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La Donna: una figura ancora in bilico fra lavoro e famiglia

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE

La crescita dell’occupazione femminile che ha caratterizzato il mercato del lavoro italiano nel corso del tempo non cancella le difficoltà che le donne incontrano nel conciliare professione, vita familiare e maternità.

La carriera delle lavoratrici non sembra ostacolata solo dalla nascita dei figli ma anche dalla scelta di formare una famiglia. Soprattutto per le generazioni più giovani il matrimonio talvolta finisce per intralciare o interrompere i percorsi formativi delle donne.

A scoraggiare la formazione di una nuova famiglia è anche il lavoro precario o atipico.

Come si rileva da una ricerca fatta da “L’inchiesta” (un giornale digitale indipendente), “se si volesse costruire un termometro del precariato, le donne risulterebbero quindi più avanti degli uomini: il 35,2% sono dipendenti a termine o collaboratrici contro il 27,6% degli uomini”1. Nel biennio

2008-2010 ad essere diminuita è soprattutto l'occupazione femminile qualificata (meno 270mila), con un aumento di quella non qualificata (più 218mila)2. Le

giovani (18-29 anni), in particolare, vivono una situazione più critica di quella dei loro coetanei. Il 52% delle laureate svolge un lavoro per il quale è richiesto un titolo di studio inferiore a quello posseduto (41,7% per gli uomini), guadagnando in media anche il 20% in meno dei loro colleghi maschi3

.

Cosa aggiungere dunque? Le donne lavorano da sempre in casa e fuori dalle mura domestiche e da sempre sono vittime di ingiustizie e soprusi oltre che ostacolate da mille problematiche. Ed è proprio alla tutela delle disparità che subiscono le donne nel mondo del lavoro che questa trattazione dedica la sua attenzione. 1. http://www.linkiesta.it/donne-italia 2. Ibidem 3. http://www.unaqualunque.it/a/2746/la-politica-non-puo-ignorare-la-disparita-di-genere.aspx 1

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Il lavoro è stato suddiviso in quattro capitoli.

Nel primo di essi si discute della disparità di genere in un paese di “donne che aspettano”. Con questa espressione si vuole intendere che il ruolo della donna sembra essere sempre quello di aspettare che qualcuno si accorga delle loro capacità, che qualcuno si occupi di facilitare il processo di conciliazione lavoro/vita privata, che qualcuno le impieghi credendo in loro, all’interno di ruoli apicali del lavoro e della politica.

Il capitolo si struttura intorno a questi concetti, anche attraverso una panoramica comparativa con i paesi esteri, denunciando le diversità che proprio rispetto a questi vive la figura femminile in Italia.

È nel secondo capitolo che si inizia un excursus normativo e storico dei cambiamenti avvenuti nel corso degli anni in Italia ed in Europa, fino all’inizio del Nuovo Millennio, per favorire la tutela delle donne in tutti gli ambiti di vita.

In questa sede viene introdotto il concetto di “conciliazione vita/lavoro” che verrà poi esaminato più a fondo nel III capitolo il quale ha inizio con la disamina della legge n. 53/2000 che introduce le azioni positive, misure volte a garantire la parità di genere in ambito lavorativo ed una maggiore tutela a favore della donna, oltre che una redistribuzione del carico di cura domestica e dei figli attribuita questa volta anche alle figure maschili presenti all’interno della famiglia.

In questo ambito viene dedicato un adeguato spazio anche alle evoluzioni normative nel settore.

Il discorso si conclude nel IV ed ultimo capitolo dove viene offerta una disamina della realtà attuale esistente nel nostro paese per quanto concerne le politiche di conciliazione e di tutela delle donne. La disamina affronta sia la realtà nazionale che quelle locali.

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CAPITOLO I

LE DISPARITÀ DI GENERE: UN PAESE DI DONNE

CHE ASPETTANO

La femminil condizione, facile non è, di fronte agli uomini. [Creusa]

EURIPIDE (480-406 ca. a.C.)

1. Premessa: il gap di genere.

A più di mezzo secolo dalla proclamazione internazionale del principio dell’uguaglianza tra i sessi è ancora sentita, anche nelle società organizzate secondo canoni democratici, la necessità di riflettere sull’effettiva realizzazione dello stesso, oltre che sull’effettiva partecipazione egualitaria delle donne e degli uomini in tutti gli ambiti della vita sociale.

Il concetto al quale si fa riferimento è lo studio della disparità di genere, fonte di continue elaborazioni dottrinarie che studiano il rapporto tra l’uomo e la donna e la differenza che ancora persiste tra i due sessi in diversi settori.

Il concetto di genere viene introdotto dalla femminista Gayle Rubin al fine di indicare l’insieme di processi, adattamenti e di rapporti con i quali la società trasforma la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana organizzando la divisione dei compiti degli uomini e delle donne4

. L’imporsi della dimensione di genere ha permesso quindi di mostrare l’intreccio fra le diverse forme della differenziazione sociale.

La studiosa parla di un “sex-gender system” in cui il dato biologico viene trasformato in un sistema binario asimmetrico all'interno del quale il

4. Il concetto è espresso in P. BORDIEU, La nomination masculine, Edition du Senil, Paris, 1998.

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maschile occupa una posizione privilegiata rispetto al femminile, al quale è legato da strette connessioni5

.

In realtà va posto in evidenza che già da tempo, in alcuni settori, è scomparso il gap di genere tra uomo e donna, si pensi per esempio all’istruzione nel cui ambito le donne superano gli uomini per numero di laureate6.

Nonostante tutto le figure femminili “restano in attesa” di trovare adeguato spazio nell’occupazione e una adeguata crescita professionale perchè la mancanza di uguaglianza di genere nelle opportunità e nei risultati effettivi resta ancora una realtà molto difficile da scardinare.

Negli anni è certamente aumentata l’attenzione al fenomeno e la promozione della parità e dell’affermazione della donna sono diventati obiettivi prioritari di organismi internazionali e, con maggiore o minore impegno, dei governi nazionali7.

È soprattutto all’inizio del nuovo secolo che la promozione dell’uguaglianza tra uomini e donne nell’istruzione, nel lavoro formale e nei parlamenti nazionali è diventato un argomento di interesse europeo tant’è che essa figurava tra gli otto obiettivi del Millennio sanciti nel 20008

.

5. http://www.pariopportunita.provincia.tn.it/italy/SC/1035/Identita_di_genere.html

6. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa. L’Italia delle disparità di genere, Egea, 2010. 7. Ibidem.

8. <<United Nations Milklennium Declaration>>, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 18 settembre 2000. Ecco di seguito gli Obiettivi:

• Obiettivo 1: Eliminare la povertà estrema e la fame. Questo significa dimezzare, fra il 1990 e il 2015, la percentuale di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno e di quelle che soffrono la fame.

• Obiettivo 2: Raggiungere l’istruzione elementare universale. Pertanto è necessario garantire che, entro il 2015, tutti i bambini e le bambine, ovunque vivano, completino il ciclo degli studi elementari.

• Obiettivo 3: Promuovere l’uguaglianza fra i sessi e conferire potere e responsabilità alle donne. Eliminare, preferibilmente entro il 2005, e a tutti i livelli entro il 2015, le disparità di genere nell’istruzione elementare e secondaria.

• Obiettivo 4: Diminuire la mortalità infantile. Ridurre di due terzi, fra il 1990 e il 2015, il tasso di mortalità fra i bambini al di sotto dei cinque anni di età.

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L’Unione europea pose in quell’anno l’uguaglianza di genere tra i diritti fondamentali dell’uomo ritenendo la stessa come una condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di crescita, occupazione e coesione sociale che costituiscono il fine prioritario dell’azione comunitaria.

In effetti, una parte sostanziosa del programma di riforme economiche approvato nel 2000 dai Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea a Lisbona era dedicata alla parità di genere sul lavoro. In particolare, l’Agenda di Lisbona9

mirava ad aumentare l’occupazione femminile in tutti i paesi

• Obiettivo 5: Migliorare la salute materna diminuendo di tre quarti, fra il 1990 e il 2015, il tasso di mortalità materna.

• Obiettivo 6: Combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie. Fermare entro il 2015 e cominciare a invertire la diffusione dell’HIV/AIDS. Fermare entro il 2015 e cominciare a invertire l’incidenza della malaria e di altre importanti malattie. • Obiettivo 7: Assicurare la sostenibilità ambientale integrando le necessarie

politiche di sviluppo sostenibile nelle politiche e nei programmi nazionali e invertire la tendenza al depauperamento delle risorse naturali. Dimezzare entro il 2015 la percentuale di persone che non hanno un accesso sostenibile all’acqua potabile e ai servizi fognari. Raggiungere entro il 2020 un significativo miglioramento nelle esistenze di almeno 100 milioni di abitanti dei quartieri degradati.

