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La gestione dei rifiuti tra profili amministrativi e sanzionatori

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

La gestione dei rifiuti tra profili amministrativi e sanzionatori

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Michela Passalacqua Candidato:

Nicholas Orlandi

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INDICE

INTRODUZIONE...pag. V

CAPITOLO I

LA DISCIPLINA ITALIANA DEI RIFIUTI

1. Le finalità, i principi e i criteri di priorità alla base della disciplina sui rifiuti...pag. 1 1.1. Le finalità della disciplina sui rifiuti...pag. 1 1.2. I Principi fondamentali in tema di rifiuti...pag. 3 1.3. I criteri di priorità nella gestione dei rifiuti, dalla prevenzione allo smaltimento...pag. 6 2. Il campo di applicazione delle norme in materia...pag. 12 2.1. La nozione di rifiuto...pag. 13 2.1.1. L’evoluzione della nozione di rifiuto in Italia, dal T.U. sulle

Leggi sanitarie R.D. n. 1265/1934 al D.Lgs. n. 205/2010...pag. 13

2.1.2. La nuova nozione alla luce del D.Lgs. n. 205/2010, in

attuazione della Direttiva comunitaria

2008/98/CE...pag. 20 2.2. Il sottoprodotto...pag. 23 2.3. La cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste)...pag. 29

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2.4. Le ipotesi di esclusione dalla disciplina generale in materia e le particolari categorie di rifiuto...pag. 34

3. La classificazione dei rifiuti...pag. 37 4. Le responsabilità della gestione...pag. 41 5. Il sistema di controllo sulla tracciabilità dei rifiuti (SISTRI): cenni...pag. 44

CAPITOLO II

LA GESTIONE DEL SETTORE DEI RIFIUTI

1. Le competenze in materia di gestione dei rifiuti...pag. 46 1.1. Il ruolo dello Stato...pag. 49 1.2. Le funzioni attribuite alle Regioni...pag. 51 1.3. Le competenze degli enti locali: Province e Comuni...pag. 53 2. La gestione integrata dei rifiuti...pag. 56 2.1. L’evoluzione legislativa della gestione integrata dei rifiuti urbani...pag. 58 2.2. Il ruolo degli ATO nell’organizzazione del servizio...pag. 63 2.3. Le modalità di affidamento del servizio di gestione integrata...pag. 67 2.4. Il possibile ricorso alla società “in house”, come strumento di gestione ordinario...pag. 72 2.5. La società mista nel settore dei rifiuti...pag. 78

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2.6. La gara con procedura ad evidenza pubblica, per la scelta del terzo affidatario del servizio...pag. 81 2.7. La durata degli affidamenti...pag. 88 2.8. Alcune ulteriori considerazioni sulle modalità di affidamento del servizio di gestione integrata...pag. 90 2.8.1. Uno strumento per evitare le distorsioni legate al ricorso all’in house: il benchmarking...pag. 92

CAPITOLO III

IL SISTEMA SANZIONATORIO

1. Per un primo quadro del sistema sanzionatorio: profili introduttivi...pag. 95 2. L’abbandono di rifiuti...pag. 96 3. L’attività di gestione dei rifiuti non autorizzata...pag. 101 3.1. Gestione di discarica di rifiuti non autorizzata...pag. 104 4. La combustione illecita di rifiuti...pag. 108 5. La bonifica dei siti inquinati...pag. 110 6. Violazione degli obblighi informativi e di comunicazione, e il sistema informatico di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI)...pag. 112 7. Il traffico illecito di rifiuti...pag. 118 7.1. L’attività organizzata per il traffico illecito di rifiuti...pag. 124 7.2 La situazione in Italia...pag. 132

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8. Le competenze nell’irrogazione delle sanzioni e i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie...pag. 137

CONCLUSIONI...pag. 139 BIBLIOGRAFIA...pag. 144

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro si prefigge di analizzare la disciplina italiana in materia di rifiuti, evidenziandone le varie criticità ed esaminando le novità introdotte alla luce dei vari interventi legislativi intervenuti negli ultimi anni, ed in particolare con il D.Lgs. 205/2010, che ha cercato di adeguare l’ordinamento italiano alle previsioni della Direttiva comunitaria 2008/98/CE.

L’aumento costante della produzione di rifiuti, fenomeno tipico delle società industrializzate, ha portato l’Unione Europea (e di conseguenza l’Italia) ad adottare una serie di misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, nel tentativo di prevenire e ridurre gli impatti negativi derivanti dalla produzione e dalla gestione dei rifiuti. In quest’ottica, sono state pubblicate da ultimo in Gazzetta Ufficiale U.E., il 14 giugno 2018, quattro Direttive (le n. 849, 850, 851, 852/2018), con l’obiettivo di favorire una forma di gestione della filiera dei rifiuti “circolare”, volta cioè a garantire la riduzione al minimo degli scarti non recuperabili e favorendo, invece, il recupero dei materiali prodotti dai rifiuti e la loro immissione nelle filiere industriali.

A livello nazionale, il passaggio dal concetto di “smaltimento dei rifiuti” (come momento centrale dell’intera gestione) a quello di “gestione unitaria dei rifiuti urbani” si è avuto con il c.d. Decreto Ronchi (D. Lgs. 22/1997), con il quale, per la prima volta nel panorama normativo italiano, si è cominciato a parlare appunto di “gestione dei rifiuti” quale attività comprendente tutti i procedimenti le attività che sono legati alla prevenzione, riduzione, riciclaggio

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e recupero dei rifiuti, superando l’idea della messa in discarica come unica modalità di trattamento.

Si è aperta in questo modo la strada all’idea di una “gestione integrata” dei rifiuti, ovvero, la concezione in base alla quale, l’insieme delle suddette attività fosse organizzato sulla base di Ambiti Territoriali Ottimali, e affidato a soggetti individuati mediante gara con procedura ad evidenza pubblica o a società miste o interamente pubbliche controllate dall’Ente territoriale (cioè in-house). La gestione integrata costituisce, quindi, un approccio strategico che fa parte di un percorso di sostenibilità ambientale, economica e sociale, che si pone l’obiettivo di realizzare l’economia circolare. E per far ciò, prevede un ordine gerarchico nella gestione dei rifiuti che vede al primo posto la prevenzione, seguita poi dalla preparazione per il riutilizzo dal riciclaggio, dal recupero di altro tipo e che relega lo smaltimento quale ultima e residuale ipotesi, alla fine della “catena” delle priorità.

Nel primo capitolo viene, dunque, trattata la disciplina italiana in materia di rifiuti, analizzando in primo luogo le finalità e i principi che ne stanno alla base, i quali prevedono una serie di misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana, a conferma del fatto di come, sia proprio la tutela di questi aspetti, la base sulla quale è stata elaborata l’intera disciplina. Dall’analisi di questi aspetti emerge, quindi, la necessità di dare una definizione il più possibile chiara di “rifiuto”, la quale è stata oggetto nel corso degli anni di vari interventi, che ne hanno reso, spesso, il perimetro sfumato

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ed il significato incerto, in modo tale da ricomprendervi tutto ciò che, se posto al di fuori, potrebbe compromettere il raggiungimento della tutela dell’ambiente e della salute umana. Questo è stato possibile analizzando l’escursus storico che ha portato alla nozione attuale di rifiuto; attraverso l’analisi della nozione di sottoprodotto e di ciò che, a certe condizioni, cessa di essere rifiuto (end of waste), nonché l’indicazione positiva di tutte le fattispecie a cui la disciplina del D. Lgs. 152/2006, parte IV, non si applica, secondo quanto previsto dell’art. 185 del decreto citato.

