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Shareholder activism e doveri di condotta degli investitori istituzionali

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Academic year: 2021

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D265ModTPhD01

Corso di PhD

Persona e Tutele Giuridiche

Anno Accademico

2016/2017

Shareholder activism e doveri di

condotta degli investitori

istituzionali.

Autore

Antonio Principato

Relatore

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1

SOMMARIO

INTRODUZIONE ... 4

1. LO SHAREHOLDER ACTIVISM: DALL’APATIA RAZIONALE ALL’INTERVENTISMO DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI ... 5

2. LE “MAGNIFICHE SORTI E PROGRESSIVE” DELL’ATTIVISMO... 12

3. L’EVOLUZIONE STORICA DELLO SHAREHOLDER ACTIVISM ... 18

4. LE BARRIERE ALL’ATTIVISMO ... 23

4.1 PREMESSA: LA STRUTTURA DEGLI AGENCY PROBLEMS ... 23

4.2 BARRIERE “ECONOMICHE” ... 24

4.2.1 LE ASIMMETRIE INFORMATIVE E I RELATIVI COSTI ... 24

4.2.2 LA PORTFOLIO THEORY ... 26

4.2.3 I CONFLITTI D’INTERESSI ... 29

4.2.4 LE REMUNERAZIONI DEGLI ASSET MANAGERS E LO SHORT TERMISM ... 31

4.3 BARRIERE LEGALI ... 35

4.3.1 GLI OSTACOLI ALL’ESERCIZIO DEI DIRITTI SOCIALI ... 35

4.3.2 LA DISCIPLINA DEGLI ACQUISTI DI CONCERTO ... 43

4.3.3 LA TUTELA DEGLI INVESTITORI ... 44

5. L’ATTIVISMO DEGLI HEDGE FUNDS ... 46

6. IL RUOLO DELL’ATTIVISMO. LE DUE TESI CONTRAPPOSTE. ... 50

6.1 LE DUE TESI CONTRAPPOSTE E LA CRISI FINANZIARIA. ... 50

6.2 IN DETTAGLIO: LA PROSPETTIVA FAVOREVOLE ... 54

6.3 LA PROSPETTIVA SFAVOREVOLE ... 61

7. LO SHAREHOLDER ACTIVISM E IL CASO ITALIANO ... 70

8. CONCLUSIONI: UNA TERZA VIA?... 74

CAPITOLO II ... 81

1. PREMESSA ... 81

2. IL RAPPORTO TRA GESTORI E RISPARMIATORI ... 82

2.1 IL DOVERE DI DILIGENTE GESTIONE ... 88

2.2 GLI INTERESSI DA TUTELARE E IL DOVERE DI LEALTÁ ... 94

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3.0.1 EVOLUZIONE DEI DOVERI FIDUCIARI E ESG ISSUES ... 105

3.1 LE IMPLICAZIONI DI UNA NUOVA DEFINIZIONE DEI DOVERI FIDUCIARI ... 114

3.2 LA POSIZIONE DEI CLIENTI ... 118

4. LE REGOLE SULL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI VOTO ... 127

4.1 LE STRATEGIE PER L’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI VOTO ... 130

5. IL PROBLEMA DELLA INVESTMENT CHAIN ... 135

6. I PRINCIPI DI STEWARDSHIP COME REGOLAZIONE DELL’ADEMPIMENTO DI DOVERI FIDUCIARI... 139

6.1 LO STEWARDSHIP CODE INGLESE ... 140

6.2 NEL DETTAGLIO: LE PREVISIONI DEL CODE ... 144

6.3 LO STEWARDSHIP CODE STATUNITENSE ... 147

7. DOVERI DI ENGAGEMENT E SHAREHOLDERS’ RIGHTS DIRECTIVE ... 148

8. CONCLUSIONI ... 155

CAPITOLO III ... 157

1. LE CRITICHE AL CODE ED I SUOI RISULTATI ... 157

1.1 IN PARTICOLARE: L’APPROCCIO DI SOFT LAW ... 160

1.2 LE DEBOLEZZE DI UN APPROCCIO DISCLOSURE-BASED. ... 165

2. IL LATO PUBBLICO DELLA STEWARDSHIP ... 169

3. I LIMITI E LA DEFINIZIONE DELL’ “INTERESSE PUBBLICO”, TRA ESG ISSUES E TUTELA DEGLI STAKEHOLDERS. UN CAMBIO DI PARADIGMA? ... 175

