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Appello al Consiglio di Stato, divieto dei nova e proposizione dei motivi aggiunti.

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(1)

APPELLO AL CONSIGLIO DI STATO,

IL DIVIETO DEI NOVA E LA

PROPOSIZIONE DEI MOTIVI AGGIUNTI

(2)

Sommario

CAPITOLO I

DALLA NASCITA DEL CONSIGLIO DI STATO

ALLA CONFIGURAZIONE ATTUALE DELL’ISTITUTO

1.1

La nascita in seguito all’Editto di Racconigi; dalla

Funzione consultiva ad una funzione tecnico –

amministrativa.

1.2

Dalla vigilia dell’Unita d’Italia alla Legge del 1865

1.3

I tratti essenziali della riforma del 1865

1.4 Dall’Istituzione della Quarta Sezione del CdS alla vigilia

della Carta Costituzionale.

1.5 L’opera Costituzionale

1.6 L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali e

la nuova funzione di giudice d’Appello del Consiglio di

Stato.

1.7 L’emanazione del Codice del Processo Amministrativo

CAPITOLO II

L’APPELLO

2.1 Introduzione: La nascita dell’istituto come mezzo di

gravame.

(3)

2.1.1. Le parti legittimate.

2.1.2 La legittimazione passiva.

2.2 L’appello incidentale

2.3 L’appellabilità delle sentenze parziali e la riserva

facoltativa di appello.

2.4 L’Appello sulle decisioni delle Giunte Provinciali

Amministrative.

2.5 L’Appello dopo la Legge istitutiva dei TAR N. 1034

del 1971.

2.6 L’Appello nella nuova disciplina del Codice

Amministrativo.

2.7 Lo svolgimento del giudizio.

2.8 La conclusione del giudizio e l’annullamento con

rinvio.

CAPITOLO III

DIVIETO DELLO JUS NOVORUM

3.1 Introduzione.

3.2 La Ratio del divieto.

3.3 Divieto dei nova prima della Legge istitutiva dei TAR:

il contributo della dottrina.

3.4 La dottrina successiva all’entrata in vigore della Legge

1034/1971

(4)

3.5 Orientamenti giurisprudenziali; il divieto di nuove

domande.

3.5.1 Il divieto di nuove eccezioni.

3.5.2 Il divieto di nuove prove.

3.6 La disciplina contenuta nel Codice; art. 104 C.p.a.

CAPITOLO IV

LA PROPOSIZIONE DEI MOTIVI AGGIUNTI

4.1 Inquadramento

4.2 Proposizione

4.3 La nascita dell’istituto.

4.4 Le problematiche sollevate in dottrina riguardo la

la proposizione di motivi aggiunti in appello.

4.5 L’istituto dopo l’entrata in vigore della Legge n.

1034/1971; rilievi dottrinali e giurisprudenziali.

4.6 Ammissibilità e limiti dei motivi aggiunti in appello

a seguito della Legge n. 205/2000.

4.7 La disciplina contenuta nel Codice del Processo

Amministrativo e l’orientamento del Consiglio di

Stato.

4.8 I commenti della Dottrina all’Art. 104 C.p.a.

(5)

CAPITOLO I

DALLA NASCITA DEL CONSIGLIO DI STATO

ALLA CONFIGURAZIONE ATTUALE DELL’ISTITUTO

1.1. La nascita in seguito all’Editto di Racconigi; dalla

funzione consultiva ad una funzione tecnico –

amministrativa.

Il Consiglio di Stato nasce il 18 agosto 1831, con l’Editto di Racconigi, emanato da Carlo Alberto, Sovrano del Regno di Sardegna che certamente si ispirò al Conseil d’Etat istituito in Francia nel 1800, durante il periodo rivoluzionario, con funzioni di progettazione legislativa e di consulenza dell’esecutivo, acquisì poi in seguito anche funzione giurisdizionale per i conflitti tra privati e amministrazione.

In Italia, il Consiglio di Stato nasce con funzioni consultive; il potere del Re, in linea teorica, veniva attenuato dal Consiglio, e si creava una sorta di “monarchia consultiva”; si è parlato, al riguardo, più che di un consiglio di Stato in senso stretto, di un “Consiglio del Re”, infatti, sotto l’aspetto della sua collocazione istituzionale, il Consiglio era in posizione di dipendenza rispetto al Sovrano e di indipendenza nei riguardi dei ministri.

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Il Consiglio era presieduto dallo stesso Re che lo consigliava nelle sue decisioni, e quindi veniva a trovarsi in una posizione di parallelismo rispetto ai ministri; si pensi che era lo strumento con il quale il Re poteva esercitare un controllo di natura politica sull’attività dei ministri.

Sotto l’aspetto delle sue competenze, il Consiglio esprimeva il proprio parere sulle iniziative legislative, sostituendosi al Parlamento, infatti, diede un rilevante contributo alla predisposizione dei codici albertini.

In questa fase quindi, il Consiglio di Stato ebbe, almeno sulla carta, una forte connotazione politica, abbastanza simile a quella che aveva il Conseil d’Etat al suo sorgere nel 1799.

Tuttavia, in seguito anche all’opposizione dei ministri, che vedevano sacrificata la loro posizione, la consulenza del Consiglio si spostò dal piano politico a quello tecnico-amministrativo, e anche questo passaggio, da un ruolo politico ad un ruolo più tecnico è simile a quello che accadde nel Conseil D’Etat nella seconda metà dell’impero.

C’è quindi un passaggio da una funzione consultiva, che giustifica per altro la nascita dell’istituzione, ad una funzione tecnico-amministrativa.

1.2 Dalla vigilia dell’unità d’Italia alla legge del 1865

Nel 1848 la situazione mutò, poiché nel Regno di Sardegna venne meno la monarchia assoluta e si realizzò la monarchia costituzionale; e l’attribuzione di

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un diverso ruolo istituzionale al Sovrano mise in discussione la stessa sopravvivenza dell’organo, che subì la prima crisi d’identità, correndo il rischio di scomparire. Ormai infatti le leggi erano deliberate dal Parlamento e quindi il Consiglio non poteva più svolgere il compito di collaboratore del sovrano nell’attività legislativa, tuttavia fu salvato dalla posizione più tecnica ed amministrativa rispetto a quella politica, che il consiglio aveva via via assunto tra il 1831 e il 1848, infatti si pose in luce, la funzione di primo piano che il Consiglio era in grado di svolgere sia nel campo dell’attività legislativa che in quella amministrativa.1

Alla vigilia dell’Unita d’Italia, alcuni decreti reali emanati nel 1859 gli attribuirono poi competenze giurisdizionali, sia come giudice di secondo grado, davanti al quale potevano essere impugnate le decisioni dei tribunali del contenzioso amministrativo, sia come giudice unico limitatamente ad alcune materie, tra cui: debito pubblico, materie ecclesiastiche, liquidazioni delle pensioni.

Le controversie con l’amministrazione erano infatti devolute ai Tribunali del contenzioso amministrativo, organi collegiali aventi natura amministrativa e inseriti, sia pure con qualche garanzia di indipendenza, nell’organizzazione del Potere esecutivo. Nel Regno di Sardegna, dopo la riforma del 1859, tali Tribunali erano, in primo grado, il Consiglio di Governo, sedente presso ogni

1

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Governatorato ( Prefettura ), e in secondo grado, il Consiglio di Stato, o, nelle materie di contabilità pubblica la Corte dei Conti.

Dopo l’unità, raggiunta mediante l’espansione territoriale del Regno di Sardegna, rimasero transitoriamente in vigore i sistemi di tutela degli Stati preunitari. Il dibattito parlamentare postunitario si concentrò pertanto sul mantenimento o, alternativamente, sull’abolizione del sistema del contenzioso amministrativo; com’è noto, tale dibattito non poté essere concluso in Parlamento, per l’imminenza della guerra contro l’Impero austro-ungarico. Furono cosi concessi pieni poteri all’esecutivo, il quale approvò la Legge 20 marzo 1865, n. 2248 di unificazione amministrativa; insieme all’amministrazione locale, alla sicurezza e alla sanità pubbliche, ai lavori pubblici, la legge disciplinava all’All. D, il Consiglio di Stato, e, all’All. E il contenzioso amministrativo.