• Obiettivo 8: Sviluppare una collaborazione globale per lo sviluppo. Sviluppando ulteriormente un sistema finanziario e commerciale che sia aperto, equo, basato su delle regole, prevedibile e non discriminatorio. Occuparsi delle particolari esigenze delle nazioni meno sviluppate mediante l’adozione di esenzioni doganali e l’eliminazione delle quote per le esportazioni delle nazioni meno sviluppate, un programma migliorativo di condono del debito per i paesi poveri fortemente indebitati; la cancellazione del debito ufficiale bilaterale; e una assistenza per lo sviluppo più generosa per le nazioni impegnate nella diminuzione della povertà.

9.

Consultabile in www.europa.eu.org. L’Agenda di Lisbona è stata la base per le politiche di sviluppo in tutta la programmazione 2000-2006 e ancor di più della programmazione 2007/2013. Riuniti nel marzo del 2000 a Lisbona, i capi di Stato e di governo dell'Unione Europea avevano lanciato l'obiettivo di fare dell'Europa “l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale entro il 2010”. Da allora, le diverse misure da mettere in atto per raggiungere questo obiettivo hanno preso il nome di "Strategia di Lisbona".

L’Agenda di Lisbona aveva un programma ambizioso finalizzato a creare le infrastrutture del sapere, promuovere l'innovazione e le riforme economiche, modernizzare i sistemi di previdenza sociale e d'istruzione, agevolare il passaggio ad un’economia digitale accessibile a tutti, ridurre gli ostacoli per promuovere l’imprenditorialità e ridurre la disoccupazione, ma soprattutto creare l’EHEA (European Higher Education Area) e definire uno spazio europeo della ricerca e dell'innovazione per creare l’ERA (European Research Area).

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membri, da una media di circa il 51% all’obiettivo del 60% da raggiungere entro il 2010.

Molti paesi europei erano già vicini a questo obiettivo e addirittura nel 2000 lo avevano abbondantemente superato. Si parla in tal senso di nazioni come Austria, Germania e Francia che avevano tassi di occupazione femminile compresi tra il 55 e il 60%; Finlandia, Regno Unito e Paesi Bassi il cui tasso si aggirava intorno al 64%; Svezia, Danimarca e Norvegia che addirittura erano già oltre il 70%10

.

Era pertanto ovvio che forti dei loro numeri, questi paesi potevano cominciare a guardare ad obiettivi più ambiziosi in termini di parità: equiparare il tasso di occupazione femminile a quello maschile ed impegnarsi per migliorare la qualità del lavoro delle donne11

.

Non può, purtroppo, dirsi la stessa cosa per l’Italia dove il raggiungimento del 60% è sempre stato un miraggio. Nel 2000 il tasso di occupazione femminile italiano era pari al 39,6%, il più basso tra i paesi dell’Unione Europea, con la sola eccezione di Malta (33,1%). Questo dato nascondeva però delle differenze regionali enormi: si passava da una media del 52% al Nord e da punte massime del 56% in Emilia Romagna, alla media del 25% nel Sud12

. Pertanto, all’avvicinarsi del 2010, il miraggio è diventato una mera utopia. Sembrava impossibile passare da questa percentuale così bassa al target richiesto dall’Europa.

Ad ogni modo, con il passar degli anni la situazione descritta è sicuramente mutata, il che purtroppo non vieta di riconoscere che uno dei maggiori ritardi italiani rispetto al resto d’Europa risiede proprio nell’occupazione femminile.

10. I dati sono tratti da Eurostat, <<Labour Force Survey>>, vari anni. 11. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit.

12. I dati sono tratti da Istat, <<Sistema di indicatori territoriali>>, vari anni.

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2. Gli ultimi dati sulle disparità in Italia tra uomini e donne nell’istruzione e nel mercato del lavoro.

Iniziando la disamina dello stato dell’arte in merito al gap di genere nell’ambito dell’occupazione, gli ultimi dati statistici dimostrano che siamo nettamente sotto la media europea soprattutto se si pensa che paesi come la Danimarca, vedono oltre il 70% delle donne occupato13.

Di certo gli obiettivi di Lisbona rappresentano un traguardo sfumato per le donne italiane tra i 15 e i 64 anni e raggiungibile solo per le classi più giovani e per alcune aree del paese, ma la situazione deve essere inquadrata in una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne all’interno della vita politica, sociale ed economica del paese14

. Questo perché qualche progresso è stato compiuto se si pensa che la realtà di partenza era ben diversa: il tasso di occupazione femminile in Italia nella classe di età 15-64 anni era, nel 1960 pari a circa il 28%; nel 1980 pari a circa il 33% e nel 2000 di poco sotto il 40%15

.

Dunque l’incremento si è verificato e l’evoluzione è positiva soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta, ma i cambiamenti osservati sono decisamente inferiori a quelli sperimentati negli altri paesi europei che partivano da tassi di occupazione allineati a quelli italiani degli anni sessanta. Il caso più eclatante è quello della Norvegia, in cui il tasso di occupazione è passato dal 26,1% del 1960 al 75,4% odierno.

I dati riportati non devono stupire in quanto la storia delle donne italiane nel mondo del lavoro non è stata mai semplice ma sempre costellata di discriminazioni e problematiche. Nonostante ciò non sono mai mancate, fin dagli inizi della legislazione sociale e quindi in un contesto storico in cui le condizioni di lavoro risultavano essere spesso pesanti per i lavoratori in

13. Dati ISTAT del 2013.

14. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit. 15. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit.

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generale, norme volte alla tutela dei soggetti più deboli che chiaramente includevano anche la categoria femminile.

In realtà dopo un primo apparente avvio di uguaglianza tra uomini e donne in questo contesto, la storia delle lavoratrici subisce una svolta a partire dalla seconda metà degli anni ‘50 quando le donne espulse dal settore manifatturiero tradizionale vennero riassorbite in quei settori dove la meccanizzazione dei processi produttivi permette la sostituzione della manodopera maschile qualificata.

In questo periodo le donne arrivano in fabbrica soprattutto dalla campagna sia al seguito dei mariti immigrati sia comunque per la stanchezza e dunque per sfuggire ai ritmi massacranti del lavoro agricolo.

Ma nelle fabbriche le donne oltre ad essere segregate nelle categorie e qualifiche più basse, nei reparti e nei settori “monosessuali” e private di ogni possibilità di avanzamento di carriera, fino agli anni ‘60 subiscono una forte discriminazione salariale; a parità di capacità lavorativa con gli uomini sono inquadrate nelle categorie inferiori con una riduzione salariale del 30%16

.

In altre parole, il boom degli anni Sessanta non ha certo riguardato l’occupazione femminile. Anzi, la riduzione dell’occupazione femminile verificatasi nell’industria italiana si accentuò nettamente dopo il 1963, anno che concluse il quinquennio di crescita ininterrotta del boom economico. In quel periodo fu la considerevole riduzione delle lavoratrici autonome a determinare il calo dell’occupazione femminile nell’industria, dal momento che, seppur lievemente, le lavoratrici dipendenti aumentarono17

.

Va detto, comunque, che è proprio in quel contesto che la posizione di debolezza delle donne emerge pienamente. Ad evidenziarla maggiormente sono:

• le basse qualifiche professionali;

16. Le donne nel mondo del lavoro, in www.salute.gov.

17. Tra il 1959 e il 1971, mentre le lavoratrici autonome passarono da 507.000 a 243.000, quelle dipendenti nel medesimo periodo aumentarono di 86.000. Si veda ISTAT, Sommario di statistiche storiche 1861-1975.

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• la legislazione iperprotettiva come il divieto di licenziamento per matrimonio e le leggi di protezione della maternità;

• l’alto assenteismo;

• la minore disponibilità agli straordinari;

• la discontinuità della vita lavorativa.

Questo indica la presenza di una serie di fattori che incidono sul costo della forza lavoro femminile, troppo alto da potere essere sostenuto dai processi di ristrutturazione in atto, mentre allo stesso tempo il “part-time” risulta troppo gravoso da un punto di vista fiscale18.

A partire dalla recessione del 1964, alla figura della casalinga che svolge unicamente compiti domestici, si affianca la donna che lavora a domicilio con fenomeni di sottoccupazione o di occupazione marginale e precaria19.