3.1 BREVI CONCLUSIONI IN TEMA DI INTERESSE PUBBLICO NELL’ESERCIZIO DEI DIRITTI SOCIALI ED UNA NOTA IN TEMA DI DOVERI FIDUCIARI ... 180

4. UN NUOVO APPROCCIO ... 183

5. IL PUBLIC ENFORCEMENT E LA SANZIONE DELLE CONDOTTE “IRRESPONSABILI” DEI GESTORI ... 187

5.1 I LIMITI ALLA DIVERSIFICAZIONE ED ALLA ROTAZIONE DI PORTAFOGLIO ... 197

5.2. LA VALUTAZIONE DEL RENDIMENTO E LA REMUNERAZIONE... 202

5.3. GLI “ASSETTI ORGANIZZATIVI” DELLA SGR ... 207

6. L’APPROCCIO PREMIALE ... 212

CONCLUSIONI ... 216

(4)
(5)

4

INTRODUZIONE

L’intento del presente lavoro è quello di affrontare il tema dell’attivismo degli investitori istituzionali nella governance delle società partecipate a partire da un punto di vista relativamente inconsueto, al centro però di una sempre maggiore attenzione negli ultimi anni: quello delle regole di condotta degli stessi investitori istituzionali nell’esercitare i diritti sociali e, più in generale, del riflesso delle regole di comportamento che incombono su di essi sul funzionamento delle società in cui acquistano partecipazioni sociali.

Non ci si dedicherà dunque all’analisi di temi di corporate governance su cui la riflessione è più consolidata, quali i diritti delle minoranze azionarie, nelle tantissime sfaccettature che questa materia può assumere. D’altro canto, nel guardare alle regole di condotta degli investitori istituzionali, solo incidentalmente si analizzeranno le regole “tradizionali” (si pensi alla disciplina in tema di informazione precontrattuale) che gravano sul gestore in monte del risparmio e che sono volte alla tutela dei suoi clienti.

Piuttosto, sia la riflessione di diritto societario su diritti e poteri delle minoranze azionarie, sia quella di diritto dei mercati finanziari sulle regole di condotta dei gestori di fondi di investimento, saranno punti di riferimento essenziali per comprendere come regolare ed incentivare l’attivismo degli investitori istituzionali stabilendo dei doveri e delle responsabilità in capo agli stessi.

Alla luce di ciò, il primo capitolo delineerà le ragioni storiche della predisposizione di diritti delle minoranze, funzionali ad un attivismo delle stesse, e gli ostacoli ad un effettivo esercizio di tali diritti. Il secondo capitolo si concentrerà sui doveri fiduciari che incombono sugli investitori istituzionali e su come questi frenino l’attivismo e, al contempo, lo rendano, almeno in parte, doveroso.

Il terzo capitolo cercherà, infine, sulla base delle premesse costruite nei primi due, e dando conto delle recenti innovazioni a livello di codici di autodisciplina e di legislazione europea, di comprendere come si possa regolare il comportamento degli investitori istituzionali sia quanto all’impatto che le loro strategie di investimento hanno sugli emittenti, sia quanto all’esercizio dei diritti sociali. Il tutto nella piena consapevolezza della difficoltà di dare una risposta efficace, in termini regolatori, a questioni che hanno una forte problematicità anche dal punto di vista economico. Su questo versante, però, si partirà dal presupposto che la crisi finanziaria del 2008, nel mettere in discussione certezze e paradigmi consolidati, offre la possibilità di riflettere su questi argomenti anche prescindendo da dogmi precedentemente ritenuti insuperabili.

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5

CAPITOLO I

1. LO SHAREHOLDER ACTIVISM: DALL’APATIA RAZIONALE

ALL’INTERVENTISMO DEGLI INVESTITORI ISTITUZIONALI

La struttura delle società per azioni si caratterizza per una separazione tra proprietà e controllo, cioè per una peculiare divisione di poteri tra proprietà della società, vale a dire i soci, e, gestione della stessa, riservata agli amministratori.