L’art. 1 dell’All. E disponeva l’abolizione dei Tribunali ordinari del contenzioso amministrativo, mentre l’art. 2 stabiliva che “ tutte le cause per contravvenzioni e tutte le cause elle quali si faccia questione di un diritto civile o politico” fossero deferite al giudice ordinario.

Vennero cosi soppressi i tribunali del contenzioso amministrativo e iniziò a crearsi l’area destinata alla competenza del futuro giudice amministrativo: gli interessi legittimi.

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1.3 I tratti essenziali della riforma del 1865

L’art. art. 2 della legge stabiliva che qualsiasi diritto soggettivo, vantato dal cittadino nei confronti dell’Amministrazione, aveva acquisito tutela giurisdizionale, e non doveva più limitarsi ad ottenere tutela solo in sede contenziosa amministrativa, ma poteva accedere alla tutela giurisdizionale ordinaria.

Nella locuzione “ diritto civile o politico” , secondo la univoca interpretazione dei contemporanei, erano compresi tutti i diritti soggettivi; la cognizione del giudice ordinario era pertanto estesa a qualsiasi controversia su diritti soggettivi. Veniva in questo modo superato il principio della separazione dei poteri nella sua più rigorosa interpretazione: l’amministrazione poteva essere convenuta dinanzi al giudice. Tuttavia sebbene fosse superata la barriera tra amministrazione e giurisdizione, la legge presentava qualche lacuna in ordine alla completezza della tutela poiché restavano fortemente limitate le azioni esperibili nei confronti dell’amministrazione e, conseguentemente, erano molto ridotti i poteri decisori del giudice. Infatti per quanto prevedeva l’art. 4 della legge, il giudice non poteva annullare, revocare o modificare i regolamenti e i

provvedimenti amministrativi; se li riteneva non conformi alle leggi, li disapplicava, ossia non ne teneva conto nell’assumere la decisione.

Ancora lo stesso art. 4, al comma 2, stabiliva l’obbligo dell’amministrazione di conformarsi alla sentenza del giudice, ma tale obbligo, sul cui contenuto si aprì

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una forte polemica tra gli studiosi, non era presidiato da alcuna sanzione; tale vuoto sarà poi colmato con la legge del 1889.

Ulteriore limite che presentava la legge nasceva dal fatto che, essa riferendosi ai diritti soggettivi, lasciava numerose ed anche rilevanti controversie con l’amministrazione fuori dall’ambito della giurisdizione, ed essendo stati aboliti i Tribunali del contenzioso amministrativo, presso i quali non aveva rilievo determinante che la controversia riguardasse diritti o altri interessi, tali controversie potevano essere risolte soltanto mediante i ricorsi amministrativi, i quali erano decisi in generale dalle autorità amministrative gerarchicamente sovraordinate a quelle che avevano adottato i provvedimenti impugnati.

L’All. D prevedeva peraltro la possibilità di esperire in ogni caso il ricorso straordinario al Re, che veniva deciso su parere del Consiglio di Stato.

In definitiva possiamo dire che con la legge del 1865, era stata assicurata la tutela giurisdizionale ai diritti soggettivi, ed era stata lasciata per gli altri affari amministrativi quel tanto di tutela che poteva essere assicurata dalla stessa amministrazione attiva in sede di ricorsi amministrativi, ordinari e straordinari; tutela peraltro di efficacia inferiore a quella precedentemente assicurata con il sistema del contenzioso amministrativo.

Il carattere parziale della riforma, con la incompleta tutela giurisdizionale che essa comportava, apparve a tutti evidente negli anni successivi, anche a causa del modo restrittivo con cui essa fu attuata.

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Da un lato il giudice ordinario, gravato di un compito al quale non era abituato, non fece granché per conferire alla sua azione quell’ampiezza e quell’efficacia che la legge gli avrebbe consentito. Dall’altro lato il Consiglio di Stato, che allora aveva il compito di risolvere i conflitti di attribuzione, che si determinavano tra organi amministrativi e organi giurisdizionali, contribuì pesantemente a ridurre l’ambito della tutela giurisdizionale; si nota infatti che dal luglio 1865 all’aprile 1877 furono sollevati ben 500 conflitti di attribuzione, e solo in 111 fu riconosciuta la competenza giudiziaria2.

Il Consiglio di Stato iniziò allora ad elaborare la tesi secondo cui, quando la controversia riguardava provvedimenti amministrativi, in particolare provvedimenti discrezionali, essa non poteva avere ad oggetto diritti soggettivi, e quindi non rientrava nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinari, cosi come delineato dalla legge del 1865.

Anche la Corte di Cassazione di Roma anziché assumere un atteggiamento diverso, ed affermare quindi la giurisdizione in tutti i casi in cui la controversia riguardava diritti soggettivi, anche quando in essi erano coinvolti provvedimenti amministrativi, decise di sposare la tesi elaborata dal Consiglio di Stato. Dunque possiamo notare un’attuazione decisamente riduttiva della riforma, e ciò rese ben chiaro che, non solo gli interessi non riconosciuti come diritti soggettivi, ma anche questi ultimi, quando su di loro svolgeva una qualche influenza un provvedimento amministrativo, rimanevano privi di tutela

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giurisdizionale.

1.4 Dall’Istituzione della Quarta Sezione del Cds alla

vigilia della Carta Costituzionale.

Al problema della estensione della tutela giurisdizionale, fu data soluzione con la Legge 31 marzo 1889, n. 5992 3 con la quale venne modificata l’organizzazione interna del Consiglio di Stato, con la istituzione, accanto alle prime tre risalenti al 1831, della Quarta Sezione, denominata “ per la giustizia amministrativa”.

La Quarta Sezione era chiamata a “decidere i ricorsi per incompetenza, per

eccesso di potere o per violazione della legge “ contro atti e provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che avessero per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non erano di competenza dell’autorità giudiziaria, né si trattasse di materie spettanti alla giurisdizione ed alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali.

Nell’Art. 3 della Legge si concentravano tutti i caratteri di quello che era destinato a divenire il processo amministrativo; ricorso di impugnazione di atti o provvedimenti, per farne valere i vizi di legittimità (incompetenza, eccesso di

3 poi coordinata con l’All. D alla legge del 1865 nel testo unico approvato con r.d. 2 giugno

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potere e violazione di legge), a tutela di interessi individuali diversi dai diritti soggettivi.

La scelta di tutela (soltanto) successiva rispetto all’azione amministrativa, nella forma della impugnazione di atti e provvedimenti, sembrava adeguata ad assicurare la giustizia nell’amministrazione, e ad evitare i favoritismi e le parzialità, senza intralcio per il normale svolgimento dell’attività amministrativa. Coerentemente con questa impostazione vennero sottratti alla nuova forma di tutela gli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio di un potere politico”4.

In contrasto con la tecnica precedentemente seguita dal legislatore del 1865, la nuova legge indicava espressamente il ventaglio dei motivi di ricorso, fissando in tal modo la causa petendi del giudizio, e contemporaneamente ponendo la base per la elaborazione della “ disciplina della invalidità” dei provvedimenti amministrativi, risolvendola poi interamente nella annullabilità per vizi di legittimità.

Mentre la Legge del 1865 aveva negato che il giudice ( ordinario) potesse annullare gli atti dell’amministrazione, anche ove li reputasse illegittimi, la legge del 1889 conferiva alla Quarta sezione proprio e solo il potere di annullamento.

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Si può anche concordare con chi ha ritenuto che la legge del 1865 avesse prefigurato in negativo il tipo di processo cui darà vita la legge del 18895, con essa sembravano colmate le lacune della legge del 1865, sia sotto il profilo dell’ambito della cognizione (avendo aggiunto la tutela degli interessi a quella dei diritti), sia sotto il profilo dei poteri di decisione ( avendo aggiunto il potere di annullamento e di condanna pecuniaria ), e si riteneva che si fosse completata la riforma e si fosse quindi pervenuti ad un sistema compiuto di tutele nei confronti dell’amministrazione. In realtà il sistema presentava ancora lacune che verranno colmate soltanto con l’approvazione del Codice del processo amministrativo.