“Dal 1964 al 1970 si configura un iter di lavoro tipico delle donne italiane; entrano nel lavoro stabile giovani o giovanissime, dopo il matrimonio e la nascita dei figli solo una quota rimane sul mercato del lavoro regolare, la maggior parte ne esce, altre entrano nell’area del lavoro marginale.

Pertanto, se nei primi anni ‘60 la figura della casalinga a tempo pieno ha significato che sono state prodotte più risorse nell’ambito domestico e meglio gestite quelle disponibili, in seguito la contraddizione tra bisogno di integrare il reddito del capofamiglia non più sufficiente con quello della moglie e la necessità che la donna sia presente a tempo pieno nella casa per fornire tutti i servizi fondamentali al funzionamento della famiglia trova una

18. Cfr. L. FREY, Riesame dei problemi dell’occupazione femminile, <<Mondo Economico>>, 28 giugno 1969; M.P. MAY, Il mercato del lavoro femminile, <<Inchiesta>>, n. 3, gennaio-marzo 1973; L. FREY, Occupazione e sottocipazione femminile in Italia, Angeli, Milano, 1976.

19. L. BALBO, Stato di famiglia,Bisogni, privato, collettivo, Etas Libri, Milano, 1976

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risposta funzionale nel lavoro a domicilio e nelle altre forme di lavoro precario”.

Infatti, dopo il 1966 la domanda, soprattutto nel settore industriale, privilegiò sempre più la manodopera maschile delle classi centrali di età, collocando i giovani, gli anziani e le donne in una condizione di marginalità che se per i primi era transitoria, per le seconde divenne strutturale. E se dal 1969 la classe operaia maschile ottenne importanti conquiste, la forza lavoro femminile assunse un carattere di perenne mobilità che costituì allo stesso tempo motivo di disoccupazione e di sottoccupazione per le donne.

Negli anni ‘70, dopo un declino iniziato nel dopoguerra, la presenza femminile nel mondo del lavoro raggiunse comunque un livello minimo.

I fattori positivi e negativi che insieme contribuirono a determinare questa sorta di “esclusione” delle donne italiane dal lavoro o di inclusione minima all’interno di esso possono essere imputati a20:

• buoni e sicuri livelli di reddito raggiunti da un crescente numero di capifamiglia;

• debole diffusione dei servizi privati e pubblici e delle nuove tecnologie domestiche;

• scarso livello di istruzione delle donne.

Nello specifico, però, la seppur minima visibilità lavorativa femminile era dovuta ad una serie di fattori tra i quali vanno annoverati un aumento progressivo del tasso di scolarizzazione femminile e di partecipazione delle donne ai processi formativi. Tali fattispecie comportarono, come era ovvio che fosse, conseguenze notevoli riguardo alla diminuzione delle disparità tra i sessi ed agli atteggiamenti e comportamenti femminili in materia di lavoro.

Allo stesso modo era aumentato sensibilmente il numero delle studentesse sia negli istituti superiori che nelle università, al punto che le

20. AA.VV., Luci ed Ombre del Lavoro Femminile in Economia & Lavoro, a. XXXIV, n. 3, settembre-dicembre 2000.

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studentesse diventarono praticamente circa la metà totale per tutti i livelli di istruzione21

.

In seguito ai grandi progressi descritti, a partire dagli anni ’80, la partecipazione femminile al lavoro specie nelle professioni del terziario aumentò in maniera sensibile, comportando anche un non esiguo ampliamento di possibilità per le giovani donne rispetto a quanto era avvenuto per le loro madri22

. Per la letteratura “il processo di scolarizzazione può essere indicato

come uno dei veicoli principali del processo di femminilizzazione del lavoro e l’istruzione come fonte di acquisizione di diritti, di esplicitazione e di stabilità dell’offerta, come rafforzamento della posizione sul mercato del lavoro”23

. Tutto ciò segnò, rispetto agli anni ‘50, l’avvio di un processo irreversibile della presenza femminile nel mondo del lavoro e di cambiamenti sostanziali dell’identità femminile rispetto al lavoro.

A questo punto, mentre dalla prima metà degli anni ‘60 fino al 1972 si verificò una drastica contrazione dell’occupazione esplicita femminile nell’industria ed in agricoltura, dal 1966 al 1976 l’occupazione femminile terziaria crebbe del 35% soprattutto nei servizi privati di vario genere e nella pubblica amministrazione; ciò ebbe a verificarsi non solo grazie all’incremento della scolarizzazione femminile ma anche per lo sviluppo della cosiddetta società dei servizi. È a questo proposito che si iniziò a parlare di doppia presenza e doppio lavoro. In tal senso, negli scritti dedicati all’argomento si legge: “è in questo intreccio tra lavoro familiare lasciato e

richiesto e lavoro familiare sostituito dai servizi, che si disegna la doppia presenza femminile: un nuovo modello di organizzazione della vita femminile adulta, ma anche un perno centrale nel sistema dei servizi e più in generale nella divisione sociale del lavoro di riproduzione”24

.

21. AA.VV., Luci ed Ombre del Lavoro Femminile, cit.

22. G. ALTIERI, Identità femminile nel mercato del lavoro, in Politica ed Economica n. 9, 1990 23. G. ALTIERI, Identità femminile, cit.

24. G. ALTIERI, Identità femminile, cit.

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Quello della “doppia presenza” è per la sociologa Laura Balbo un fattore utilizzato per indicare allo stesso tempo un dato strutturale, una dimensione culturale ed un vissuto soggettivo delle donne adulte nella cosiddetta società dei servizi. In sostanza, la “doppia presenza” indica il segno della differenza di genere, essendo un’esperienza che riguarda unicamente le donne e che connota profondamente la condizione femminile25.

Numerosi riferimenti bibliografici definiscono la doppia presenza una “felice metafora”26

attraverso cui la differenza di genere guadagna la sua cifra27, perché si tratta di un’esperienza esistenziale che riguarda unicamente le donne ed investe la condizione femminile. “Le donne nell’espletare diversi ruoli vivono ancora la “doppia presenza”, in maniera simultanea, nel pubblico e nel privato, nella casa e fuori”28

.

In effetti l’aver proceduto alla descrizione della condizione della donna lavoratrice in termine di doppia presenza è importante perché ha messo fine al classico cliché che proponeva:

lavoro maschile = centrale

lavoro femminile = marginale

25. L. BALBO, La doppia presenza, in Inchiesta, n. 32, 1978.

26. C. SARACENO “Dalle pari opportunità alle politiche di conciliazione: passi avanti o passi indietro?”, prefazione a E. MANUEDDU, Tra mestoli e scrivanie: il lavoro delle donne. Attori, problemi norme e pratiche di conciliazione, in Quaderni di donne e & ricerca, Trauben edizioni, Torino, 2004.

27. E. MANUEDDU, Tra mestoli, cit. 28.L. BALBO, La doppia presenza, cit.

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descrivendo così una realtà ben più complessa. La condizione di doppia presenza è fondamentale nella strutturazione dell’identità sociale delle donne che risultano vivere una doppia appartenenza”29.

Anche se le donne si sono sempre divise tra lavoro e famiglia, il dato della doppia presenza, costituito da fasi di presenza-assenza sul mercato e nell’organizzazione familiare, si è istituzionalizzato in quanto i costi di questo doppio ruolo sono diventati più tollerabili sia per le donne, che per la società che per il mercato del lavoro30

.

Per Adriana De Benedittis “...di fatto è diventata possibile la presenza

part-time nell'organizzazione familiare e si è diffusa la domanda e la corrispondente offerta di presenza part-time sul mercato del lavoro. Le donne scelgono una vita di doppia presenza e il sistema sociale si organizza in modo che in certe fasi di vita delle donne si utilizzi appieno il potenziale di lavoro per il mercato, in altre il potenziale di prestazioni per la famiglia, in altre ancora una combinazione di entrambe”31

.

Anche il mercato del lavoro si adegua al dato della doppia presenza. Infatti, poiché le lavoratrici sono presenti sul mercato del lavoro a condizioni particolari, il mercato le costringe a concentrarsi in determinate occupazioni del terziario nelle quali il costo del lavoro femminile non risulta eccessivamente gravoso32. Quali gli effetti? La femminilizzazione di alcune professioni e la segregazione orizzontale sia formativa che occupazionale.