Dopo aver analizzato gli aspetti più rilevanti relativi alla disciplina italiana in materia, risolvendo le varie problematiche relative all’individuazione di un campo di applicazione chiaro delle norme, nel secondo capitolo l’attenzione si sposta sulle problematiche relative alla gestione di questo settore, che vede un quadro di competenze complesso e articolato, in quanto tale è la gestione della filiera dei rifiuti.

Saranno, quindi, analizzate le competenze attribuite a Stato, Regioni, Province e Comuni, analizzando, le varie problematiche sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza e cercando di analizzare quelle che sono le principali funzioni che sono chiamati a svolgere.

Segue, poi, un’analisi dell’evoluzione legislativa del modello di gestione integrata dei rifiuti, del ruolo ricoperto dagli Ambiti territoriali ottimali nell’organizzazione del servizio e delle modalità di affidamento del servizio, evidenziando le novità e le problematiche seguite all’abrogazione dell’art.

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23-bis del D.L. 112/2008, il quale si occupava di disciplinare la materia dell’affidamento dei servizi pubblici locali di interesse economico generale.

Nel terzo capitolo viene analizzato il sistema sanzionatorio, al quale viene dedicato il capo I, del titolo V, del D.Lgs. 152/2006 che comprende gli articoli dal 254 al 263; ed in particolare le varie fattispecie ponendo soprattutto l’attenzione all’applicazione che delle stesse è stata fatta, specie, dalla Corte di Cassazione.

Tema centrale sarà quello del traffico illecito di rifiuti, ed in particolare all’attività organizzata per lo stesso, la cui norma di riferimento (art. 260 del D.Lgs. 152/2006) è stata recentemente abrogata, ad opera dell’art. 3 del D. Lgs. 21/2018, e traferita all’art. 452-quaterdecied del Codice penale (R.D. 1398/1930) determinandone, così, la fuoriuscita dal T.U. dell’Ambiente. Sempre con riguardo a questo ultimo aspetto, sarà analizzata poi la situazione in Italia, sia dal punto di visto motivazionale, ovvero ciò che spinge operatori del settore e clan malavitosi a ricorrere ad attività illecite, sia dal punto di vista delle modalità pratiche mediante le quali tali attività illecite vengono messe in atto.

Per concludere verranno esaminate la disciplina relativa alla competenza nell’irrogazione delle varie sanzioni e i proventi delle sanzioni amministrative pecuniarie.

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CAPITOLO I

LA DISCIPLINA ITALIANA DEI RIFIUTI

1. Le finalità, i principi e i criteri di priorità alla base della disciplina sui rifiuti

1.1. Le finalità della disciplina sui rifiuti

La parte quarta del T.U. ambiente1, recante “norme in materia di gestione

dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati’’, si apre con l’art. 1772 il quale, in

attuazione della normativa comunitaria, ed in particolare della Direttiva 2008/98/CE3 , ha previsto una serie di misure volte a proteggere l’ambiente

e la salute umana, prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti. Per quanto riguarda le finalità della disciplina, quindi, la gestione dei rifiuti è qualificata come attività di pubblico interesse e deve avvenire in modo da non costituire un pericolo per la salute umana e per l’ambiente, parimenti, questa non deve essere fonte di rischio per l’acqua, l’aria, il suolo, la fauna e la flora; non deve causare inconvenienti

1 D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale. (GU n. 88 del 14-4-2006 - Suppl.

Ordinario n. 96).

2 “Campo di applicazione e finalità”, articolo così sostituito dal comma 1, dell’art. 1, D.Lgs. 3 dicembre

2010, n. 205.

3 La Direttiva 2008/98/CE sui rifiuti (GU L 312 del 22.11.2008), ha sostituito le Direttive

2006/12/CE rifiuti (GU L 114/9 del 27.4.2006), 91/689/CEE rifiuti pericolosi (GU L 377 del 31.12.1991), 75/439/CEE eliminazione degli oli usati (GU L 194 del 25.1.1975) ed è stata recepita con il D. Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.

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per immissioni di odori o rumori, né deve arrecare danni al paesaggio, salvaguardando le zone di particolare pregio ambientale4. Quindi,

analizzando la portata di tale previsione, si comprende come la disciplina dei rifiuti debba essere orientata alla massima garanzia della tutela dell’ambiente e della salute; da cui discende la necessità di ricomprendere nella nozione stessa di “rifiuto’’ tutto ciò che, se posto al di fuori di essa, potrebbe compromettere tale garanzia5.

Occorre a questo punto sottolineare che il fondamento costituzionale della tutela dell’ambiente, nella quale vanno ricomprese le norme sulla disciplina dei rifiuti, si rinviene negli art. 9, 32 e 117, co. 2, lett. s) e co. 3) della Costituzione6.

L art. 9 della Costituzione tutela espressamente il paesaggio, da intendersi non solo dal punto di vista estetico (conservazione delle bellezze naturali), ma anche rispetto ai profili attinenti all’ambiente nella sua complessità7.

Per quanto riguarda l’art. 32 Cost., invece, questo concerne la tutela della salute come diritto fondamentale e inviolabile dell’individuo e della

4 Tale finalità trova conferma all’ art.1 della Direttiva 2008/98/CE “Oggetto e ambito di applicazione -

La presente direttiva stabilisce misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, riducendo gli impatti complessivi dell’uso delle risorse e migliorandone l’efficacia.”

5 A. Fari, Nozione di rifiuto e di sottoprodotto, in F. Giampietro (a cura di), La nuova disciplina dei rifiuti,

Milano, Kluwer, 2011, p. 36.

6 E. Pulcini, I principi in materia di gestione e i criteri di priorità nel trattamento dei rifiuti: recupero, riciclaggio e

smaltimento, in V. Cerulli Irelli, G. Clemente di San Luca (a cura di), La disciplina giuridica dei rifiuti in Italia, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, p.23 ss.

7 C. Cost. 27 Luglio 200 n. 378 secondo cui “tutela dell’ambiente e del paesaggio sono espressione di un principio

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collettività, il quale presenta uno strettissimo collegamento con la problematica della salubrità dell’ambiente e quindi della disciplina dei rifiuti8.

Infine, l’art 117, co. 2, lett. s) attribuisce alla potestà legislativa esclusiva statale la materia della “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema”; e il successivo co. 3 conferisce alla legislazione concorrente sia la tutela della salute, sia la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali.

1.2. I Principi fondamentali in tema di rifiuti

Proseguendo l’analisi delle disposizioni del T.U. Ambiente per ciò che concerne i principi della normativa sui rifiuti, l’art. 1789 stabilisce che la

gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di sostenibilità, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nonché del principio “chi inquina paga”. Principi che trovano conferma a livello europeo10 ai sensi dell’art. 191, par. 2, Tfue (Trattato sul funzionamento

dell’Unione europea) secondo cui “La politica dell’Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle varie regioni dell’Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, sul

8 E. Pulcini, I principi in materia di gestione e i criteri di priorità nel trattamento dei rifiuti: recupero, riciclaggio e

smaltimento, op. cit., p. 24.

9 “Principi” articolo così sostituito dal comma 1, dell’art. 2, Decreto legislativo 3 dicembre 2010, n.

205.

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principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio “chi inquina paga’”.

Il principio di precauzione11 sta a significare che, a fronte di situazioni

di rischio, anche se non accertare, l’amministrazione può adottare provvedimenti di cautela fino a che la situazione non risulti chiarita dal punto di vista della sussistenza dei rischi. Si applica quindi ai casi di incertezza scientifica circa l’esistenza di un rischio per la salute (umana, animale, vegetale), e rappresenta uno strumento cognitivo ed operativo della prevenzione del danno ambientale, che è la finalità principale verso cui devono tendere le politiche pubbliche in campo ambientale12.