Il risultato conseguito nel 1889 fu la “generalità della tutela”, salva la zona degli atti politici, era data tutela per ogni controversia che il cittadino avesse nei confronti di una qualunque amministrazione. Tuttavia la tutela assicurata non era mai piena e completa, dato che i mezzi di tutela, esperibili dinanzi al giudice ordinario e dinanzi alla Quarta Sezione non erano cumulabili: se la controversia riguardava diritti soggettivi, si potevano esperire solo le azioni di accertamento e di condanna al pagamento di somme di denaro; se essa concerneva interessi, era possibile proporre soltanto l’azione costitutiva di annullamento. La pienezza della tutela non fu raggiunta.

5 M. NIGRO Problemi veri e falsi della giustizia amministrativa dopo la legge sui Tribunali

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Rimaneva inoltre il dubbio se la Quarta Sezione fosse organo di giurisdizione, o un organo d’amministrazione decidente con forme contenziose6. Il dubbio fu risolto dalla Legge 7 marzo 1907 n. 62 che dichiarò espressamente la natura giurisdizionale della funzione di giustizia amministrativa del Consiglio di Stato7, istituendo inoltre una quinta sezione, ed attribuendo alla quarta sezione i ricorsi, nei quali il consiglio aveva competenza di mera legittimità, ed alla quinta quelli in cui la competenza era estesa al merito8. I contrasti di giurisprudenza ed i conflitti di competenza tra le due sezioni dovevano essere risolti dall’ Adunanza Plenaria, composta dal Presidente del Consiglio di Stato, e da quattro consiglieri di ciascuna sezione giurisdizionale.

L’ultima riforma di rilievo fu quella compiuta col r.d. 30 dicembre 1923, n.2840, coordinato in t.u. 26 giugno 1924, n. 1054; in esso la riforma più rilevante e toccò ancora una volta la giurisdizione, poiché fu soppressa la distinzione di competenza tra quarta e quinta sezione, e si consentì al Consiglio di Stato di decidere anche sulle controversie di diritto soggettivo, si creò la “giurisdizione esclusiva” del giudice amministrativo.

Furono quindi individuate alcune materie, nelle quali si riteneva più difficile che in altre distinguere tra diritti soggettivi e interessi legittimi; e si attribuirono le controversie relative a tali materie “ all’esclusiva giurisdizione del Consiglio

6 SCIALOJA V., Come il Consiglio di Stato divenne organo giurisdizionale, in riv. Dir. Pubbl.,

1931 I .

7 Giuffré editore Consiglio di Stato 1961 vol. IX

8 Per l’innanzi, la Legge del 1907 istituì la Quinta Sezione, attribuendole la giurisdizione di

merito e lasciando alla Quarta Sezione la giurisdizione di legittimità. La Sesta Sezione sarà istituita con d.lgs. 5 maggio 1948 n. 642

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di Stato in sede giurisdizionale” .

Con la Legge del 1923 si creò un secondo criterio di riparto della giurisdizione, un criterio speciale, fondato sulle materie, rispetto al criterio generale, rispetto al criterio generale, fondato sulle situazioni giuridiche soggettive. Con tale criterio si rinunciava parzialmente al principio fissato nel 1865, per il quale alla tutela di tutti i diritti soggettivi provvedeva il giudice ordinario.

Purtroppo la legge del 1923 si limitò a creare la giurisdizione esclusiva, ma non dettò una disciplina propria del relativo processo, cosicché la tutela dei diritti soggettivi fu compresa nello stretto ambito del processo amministrativo, con la possibilità di esercizio della sola azione di annullamento.

La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, nel tempo, cercato di eliminare qualche strozzatura: ha infatti consentito la proposizione del ricorso entro i termini di prescrizione, anziché entro i termini di decadenza, quando la controversia attiene ai diritti soggettivi, ma non ha mai provveduto alla costruzione di un processo adeguato alla tutela congiunta delle situazioni di diritto e di interesse legittimo, ossia di un processo di giurisdizione esclusiva. Va da ultimo citato il t.u. della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383 che integra la disciplina dei ricorsi amministrativi. Questa era la situazione, sul piano legislativo, alla vigilia della Costituzione Repubblicana.

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1.5 L’opera Costituzionale

La Carta Costituzionale entrata in vigore il 1° gennaio 1948, contiene alcune disposizioni riguardanti la giustizia amministrativa; Il Consiglio di Stato viene preso in considerazione sia nel Titolo IV relativo alla Magistratura, sia nel precedente Titolo III nella Sezione relativa agli Organi Ausiliari del Governo; all’ Art. 100 comma1: “ Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione.” Tra l’altro lo stesso art. garantisce l’indipendenza dell’organo al comma 3 “ la legge assicura l’indipendenza dei due istituti e dei loro componenti di fronte al Governo” 9; in modo che anche l’attività consultiva “ è esercitata da un organo collocato istituzionalmente in posizione indipendente rispetto all’apparato amministrativo” 10.

All’art. 103 comma 1, “ Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi.” quindi si conserva qui la giurisdizione

esclusiva “ in particolari materie indicate dalla legge”. Viene quindi sancita la

doppia vocazione funzionale del Consiglio di Stato, poiché esso rimane, per disposizione costituzionale, oltre che organo giurisdizionale anche organo di

9 riferendosi “ ai due istituti”; Consiglio di Stato e Corte dei Conti.

10 G. TRECCANI, Consiglio di Stato, Roma, 1988. Indipendenza che si riferisce sia allo status

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consulenza giuridico-amministrativa e di tutela di giustizia nell’amministrazione.

Infine viene ribadito all’Art 113, comma 1, che “ contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi” . E’ opportuno sottolineare in primo luogo che gli interessi

legittimi vengono accostati ai diritti soggettivi, circostanza da ritenere significativa se si pensa che la locuzione “ interessi legittimi” utilizzata nei lavori parlamentari di preparazione delle Leggi del 1865 e del 1889, non era mai entrata nel linguaggio legislativo, ed è la Carta Costituzionale che per primo la adopera.

Il comma 2 dello stesso art 113 prevede che “ tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti” questa può considerarsi la disposizione più importante in tema di tutele contro l’amministrazione, la quale sta ad indicare che nelle controversie con l’amministrazione, debbano essere esperibili tutte le azioni che, in via generale, sono esperibili nelle controversie tra privati.

Concludendo non si può non riconoscere che la Costituzione ha voluto assicurare fin dal 1948, oltre alla generalità, anche la pienezza della tutela giurisdizionale.

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1.6 L’istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali

e la nuova funzione di giudice d’appello del

Consiglio di Stato.

In tardiva attuazione dell’art. 125 Cost11, con legge 6 dicembre 1971, n. 1034, sono stati istituiti i Tribunali amministrativi regionali, quali organi di giustizia

amministrativa di primo grado”, con circoscrizione regionale. I nuovi Tribunali hanno giurisdizione corrispondente a quella del Consiglio di Stato, per cui quest’ultimo che prima era giudice di unico grado, diviene giudice d’appello12.

La Legge 1034 ha, per quanto possibile, ripetuto letteralmente le formule del testo unico del Consiglio di Stato13, ha infatti attribuito “ alla competenza dei Tribunali amministrativi regionali i ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o violazione di legge contro atti o provvedimenti” di autorità amministrative, utilizzando le stesse parole dell’art. 26 del t.u. del 192414,si voleva che i Tribunali neo-istituiti non percorressero vie giurisprudenziali diverse da quelle segnate dal Consiglio di Stato.