Ad ogni modo, la doppia presenza non sta ad indicare solo un doppio ruolo ma un particolare modo di essere perché mentre il doppio lavoro indica una gerarchizzazione tra responsabilità familiari e lavorative ed una partecipazione sequenziale a due organizzazioni temporali forti di contro, la

29. I. DESSANAY, “Lavoro”, in Ribero A. (a cura di), Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile, Glossario. Lessico della differenza, Commissione Regionale per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna - Regione Piemonte: 136-144, 2007.

30. L. BALBO, La doppia presenza, cit.

31. A. DE BENEDITTIS, I lavori delle donne nella storia del ‘900 italiano: dal dopoguerra a fine anni ’60, in www.ecn.org.

32. A. DE BENEDITTIS, I lavori delle donne, cit.

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doppia presenza indica lo stare contemporaneamente in due realtà diverse, cercando di conciliarle e di ricomporle in unità.

Pertanto, se è realistico per le donne dovere affrontare prestazioni, comportamenti e progetti radicalmente diversi, esiste anche la possibilità e la disponibilità a praticare un progetto giocato a più livelli ed in più ambiti nei quali la donna si trova a transitare: la famiglia, la comunità, il lavoro, i servizi, i luoghi dell'azione collettiva”33

.

Al concetto così articolato di doppia presenza è legato, a partire dagli anni ’70, anche il modo di produzione femminile. Questo sta ad indicare quella tipica esperienza femminile di trasferire modalità e logiche del lavoro di cura, in particolare della relazione madre-figlio, nel lavoro professionale. È anche questa modalità configurabile come una strategia, almeno a livello soggettivo, di conciliare i due ambiti, elaborando un modo di produzione tendente immediatamente alla soddisfazione dei bisogni ed elaborante rapporti caratterizzati dalla capacità di “comportamento espressivo, non strumentale, orientato non tanto alla realizzazione di obiettivi futuri definiti, quanto a strutturare il flusso dell'affettività”34.

È anche vero, però, che il lavoro professionale influisce notevolmente sulla vita familiare, all’interno della quale la donna tende a trasferire capacità di organizzazione, di efficienza e di pianificazione dei compiti.

Tutto ciò rende perfettamente idea di quanto il lavoro femminile sia comunque una realtà estremamente complessa e multiforme35

. Difatti, sempre più spesso, sia nelle funzioni familiari che in quelle per il mercato le donne sembrano erogare servizi che soddisfano i bisogni più disparati in un’attività continua di “patchwork”, volta letteralmente ad incastrare e comporre insieme pezzi discontinui. Infatti, il concetto di doppia presenza non rappresenta null’altro che la capacità di mettere insieme le diverse risorse disponibili, il

33. AA.VV., Luci ed Ombre del Lavoro Femminile, cit.

34. U. PROKOP, Realtà e desiderio: l'ambivalenza femminile, Feltrinelli, Milano, 1978.

35. L. ABBURRÁ, L’occupazione femminile dal declino alla crescita, Rosenberg & Sellier, 1989, Torino.

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dare ordine e senso all’organizzazione quotidiana, il combinare le risorse in concreto, caso per caso disponibili36

.

Congiuntamente al verificarsi di questa situazione in Italia anche la Comunità europea promuoveva non poche iniziative per favorire il lavoro delle donne.

Difatti, è in questo contesto che possono essere inquadrati gli incentivi all’imprenditoria femminile, a loro volta inseriti nell’ambito delle azioni positive, ovvero le iniziative per la parità di genere nel mondo del lavoro volte ad eliminare la discriminazione e la segregazione femminile ed a promuovere l’uguaglianza sostanziale e le pari opportunità nell’attività economica ed imprenditoriale. I provvedimenti vennero presi secondo la storica direttiva CE 76/207/CEE del 197637

sulla parità di trattamento tra donne e uomini per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione ed alla promozione professionale e le condizioni di lavoro.

Verso la fine degli anni ’70 i dati riguardanti l’occupazione femminile andarono progressivamente aumentando.

A ciò si aggiunge che anche la forma della distribuzione per età si andò modificando significativamente: nel 1977 il valore massimo del tasso di occupazione femminile si raggiungeva nelle età giovanili e poi cominciava il ritiro dal mercato del lavoro. Negli anni successivi e maggiormente oggi, la struttura si presentava in maniera diversa in quanto il tasso di occupazione cresce con l’età, raggiungendo il suo massimo intorno ai 40 anni (solo leggermente in anticipo rispetto agli uomini), per poi diminuire lentamente. L’occupazione si concentrava, dunque, nelle età centrali (Fig. 1).

Da tutto ciò si evince quindi un mutamento nel modello di partecipazione al lavoro delle donne: in passato si entrava al lavoro in giovane età, con minori aspirazioni e con un livello di istruzione più basso rispetto agli uomini. La partecipazione al mercato del lavoro veniva vista per lo più come

36. C. SARACENO, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, Il Mulino, 2003. 37. www.europa.eu.it

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un'esperienza transitoria. Oggi ci si avvicina al mondo del lavoro in età più avanzata, nel momento in cui le generazioni precedenti già iniziavano la loro uscita, con un livello di istruzione, quindi di aspirazioni, certamente più elevato e con l’intenzione di non abbandonare il lavoro in futuro.

Fig. 1

Fonte: www.lavoro.gov.it

Anche nei decenni successivi qualcosa si è mosso, ma con lentezza38. Sembra, secondo indagini Istat, che una sorta di parità sia stata raggiunta nel 200339

: questa è la data in cui la composizione degli occupati registra il 50% sia di uomini che di donne. Ma, nonostante gli sforzi compiuti, la comparazione in ottica di genere dei principali indicatori del mercato del lavoro tra Europa ed Italia continua a confermare, anche per il 2011, le radicate criticità del mercato del lavoro femminile40

. In particolare il nostro paese ha già mancato gli obiettivi della Strategia di Lisbona perché la situazione in quell’anno era quella di seguito rappresentata:

38. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit. 39. www.istat.it, dati sul gap di genere 2004

40 Il mercato del lavoro e politiche di genere 2012, in www.isfol.it

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Tasso di occupazione femminile 2011 con la totalità delle donne occupate per regione:

Fonte www.didattica.unibocconi.it

Il nostro Paese, comunque, non sembra essere in linea neanche con gli obiettivi definiti dalla Strategia Europa 2020, un programma fondato per segnalare e monitorare le realizzazioni conseguite fino ad oggi sotto forma di partenariato per la crescita e l’occupazione41

. Ebbene, la strategia decennale per la crescita sviluppata dall’Unione Europea prevedeva al momento della sua elaborazione il raggiungimento, in questo periodo, di un’occupazione distinta per sesso, pari al 75%.

Diversamente, allo stato attuale l’Istat fornisce il seguente quadro42 : • si registra un tasso di occupazione femminile pari al 46,9%,

valore più basso tra i paesi europei, con un gap di genere pari a 25,7 punti percentuale;

41. www.strategiadilisbonalavoro.it

42. Il mercato del lavoro e politiche di genere 2012, in www.isfol.it

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• la partecipazione femminile al mercato del lavoro appare confinata quasi esclusivamente nel settore dei servizi, determinando una forte segregazione orizzontale;

• si registra l’utilizzo del part time quasi esclusivamente tra la componente femminile della popolazione e, comunque, con bassi livelli di incidenza se paragonati al resto d’Europa;

• si rileva un differenziale salariale tra uomo e donna.

Ora, premesso che nel 2010 la disoccupazione femminile in Italia era più bassa dello 0,6% rispetto a quella francese, di ben 11,8 punti percentuale rispetto alla Grecia, di 12,6 punti rispetto alla Spagna ma più alta di ben 4 punti rispetto alla Germania, va detto che essa tra il primo trimestre 2011 ed il primo trimestre 2012, sale di 2,3 punti percentuale, mentre quella maschile solo dell’1,9%43

.

Le donne italiane, inoltre, risultano essere anche maggiormente colpite dalla disoccupazione di lunga durata rispetto alle donne europee, infatti analizzando alcuni dati si può notare come il nostro Paese si discosti dalla media europea solo del +0,3% nel totale, dato che però sale a +0,9 punti percentuali se lo si guarda al femminile, e come valori più alti dei nostri in questo tasso si riscontrano nei paesi dell’Est europeo, in Grecia, Spagna, Portogallo e Croazia44 (TAB. 1-2).

43. Il mercato del lavoro e politiche di genere 2012, in www.isfol.it 44. Il mercato del lavoro e politiche di genere 2012, in www.isfol.it

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Fonte: Eurostat

Fonte: Eurostat

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2.1. Segue: l’istruzione.