Per quanto riguarda invece il principio di prevenzione13, questo può

essere considerato come il fine cui tendere attraverso l’applicazione di politiche precauzionali, il che impone al legislatore di valutare in via preventiva le conseguenze negative che possono derivare per l’ambiente da parte delle attività umane alla luce delle conoscenze scientifiche e tecniche. Tale principio costituisce quindi il fine del principio di precauzione14, in

quanto richiede di agire anche in mancanza di una sicura prova scientifica

11 Per approfondimenti sul principio di precauzione, si rinvia a A. Bianchi, M. Gestri (a cura di) “Il

principio precauzionale nel diritto internazionale e comunitario”, Milano, Giuffrè, 2006, p. 468.

12 E. Pulcini, I principi in materia di gestione e i criteri di priorità nel trattamento dei rifiuti: recupero, riciclaggio e

smaltimento, op. cit., p. 28.

13 F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Rivista Quadrimestrale

di Diritto dell'Ambiente, 2011, 2, p. 14 ss.

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circa gli effetti di un’attività, in presenza della minaccia di un danno all’ambiente.

Gli altri principi richiamati come detto sono: il principio di sostenibilità, la cui definizione si fa risalire al rapporto ‘‘Our Common Future’’ approvato dall’assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1987, laddove lo sviluppo sostenibile viene definito come ‘‘lo sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare le loro esigenze’’, benché sia solo con il Trattato europeo di Lisbona del 13 Dicembre 2007, che tale principio assurge al rango di diritto primario, tanto che l’Unione europea lo inserisce nell’art. 11 (TFUE), a norma del quale: ‘‘le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile’’ ; il principio di proporzionalità, in base al quale nell’azione amministrativa si impone all’amministrazione di preferire di adottare la misura che consenta di raggiungere l’obiettivo voluto con il minor sacrificio possibile dell’interesse privato; il principio di responsabilizzazione e cooperazione dei soggetti coinvolti che concorrono all’attività di gestione dei rifiuti, cui è correlato anche un obbligo di reciproco controllo al fine di impedire la frammentazione del ciclo del rifiuto.

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Il principio secondo il quale “chi inquina paga”15, invece, è basato sulla

logica dell’imputazione soggettiva della responsabilità per i danni causati da eventi e/o comportamenti inquinanti, tanto da giustificare l’applicazione di sanzioni ai produttori, al fine di sollecitarli a ridurre l’inquinamento16. La

Corte di Giustizia dell’Unione europea lo ha così considerato come un’espressione del principio di proporzionalità in base al quale non sarebbe opportuno addossare i costi per lo smaltimento dei rifiuti a qualcuno che non li ha prodotti17.

Sempre l’art. 178 stabilisce infine che la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità, tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali.

1.3. I criteri di priorità nella gestione dei rifiuti, dalla prevenzione allo smaltimento

L’art. 179 del Testo Unico stabilisce che la gestione dei rifiuti deve avvenire in modo tale da favorire la riduzione della produzione e della

15 Si v. in questo senso, Tar Liguria, Sez. I, 10 febbraio 2004 n. 41, “secondo il principio di derivazione

comunitaria riassunto nella locuzione “chi inquina paga” il responsabile dell’inquinamento è tenuto a procedere a proprie spese agli interventi di messa in sicurezza, bonifica e rispristino ambientale delle aree inquinate; e in materia di danno ambientale i costi sostenuti per riparare o rimborsare tale danno sono a carico di coloro che lo causano”.

16 M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, Torino, Giappichelli, 2007, pp. 250 ss. 17 C. Vivani (a cura di), Il principio ''chi inquina paga'' e gli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica dei siti

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pericolosità dei rifiuti, incentivando le pratiche di riciclaggio e di recupero, al fine di ottenere prodotti, materie prime o altre fonti di energia.

La gestione dei rifiuti deve quindi seguire una gerarchia di obiettivi da raggiungere che vede al primo posto la prevenzione, seguita poi dalla preparazione per il riutilizzo; il riciclaggio; il recupero di altro tipo (per esempio il recupero di energia); e lo smaltimento18. Tale sistema di priorità,

introdotto con il D.Lgs. 205/2010, ha posto fine a un dibattito sorto in dottrina e giurisprudenza sulla tassatività delle modalità di gestione dei rifiuti prediligendo la scelta che individua una precisa scala gerarchica che, tuttavia, non può non tener conto del raggiungimento di migliori risultati complessivi dal punto di vista sanitario, economico-sociale, ambientale19. In ogni caso,

però, la pubblica amministrazione può discostarsene individuando singoli flussi di rifiuti, sottoposti a specifici processi di trattamento, dove ciò sia giustificato in relazione agli impatti complessivi della loro produzione e gestione. Infatti, riguardo ai singoli flussi di rifiuti è lasciata al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro della salute, la facoltà di individuare le opzioni capaci di garantire il risultato migliore in termini di protezione della salute umana e dell’ambiente.

18 P. Russo, Il nuovo pacchetto sull’economia circolare, in Economia pubblica, 2016, 2, p. 169 ss. 19 O. Busi, Codice dei rifiuti commentato, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2017, p. 31 ss.

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Per favorire il rispetto di questa scala gerarchica le amministrazioni pubbliche attivano poi una serie di iniziative20 con lo scopo di promuovere

lo sviluppo di tecnologie pulite; promuovere la messa a punto e l’immissione sul mercato di prodotti concepiti per ridurre la quantità di rifiuti e l’inquinamento; promuovere lo sviluppo di tecniche per l’eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti; favorire il mercato dei materiali recuperati dai rifiuti e l’impiego dei rifiuti per la produzione di energia.

Come abbiamo detto, il primo obiettivo da perseguire è quello della prevenzione; la Direttiva 2008/98/CE prevede l’obbligo per gli Stati membri di predisporre programmi di prevenzione dei rifiuti tesi a ridurre gli impatti ambientali tenendo conto del ciclo di vita dei prodotti, e fissa altresì per gli stessi obiettivi da raggiungere in tema di trattamento dei rifiuti.

La prevenzione consiste nelle misure adottate prima che una sostanza, un materiale o un prodotto diventi un rifiuto, vi rientrano quindi tutte quelle misure in grado di ridurre: la quantità dei rifiuti, anche attraverso il riuso dei prodotti; gli impatti negativi dei rifiuti sulla salute e sull’ambiente; il contenuto di sostanze pericolose nei prodotti. Tali misure possono consistere in strumenti economici volti ad incentivare le politiche di prevenzione dei rifiuti (imposte o incentivi ambientali), ma anche in accordi volontari21 fra la

20 Tra queste vi rientrano il green public procurement, la produzione sostenibile, l’uso di strumenti

economici, fiscali, la promozione delle attività di ricerca e le politiche di informazione e sensibilizzazione.

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pubblica amministrazione e i privati per raggiungere obiettivi in tema di tutela dell’ambiente.

La preparazione per il riutilizzo riguarda, invece, tutte quelle attività di controllo, pulizia e riparazione tali da permettere il reimpiego dei prodotti diventati rifiuti, senza che sia necessario ricorrere ad altre operazioni di pretrattamento. Allo stesso modo, il riutilizzo riguarda tutte quelle operazioni attraverso le quali i prodotti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti.

Per quanto riguarda il riciclaggio si prevede poi una serie di obiettivi scadenzati nel tempo: in particolare, le Regioni devono fissare i criteri attraverso i quali i Comuni devono provvedere a realizzare la raccolta differenziata, entro il 2015, almeno della carta, metalli, plastica e vetro e le pubbliche amministrazioni devono adottare entro il 2020 una serie di misure in base alle quali la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti (quali, come minimo, carta, metalli, plastica e vetro provenienti dai nuclei domestici), deve essere aumentata almeno del 50%; e la preparazione per il riutilizzo, il riciclo ed altri tipi di recupero di materiale di rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi, deve essere aumentata almeno del 70%22.