11 Art. 125 Cost. “ Nella regione sono istituiti organi di giustizia amministrativa di primo

grado, secondo l’ordinamento stabilito da legge della Repubblica (…)”

12 Residua un solo caso di giurisdizione in unico grado del Consiglio di Stato, e riguarda il

ricorso per ottemperanza alle decisioni dello stesso Consiglio di Stato, quando esse non confermino le decisioni di primo grado, v. Art 113, comma 1, c.p.a.

13 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054

14 Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza,

eccesso di potere o violazione di legge contro atti o provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante […] quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’autorità giudiziaria […]

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Con la Legge del 1971 sono poi state apportate alcune innovazioni alla disciplina processuale; tra esse innovazioni effettive riguardano la giurisdizione: ad esempio, l’attribuzione ai giudici amministrativi delle controversie in materia di operazioni elettorali relative alle elezioni amministrative15, e l’estensione della giurisdizione esclusiva ai ricorsi relativi a rapporti di concessione di beni e di servizi pubblici16. L’innovazione più rilevante riguarda ovviamente l’appello; coerentemente con il principio del doppio grado di giudizio, l’appello è stato disegnato secondo lo schema del

gravame, e non secondo quello dell’impugnazione in senso stretto, anche se era previsto il rinvio al giudice di primo grado nel caso in cui il giudice d’appello rilevava un difetto di procedura o un vizio di forma della decisione17. Il giudice d’appello ha la stessa cognitio cause del primo giudice, il gravame è infatti

impugnazione illimitata, e con effetto devolutivo18. Va considerato che con l’entrata in scena dei Tribunali amministrativi regionali, il Consiglio di Stato, essendo l’unico giudice di secondo grado19 e non essendoci altro giudice con funzione di nomofilachia, ha avuto l’opportunità di raccogliere i fermenti, talvolta contraddittori, provenienti dai giudici di primo grado. Si è verificato un

15V. Art 6; il tribunale amministrativo regionale è competente a decidere sui ricorsi

concernenti controversie in materia di operazioni per le elezioni dei consigli comunali, provinciali e regionali[…]

16V. Art. 5; Sono devoluti alla competenza dei Tribunali amministrativi regionali i ricorsi

contro atti e provvedimenti relativi a rapporti di concessioni di beni pubblici […]

17V. Art. 35 comma1; Se il Consiglio di Stato accoglie il ricorso per difetto di procedura o per

vizio di forma della decisione di primo grado, annulla la sentenza impugnata e rinvia la controversia al Tribunale amministrativo regionale.

18 E. FAZZALARI, il doppio grado nella legge sui Tribunali amministrativi, in Riv. Trim. dir.

Pubbl., 1972, 1910. Temi che sono stati poi rivisitati dal Codice del processo amministrativo.

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rinvigorimento della giurisprudenza pretoria del Consiglio di Stato, con allargamento della legittimazione ad agire e il riconoscimento della impugnabilità di taluni atti, prima ritenuti non impugnabili. E’ stato ritenuto che il giudice amministrativo possa disapplicare i regolamenti20.

L’evoluzione, di carattere giurisprudenziale, si è peraltro avuta a proposito del

processo cautelare: è stato affermato il carattere decisionale delle ordinanze di sospensiva e se ne è conseguentemente consentito l’appello21, è stato individuato un metodo per garantire che tali ordinanze fossero effettivamente eseguite dall’amministrazione22, ed è stata estesa la tutela cautelare avverso i provvedimenti negativi23.

E’ stata anche riscritta la disciplina del processo di ottemperanza, ed è stata riconosciuta l’appellabilità delle sentenze di ottemperanza24.

Più tardi è stato altresì chiarito che in appello è ammissibile l’integrazione del

contraddittorio, peraltro nei confronti delle sole parti necessarie25, e che si applica l’art. 345 c.p.c.26 per quanto riguarda l’ammissione dei nuovi mezzi di prova27, inoltre che la rinuncia al ricorso estingue il processo soltanto a seguito

20 Cons. Stato, sez. V, 28 febbraio 1992, n.154. 21 Cons. Stato, Ad. Plen., 20 maggio 1978, n.1 22 Cons. Stato, Ad. Plen., 30 aprile 1982, n.6 23 Cons. Stato, Ad. Plen., 8 ottobre 1982, n.6 24 Cons. Stato, Ad. Plen., 29 gennaio 1980, n.2 25 Cons. Stato, Ad. Plen., 24 marzo 2004, n. 7

26 Art. 345 c.p.c. Domande ed eccezioni nuove: Nel giudizio d’appello non possono proporsi

domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio(…) non possono proporsi nuove eccezioni che nonsiano rilevabili anche d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova (…) salvo che la parte dimostri di non aver potuto produrli (…)

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della presa d’atto da parte del giudice28 e che l’eccezione di prescrizione di crediti nei confronti della pubblica amministrazione può essere sollevata soltanto nel primo grado di giudizio29.

Su tutti questi argomenti è poi intervenuto il Codice del processo amministrativo, in parte confermando e in parte invece modificando i suddetti orientamenti giurisprudenziali.

1.7 L’emanazione del Codice del Processo

Amministrativo.

Con il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 10430 è stato approvato il Codice del Processo Amministrativo; per la prima volta si ha finalmente una disciplina organica del processo amministrativo, estesa anche a risolvere i problemi di giurisdizione e ad attuare nel modo pieno i principi costituzionali del giusto processo.

E’ stata inoltre rivisitata la disciplina dell’istruttoria processuale, ma non solo, sono state riordinate le impugnazioni ed è stato rivisto il giudizio di ottemperanza.

28 Cons. Stato, Ad. Plen., 24 giugno 2004, n. 8

29 Cons. Stato, Ad. Plen., 29 dicembre 2004, nn. 14 e 15

30Attuazione della legge delega 18 giugno 2009, n. 69 per il riassetto della disciplina del

processo amministrativo. Il Governo, per l’attuazione della delega ha richiesto il supporto tecnico del Consiglio di Stato.

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Ora, sebbene il d.lgs. n. 104 abbia dettato una disciplina organica piuttosto complessa non è stata considerata un’opera pienamente soddisfacente, per questi motivi sono intervenuti successivamente due decreti correttivi.

Il primo è stato il d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, con cui sono state corrette alcune imperfezioni formali e sono state apportate alcune integrazioni; modifiche sostanziali hanno riguardato la disciplina del giudizio di ottemperanza, nonché l’elenco delle materie su cui si applica il rito abbreviato, l’elenco delle materie di giurisdizione esclusiva e quello delle materie riservate alla competenza funzionale del T.A.R. del Lazio.

Il secondo correttivo, il d.lgs. 14 settembre 2012, n. 160, ha apportato ulteriori correzioni formali ed ha profondamente rivisitato la disciplina dell’azione di condanna al rilascio dei provvedimenti.

Nessuno dei due correttivi appena citati, hanno apportato modifiche al titolo II del Codice, interamente dedicato all’Appello (Art. 100 ss. C.p.a) di cui parlerò nel corso della mia trattazione.

Si può oggi sostenere che il processo amministrativo dispone finalmente di una disciplina organica e tendenzialmente completa.

(24)

CAPITOLO II

L’APPELLO

2.1. La nascita dell’istituto come mezzo di gravame.

Come già in precedenza accennato, la Carta Costituzionale individua nel Consiglio di Stato l’organo competente ad esercitare un controllo sugli atti della Pubblica amministrazione.

In particolare, il primo comma dell’Art. 100 prevede che “ Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione “ e l’Art. 103 al suo primo comma, si limita a stabilire che “ Il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della Pubblica Amministrazione degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, anche dei diritti soggettivi”.

Lo strumento con cui si richiede l’intervento del Consiglio di Stato come organo di vigilanza sull’operato della pubblica Amministrazione è l’Appello. L’istituto nasce come mezzo di gravame31 con funzione rinnovatoria o sostitutiva32, che realizza l’esigenza di un riesame integrale in fatto e in diritto

31Che si differenzia dall’azione di impugnativa, in quanto essa ha la funzione di eliminare la

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della controversia, ripropone la cognitio causae nel suo intrinseco, vale a dire attribuisce al giudice ad quem la cognizione dello stesso rapporto sostanziale di cui ha conosciuto il primo giudice. In conseguenza del suddetto riesame si giunge ad un nuovo giudizio, che sostituisce quello contenuto nella sentenza impugnata, ritenuto ingiusto.