Generalmente il fattore che permette di prevedere quanto una donna partecipi al mercato del lavoro è l’istruzione. Una maggiore istruzione garantisce infatti livelli occupazionali più elevati45. Generalmente, in tutti i paesi europei le donne più istruite lavorano con maggiore probabilità.

Nel caso specifico dell’Italia il tasso di occupazione delle donne con istruzione primaria e secondaria di primo grado è stato nel 2008 pari al 29,6%, contro il 75,9% delle laureate nella fascia di età 25-64. Ma in altri paesi questi dati sono anche più alti. È questo il fenomeno che gli economisti definiscono <<selezione positiva>>46: le donne presenti nel mercato del lavoro hanno qualifiche mediamente superiori a quelle delle donne complessivamente considerate. Infatti, in Italia le donne che si fermano alla scuola dell’obbligo si affacciano più raramente al mercato del lavoro.

C’è però un altro aspetto da sottolineare: il nostro Paese ha una percentuale più alta in Europa di laureate che sono fuori dal mercato del lavoro il cui tasso di attività è pari all’80,1%, ben al di sotto di quello degli uomini, che invece è in linea con gli altri paesi47

.

Le difficoltà non mancano neanche per le donne più qualificate. Differenziali salariali crescenti con il livello di istruzione e di qualifica segnalano, infatti, un problema di segregazione verticale o accesso al vertice. Per le donne più istruite è più facile superare le barriere all’ingresso e permanere nel mercato del lavoro, ma progredire nella carriera non è facile. Le differenze salariali sono forti fin dall’ingresso nel mondo del lavoro: a tre anni dalla laurea il guadagno mensile netto dei laureati supera del 25% quello delle

45.A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit.

46. E. RUSTICHELLI, Il gap retribuitvo di genere: indicazioni metodologiche, evidenze empiriche per il caso italiano e proposte di policy per una effettiva parità di opportunità nel mercato del lavoro

italiano, in http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/SoleOnLine5/_Oggetti_Correlati/Documenti/Economia/2011/10

/abstract-ricerca-gende-pay-gap.pdf?uuid=3053a750-ee6d-11e0-a222-c900f4cb8545 47. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit.

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laureate. Secondo un’indagine ISFOL48 il differenziale salariale di genere tra tutti i laureati è pari al 32%.

L’elemento che incrementa ulteriormente i differenziali salariali di genere è quello dei figli: per il Regno Unito è dimostrato49

che il differenziale salariale tra uomo e donna cresce drasticamente (dal 10% al 33%) con la nascita del primo figlio e continua a salire fino all’età in cui i figli diventano indipendenti.

Il costo della maternità emerge anche dal confronto tra salari di donne con e senza figli: alcuni autori50 stimano, per un campione di paesi europei, che la riduzione di salario associata alla maternità è tra il 2% e il 6% per il primo figlio e cresce fino al 18% quando i figli sono 3. In Italia, secondo un lavoro di Lia Pacelli, Silvio Pasqua e Claudia Villosio la penalizzazione salariale legata alla presenza di figli è pari a circa al 5%51

.

3. La presenza delle donne nella politica e nella ricerca.

In non poche occasioni Margareth Thatcher, più volte primo ministro inglese negli anni 80 del secolo scorso, ha affermato: “In politica, se vuoi che una cosa venga detta chiedi ad un uomo. Se vuoi che venga fatta chiedi ad una donna”. Questa frase la dice lunga sulla possibile ottimale capacità delle donne in ambiti importanti della vita pubblica eppure la situazione non è sicuramente molto confortante quando si analizza la presenza femminile nelle istituzioni ed in particolare nei parlamenti e nei governi dei paesi europei e dell’Italia in particolare.

48. www.isfol.it

49. G. PAULL, The Impact of Children on Women’s Paid Work, Fiscal Studies, 27(4), December 2006, pp. 473-512.

50. R. DAVIS G. PIERRE, <<The Family Gap in Pay in Europe: a Cross-country Study>>. Labour Economics Vol 12, 2005.

51. L. PACELLI S. PASQUA C. VILLOSIO, “What does the stork bring to women’s working career?”, Working Papers, Series, 2008.

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Per esempio, le donne nel Parlamento europeo sono il 35%, ma anche qui la posizione dell’Italia non brilla. Mentre, un leggero passo avanti si è avuto a livello nazionale se si pensa che le donne elette a Camera e Senato, nel 2013 sono passate al 31% (dal 22% della precedente legislatura) e che l’Italia ha guadagnato 9 posizioni nella classifica che misura la disparità di genere52

. Eppure, nonostante tutto, le pari opportunità nel nostro Paese non sono realizzate pienamente: attraverso il Global Gender Gap Report 2013 sulle diseguaglianze di genere in 136 paesi del mondo del quale si parlerà in seguito, si scopre che l’Italia è passata dall’80° al 71° posto in classifica, grazie all’aumento di donne in Parlamento53

e negli incarichi importanti nelle grandi aziende. Al primo posto, per il quinto anno consecutivo vi è l’Islanda, seguita da Finlandia, Norvegia, Svezia e Filippine. In altri termini, per dirla con le parole di chi ha dedicato studi all’argomento: “se nasci uomo o donna

fa molta meno differenza, in termini di possibilità economiche e di carriera

politica o dirigenziale, in Scandinavia e nelle Filippine che in Italia”54 .

Yasmine Bekhouche, coautrice rapporto del World Economic forum spiega in un articolo del Corriere della Sera quanto segue: <<La posizione

dell’Italia nella classifica che misura l’eguaglianza salariale percepita è molto bassa: 124esima su 136 paesi, e al di sotto della media mondiale.

Il fattore determinante più importante per la competitività di un Paese è il talento umano. Le donne costituiscono la metà de talento potenziale e, se il governo ha un ruolo importante nel sostenere le politiche giuste (congedo di paternità, asili, etc.), sta anche alle aziende creare posti di lavoro (con processi di reclutamento innovativi, nuovi percorsi per le carriere, politiche salariali trasparenti) che permettano ai migliori talenti di svilupparsi>>55.

52. Il Global Gender Gap Report redatto ogni anno dal World Economic Forum di Ginevra. 53. The Global Gender Gap Report 2013 http://www.weforum.org/reports/global-gender-gap-report-2013

54. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit.

55. E. TEBANO, Gender Gap Report: il problema per le donne italiane è il mondo del lavoro, in 27esimaora.corriere.it.

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Che i numeri di per se non garantiscano la parità si vede anche dall’analisi nel dettaglio della situazione politica: nel nostro Parlamento, per esempio, fino a qualche giorno fa vi erano più senatrici e deputate ma non si riscontrava un particolare aumento delle donne italiane a capo di un dicastero. Per questo motivo il nostro Paese si è posizionato, nella classifica di cui sopra, al 60esimo posto. Questo non costituiva un elemento positivo perché quando si parla di ministeri si fa riferimento ai luoghi in cui si decidono le priorità

del Paese56

. Con il Governo Renzi la situazione è mutata. Il premier, nella formazione del proprio Governo, ha rispettato pienamente la legge sulle quote rosa che prevede quote minime di presenza femminile all’interno degli organi politici istituzionali e non. Testimonianza di ciò è il fatto che dei sedici nuovi ministri del governo Renzi otto sono donne. Ma l’emergere della figura femminile nella vita politica italiana odierna è stato, però, oscurato dal recente voto contrario sulla parità di genere nella nuova legge elettorale. Il Premier si è detto sconcertato della cosa ma ha assicurato che nelle liste democratiche l’alternanza sarà assicurata.

In effetti, nell’ambito della politica il divario tra potere delle donne e potere degli uomini è immenso. Ma mentre i dati di comparazione a livello internazionale si soffermano sui governi a livello centrale non analizzando i governi locali, diversamente accade in Italia dove diverse indagini statistiche dimostrano che ad un comunque esistente gap di genere a livello nazionale o federale corrisponde una loro presenza più significativa a livello locale.

Qualcuno spiega così le ragioni di questo divario: <<le donne si sono affacciate più tardi degli uomini nell’ambito della politica, stanno facendo ancora la gavetta nelle amministrazioni locali, poi, eventualmente, approderanno in numeri maggiori a Parlamento e governo nazionale>>57

.