22 Il rapporto Green Book del 2018, evidenzia come il Nord Italia rappresenti una realtà avanzata, in

cui i paradigmi dell’Economia Circolare trovano un’applicazione concreta: con una raccolta differenziata del 65%, viene massimizzato il recupero di materiali e di energia, grazie alla dotazione di impianti di trattamento integrato aerobico/anaerobico per la frazione organica dei rifiuti (che consentono la produzione di biogas e biometano), e di impianti di recupero energetico per la frazione indifferenziata residua. Il sistema di gestione dei rifiuti del Sud Italia risulta, invece, ancora molto dipendente dalle discariche, con una raccolta differenziata che raggiunge solo il 38%. Sul punto si veda, rienergia.staffettaonline.com, 2018.

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Si stabilisce inoltre che, per facilitare e migliorare il recupero, i rifiuti devono essere raccolti separatamente, laddove ciò sia possibile dal punto di vista tecnico, economico e ambientale e che i rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata possono circolare liberamente sul territorio italiano al fine di favorire il loro recupero23.

È opportuno sottolineare, però, che attraverso l’analisi di certe situazioni può risultare più efficiente, dal punto di vista ambientale, incenerire un materiale per produrre energia piuttosto che riciclarlo; questo sempre nell’ottica di favorire quelle attività che generano il miglior risultato ambientale complessivo.

Il legislatore ha così previsto la possibilità che alcuni flussi di rifiuti specifici si discostino dalla gerarchia laddove ciò sia giustificato in relazione al miglior risultato in termini di protezione della salute e dell’ambiente. Spetta quindi al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di

23 La raccolta differenziata viene definita dalla lett. p) del D.Lgs. 152/2006 come “la raccolta in cui un

flusso di rifiuti è tenuto separato in base al tipo ed alla natura dei rifiuti al fine di facilitarne il trattamento specifico”.

Il fine ultimo è, dunque, la separazione dei rifiuti in modo tale da reindirizzarne ciascuna tipologia verso il rispettivo trattamento di smaltimento o recupero più adatto, che va dallo stoccaggio in discarica o all’incenerimento per il residuo indifferenziato, al compostaggio per l’organico e al riciclo per il differenziato propriamente detto (carta, vetro, alluminio, acciaio e plastica). La raccolta differenziata risulta, dunque, propedeutica alla corretta e più avanzata gestione dei rifiuti, costituendo di fatto la prima fase dell’intero processo. Le modalità attraverso le quali raccolta differenziata viene condotta possono consistere in una raccolta stradale, attraverso la predisposizione di contenitori sui marciapiedi; una raccolta porta a porta, mediante la quale gli incaricati del servizio passano a domicilio a ritirare i rifiuti differenziati dai cittadini (questo permette il controllo della correttezza con cui la singola utenza effettua la raccolta differenziata, e quindi l’irrogazione di sanzioni in caso di conferimenti erronei); l’utilizzo di cassonetti apribili solo con l’uso di una chiave o tessera magnetica che viene rilasciata a un numero ristretto di residenti (ad esempio i residenti di un complesso condominiale o di una via). In molti casi vengono previsti anche incentivi per favorire il riciclaggio (ad esempio la legge di bilancio 2018, L.205/2017, ha introdotto un incentivo sul credito di imposta del 36% sulle spese sostenute per le aziende che acquisteranno prodotti realizzati con materiali plastici derivanti dalla filiera di riciclo dei rifiuti).

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concerto con il Ministro della salute, individuare tali flussi di rifiuti, attraverso l’emanazione di specifici decreti.

Al difuori di queste ipotesi, specificamente individuate, le misure di recupero dei rifiuti sono prioritarie rispetto all’utilizzo dei rifiuti come fonte di energia.

Infine, lo smaltimento dei rifiuti occupa una posizione residuale nella scala in cui si articola la gestione dei rifiuti. Si sancisce il principio della riduzione dei rifiuti, stabilendo che quelli destinati allo smaltimento siano il più possibile ridotti, tanto nella massa che nel volume, favorendo quindi le attività di riutilizzo, riciclaggio e recupero.

I rifiuti che non possono essere recuperati devono pertanto essere sottoposti ad operazioni di trattamento sicure, nel rispetto della salute e dell’ambiente, favorendo le opzioni che garantiscono il miglior risultato ambientale possibile24.

24 I rifiuti possono essere smaltiti nelle discariche o bruciati negli inceneritori (detti anche

“termovalorizzatori”, perché producono energia dalla combustione dei rifiuti), anche se, per molti anni, la prima soluzione è stata quella più utilizzata perché rappresentava il sistema più economico. Oggi, le discariche sono impianti controllati, dotati sia di sistemi di impermeabilizzazione che proteggono il suolo e le acque sotterranee dall’inquinamento, sia di sistemi che recuperano il gas prodotto dalla fermentazione dei rifiuti. Nonostante ciò, la destinazione dei rifiuti in discarica resta la soluzione meno sostenibile perché rappresenta, innanzitutto, un grande spreco di materiali e di energia e poi perché le discariche (nella cui gestione si sono spesso riscontrate infiltrazioni di organizzazioni criminali) occupano grossi spazi, ed è sempre più difficile trovare siti adatti nei quali collocarle. Dall’altro lato, parlare di impianti di incenerimento dei rifiuti provoca ancora oggi preoccupazione. La pericolosità degli inquinanti prodotti dagli inceneritori è comunque confermata da numerosi studi medici. Gli inquinanti prodotti da un moderno impianto non vengono, infatti, eliminati dagli strumenti di depurazione, ma semplicemente trasferiti dall’aria al suolo attraverso le scorie e le ceneri. A tutto questo va aggiunta la produzione di anidride carbonica, determinante per l’incremento dell’effetto serra. Tuttavia, i fautori dell’incenerimento sostengono invece che questa sia una metodologia conveniente per lo smaltimento dei rifiuti, perché permette di produrre energia elettrica da materiali che così riacquistano un qualche valore.

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L’articolo 182-bis, introdotto con l’art. 9 del D.Lgs. 205/2010, prevede che lo smaltimento ed il recupero dei rifiuti urbani non differenziati debbano essere effettuati attraverso il ricorso ad una rete integrata ed adeguata di impianti di trattamento destinati allo smaltimento dei rifiuti e di impianti per il recupero dei rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica, tenendo conto delle migliori tecniche disponibili e del rapporto tra i costi e i benefici complessivi, in modo che tale trattamento possa avvenire in un impianto il più possibile vicino al luogo di produzione dei medesimi; per raggiungere l’autosufficienza nello smaltimento dei rifiuti, e garantire un alto grado di protezione dell’ambiente e della salute pubblica.

2. Il campo di applicazione delle norme in materia

Il perimetro applicativo delle norme in materia di rifiuti è circoscritto, da un punto di vista formale, dall’indicazione positiva di tutte le fattispecie a cui la disciplina del D.Lgs. 152/2006, parte IV, non si applica (art. 185); mentre da un punto di vista che potremmo definire sostanziale, dalla nozione stessa di rifiuto, così come di sottoprodotto e ciò che a certe condizioni cessa di essere rifiuto (end of waste)25.

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2.1. La nozione di rifiuto

Sulla base di quanto appena detto appare evidente che dalla definizione di rifiuto ricostruita in negativo, e cioè distinguendolo da ciò che non lo è, si determina in via diretta il campo di applicazione della normativa.