2.1.1 Le parti legittimate.

Secondo quanto prevede l’Art. 102, primo comma c.p.a. possono proporre appello “le parti fra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado”. Occorre anzitutto premettere che, come in primo grado, l’impugnativa in grado di appello presuppone sempre la sussistenza di un interesse, inteso come possibilità di conseguire un vantaggio di carattere sostanziale a seguito della pronuncia del giudice; pertanto ove l’accoglimento del gravame dovesse comportare per l’appellante un sicuro danno patrimoniale, il ricorso sarebbe inammissibile per difetto d’interesse. Quindi la parte legittimata a proporre

sentenza su istanza della parte soccombente e l’azione si dirige contro un atto giurisdizionale compiuto ed efficace, dando luogo ad un processo autonomo con oggetto diverso da quello proprio del precedente processo; diversamente i mezzi di gravame, denunciano l’ingiustizia della sentenza ed hanno come presupposto solo la soccombenza dell’impugnazione, essi non si dirigono contro l’atto giurisdizionale, ma propongono al nuovo giudice il riesame della controversia, danno luogo anch’essi ad un nuovo giudizio però in questo caso il giudice esamina ex novo lo stesso oggetto che è caduto sotto la cognizione del primo giudice, in una nuova fase dello stesso processo; si propongono ad un giudice apposito, normalmente superiore, sempre diverso da quello che ha pronunciato la sentenza impugnata.

32

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l’Appello è colei che sia rimasta soccombente in primo grado e che abbia partecipato a tale giudizio; tuttavia tale legittimazione deve essere riconosciuta alla parte in senso sostanziale, dunque spetta anche a chi non abbia effettivamente partecipato al giudizio di primo grado pur essendo un legittimo contraddittore, e cioè all’amministrazione e ai controinteressati; ciò che rileva, quindi, non è la sussistenza della qualità di parte in senso formale, cioè di soggetto che comunque ha partecipato al primo giudizio, bensì di titolare del controinteresse all’impugnativa, ancorché non vi sia stata costituzione in primo esame, ma abbia comunque risentito per effetto della sentenza conclusiva del processo, un concreto pregiudizio 33 . Infatti la legittimazione è oggi riconosciuta anche a soggetti che non sono stati parti del processo di primo grado, come i controinteressati pretermessi (ossia non invocati in giudizio dal ricorrente), i controinteressati sopravvenuti (ossia quelli il cui interesse è sorto nelle more del giudizio, legittimandoli al rimedio dell’opposizione di terzo) e i c.d. controinteressati sostanziali (ossia quei soggetti che, pur non essendo agevolmente identificabili sulla base del provvedimento impugnato in primo grado, sono titolari di una posizione giuridica autonoma d’interesse alla conservazione di quel provvedimento). Questo orientamento, malgrado le critiche di parte della dottrina, che vi intravede il rischio di aprire la via a impugnazioni strumentali da parte di soggetti i quali presuntuosamente assumono di ricevere pregiudizio da una sentenza al fine di avvantaggiare o

33

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danneggiare le parti del giudizio originario34, è a tutt’oggi prevalente in giurisprudenza. Orbene l’attuale formulazione del comma 1 dell’Art. 102, con il suo rigoroso richiamo alla sentenza di primo grado quale criterio formale per l’individuazione delle “parti” legittimate ad impugnare, se per un verso consente di affermare la persistente legittimazione ad appellare del controinteressato il quale, avendo ricevuto notifica del ricorso introduttivo, non si sia costituito ( trattandosi di parte comunque evocata in giudizio), sembra indurre ad escludere l’ammissibilità degli appelli proposti dalle diverse categorie di soggetti sopra menzionate, i quali sono destinati a rimanere terzi anche rispetto al giudizio di appello35. Soluzione positiva a questo problema è stata data dal Codice con la disciplina contenuta nell’Art. 109 c.p.a. in ordine ai rapporti tra opposizione di terzo ed appello, ove il legislatore si è preoccupato di assicurare la concentrazione in un unico giudizio di tutte le doglianze che chiunque, parte o terzo che sia rispetto al giudizio di primo grado, abbia a formulare avverso la sentenza impugnata. Dunque, proprio la disciplina richiamata dell’Art. 109 c.p.a. da come soluzione l’intervento nel giudizio d’appello al comma 2; “ Se è proposto appello contro la sentenza di primo

grado, il terzo deve introdurre la domanda di cui all’articolo 108 36

34

G. PALEOLOGO, L’appello al consiglio di stato, Milano, 1989.

35

F. SAITTA, commento all’art. 102 del codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it

36

Casi di opposizione di terzo: 1. Un terzo [ titolare di una posizione autonoma e incompatibile] può fare opposizione contro una sentenza del tribunale amministrativo regionale o del Consiglio di Stato pronunciata tra altri soggetti, ancorché passata in giudicato, quando pregiudica i suoi diritti o interessi legittimi.

2. Gli aventi causa e i creditori di una elle parti possono fare opposizione alla sentenza, quando questa sia effetto di dolo o collusione a loro danno.

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intervenendo nel giudizio d’appello […] ”. Sul punto, l’atteggiamento della giurisprudenza è positivo ammettendo l’applicabilità anche al processo amministrativo dell’Art. 344 c.p.c., e quindi l’intervento nel giudizio d’appello di quei terzi che risultino titolari di posizioni giuridiche autonome che potrebbero legittimarli all’opposizione di terzo37. Tale orientamento soddisfa esigenze di economia processuale che inducono ad una sorta di “anticipazione dell’opposizione, il terzo interessato potrà agire subito senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza per attivarsi38.

2.1.2 La legittimazione passiva.

Legittimati passivi all’Appello sono i soggetti che possono definirsi contraddittori necessari, cioè la parte vittoriosa in primo grado e tutti i soggetti che dalla sentenza possono trarre vantaggio giuridico diretto e immediato, anche se non hanno partecipato al giudizio di primo grado.

Qualche dubbio può sorgere per i cointeressati in primo grado, cioè quei soggetti che sono da considerare litisconsorti del ricorrente.

37

Cons. Stato Ad. Pl. 11 gennaio 2007, n. 1; Cons. Stato sez. IV, 20 maggio 2003, n. 2718; Cons. Stato Sez. VI, 3 febbraio 2006, n. 380

38

MONTEFERRANTE, La tutela del terzo tra appello ed opposizione ordinaria, in Urb. e Appalti, 2007

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Orbene, se appellante è il ricorrente rimasto soccombente, sembra doversi ritenere che ai cointeressati debba notificarsi il ricorso in appello qualora l’atto impugnato in primo grado sia di contenuto inscindibile e si riferisca, quindi, anche alle posizioni dei cointeressati; se appellante, invece, è la parte resistente rimasta soccombente, non vi sono dubbi circa la necessità che in ogni caso il gravame in appello debba essere proposto anche nei loro confronti.

Per quanto riguarda la legittimazione passiva della Pubblica Amministrazione, principio fondamentale è che la partecipazione al giudizio dell’Autorità che ha emanato il provvedimento impugnato deve ritenersi necessaria, e quindi prescritta a pena di decadenza, anche nel giudizio di appello, sia questo principale o incidentale, permanendo in tutti i gradi del processo l’esigenza di contraddittorio, che ne rende obbligatoria la chiamata nel processo in primo grado39.