56. E. TEBANO, Gender Gap Report, cit.

57. A. CASARICO, P. PROFETA, Le donne nei Comuni un’opportunità non colta, in www.ilsole24ore.com.

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Se si effettua uno studio volto a dimostrare la provenienza della percentuale di donne che ricoprono cariche politiche a livello locale, si scopre che i differenziali geografici sono ancora molto forti. Per esempio, in riferimento al territorio, il maggior numero di elette si riscontra nelle regioni Settentrionali [22,7%]; seguono le regioni del Centro [19,7%] e del Mezzogiorno [17,7%]. Le regioni italiane che hanno espresso la maggiore quota di elette al Parlamento sono: l’Emilia-Romagna [29,7%], la Calabria, il Veneto ed il Trentino-Alto Adige58

. Invece, le regioni con la più bassa quota di parlamentari donne sono Friuli-Venezia Giulia [5%], Sicilia e Sardegna, che non raggiungono il 12%59

.

Per quanto concerne poi i ruoli di governo a livello locale nei Consigli regionali la quota di donne elette si attesta al 12,9%, con una maggiore presenza nel Centro [17,3%]. Le quote più elevate si registrano nel Consiglio provinciale di Bolzano [25,7%] e nei Consigli regionali della Campania [23,7%] e del Piemonte [23,3%], mentre non ci sono donne elette nel consiglio regionale della Calabria ed in quelli del Molise. In Basilicata e in Puglia le donne non raggiungono il 5% degli eletti60.

Ad ogni modo, come si legge all’interno del Rapporto Bes 2013 sul Benessere equo e sostenibile presentato l’11 marzo da Cnel e Istat: << il

problema della scarsa presenza femminile non riguarda, tuttavia, solo la politica. In generale, la presenza femminile nelle posizioni di vertice diminuisce al crescere dell'importanza e del peso politico dell’istituzione o dell'organizzazione di cui si tratta. In istituzioni come la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, le diverse Autority [Privacy, Comunicazioni, Concorrenza e mercato], il corpo diplomatico, la

58. Politica e istituzioni, in http://www.istat.it/it/files/2013/03/6_Politica-e-istituzioni.pdf 59. Politica e istituzioni, in http://www.istat.it/it/files/2013/03/6_Politica-e-istituzioni.pdf 60.

Politica e istituzioni, in http://www.istat.it/it/files/2013/03/6_Politica-e-istituzioni.pdf

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rappresentanza femminile è assai esigua. Nel complesso di queste istituzioni le donne presenti in posizioni apicali sono appena il 12%>>61

.

Stessa sorte tocca al mondo delle imprese dove le donne che occupano posizioni di rilievo sono in minoranza: ad agosto 2012 solo il 10,6% dei componenti dei consigli d’amministrazione delle società quotate in Borsa erano donne. Tale percentuale è destinata ad aumentare per effetto dell’approvazione della legge sulle citate “quote rosa”62

nei consigli di amministrazione, che obbliga le aziende a provvedere a un riequilibrio della rappresentanza ed obbliga le aziende ad avere organi sociali almeno un quinto del genere meno rappresentato. Descrive così la situazione Elena Tebano sul Corriere della Sera: <<Le consigliere erano il 7,4% (193) nel 2011 quando è stata approvata la norma firmata dalla presidente della Fondazione Bellisario Lella Golfo (Pdl) e da Alessia Mosca (Pd); sono diventate l’11,6% (288) quando la legge è diventata operativa il 12 agosto 2012; infine il 17,1% (413) a giugno scorso. Se si va più indietro, al 2008 (con il 5,9% e 173 consigliere), l’incremento è ancora più significativo. Ed i numeri sono destinati a crescere, perché l’anno prossimo sono in programma i rinnovi dei cda di grandi società come Eni, Enel e Terna>>63.

Ad ogni modo, in Italia la divisione dei ruoli di genere all’interno della coppia risente ancora dello stampo tradizionale: l’uomo continua in molti casi ad avere il ruolo di quello che nella terminologia moderna si chiama

61.

Donne generose, longeve, ma con tanti disagi in http://numerus.corriere.it/2013/04/05/donne-generose-longeve-ma-con-tanti-disagi/

62. Il 12 agosto 2011, con l’entrata in vigore della legge 120/2011 - approvata grazie all’impegno delle On.li Lella Golfo e Alessia Mosca - è stata stabilita una importante novità nell’ambito del diritto societario italiano: gli organi sociali delle società quotate in scadenza dal 12 agosto 2012 dovranno essere rinnovati riservando una quota pari ad almeno un quinto dei propri membri al genere meno rappresentato: le donne.

Donne che, a partire dal secondo e terzo rinnovo degli organi sociali, dovranno essere pari ad almeno a un terzo, per arrivare al 2022, data in cui si pone la seconda importante scadenza fissata dalla legge Golfo-Mosca: l’esaurimento della sua efficacia.

La legge ha, dunque, una validità temporale di soli dieci anni, entro i quali si auspica di raggiungere l’obiettivo di rimuovere gli ostacoli che sinora hanno limitato l’accesso delle donne a ruoli di comando, favorendo un processo di rinnovamento culturale a supporto di una maggiore meritocrazia e di opportunità di crescita.

63. E. TEBANO, La legge sulle quote rosa che ha fatto raddoppiare le donne ai vertici, in www.27esimaora.corriere.it

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“breadwinner” ovvero colui sul quale grava il peso economico della famiglia, mentre il lavoro domestico e di cura grava soprattutto sulle donne, indipendentemente dalla loro condizione occupazionale. In tal senso, secondo gli ultimi rilievi, due terzi delle coppie in cui la donna ha tra i 25 e i 54 anni il suo contributo economico è nullo o quanto meno inferiore al 40% del reddito della coppia64. In tutto ciò, considerando quante donne guadagnano all’interno della coppia, le donne che hanno una retribuzione più elevata sono una decisa minoranza: il 24,5% delle donne, infatti, percepisce un reddito compreso tra il 40 e il 59% di quello della coppia, il 6,2% un reddito compreso tra il 60 ed il 99% e solo nel 2,2% dei casi la donna è l’unica percettrice di reddito65

.

Ma qual è la posizione delle donne nella scienza e nella ricerca? Quante operano nei settori di Ricerca e sviluppo e quante riescono ad avanzare nella carriera accademica?

Osservando alcuni dati che emergono dall’Annuario Scienza e Società 2012, si legge che è in leggero aumento la presenza femminile tra i laureati e dottori di ricerca italiani nei settori tecnico-scientifici: in settori quali matematica ed informatica la percentuale di donne è passata dal 37% al 40%. Nell’area medico-farmaceutica sono donne due laureati/dottori di ricerca su tre. Nel complesso, in Italia, il 51,7% dei dottori di ricerca è donna, un dato superiore sia alla media Ue (44,2%), che alla media OCSE (43,2%). L’Italia si conferma però un Paese con poche ricercatrici donne: poco più di una ogni tre ricercatori (33%, in leggera crescita)66

.

In questo ambito, il dato fortunatamente vede l’Italia in linea con la situazione europea.

64. http://www.istat.it/it/files/2013/03/6_Politica-e-istituzioni.pdf

65. http://www.istat.it/it/files/2013/03/6_Politica-e-istituzioni.pdf 66. ANNUARIO SCIENZA E SOCIETÀ 2012, edizioni Il Mulino.

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4. Il confronto con i paesi europei ed il resto del mondo.

La parità dei sessi è un diritto fondamentale, un valore comune a tutta l’Unione ed altresì una condizione necessaria per il raggiungimento degli obiettivi di crescita, occupazione e coesione sociale dell’UE. Una delle principali sfide per quest’ultima consiste nel favorire una maggiore occupazione delle donne, migliorandone la situazione sul mercato del lavoro ed eliminando le disuguaglianze di genere.

Questo stesso obiettivo è stato condiviso anche dagli organi nazionali di paesi extraeuropei che, con il loro operato, hanno contribuito a ridurre, seppure minimamente, il gap di genere.

Infatti, che il divario tra uomini e donne nel mondo vada lentamente diminuendo è ormai una certezza: lo rivela il già citato rapporto annuale del World Economic Forum del 2013 che stila una classifica sulle disparità di genere e che elegge, per il quinto anno consecutivo, l’Islanda come il primo paese in cui il gap di genere è inesistente.

L’Italia, in questa classifica, si trova al 71° posto su 136 paesi considerati per studiarne la questione delle pari opportunità, in ambiti strategici che vanno dal mondo economico a quello politico, dall’istruzione alla salute, fino alla stessa sopravvivenza. Ebbene, in ben 86 nazioni il gap tra uomo e donna si è ridotto, soprattutto nel campo della partecipazione politica dove sono emersi i maggiori progressi. Questo, ad eccezione del Medio Oriente e del Nord Africa che non hanno registrato nessun miglioramento nel corso dell’anno passato.