Se in base al senso comune appare semplice definire cosa sia rifiuto, la stessa semplicità non emerge laddove si cerchi di darne una definizione dal punto di vista giuridico. Infatti, le questioni relative al concetto di rifiuto sono inevitabilmente connesse all’evoluzione del quadro normativo di riferimento e all’interpretazione che di esso ha dato la giurisprudenza26.

2.1.1. L’evoluzione della nozione di rifiuto in Italia, dal T.U. sulle Leggi sanitarie R.D. n. 1265/1934 al D. Lgs. n. 205/2010

In Italia si comincio a parlare del problema di inquinamento derivante da rifiuti con il T.U. sulle leggi sanitarie27, il quale però si limitava a prevedere

disposizioni che attribuivano ad organi amministrativi il compito di garantire che, all’interno dell’aggregato urbano e delle abitazioni, lo smaltimento dei rifiuti avvenisse in modo da non inquinare il sottosuolo ovvero da prevenire danni da parte di rifiuti provenienti dalle fabbriche.

26 M. Di Lullo, la nozione di ‘rifiuto’, in V. Cerulli Irelli, G. Clemente di San Luca (a cura di), La disciplina

giuridica dei rifiuti in Italia, Napoli, Editoriale Scientifica, 2011, p.7 ss.

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Nel 1941 intervenne il legislatore con la L. n. 366, la quale si occupava della raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti urbani, senza prendere in considerazione però la necessità di protezione della salute e dell’ambiente.

Successivamente, in attuazione delle Direttive comunitarie n. 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e n. 78/319 sui rifiuti tossici e nocivi, venne adottato il D.P.R. 10 settembre 1982 n. 915 dedicato in modo esclusivo ed organico al trattamento dei rifiuti. All’art. 2 del suddetto decreto era contenuta la definizione di rifiuto, indicato come “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da attività umane o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”. Tale definizione, tuttavia, non appare in linea con quella dettata all’art. 1 della Direttiva n. 75/442, la quale faceva piuttosto riferimento a “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali vigenti”28.

Da questa definizione nazionale presero piede due filoni interpretativi, che ruotavano attorno al concetto di abbandono. Un primo, di tipo oggettivistico, in base al quale il concetto di “abbandono’’ dipende dall’assenza di utilità per il proprietario o detentore dell’oggetto il quale vuole disfarsene; quindi la nozione di rifiuto si collega all’utilità che un bene dà a chi lo detiene. Un secondo filone era, invece, di stampo soggettivistico, in ragione del quale ciò che rilevava era la volontà del soggetto detentore: per cui, doveva ritenersi abbandonato il materiale scartato e destinato dal

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detentore alla distruzione, non avendosi, quindi, rifiuto laddove il proprietario della cosa l’avesse ceduta con un vantaggio economico proprio o altrui.

La Giurisprudenza29 riteneva, con riferimento ai residui di produzione,

che soltanto la riutilizzazione da parte del produttore non desse luogo alla produzione di rifiuto, mentre il rifiuto era già sorto quando il materiale era stato destinato da un terzo alle operazioni di recupero o riutilizzo. Quindi, il problema di fondo era quello di capire se e a quali condizioni i residui industriali derivanti dai processi produttivi, che possono essere utilizzati nuovamente nel ciclo produttivo, dovessero essere assoggettati alla disciplina dei rifiuti30.

Proseguendo l’iter che ha condotto all’attuale nozione di rifiuto, è poi intervenuta la legge 9 novembre 1988 n. 47531, la quale ha introdotto la

categoria delle “materie prime secondarie”, ovvero i residui derivanti dai processi produttivi suscettibili di essere utilizzati come materie prime in altri processi produttivi della stessa o di altra natura, i quali dovevano essere individuati tramite D.M. Si poneva, quindi, il problema della disciplina applicabile alle materie prime secondarie, in mancanza degli adempimenti previsti dall’ art. 2, L. n. 475/1988.

29 Ex multis C. Cass., sezione III penale, 14 aprile 1987, ric. Perino. 30 M. Di Lullo, la nozione di ‘rifiuto’, op. cit., p. 9.

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Sul punto la giurisprudenza della Cassazione assunse due diversi orientamenti: il primo in base al quale, pur in assenza degli adempimenti previsti dall’art. 2, L. n. 475/1988, le materie prime secondarie dovevano essere escluse dai rifiuti e dalla relativa disciplina32; e un secondo che invece

riteneva che l’esclusione dalla disciplina dei rifiuti opera esclusivamente in presenza di alcune condizioni e modalità previste mediante legge regionale33.

Spettò quindi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione risolvere la questione34, confermando di fatto questo secondo orientamento, in quanto

secondo la corte il concetto di rifiuto non doveva intendersi nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili in astratto di riutilizzazione economica; idea confermata successivamente anche dalla Corte di Giustizia, chiamata a pronunciarsi dal Giudice italiano con riguardo all’interpretazione autentica della direttiva sopra citata.

Venne quindi emanato il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, il quale all’art. 6 riproduceva la nozione di stampo comunitario che definiva il rifiuto come “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Si introdusse così una duplice valutazione per verificare l’esistenza o meno di un rifiuto: era necessario accertare dapprima l’appartenenza della sostanza od oggetto alle

32 Cfr. Cass., 3 ottobre 1990, Panni; 30 settembre 1991, Rossi; 3 febbraio 1992, Del Gaizo. 33 Cfr. Cass., 30 novembre 1990, Becagli; 16 aprile 1991, Guarino; 4 febbraio 1992, Puppo. 34 Cass., SS.UU., 27 marzo 1992, Viezzoli.

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categorie individuate dall’allegato A e, in secondo luogo, verificare la volontà del detentore di disfarsene (salvo che vi fosse un obbligo previsto dalla legge). Il problema fu che il catalogo dell’allegato A non era concepito come un elenco tassativo e chiuso; infatti la sedicesima categoria aveva una portata generale e residuale prevedendo che fosse da considerare comunque rifiuto, “qualsiasi sostanza, materia o prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate di cui il detentore si disfi o abbia deciso di disfarsi”. Questo rese decisiva la portata del concetto di “disfarsi” della cosa, anche in considerazione di come la stessa Corte di Giustizia35 confermò che l’ambito di applicazione della nozione di

rifiuto ruotava attorno a tale elemento.

In tale prospettiva, allora, il successivo D.L. 8 luglio 2002, n. 138 (convertito in L. 8 agosto 2002, n.178) forniva, all’art. 14, l’interpretazione autentica dei termini “si disfi”36, “abbia deciso”37 e “abbia l’obbligo disfarsi”38,

contenuti nella definizione di rifiuto di cui art.6 D.Lgs. 5 febbraio 1997, n.22, con lo scopo di limitare il campo di applicazione della disciplina sui rifiuti; quindi, sostanzialmente, i materiali residuali da riutilizzare nello stesso o in

35 C. Giust., sentenza 15 giugno 2000, C-418/97, C-419/97.

36 “si disfi” si definisce come: “qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una

sostanza, un materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attivita' di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del decreto legislativo n. 22”.

37 "abbia deciso" è tale: “la volontà di destinare ad operazioni di smaltimento e di recupero, secondo gli allegati B

e C del decreto legislativo n. 22, sostanze, materiali o beni”.

38 Per "abbia l'obbligo di disfarsi" deve intendersi: “l'obbligo di avviare un materiale, una sostanza

o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa del materiale, della sostanza e del bene o dal fatto che i medesimi siano compresi nell'elenco dei rifiuti pericolosi di cui all'allegato D del decreto legislativo n. 22”.

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altro ciclo produttivo senza o dopo aver subito un trattamento preventivo non erano più da considerarsi rifiuti.