2.2 Appello incidentale

Prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, la disciplina dell’Appello incidentale non appariva esauriente, non vi era infatti alcuna norma che disciplinasse l’istituto; tuttavia la giurisprudenza prendeva già in considerazione l’ipotesi di un appello aggiuntivo a quello ordinario,

39

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seppur con dei limiti e previsioni singolari soprattutto per quanto riguarda la posizione del ricorrente; anzitutto essa distingue tra deduzioni già svolte in primo grado e deduzioni nuove (ius novorum). Per queste ultime va richiamata la distinzione fatta per l’appellante, relativa alla posizione avuta nel precedente giudizio: se appellata è la parte resistente, essa può dispiegare qualsiasi eccezione, anche non proposta in prime cure, secondo quanto previsto dall’art. 34540 c.p.c., se invece appellato era il ricorrente, egli non può, di fronte all’Amministrazione o al controinteressato che criticano la sentenza per aver accolto il motivo da lui dedotto (per es. incompetenza) e annullato il provvedimento, aggiungere che questo era altresì viziato d’eccesso di potere o di violazione di legge. Per le deduzioni che l’appellato ha già svolto in primo grado la giurisprudenza distingue poi tra quelle che sono state accolte , oppure respinte o semplicemente non esaminate o assorbite. Nessun problema per quelle accolte che possono rivivere negli scritti difensivi, quanto alle altre41, occorre invece distinguere fra la posizione dell’appellato che era stato ricorrente e quella di chi era stato resistente. Per quest’ultimo la giurisprudenza è incerta fra la tesi di chi sostiene che egli possa, in sede di appello, riproporre nei suoi scritti difensivi o anche oralmente le eccezioni, che il primo giudice

40La giurisprudenza qui afferma che rivivono tutti i motivi di ricorso senza bisogno di appello

incidentale se il ricorrente è rimasto totalmente vittorioso in prima sede, e se il ricorso incidentale è presentato ugualmente vale come semplice memoria ; Cons. Stato Se. V 27 maggio 1950, n. 646; Cons. Stato Sez. V 9 settembre 1953, n. 564; Cons. Stato Sez. V 28 aprile 1956, n. 308; Cons. Stato Sez. V 21 novembre 1958, n. 903.

41Per le quali si può fare l’esempio del ricorrente che ottiene l’annullamento dell’atto solo per

alcuni motivi dedotti, mentre gli altri vengono disattesi o assorbiti, o del resistente che ottiene il rigetto del ricorso perché il giudice lo ritiene infondato nel merito, dopo aver respinto le sue eccezioni di irricevibilità o di inammissibilità, o non avendole esaminate.

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aveva pretermesso42, e la tesi di chi invece esige che debba farle valere attraverso un appello incidentale43, in base alla considerazione che si tratti sempre di critica e di attacco a questi aspetti della sentenza, che pur gli sia stata favorevole e che pertanto egli difende nelle sue statuizioni principali.

La questione è stata deferita all’Adunanza Plenaria44, la quale ha introdotto un’ulteriore distinzione, fra eccezioni espressamente esaminate e respinte ed eccezioni non prese in esame o dalle quali il giudice ha dichiarato di prescindere: per le prime sarebbe necessario l’appello incidentale, le altre si potrebbero riproporre semplicemente in memoria45. La distinzione è stata accolta anche in altre pronunce della giurisprudenza46.

Per l’appellato che invece era ricorrente in primo grado sembra esserci maggiore concordia, nel senso che si ritiene necessario l’appello incidentale, attraverso il quale si censura e si impugna la sentenza per la parte che ha disatteso o assorbito taluni motivi, che potrebbero essere determinanti al fine di conservare il risultato raggiunto, ossia la vittoria nella controversia e pertanto il

42Cons. Stato Sez. V 12 gennaio 1963; n. 6, Cons. Stato Sez. V 15 aprile 1977; n. 320 Cons.

Stato Sez. IV 15 maggio 1979, n. 342; Cons. Stato Sez. V 2 marzo 1982, n. 64; Cons. Stato Sez. VI 7 luglio 1982, n. 347.

43Cons. Stato Sez. V 1 ottobre 1977, n. 1213; Cons. Stato Sez. V 1 febbraio 1977, n. 78; Cons.

Stato Sez. IV 17 maggio 1977, n. 492; Cons. Stato Sez. IV 5 luglio 1977, n. 680; Cons. Stato Sez. V 21 ottobre 1977, n. 880; Cons Stato Sez. VI 18 ottobre 1977, n. 789; Cons Stato Sez. V 20 gennaio 1978, n. 74; Con Stato Sez. VI 4 marzo 1980, n. 289,; Cons. Stato Ad. Pl. 21 ottobre 1980, n. 37; Cons. Sez. VI 5 marzo 1982, n. 107.

44Cons. Stato Sez. VI 24 febbraio 1981. 45Cons Stato Ad. Pl. 22 dicembre 1982, n. 21.

46Cons. Stato Sez. V 10 ottobre 1983, n. 425; Cons. Stato Sez. IV 11 novembre 1983, n. 788;

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conseguito annullamento dell’atto 47 . Tuttavia sembra che la suddetta distinzione, fatta propria dall’Adunanza Plenaria, fra deduzioni respinte e deduzioni non esaminate o assorbite, abbia trovato applicazione anche in questo caso, quindi sembra che l’appellato-ex ricorrente non deve presentare appello incidentale per i motivi non esaminati o assorbiti48.

Una delle poche norme a cui si poteva far riferimento in materia di appello incidentale era l’art. 37 del T.U. n. 1054/1924, applicabile in virtù del rinvio generale dell’art. 29 della legge n. 1034/1971, in base al quale la notificazione all’appellante principale, o ad altri eventuali intervenienti, doveva essere fatta entro trenta giorni dal termine assegnato per il deposito del suo gravame e il successivo deposito in segreteria nei dieci giorni dall’eseguita notificazione, con le prove della medesima49.

Sono stati anche enunciati alcuni principi, attinenti al regime dell’appello incidentale: chi lo propone deve avere un effettivo interesse50; se si tratta di ente pubblico, non basta la generica autorizzazione a resistere all’appello, ma occorre un’apposita autorizzazione51; anche se impostato come appello

47Cons Stato Sez. V 27 ottobre 1956, n. 933; Cons Stato Ad. Pl. 25 marzo 1978, n. 5; Cons. Stato

Sez. V 3 novembre, n. 1085; Cons. Stato Sez. V 26 ottobre 1979, n. 640; Cons Stato Sez. IV 16 dicembre, n. 1214; Cons Stato Sez. VI 7 aprile 1981, n. 143.

48Cons. Stato Sez. V 15 febbraio 1977, n. 127; Cons. Stato Sez. IV 18 dicembre, n. 1196; Cons

Stato Sez. IV 10 marzo 1981, n. 246; Cons Stato Sez. IV 14 aprile 1977, n. 337; Cons Stato Sez. V 5 luglio 1983, n. 307.

49Cons. Stato Sez. IV 26 ottobre 1976, n. 961; Cons. Stato Sez. IV 11 marzo 1977, n. 217; Cons.

Stato Sez. V 15 dicembre 1978 , n. 1614; Cons. Stato Sez. V 27 marzo 1981, n. 116; Cons. Stato Sez. IV 2 marzo 1982, n. 113; Cons. Stato Sez. VI 21 ottobre 1985, n. 519

50

Cons. Stato Sez. IV, 7 febbraio 1983, n. 64

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autonomo vale come incidentale se proposto nei termini52; segue le sorti dell’appello principale, sicché diventa irricevibile o inammissibile se lo è questo53. Il principio di accessorietà dell’appello incidentale rispetto a quello principale si può rinvenire in varie pronunce, secondo le quali esso deve investire gli stessi capi della sentenza impugnati in via principale o, al più, capi connessi e dipendenti, giacché, in caso diverso, l’appellante incidentale dovrebbe gravarsi in via autonoma, rispettando i termini previsti per l’appello principale54.

In fine, ad ulteriore conferma del principio di accessorietà, se nel giudizio di primo grado siano rimaste soccombenti più parti e solo una propone l’appello, le altre, se intendono anch’esse impugnare la sentenza, devono farlo attraverso appello incidentale.

Nel Codice del processo amministrativo, l’istituto dell’appello incidentale è disciplinato dall’art. 96, il quale, dopo aver premesso, al comma 1, che “tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza devono essere riunite in un solo processo”, prosegue stabilendo che “ possono essere proposte

52Cons. Stato Sez. V, 22 aprile 1961, n. 154; Cons. Stato Sez. IV, 21 giugno, n. 398; Cons. Stato

Sez. VI, 13 maggio 1985, n. 197.