Come già detto, ai primi posti della classifica si trovano l’Islanda, la Finlandia, la Norvegia, la Svezia, in fondo lo Yemen. Quello che sorprende è l’entrata in classifica delle Filippine distintesi nei campi della sanità, dell’istruzione e dell’economia e del Nicaragua che negli ultimi anni si è distinto per una serie di performance in termini di emancipazione politica.

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Non stupisce invece la supremazia in materia dei Paesi nordici che vantano una lunga tradizione ad investire nelle persone. Una possibile spiegazione avanzata da Yasmina Bekhousceè la seguente: <<Si tratta di

piccole economie con piccole popolazioni ma riconoscono che il talento conta e che questo è anche femminile>>67

.

Non è accaduta la stessa cosa negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita, dove sono stati fatti molti investimenti ma con poca integrazione delle donne in campo economico68

.

Dei paesi del G20, invece, il più virtuoso è la Germania che comunque rimane al 14mo posto mentre il Regno Unito rimane a quota 18, il Canada detiene la 20ma posizione, gli Stati Uniti la 23ma, la Russia la 61ma, la Cina la 69ma e l’India la 101ma69

.

In generale rimane ancora forte la distanza salariale tra i generi, con l’Italia che sale solo di due posizioni e raggiunge appena il 124° posto. Va decisamente meglio in materia di salute, di sopravvivenza e di istruzione. <<Le donne costituiscono la metà del capitale umano disponibile di qualsiasi economia ed azienda, se i loro talenti non sono integrati non potrà che esserci una perdita sia per le donne che per gli uomini>>70

.

La classifica di cui si parla è stata stilata tenendo in considerazione dati relativi a quattro aree di interesse:

1. salute; 2. istruzione; 3. economia;

4. partecipazione politica.

Questa, in sintesi, la situazione dell’Italia:

67. http://www.manuelaghizzoni.it/2013/10/26/sorpresa-il-gap-di-genere-si-riduce-anche-in-italia-di-sonia-renzini/ 68. www.cercavita.it 69. Ibidem 70. http://www.manuelaghizzoni.it, cit. 28

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Leggendo il Report si evince che sono stati registrati alcuni miglioramenti in 86 paesi su 133. Oltre ai primi posti tutti aggiudicati dai paesi scandinavi, la quinta posizione spetta alle Filippine, il paese non europeo con la situazione migliore71.

Per quanto concerne gli altri paesi fanno meglio di noi:

Nelle pari opportunità di lavoro: Nicaragua, Ecuador, Senegal,

71.

http://www.manuelaghizzoni.it/2013/10/26/sorpresa-il-gap-di-genere-si-riduce-anche-in-italia-di-sonia-renzini/

Istruzione secondaria e terziaria 65a posizione

Political empowerment 44 a posizione

Partecipazione al mercato del lavoro 89a posizione Partecipazione e opportunità economiche 97a posizione Parità di retribuzione 124a posizione 29

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Belize, Azerbaijan, Tanzania, Bolivia, Botswana, Kenya, Ghana, Barbados. Burundi e Malawi sono al 3° e 4° posto, fanno meglio di loro solo la Norvegia (1° posto) e Mongolia (2° posto).

• Nel livello d’istruzione, dove l’Italia è al 65° posto, Islanda, Finlandia, Norvegia, Lettonia, Filippine, Nuova Zelanda, Danimarca, Stati Uniti, Australia, sono in cima alla classifica. • Nelle condizioni di vita (salute e sopravvivenza) le donne che

stanno bene o male come gli uomini sono le finlandesi, le filippine e le lettoni, invece le italiane sono al 72° posto.

• Nell’ambito del potere politico, i paesi dove ci sono più donne ai vertici della politica, rispetto alla popolazione, sono l’Islanda, la Finlandia, la Norvegia, la Svezia ed il Nicaragua; l’Italia ha guadagnato alcune posizioni rispetto al 2012, grazie all’aumento di donne parlamentari. E’ al miglioramento in quest’area che si deve il recupero di posizioni dell’Italia, dall’80° al 71° posto nella classifica generale delle diseguaglianze di genere.

5. Le ragioni del ritardo nell’aggiustamento delle disparità.

La crescente femminilizzazione del mercato del lavoro non ha ancora ridisegnato fino in fondo lo scenario lavorativo italiano. L’Italia continua a registrare, infatti, non solo tassi di occupazione tra i più bassi d’Europa, ma anche valori molto bassi proprio tra i tassi di partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Questo dato, di per sé già allarmante, è aggravato dalla circostanza della molteplicità di situazioni territoriali che il dato medio nazionale rischia di occultare: se a nord i tassi di cui si è detto sono ancora al di sotto, ma quanto meno vicini alle medie europee ed agli obiettivi dell’agenda di Lisbona, al Sud i numeri sono veramente allarmanti. Le donne del meridione

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d’Italia vivono ancora una profonda debolezza sia in termini assoluti, sia anche in termini relativi nel loro rapporto con il lavoro.

Ci si chiede il perché di questo ritardo delle donne nelle vita politica e lavorativa.

Le motivazioni sottese a questo complesso fenomeno si intersecano All’interno di dinamiche di circolarità causale e di effetti di influenza ed interferenza reciproca, ma in funzione analitica si cercherà in questa sede di analizzarle separatamente72

.

Una prima spiegazione può essere data dal fatto che è estremamente difficile conciliare vita privata e lavoro soprattutto per donne sposate con prole da seguire.

Tra le cause dei persistenti divari vengono individuati sia fattori di offerta che fattori di domanda da parte del mercato del lavoro. Tra i primi rilevano la scarsità di strumenti di conciliazione e l’organizzazione del lavoro, ancora poco flessibile; per alcuni aspetti, anche l’istruzione. Tra i secondi rilevano le componenti culturali e fenomeni di discriminazione “implicita”, per cui vengono premiate sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini, sebbene non rilevanti per il lavoro svolto73

. Sulle donne aleggia sempre il fantasma della maternità, vissuta o anche solo progettata, che rende la lavoratrice, agli occhi del suo datore di lavoro, una risorsa dimezzata e quindi troppo costosa74

.

Quali sono, in genere, i possibili effetti “negativi” di un maggiore accesso femminile al mercato del lavoro? Sicuramente, tra i tanti figurano quelli relativi all’educazione dei figli. In generale, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è collegata in maniera duplice con gli investimenti familiari nel capitale umano dei figli: da un lato l’aumento del reddito familiare riduce il rischio di povertà e rende disponibili maggiori risorse

72. L. CARRERA, Donne e lavoro, in AA.VV, Lavoratori e mondi del lavoro in Puglia, Franco Angeli, 2009

73. A. CASARICO, P. PROFETA, Donne in attesa, cit. 74.L. CARRERA, Donne e lavoro, cit.

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utilizzabili per l’istruzione e la cura dei figli; dall’altro, vi è una modifica dell’allocazione del tempo di entrambi i genitori (tra tempo libero, tempo speso nei lavori domestici, tempo passato coi figli)75.

In effetti il lavoro riduce il tempo trascorso dalle madri con i figli, ma in maniera contenuta in quanto, secondo recenti studi, le madri lavoratrici comprimono il loro tempo libero e quello impiegato in attività domestiche, preservando tuttavia quello “di qualità”, ossia quello riferito alle attività e al gioco; allo stesso tempo, quando le madri lavorano aumenta il tempo che i padri dedicano ai figli. Il lavoro delle madri, quindi, sembra favorire una maggiore condivisione nell’accudire i figli76

.

Inoltre, le mamme fanno fatica a conciliare carichi familiari e lavoro sul mercato.

Se si osserva la situazione delle mamme si scopre che esse lavorano meno delle altre donne come dimostrano i dati dell’ISFOL77:

• Tassi di occupazione donne 25-64 anni:  senza figli 63,9%

 1 figlio 59%  2 figli 54,1%  3 o più figli 41,3% • Fanno meno carriera:

 Solo l’8% delle impiegate mamme è dirigente o simili

 Il 15,1% delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la maternità. In parte anche negli altri Paesi. Ma in Italia il tasso di occupazione delle madri non aumenta all’aumentare dell’età del bambino.

75. M. BIANCO, F. LOTTI, R. ZIZZA, Questioni di Economia e Finanza Le donne e l'economia italiana, Banca d’Italia, Servizio Studi di struttura economica e finanziaria, Numero 171 – Giugno 2013

76. A.L. MANCINI, S. PASQUA, Asymnetries and interdespendencies in time use between Italian parentes, Zentrum für Europaische Wirtschaptsforschung, DP, n. 11-005, 2011.