Tuttavia, tale norma39 fu oggetto di censura da parte della Corte di

Giustizia40 secondo cui si risolveva nel sottrarre la qualifica di rifiuto ai residui

di produzione o di consumo che, invece, corrispondevano alla definizione sancita dall’art. 1, lett. a), primo comma della direttiva 75/442. A seguito di tale decisione, la Corte di Cassazione41 sollevo questione di legittimità

costituzionale del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art.14 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost.

La Corte Costituzionale non si pronunciò mai sulla vicenda in quanto, con ordinanza n. 13 dicembre 2006, restituì gli atti alla Suprema Corte prendendo atto che, nelle more, era intervenuto il D.Lgs. 3 aprile 2006, n.15242 che all’art. 264 aveva abrogato la norma di interpretazione autentica

di cui art. 14 D.L. 8 luglio 2002, n. 138.

Il D.Lgs. 3 aprile 2006, n.152, T.U. in materia ambientale, abrogò dunque quasi completamente la normativa ambientale previgente, dedicando la propria parte quarta alla gestione dei rifiuti e alla bonifica dei siti inquinati. L’art. 183, comma 1, lett. a) definisce come rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate nell’allegato A alla parte quarta del presente

39 D.L. 8 luglio 2002, n.130, art.14.

40 C. Giust. 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli. 41 C. Cass. 14 dicembre 2005, Rubino.

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decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Tuttavia, tale definizione coincideva perfettamente con quella contenuta nel D.Lgs. 5 febbraio 1997, n.22, generando, quindi, le medesime problematiche definitorie. Pertanto, per comprenderne a pieno la portata occorre analizzare i più importanti interventi giurisprudenziali intervenuti in materia43.

Dapprima la Cass. Pen., Sez. III, nella sent., 19 gennaio 2007, n.1340 ritenne che “Deve intendersi per rifiuto qualsiasi sostanza od oggetto di cui il produttore o il detentore si disfi, o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi, senza che assuma rilievo la circostanza che ciò avvenga attraverso lo smaltimento o tramite il suo recupero;” e che “ la nozione di rifiuto non deve essere intesa nel senso di escludere le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica, atteso che la protezione della salute umana e dell'ambiente verrebbe ad essere compromessa qualora l'applicazione delle direttive comunitarie in materia fosse fatta dipendere dalla sola intenzione (realizzabile o meno a seconda di determinate eventualità) di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altri delle sostanze o degli oggetti di cui si disfa o si sia deciso e si abbia l'obbligo di disfarsi”

E successivamente poi, lo stesso giudice, nella sent., 26 ottobre 2007 n. 39646, affermò che “la qualificazione di una sostanza come rifiuto deve essere improntata al criterio oggettivo della "destinazione naturale all'abbandono", nulla

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rilevando la circostanza che la stessa possa essere potenzialmente oggetto di riutilizzo (diretto o previ interventi manipolatori) da parte di altri soggetti”.

2.1.2. La nuova nozione alla luce del D.Lgs. n. 205/2010, in attuazione della Direttiva comunitaria 2008/98/CE

L’articolo 18344 del T.U. ambiente stabilisce che si intende per rifiuto

“qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi 45”. Rispetto alla definizione precedente, quindi, è stato

eliminato il riferimento “oggettivo”46 alle categorie contenute nell’allegato A

al D.lgs. N. 152/2006 che è stato abrogato. D’altra parte, come abbiamo visto, per come lo stesso era costruito, il riferimento oggettivo si rivelava sostanzialmente inutile, contenendo l’allegato A un’elencazione non tassativa ed eccessivamente aperta47.

Alla luce della novella introdotta dal D.Lgs. n. 205/2010, venendo meno il requisito oggettivo, per sapere se ci troviamo di fronte ad un rifiuto dobbiamo rifarci prioritariamente alla condizione soggettiva rappresentata dalle tre declinazioni del concetto di disfarsi48, ovvero “si disfi, abbia deciso

o abbia l’obbligo di disfarsi”. Con la locuzione “si disfi” si fa riferimento a una condotta oggettiva perché il detentore si disfa materialmente della

44 “Definizioni”, articolo così sostituito dell’art. 10, del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.

45 Art. 183 lettera h) del D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205. Per detentore si deve intendere: il produttore

dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso.

46 M. Di Lullo, la nozione di ‘rifiuto’, op. cit., p. 15 ss.

47 E. Benacci, Compendio di diritto dell’ambiente, Napoli, Simone, 2017, p. 180 ss. 48 O. Busi, Codice dei rifiuti commentato, op. cit., p. 61 ss.

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sostanza; con “abbia l’obbligo di disfarsi”, invece, si fa riferimento ad un dovere imposto al detentore da una norma o da un provvedimento della Pubblica amministrazione mentre con “abbia deciso di disfarsi” vi è un chiaro collegamento con l’intenzione di disfarsi della cosa o sostanza, e quindi con un evidente aspetto psicologico della condotta. La Cassazione penale, inoltre, stabilisce che un indice rilevatore del concetto di “disfarsi”, ove esso non sia sostanziato in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo diretto su detti beni, potrà emergere, oltre che dalla tipologia degli stessi, dalla modalità con la quale i detti beni sono depositati49. Come chiarito: “È, infatti, di tutta evidenza che un

deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all’interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l’intenzione di disfarsene”.

L’eliminazione del riferimento oggettivo dalla norma, quindi, rende ancora più evidente la valorizzazione di quello soggettivo e porta alla necessità di verificare, caso per caso, la volontà del soggetto detentore di non utilizzare più tale sostanza.

Va poi sottolineato che il legislatore introduce per la prima volta all’interno del T.U. Ambiente, attraverso la novella contenuta nell’art. 10 del D.Lgs. 205/2010, la definizione di rifiuto pericoloso; infatti rientrano in tale

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definizione quei rifiuti che presentano una o più caratteristiche di pericolo di cui allegato I della parte quarta dello stesso decreto50. La nuova classificazione

è basata sulla normativa comunitaria relativa alle sostanze chimiche, in particolare per quanto concerne la classificazione dei preparati pericolosi, inclusi i valori limite di concentrazione usati a tal fine. I rifiuti pericolosi dovrebbero essere regolamentati con specifiche rigorose, al fine di impedire

50 Caratteristiche di pericolo per i rifiuti: H1 «Esplosivo»: sostanze e preparati che possono esplodere

per effetto della fiamma o che sono sensibili agli urti e agli attriti più del dinitrobenzene; H2 «Comburente»: sostanze e preparati che, a contatto con altre sostanze, soprattutto se infiammabili, presentano una forte reazione esotermica; H3-A «Facilmente infiammabile»: sostanze e preparati: - liquidi il cui punto di infiammabilità è inferiore a 21° C (compresi i liquidi estremamente infiammabili), o - che a contatto con l'aria, a temperatura ambiente e senza apporto di energia, possono riscaldarsi e infiammarsi, o - solidi che possono facilmente infiammarsi per la rapida azione di una sorgente di accensione e che continuano a bruciare o a consumarsi anche dopo l'allontanamento della sorgente di accensione, o - gassosi che si infiammano a contatto con l'aria a pressione normale, o- che, a contatto con l'acqua o l'aria umida, sprigionano gas facilmente infiammabili in quantità pericolose; H3-B «Infiammabile»: sostanze e preparati liquidi il cui punto di infiammabilità è pari o superiore a 21° C e inferiore o pari a 55°C; H4 «Irritante»: sostanze e preparati non corrosivi il cui contatto immediato, prolungato o ripetuto con la pelle o le mucose può provocare una reazione infiammatoria; H5 «Nocivo»: sostanze e preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, possono comportare rischi per la salute di gravità limitata; H6 «Tossico»: sostanze e preparati (comprese le sostanze e i preparati molto tossici) che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, possono comportare rischi per la salute gravi, acuti o cronici e anche la morte; H7 «Cancerogeno»: sostanze e preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, possono produrre il cancro o aumentarne l'incidenza; H8 «Corrosivo»: sostanze e preparati che, a contatto con tessuti vivi, possono esercitare su di essi un'azione distruttiva; H9 «Infettivo»: sostanze contenenti microrganismi vitali o loro tossine, conosciute o ritenute per buoni motivi come cause di malattie nell'uomo o in altri organismi viventi; H10 «Tossico per la riproduzione»: sostanze e preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, possono produrre malformazioni congenite non ereditarie o aumentarne la frequenza; H11 «Mutageno»: sostanze e preparati che, per inalazione, ingestione o penetrazione cutanea, possono produrre difetti genetici ereditari o aumentarne l'incidenza; H12 Rifiuti che, a contatto con l'acqua, l'aria o un acido, sprigionano un gas tossico o molto tossico; H13 «Sensibilizzanti»9 : sostanze o preparati che per inalazione o penetrazione cutanea, possono