53Cons. Stato Sez. V, 22 aprile 1961, n. 154

54

Cons. Stato Sez. IV, 11 aprile 1978, n. 289; Cons. Stato Sez. IV, 18 marzo 1980, n. 275; Cons Stato Sez. VI, 31 marzo 1981, n. 133; Cons. Stato Sez. V, 7 giugno 1983, n. 213; Cons. Stato Sez. V, 15 luglio 1983, n. 328; Cons. Stato Sez. V, 26 marzo 1984, n. 265; Cons Stato Sez. V, 18 ottobre 1985, n. 331; Cons Stato Sez. V, 25 gennaio 1986, n. 55; sembrerebbero invece orientate in senso diverso altre pronunce, nelle quali si afferma che l’appello incidentale non può essere utilizzato per ottenere l’annullamento o la riforma dello stesso capo di sentenza investito dall’appello principale: Cons. Stato Sez. V, 19 ottobre 1979, n. 584; Cons. Stato Sez. VI, 4 ottobre 1983, n. 703; Cons. Stato Sez. IV, 28 agosto 1984, n. 664.

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impugnazioni incidentali, ai sensi degli art. 33355 e 33456 del codice di procedura civile”.

Secondo quanto previsto dal comma 3: l’impugnazione incidentale di cui all’Art. 333 c.p.c. può essere risolta contro qualsiasi capo della sentenza e deve essere proposta dalla parte entro sessanta giorni dalla notifica della sentenza o, se anteriore, entro sessanta giorni dalla prima notificazione nei suoi confronti di altra impugnazione”.

Il comma 4 prevede altresì che “ con l’impugnazione proposta ai sensi dell’Art. 334 c.p.c. possono essere impugnati anche capi autonomi della sentenza, sancendo inoltre che se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde ogni efficacia”.

Il comma 5 prevede poi che “l’impugnazione incidentale di cui all’Art. 334 del codice di procedura civile deve essere proposta dalla parte entro 60 giorni dalla data in cui si è perfezionata nei suoi confronti la notificazione dell’impugnazione principale e depositata, unitamente alla prova dell’avvenuta notificazione, nel termine di cui all’articolo 45”.

Il codice disciplina due ipotesi. La prima, ossia quella di cui al comma 3, si verifica allorquando vi siano più parti, tutte legittimate ad appellare ( ad

55

Impugnazioni incidentali “ Le parti alle quali sono state fatte le notificazioni previste negli articoli precedenti debbono proporre, a pena di decadenza, le loro impugnazioni in via incidentale nello stesso processo”

56

Impugnazioni incidentali tardive “ Le parti, contro le quali è stata proposta impugnazione ( 330) e quelle chiamate ad integrare il contraddittorio a norma dell’art. 331, possono proporre impugnazione incidentale ( 333) anche quando per esse è decorso il termine ( 326,327) o hanno fatto acquiescenza alla sentenza (329).

In tal caso, se l’impugnazione principale è dichiarata inammissibile, l’impugnazione incidentale perde efficacia.

(35)

esempio nel caso in cui vi siano più soggetti, il resistente ed il controinteressato, che vogliano contestare la sentenza di primo grado, per essi sfavorevole, e che a rigore possono proporre appello incidentale57 ); in tale ipotesi la parte può proporre appello incidentale ove altra parte abbia già proposto e notificato appello principale. Naturalmente in tal caso l’appello incidentale è nella sostanza un vero e proprio appello principale dal momento che la parte è pienamente legittimata in tal senso. Conseguenza di ciò è che il termine per la proposizione dell’appello è sempre di sessanta giorni. Esso decorre, come detto, dalla notificazione della sentenza, nell’ipotesi in cui l’appello della parte più diligente venga notificato dopo la notificazione della sentenza; decorre invece dalla notificazione dell’appello proposto dalla parte più diligente se tale notifica cade anteriormente alla notifica della sentenza di primo grado.

La seconda ipotesi disciplinata dal c.p.a., ossia quella di cui al comma 4, si riferisce al caso di parziale accoglimento del ricorso di primo grado e consente alla parte appellata ( ma comunque vittoriosa sia pure parzialmente in primo grado), di formulare censure nei confronti della sentenza diverse da quelle formulate dall’appellante, le quali se accolte dal giudice di appello avrebbero comunque consentito alla medesima di mantenere inalterata la posizione di vantaggio assicuratagli dalla sentenza di primo grado.

57

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E’ evidente come l’appello incidentale si presenti strettamente dipendente dall’appello principale, anche nel codice ritroviamo il principio di accessorietà dell’appello incidentale rispetto a quello principale: fino a quando quest’ultimo non viene proposto non vi è ragione per proporre appello incidentale; ugualmente, se l’appello principale viene proposto, ma successivamente intervenga la rinuncia al medesimo, non vi è ragione di una pronuncia sull’appello incidentale.

Infine l’art. 96, comma 6, prevede che, “in caso di mancata riunione di più impugnazioni proposte contro la stessa sentenza58, la decisione di una delle impugnazioni non determina l’improcedibilità delle altre”.

2.3 L’appellabilità delle sentenze parziali e la riserva

facoltativa di appello.

Le sentenze parziali sono quelle che definiscono solo una parte della controversia devoluta al giudice, ed esse, al pari delle altre, possono essere appellate. Si è a lungo discusso se tali sentenze dovessero essere oggetto di impugnazione immediata o se potessero essere oggetto di impugnazione

58

il riferimento è all’ipotesi contemplata nel comma 3, ossia più soggetti tutti legittimati ad impugnare in via principale ed autonoma la sentenza di primo grado.

(37)

differita. La tesi per lungo tempo prevalente in dottrina59 e in giurisprudenza60 negava la possibilità di proporre appello differito, previa riserva, avverso le sentenze parziali o comunque avverso quelle interlocutorie. Tale orientamento veniva giustificato sulla scorta dell’art. 28 della Legge 1034/1971, secondo il quale l’appello andava proposto improrogabilmente entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione ella sentenza; sulla mancanza nel processo amministrativo di una norma analoga all’art. 340 c.p.c. e sulla sua inapplicabilità in via analogica; sulla difficoltà a trovare un mezzo attraverso il quale proporre riserva facoltativa di appello; infine, sul fatto che nel processo amministrativo non vigeva il principio della concentrazione delle impugnazioni.

Questa tesi non è stata condivisa da successive prese di posizione della dottrina 61 e della giurisprudenza 62 , che hanno indotto a considerarla definitivamente tramontata. Invero, la norma che stabilisce, a pena di decadenza, un termine di sessanta giorni per proporre appello non preclude che tale onere possa essere assolto con la mera proposizione di una riserva facoltativa di appello quando si tratti di una sentenza parziale. Inoltre, nel processo amministrativo, non vi sono mai state ragioni sistematiche preclusive

59

M. NIGRO, L’appello, 1960; e per la dottrina formatasi successivamente all’istituzione dei V. CAIANIELLO, Lineamenti del processo amministrativo, Torino, 1979.

60

Per la giurisprudenza che negava la proponibilità della riserva facoltativa di appello, Cons. St. Sez. V, 16 maggio 1978, n. 465; Cons. St. Sez. V, 5 maggio 1978; Cos. St. Sez. IV, 4 novembre 1980, n. 1055; Cons. St. Sez. V, 7 aprile 1989, n. 196; TAR Lombardia, sez. Brescia, 22 febbraio 1991, n. 169.

61

F. LUBRANO, il processo amministrativo di appello, Roma, 1983, favorevole all’applicazione della riserva facoltativa di appello nel processo amministrativo.

62

Cons. St. Sez. V, 7 aprile 1989, n. 196; Cons. St. Sez. VI, 15 aprile 1993, n. 289; Cons. St. Sez. V, 8 marzo 1994, n. 155; TAR Marche, 2 ottobre 1998, n. 1064.