77. Il mercato del lavoro e politiche di genere 2012, in www.isfol.it

32

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Una tra le problematiche che affligge il nostro Paese e che comunque acuisce il gap di genere è sicuramente l’elemento culturale.

In Italia resta ancora molto forte la divisione dei ruoli all’interno della famiglia così come resiste ancora la cultura del lavoratore uomo più adatto per certe mansioni rispetto alla donna. Ma, più di ogni altra cosa, è una costante italiana il ritenere che il distacco dall’alveo familiare costituisca un danno per i figli, soprattutto per coloro i quali ritengono che gli uomini ed in questo caso i padri, siano meno adatti delle mamme alla cura dei propri figli.

Il grafico seguente illustra le differenze che in questo ambito distinguono l’Italia dagli altri paesi.

Fotografia delle problematiche culturali afferenti alle madri che lavorano: comparazione tra l’Italia e l’Europa

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CAPITOLO II

PARITÁ TRA UOMINI E DONNE: UN OBIETTIVO

PRIORITARIO MEDIANTE LO STRUMENTO DELLA

CONCILIAZIONE

"… Gli economisti si concentrano sui settori cosiddetti produttivi e non tengono conto dell'opera svolta dalle donne nei lavori di cura. Bisogna cambiare i criteri per misurare la ricchezza prodotta da un Paese …". Tratto da un’intervista a Martha Nussbaum,

docente di Diritto ed Etica all’Università di Chicago.

1. L’importanza della riduzione dei differenziali.

È estremamente difficile identificare le ragioni che impediscono una completa eliminazione del gap di genere e soprattutto contribuiscono a spiegare il cattivo posizionamento dell’Italia nelle classifiche fra paesi sulla parità fra uomo e donna.

Le difficoltà più gravi si riscontrano nell’ambito del lavoro dove le problematiche che le donne incontrano si traducono in un differenziale salariale (per unità di lavoro) e in un minor livello di reddito da lavoro (nell’anno, ma anche nella vita lavorativa). Ciò implica una ridotta (o mancata) autonomia economica dalla famiglia (quindi dall’uomo) e un più elevato rischio di povertà nella vecchiaia.

Come si è visto in precedenza, i fattori in gioco sono molteplici: gli stereotipi nel sistema d’istruzione, il sistema di norme e valori che porta

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principalmente le donne a fari carico del lavoro domestico e di cura, la discriminazione nel mercato del lavoro, la segregazione occupazionale e/o settoriale che implica un' elevata concentrazione delle donne nelle occupazioni e/o settori caratterizzati da bassi livelli retributivi, il fenomeno del soffitto di cristallo (“glass ceiling”), un tetto apparentemente invisibile che limita fortemente la presenza delle donne nelle posizioni apicali, l’elevata diffusione dei lavori atipici tra le donne e gli elevati rischi di precarietà78

.

Anche ridurre il gender pay gap (differenziale retributivo di genere)

deve rimanere una priorità. Questo richiede di intervenire su tutti fronti, con il coinvolgimento di tutte le parti coinvolte, mettendo in atto una molteplicità di strumenti.

Probabilmente il diritto, nonostante i miglioramenti apportati dal nostro ordinamento, può ancora intervenire. Forse, secondo la dottrina, quello che ancora manca e che appare fondamentale alla luce del problema di effettività delle regole che caratterizza il diritto italiano delle pari opportunità, è l’adozione di uno strumentario volto ad accrescere, attraverso programmi e politiche ad ampio raggio, un’effettiva uguaglianza di genere79.

2. Una buona soluzione: la conciliazione famiglia-lavoro.

La problematica del gap di genere emerge vivamente in ambito lavorativo dove nel corso degli anni, per fronteggiare il problema, è stato messo a punto uno strumento importantissimo: la “conciliazione”.

È questo un argomento estremamente delicato costretto ad evolversi col tempo e ad adattarsi ai diversi contesti e mutamenti che hanno interessato la società, la famiglia mondo del lavoro. L'evoluzione l'ha portato ad essere 78. Il tetto di cristallo, la presenza delle donne nel lavoro tra desideri di realizzazione e ostacoli all’affermazione di sé, in www.coralivorno.org.

79. M. MARCUCCI, M. I. VANGELISTI, L’evoluzione della normativa di genere in Italia e in Europa, in Questioni di economia e finanza, n. 188, giugno, 2013

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odiernamente considerato dalla legislazione italiana, non un diritto oneroso ma bensì un “octroyé”, ovvero un diritto concesso “graziosamente”80.

Effettivamente il dilemma conciliazione vita/lavoro mette tutti di fronte ad una questione che impone un cambio di mentalità e l’affermazione di una nuova cultura sociale e del lavoro che tende a conferire finalmente il giusto riconoscimento alla questione.

È estremamente necessario creare un nuovo rapporto tra famiglia e lavoro che deve essere considerato, molto di più rispetto a ciò che avviene adesso, perché è una questione cruciale da cui dipende il futuro dello sviluppo sociale ed economico del nostro paese.

Da quanto espresso deriva che la conciliazione famiglia-lavoro va considerata alla stessa stregua di un normale diritto del lavoratore così come il diritto alla formazione, alla partecipazione sindacale, alla pensione ed alla sicurezza sui luoghi di lavoro. La tematica, dunque, è d’importanza fondamentale e chiede a tutti gli attori sociali, politici ed economici una capacità di innovazione sociale ed organizzativa.

Un ruolo non secondario nel contesto in oggetto spetta sicuramente alle imprese chiamate a sperimentare un’organizzazione dei tempi di lavoro più flessibile attraverso una loro riduzione o rimodulazione ed ad offrire al loro interno servizi per la prima infanzia.

Nasce da qui il discorso delle politiche per la conciliazione, le quali hanno il preciso obiettivo di fornire strumenti che rendendo compatibili sfera lavorativa e sfera familiare, consentano a ciascun individuo di vivere al meglio i molteplici ruoli che gioca all'interno di società complesse81

. Esse interessano gli uomini, le donne e le organizzazioni, toccandone la sfera privata ma anche quella pubblica, politica e sociale. Hanno inoltre un impatto evidente sul riequilibrio dei carichi di cura all'interno della coppia, sull'organizzazione del

80. L. REBUZZINI (a cura di), Le nuove frontiere della Conciliazione famiglia-lavoro, in www.circologiorgiolapira.it.

81. L. REBUZZINI (a cura di), Le nuove frontiere, cit.

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lavoro e dei tempi delle città nonché sul coordinamento dei servizi di interesse pubblico.

La realizzazione di tali politiche risulta, perciò, prioritaria per la qualità della vita delle famiglie, tantoché sia a livello nazionale che europeo, sono state avviate molteplici iniziative, orientate a favorire il radicamento e lo scambio delle migliori esperienze, nonché la sperimentazione di nuovi modelli di organizzazione del lavoro82

.

Per definire meglio i termini della questione e con l’intento di proporre un’argomentazione esaustiva sotto vari aspetti, sarà bene iniziare con l’analisi etimologico della parola “conciliazione”.

Il termine deriva dal sostantivo “concilium”, composto dai lemmi “cum” “calare”, ovvero chiamare insieme. Dunque, seguendo il suo significato originale, con la pronuncia di questo termine si voleva intendere il voler mettere insieme parti diverse, trovare un accordo tra parti opposte. Attualmente lo si usa invece, nel caso particolare della famiglia e del lavoro, alla ricerca dell’equilibrio tra i tempi familiari e lavorativi83

che solo un’impresa che operi all’insegna della flessibilità può assicurare. Ecco, dunque, un altro termine del quale necessita fare l’etimologia: “flessibilità”. Esso deriva dal sostantivo “flexibilitas” e dal verbo latino “flectere”, che significa letteralmente “piegare caratterizzando delle cose”, inteso, nella sua accezione legata al lavoro, come il rendere variabili le caratteristiche del lavoro (luoghi, orari, modi di lavoro)84

.

La flessibilità, quindi, rappresenta uno dei principali strumenti a favore della conciliazione, poiché intesa come ricerca di formule flessibili per gestire al meglio i tempi di vita e di lavoro. La conciliazione tra lavoro e famiglia è invece, spesso raffigurata come strumento utile per armonizzare la crescente

82. J. EVANS, “ ‘Firms’ contribution to the reconciliation between work and family life”, in OECD

Labour Market and Social Policy Occasional Papers, 2001. (48)

83. Quaderno di lavoro, La Conciliazione lavoro-famiglia, in Italia e in Europa, 2008. 84. Quaderno di lavoro, La Conciliazione lavoro-famiglia,, cit.

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