondiale, obbligandola al pagamento di un cospicuo risarcimento dei danni di guerra e, soprattutto, a cessioni territoriali lungo la frontiera occidentale e orientale, dove in realtà la partita per la defi nizione dei confi ni era già iniziata poche settimane dopo la fi ne del confl itto.

Il 9 giugno 1945, infatti, la diplomazia jugoslava e quella anglo-ameri- cana fi rmarono un accordo che prevedeva la divisione del litorale adriatico in due zone tracciate lungo una linea di demarcazione denominata Linea Morgan (dal nome del suo ideatore, il generale britannico William Duthie 22. Cfr. G. Crainz, Le molte Istrie d’Europa, in R. Marchis (a cura di), Una narrazione a

lungo mancata. Della diaspora giuliano-dalmata e degli altri esodi del Novecento alla luce del tempo presente, Seb 27, Torino 2019, pp. 24-25.

Morgan). L’area occidentale, la Zona A, comprendeva Trieste, Gorizia, il territorio di Tarvisio e l’enclave di Pola, mentre quella orientale, la Zona B, era costituita dall’Istria, Fiume, le isole del Quarnaro e Zara.

Entrato in vigore il 12 giugno 1945, giorno in cui l’esercito jugoslavo si ritirò defi nitivamente da Trieste, Pola e Gorizia, l’accordo, che affi dava la Zona A e la Zona B rispettivamente a un’amministrazione militare alleata e jugoslava, non rappresentava però la conclusione delle trattative diplo- matiche, ma costituiva il punto di partenza intorno al quale discutere per raggiungere future e defi nitive intese, che avrebbero dovuto anche avvalersi delle indicazioni fornite dalla Commissione interalleata per la defi nizione dei confi ni.

Creato su proposta del segretario di stato statunitense James Francis Byr- nes, l’organismo, che si componeva di quattro delegazioni, ciascuna delle quali composta da rappresentanti di Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bre- tagna e Francia, iniziò la sua missione nella Venezia-Giulia il 7 marzo 1946, con lo scopo di esaminare, attraverso sopralluoghi compiuti direttamente sul territorio, gli orientamenti nazionali della popolazione, la confi gurazione geografi ca e l’assetto economico delle zone contese.

L’attività della Commissione trova rappresentazione anche nel fi lm Cuo-

ri senza frontiere, fi rmato nel 1950 da Luigi Zampa e interpretato da Raf

Vallone, Gina Lollobrigida e Cesco Baseggio che, con le cifre tipiche del neorealismo, affronta la vicenda di un piccolo paese del Carso goriziano («del quale», recita il sonoro che accompagna la scena iniziale, «non dire- mo il nome») e dei suoi abitanti trovatisi, di colpo, a essere divisi tra Italia e Jugoslavia. Nelle sequenze iniziali la pellicola immortala infatti i funzio- nari interalleati giunti, dopo aver percorso le strade polverose della Venezia- Giulia, nel villaggio e intenti a scaricare dai loro camion fi lo spinato, paletti e vernice con la quale tracciare la nuova linea del confi ne, che scendeva

«inesorabile a dividere in due il paese»23.

I lavori dell’organismo interalleato vennero accompagnati da una propa- ganda tambureggiante messa in campo da entrambi gli schieramenti. Da un lato vi erano le autorità jugoslave che organizzarono, soprattutto nella Zona B, manifestazioni supportate da una campagna di scritte murarie volte ad attestare non solo la naturale prevalenza slovena e croata del territorio, ma

23. Cuori senza frontiere, regia di Luigi Zampa (Italia, 87’, 1950). Per un’analisi interdi- sciplinare della pellicola attenta alla sua prospettiva storica, cfr. M. Gusso, Una sottile linea

bianca. Il confi ne italo-jugoslavo alle origini della guerra fredda attraverso il fi lm Cuori senza frontiere, coordinamento di R. Marchis, Istoreto, Torino 2007.

anche la presenza di una cospicua parte della componente italiana favorevo- le all’annessione alla Jugoslavia.

Dall’altro lato e in direzione contraria agiva invece la rappresentanza italiana che, supportata dalla stampa e dal Cln dell’Istria (Clni), organismo

in stretto contatto con il governo di Roma24, si mosse invece per rafforzare il

mantenimento della sovranità italiana, indicata come l’unica soluzione che la popolazione italiana fosse disposta ad accettare.

In tal senso uno dei momenti di maggiore intensità fu raggiunto il 21 marzo 1946, data nella quale era prevista la visita dei componenti della Commissione a Pola. Ad accoglierli trovarono un’imponente manifestazio- ne alla quale partecipò la quasi totalità degli abitanti, che espressero così la