dar luogo a una reazione di ipersensibilizzazione per cui una successiva esposizione alla sostanza o al preparato produce effetti nefasti caratteristici; H14 «Ecotossico»: rifiuti che presentano o possono presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali. H15 Rifiuti suscettibili, dopo l'eliminazione, di dare origine in qualche modo ad un'altra sostanza, ad esempio a un prodotto di lisciviazione avente una delle caratteristiche sopra elencate.

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o limitare, per quanto possibile le potenziali conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute umana di una gestione inadeguata.

La stessa Direttiva 2008/98/CE, poi, nel considerando 14, ha sostenuto come sia necessario mantenere in vigore l’attuale sistema di classificazione di rifiuti e rifiuti pericolosi, in conformità all’elenco stabilito dalla decisione 2000/532/CE della Commissione, “al fine di favorire una classificazione armonizzata dei rifiuti e di garantire una determinazione armonizzata dei rifiuti pericolosi all’interno della Comunità”.

2.2. Il sottoprodotto

La nuova normativa51 ha poi cercato di fare chiarezza sulla distinzione

tra ciò che è rifiuto e ciò che non lo è. A tal riguardo, il sottoprodotto52

rappresenta una categoria introdotta per la prima volta nella nostra legislazione sui rifiuti dall’art. 183, lett. p), del D.Lgs. n. 152/2006, come successivamente modificato dal D.Lgs. n. 4/2008, in conformità a quanto sostenuto dalla giurisprudenza comunitaria che già esplicitamente faceva riferimento a questa tipologia di residui.

L’art. 12 del D.Lgs. n. 205/2010, nel tentativo di armonizzare la nostra legislazione sui rifiuti a quanto contenuto nell’art. 5 della Direttiva

51 D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205.

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2008/98/CE, ha così individuato dei nuovi parametri di valutazione, rispetto a quelli previsti precedentemente.

Nel primo comma dell’art 184-bis del D.Lgs. 152/2006 si da la definizione di sottoprodotto e si indicano le quattro condizioni che devono essere soddisfatte affinché una sostanza o oggetto possa essere considerato come un sottoprodotto e non un rifiuto. In particolare si stabilisce che: “è un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell'articolo 183, comma 1, lettera a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l'oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto53; b) è certo che la sostanza o

l'oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi54; c) la sostanza o l'oggetto può essere

utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale55; d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l'oggetto soddisfa, per

53 Sono parte integrante della produzione tutte quelle sostanze che derivano in via continuativa dal

processo di produzione di un determinato bene intenzionalmente prodotto.

54 Il sottoprodotto può essere utilizzato successivamente rispetto al momento della sua formazione,

fermo restando che fin dalla sua produzione deve essere certa la sua successiva utilizzazione; e inoltre non è necessario che il successivo utilizzo del sottoprodotto sia integrale, potendosi inviare al riutilizzo anche part idi sottoprodotti e considerando i rimanenti come rifiuti.

55 La certezza del riutilizzo sussiste ogni qualvolta esista una prassi consolidata e dimostrabile per

cui un determinato oggetto o sostanza viene ad essere inviato con regolarità ad un ciclo produttivo atto ad impiegarlo all’interno dei propri processi. In concreto, tale requisito potrà essere dimostrato qualora vi siano rapporti contrattuali in essere tra il soggetto che genera il residuo e quello che lo riceve (Comunicazione Commissione CE del 21/02/2007). Inoltre, Secondo la Giurisprudenza (Cass. Pen., sez. III, sent. n. 7037 22 Febbraio 2012; Cass.pen., sez. III, sent. n. 45023 2 Dicembre 2011; Cass.pen., sez.III, sent. n. 34753 26 Settembre 2011), in merito al concetto di ‘normale pratica industriale’, vi rientrano tutti quei trattamenti o interventi che non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le sue caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso possiede, ma che sono utili o funzionali per il suo successivo e ulteriore utilizzo presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche in altro luogo e in un differente processo produttivo, come ad esempio le operazioni di lavaggio, essiccazione, macinazione e frantumazione).

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l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana56”.

Ciò che è sottoprodotto, quindi, non diviene rifiuto, ma mantiene la propria natura di prodotto in quanto fattore di una catena produttiva, che non si esaurisce con la sua creazione, ma che anzi riconosce nel suo sfruttamento una nuova fase della catena stessa. È importante allora sottolineare il fatto che il venir meno di uno solo dei suddetti elementi comporta che non saremo più in presenza di un sottoprodotto, ma rientreremo nel campo dei rifiuti.

È proprio sulla materia dei requisiti costitutivi del sottoprodotto che va ad incidere il Decreto del Ministero dell’Ambiente 13 ottobre 2016, n. 264, “Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della

sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”, pubblicato sulla G.U. Serie Generale n.38 del 15-2-2017, e entrato

in vigore il 2 marzo 2017.

Il decreto fa riferimento a taluni criteri “affinché specifiche tipologie di

sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti e alcune modalità con le quali il detentore può dimostrare che sono soddisfatte le condizioni di cui al citato articolo

56 La disposizione intende definire cosa si deve intendere per utilizzo legale, specificando due

sub-definizioni: l’una richiedendo che, per l’utilizzo specifico, quindi il processo di destinazione, soddisfi tutti i requisiti riguardanti la protezione della salute e dell’ambiente, e l’altra che, oltre a ciò, sia garantito che non vi saranno impatti ‘complessivi’ negativi sull’ambiente e la salute umana.

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bis, comma 1.” Gli articoli 5, 6 e 7 del D.M. sono poi finalizzati ad indicare

alcune “modalità con cui provare la sussistenza” dei requisiti costitutivi del sottoprodotto, “fatta salva la possibilità di dimostrare, con ogni mezzo ed anche con

modalità e con riferimento a sostanze ed oggetti diversi da quelli precisati nel nuovo decreto, o che soddisfano criteri differenti, che una sostanza o un oggetto derivante da un ciclo di produzione non è un rifiuto, ma un sottoprodotto”.