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dell’applicazione in via analogica delle norme previste per il rito civile. Nel processo civile, l’appello avverso le sentenze non definitive può essere proposto, ai sensi dell’art. 340 c.p.c., immediatamente nel termine ordinario oppure può essere differito ( purché la parte soccombente espliciti una riserva d’appello nello stesso termine), al momento della proposizione dell’appello della sentenza definitiva.

L’istituto della riserva facoltativa di appello risponde alla finalità di concentrare le impugnazioni da proporsi avverso la sentenza in un unico processo, e costituisce evidente applicazione del principio di concentrazione delle impugnazioni63. Non si è in presenza di una conseguenza del principio dispositivo, bensì l’istituto risponde ad esigenze di economia processuale; infatti, la concentrazione delle impugnazioni consente una più celere definizione del processo, perché le controversie sottese a una stesa vicenda, venendo definite contestualmente dal giudice, richiedono tempi minori di definizione. Sotto questo aspetto la norma è chiara espressione di un principio di razionalizzazione delle attività processuali, il cui governo non può essere devoluto alle parti, ma appartiene al giudice, che procede attraverso i suoi poteri ordinatori. Sotto il predetto aspetto, la norma costituisce anche espressione del principio del giusto procedimento, perché concorre ad una definizione più celere del processo. Va inoltre aggiunto, a quanto precede, che la proposizione dell’appello avverso la sentenza parziale si potrebbe rivelare

63

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inutile in sede di sentenza definitiva; infatti, quest’ultima potrebbe far venir meno l’interesse a proporre l’appello, con la conseguenza di rendere l’appello parziale un inutile dispendio di energie.

Le stesse ragioni che nel processo civile consigliano l’applicazione della riserva facoltativa di appello, si rinvengono anche nel processo amministrativo64. Infine, non costituisce una seria difficoltà la mancata previsione di un mezzo tramite il quale proporre la predetta riserva. Appare evidente che, in mancanza di una contraria previsione, la riserva di appello andrebbe proposta nelle stesse forme previste per proporre l’appello.

Nel codice del processo amministrativo, infatti, l’art. 103 c.p.a.65, stabilisce che

“ contro le sentenze non definitive è proponibile l’appello ovvero la riserva di appello, con atto notificato entro il termine per l’appello e depositato nei successivi trenta giorni presso la segreteria del tribunale amministrativo regionale”. La riserva d’appello conferisce alla parte, l’evidente vantaggio di attendere l’esito complessivo del giudizio onde decidere se proporre ricorso in appello.

L’Art. 103 c.p.a. non precisa il contenuto della riserva facoltativa di appello; in particolare la norma non stabilisce se l’atto di riserva debba contenere anche i motivi di censura. Ragioni logico-sistematiche inducono a ritenere che ciò

64

F. SAITTA, La riserva di appello nel processo amministrativo, 2000; pur riconoscendo l’utilità dell’istituto e pur auspicando che il legislatore introduca la riserva facoltativa di appello, esclude che dal principio di economia processuale e dal principio di concentrazione delle impugnazioni, discenda la possibilità di differire l’appello avverso le sentenze parziali al momento dell’impugnazione della sentenza definitiva.

65

(40)

non sia necessario, altrimenti non vi sarebbe stata alcuna ragione per prevedere la riserva di appello66.

Va evidenziato che il Codice non prevede la riserva di appello per il ricorso per Cassazione, sia per la collocazione dell’art. 104 c.p.a. nel titolo dedicato all’appello e sia perché manca una norma analoga a quella dell’art. 104 c.p.a. nel titolo dedicato al ricorso per Cassazione.

Appare opportuno evidenziare che con il ricorso in appello è possibile impugnare una sola sentenza, altrimenti si avrebbe incertezza assoluta sull’oggetto dell’appello e conseguente nullità dell’appello. Diversamente, l’appellante verrebbe ad esercitare il potere di riunire i ricorsi, che invece l’art. 96, primo comma, c.p.a. attribuisce esclusivamente al giudice e quindi verrebbe a esercitare una prerogativa del giudice.

2.4 L’Appello sulle decisioni delle giunte provinciali

amministrative.

Prima della Legge istitutiva dei T.A.R del 1971, l’istituto dell’Appello nel processo amministrativo non era sconosciuto; era infatti prevista l’impugnazione davanti al consiglio di Stato delle decisioni emesse dalle Giunte Provinciali Amministrative in sede giurisdizionale.

66

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Il legislatore qui non dedica alla fase di gravame nel processo amministrativo che poche norme sparse in varie leggi, in particolare (in ordine di anzianità) ricordiamo: l’Art. 27 n. 16 e l’Art. 29 n. 9 e ultimo comma Testo Unico Cons. Stato; l’Art. 18 e l’Art. 22 del Testo Unico sulle Giunte Provinciali Amministrative, l’Art. 5, terzo e quarto comma D.L. C.p.S. 15 novembre 1946 n. 367; l’Art. 125 Cost.; Art. 5 secondo e terzo comma D.L. 6 maggio1948 n. 654; Art. 55, secondo comma, lett. c, l. 10 febbraio 1953 n, 62. Queste norme si possono dividere in tre gruppi: un primo gruppo, di origine più antica, comprendente le norme dei due testi unici, disciplina l’impugnativa delle decisioni delle Giunte provinciali amministrative avanti il Consiglio di Stato: di esso fa parte l’art. 22, che è la norma di gran lunga più ricca e importante di tutto l’apparato normativo in argomento; un secondo gruppo, comprendente l’art. 25 Cost., L’art.. 55 l. 10 febbraio 1953 n. 62, , e infine un terzo gruppo, comprendente le restanti norme. Problematico è stato il coordinamento dell’art. 22 t.u. G.P.A. con alcune norme del terzo gruppo, in particolare con l’art. 5, quarto comma, d.l. 15 novembre 1946 n. 367 e con l’art. 5 del d.l. 6 maggio 1948; il primo stabilisce, a proposito della Giunta amministrativa della valle d’Aosta, e per le materie non contabili, che “ i termini e le forme del

procedimento per i giudizi d’appello sono regolati dalle disposizioni vigenti in materia […] d’appello avverso le decisioni della Giunta Provinciale Amministrativa”; il secondo comma dell’art. 5 del d.l. 6 maggio 1948 si limita a disporre che “il Consiglio di giustizia amministrativa esercita, nella regione

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siciliana, le funzioni in grado di appello che nel restante territorio italiano sono esercitate dal Consiglio di Stato”; il terzo comma della stessa norma, prevedendo il ricorso all’Adunanza Plenaria delle sezioni giurisprudenziali del Consiglio di Stato, avverso le decisioni del Consiglio di giustizia amministrativa sulle impugnative di atti e provvedimenti delle autorità amministrative dello Stato, che non siano pronunciate in grado di appello, stabilisce che “vanno osservate, in quanto applicabili, le norme sulle leggi del

Consiglio di Stato”. Richiamando per l’impugnativa delle decisioni della Giunta giurisdizionale amministrativa della Val d’Aosta i termini e le forme del processo d’appello contro le decisioni delle Giunte provinciali amministrative, il legislatore intese estendere integralmente il regime vigente per quest’ultimo. E, attribuendo al Consiglio di giustizia amministrativa le funzioni d’appello già spettanti al Consiglio di Stato, il legislatore le ha trasferite come se esse fossero esercitate da quest’ultimo organo, vale a dire come erano disciplinate dall’art. 22 TU sulle Giunte Provinciali Amministrative.

Il confronto andrebbe operato anche con riferimento all’interpretazione della formula di rinvio contenuta nell’art. 5 d.l. 6 maggio 1948 “ osservando in

quanto applicabili, le norme delle leggi sul Consiglio di Stato” e come si concilia tale formula con quella diversa dell’art. 22, terzo comma “ il Consiglio

di Stato in sede giurisdizionale pronuncia sul ricorso secondo le norme e per gli effetti determinati dalla legge sul Consiglio di Stato”; si tratta di sapere se il

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