L’articolo 5 è finalizzato ad individuare gli elementi di prova del requisito della “Certezza dell'utilizzo”, cioè quello definito dalla lett. b) dell’art.184-bis del decreto 152/2006. Esso afferma che il requisito in esame deve essere dimostrato dal produttore al momento della produzione del residuo e dal detentore in quello dell'impiego dello stesso57. Entrambi

devono così assicurare l’organizzazione e la continuità di una sistema di gestione, del quale fanno parte sia le fasi di deposito che il trasporto, le quali, per tempi e per modalità con cui sono svolte, consentano l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto. La certezza dell’utilizzo, quindi, è dimostrata dall’analisi delle modalità organizzative del ciclo di produzione, delle caratteristiche, o della documentazione relative alle attività dalla quali originano i materiali impiegati e del processo di destinazione; e cioè solo valutando la congruità fra la tipologia, la quantità e la qualità dei residui da impiegare e l’utilizzo previsto per gli stessi58. È necessario, quindi, che

57 B. Albertazzi, Sottoprodotti: novità e complicazioni, su www.ambiente.it, 2017.

58 A. Di Landro, Rifiuti, sottoprodotti e “fine del rifiuto”(“end of waste”): una storia ancora da (ri-)scrivere?, in

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l’attività in cui il residuo deve essere utilizzato sia individuata o individuabile già al momento della produzione dello stesso, con la conseguenza che non costituisce un sottoprodotto, ma un rifiuto, un residuo di produzione per il quale, al momento della sua generazione, il produttore non conoscesse già tutti i dati dell’impianto nel quale sarà utilizzato59.

L’elemento di prova più importante per poter qualificare come sottoprodotti determinati residui di produzione è così l’esistenza di rapporti o impegni contrattuali tra il produttore del residuo, eventuali intermediari e gli utilizzatori60, tuttavia in mancanza di ciò, il requisito della certezza

dell’utilizzo può essere dimostrato anche mediante la predisposizione di una scheda tecnica contenente informazioni61 necessarie a consentire

l’identificazione dei sottoprodotti dei quali è previsto l’impiego, nonché del settore di attività o della tipologia di impianti idonei ad utilizzarli.

L’articolo 6 del decreto precisa poi che, i residui di produzione “non

costituiscono normale pratica industriale”, qualificando quindi come rifiuto, gli esiti

dei processi e delle operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza idonee a soddisfare tutti i requisiti riguardanti la protezione della salute e dell’ambiente, e pertanto i risultati di tutte quelle

59 R. Leonardi, La qualifica dei residui di produzione ai sensi del Decreto Ministeriale n. 264/2016: rifiuto o

sottoprodotto?, in Rivista giuridica dell’edilizia, 2017, 3/2, p. 89 ss.

60 B. Albertazzi, Sottoprodotti: novità e complicazioni, cit.

61 In tale scheda tecnica devono essere indicate tempistiche e modalità ritenute congrue per il

deposito e la movimentazione dei sottoprodotti, dalla produzione del residuo, fino all’utilizzo nel processo di produzione. Tali schede tecniche devono essere numerate, vidimate e gestite con le procedure e le modalità fissate dalla normativa sui registri IVA.

(37)

operazioni finalizzate a soddisfare il requisito costitutivo di cui art. 184-bis, lett. d).

Per quanto riguarda poi la dimostrazione del requisito di cui all’art.

184-bis, lett. d), da parte dell’utilizzatore, l’articolo 7 stabilisce che la scheda tecnica

deve contenere le informazioni necessarie a consentire la verifica delle caratteristiche del residuo e la conformità dello stesso rispetto al processo di destinazione e all’impiego previsto. Da questo si può dedurre che62, se tale

scheda tecnica non è obbligatoria per dimostrare il requisito della certezza dell’utilizzo, lo diventa invece a questi fini, per cui solo i soggetti che utilizzano i propri sottoprodotti non saranno obbligati a predisporla. Ciò trova conferma nel comma successivo ai sensi del quale, in caso di cessione del sottoprodotto da parte del produttore ad un intermediario o ad un utilizzatore, la conformità dello stesso rispetto a quanto indicato nella scheda tecnica deve essere oggetto di apposita dichiarazione.

Nel secondo comma dell’art. 184-bis, invece, si fa un rinvio a specifici decreti ministeriali che stabiliscono appositi criteri quantitativi e qualitativi relativamente a specifiche sostanze o oggetti da considerarsi sottoprodotti. L’adozione di questi decreti è indicata dalla norma come una mera facoltà, e non un obbligo, in capo allo Stato: si tratta, dunque, di criteri integrativi della nozione, contenuta nel primo comma, ma tale integrazione non intacca

(38)

l’autosufficienza di quest’ultimo già dal momento dell’entrata in vigore. Un esempio di questi decreti è dato dal D.M. 10 Agosto 2012, n.161, contenente il regolamento recante la disciplina dell’utilizzazione delle terre e rocce da scavo, che definisce i criteri qualitativi da soddisfare affinché i materiali di scavo, come definiti all’art. 1, comma 1, lett. b) del regolamento, siano da considerare quali sottoprodotti e non rifiuti.

2.3. La cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste)

La cessazione della qualifica di rifiuto rappresenta uno strumento fondamentale per il recupero dei materiali (e quindi, delle risorse presenti nei rifiuti). Infatti, si pone come presupposto necessario per poter valorizzare i beni (ottenuti dai rifiuti) capaci di una “seconda vita”. Tale strumento, sotto il profilo economico pone i materiali recuperati sullo stesso piano delle materie prime; quindi, crea condizioni di mercato per l’offerta, la commercializzazione e l’utilizzo di tali materiali63. Inoltre, sotto il profilo

sociale e ambientale lo strumento della cessazione della qualifica di rifiuto agevola la sostituzione delle risorse naturali con materiali e sostanze derivate dai rifiuti, riducendo così lo spreco delle prime.

63 P. Ficco, Campo di applicazione, in P. Ficco (a cura di), Gestire i rifiuti tra legge e tecnica, Milano, Edizioni

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L’art. 12 del D.Lgs. n. 205/2010, nel recepire l’art. 6 della Direttiva 2008/98/CE64, ha introdotto così nel D.Lgs. 152/2006, l’art 184-ter, con il

quale vengono stabilite le condizioni alle quali un materiale perde la qualifica di rifiuto.

Tale norma stabilisce che un rifiuto cessa di essere tale quando è sottoposto ad un’operazione di recupero (incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo) e rispetta una serie di criteri specifici che devono essere cumulativamente soddisfatti; ovvero, la sostanza o l'oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto (oggi rispetto alla precedente disciplina contenuta nell’art 181-bis comma 1 lett. e), relativa alle materie prime secondare, dove era richiesto un effettivo valore economico di scambio sul mercato, la nuova formulazione richiede solo che vi sia un mercato o una

64 Articolo 6, “Cessazione della qualifica di rifiuto”: “Taluni rifiuti specifici cessano di essere tali ai sensi

dell’articolo 3, punto 1, quando siano sottoposti a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio, e soddisfino criteri specifici da elaborare conformemente alle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzata/o per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfano i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; e d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto. 2. Le misure intese a modificare elementi non essenziali della presente direttiva, completandola, che riguardano l’adozione dei criteri di cui al paragrafo 1 e specificano il tipo di rifiuti ai quali si applicano tali criteri, sono adottate secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 39, paragrafo 2. Criteri volti a definire quando un rifiuto cessa di essere tale dovrebbero essere considerati, tra gli altri, almeno per gli aggregati, i rifiuti di carta e di vetro, i metalli, i pneumatici e i rifiuti tessili. 3. I rifiuti che cessano di essere tali conformemente ai paragrafi 1 e 2 cessano di essere tali anche ai fini degli obiettivi di recupero e riciclaggio stabiliti nelle direttive 94/62/CE, 2000/53/CE, 2002/96/CE e 2006/66/CE e nell’altra normativa comunitaria pertinente quando sono soddisfatti i requisiti in materia di riciclaggio o recupero di tale legislazione. 4. Se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile. Essi notificano tali decisioni alla Commissione in conformità della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 giugno 1998 che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione, ove quest’ultima lo imponga”.

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