Tale peculiare divisione di poteri è variamente articolata, a seconda delle scelte di disciplina adottate nei vari ordinamenti, che attribuiscono più o meno rilievo decisionale in tema di gestione dell’impresa ai soci, e, nel caso specifico della società per azioni, all’assemblea - luogo della “democrazia azionaria”, in cui si esprimono gli orientamenti dei titolari delle partecipazioni sociali - ed agli amministratori. In generale, l’allocazione dei poteri gestori avviene a vantaggio di questi ultimi, che, in quanto soggetti professionali e più informati, assumono l’obbligo di gestire diligentemente la società. Ciò non toglie che gli azionisti, in quanto assumono il rischio d’impresa e sono portatori del “residual claim” sui beni e i proventi dell’attività sociale, assumono un ruolo di rilievo anche ai fini della governance, in particolare essendo ad essi tendenzialmente attribuito il potere di nomina (e di revoca) degli amministratori, essendo necessaria la loro approvazione per il compimento di talune operazioni di particolare rilievo per la vita sociale e, in alcuni ordinamenti, essendo attribuita ai soci anche una qualche capacità di influenzare direttamente le scelte gestionali del board.1

In tale segmentazione dei poteri, e nel modo in cui gli azionisti svolgono il loro ruolo e partecipano alla governance sociale, assume rilievo anche la struttura del mercato azionario ed in particolare il fatto che la proprietà sia concentrata o diffusa. Laddove la proprietà azionaria è concentrata, è maggiore la capacità, da parte degli azionisti controllanti, di influenzare gli amministratori, mentre in caso di proprietà diffusa questi ultimi avranno la possibilità di agire con maggiore libertà.

Tale ultima situazione è tipica del mondo anglosassone, in cui è ampiamente diffusa la figura delle public companies, la cui proprietà è appunto dispersa tra miriadi di azionisti, nessuno dei quali tipicamente riesce ad esercitare un controllo stabile sulla società. Ciò conduce ad una realtà in cui la stessa gestione della società è fondamentalmente priva di controllo da parte degli azionisti, in virtù della presenza di un disinteresse di questi che prende il nome di “apatia razionale”. È il cosiddetto “managerial capitalism”, in cui l’operato degli amministratori risulta scollegato dalla proprietà azionaria, che non riesce a vigilare su di essi, dando loro la possibilità di

1 P.ABBADESSA,A.MIRONE, Le competenze dell’assemblea nella SPA, in Riv. Soc., 2010, 2-3, p. 269;

M.MAUGERI, Considerazioni sul sistema delle competenze assembleari nella s.p.a.;P.ROSE,B.S. SHARFMAN, Shareholder Activism as a Corrective Mechanism in Corporate Governance, in BYU L.

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6

esercitare i loro poteri senza uno stretto controllo da parte di chi si assume il rischio economico dell’attività imprenditoriale.2

Di apatia razionale e shareholder passivity scrivono in particolare Berle e Means in un celebre saggio del 19323: ove nessun azionista possieda una partecipazione di rilievo ed ove possa in qualsiasi momento, dunque, facilmente smobilizzare l’investimento effettuato, tenuto anche conto della tendenziale non specializzazione dell’azionista “retail”, nessun interesse vi è per esso a monitorare l’andamento della società, verificando che gli amministratori diligentemente adempiano ai propri doveri.

Il monitoraggio sarebbe una scelta ottimale da un punto di vista collettivo, ma non lo è da un punto di vista individuale, in quanto i benefici connessi ad un impegno in prima persona dell’azionista nel monitorare l’amministrazione della società risultano minori dei costi derivanti da tale impegno ove tale soggetto detenga una percentuale minima del capitale azionario, anche alla luce della non professionalità di tale soggetto e delle asimmetrie informative sussistenti tra principal e agents: gli amministratori, in quanto detentori di una maggiore quantità di informazioni sull’andamento sociale, sono difficilmente controllabili dai soci in modo efficace.4 Inoltre, il singolo azionista di una public company ha ben poche possibilità, per quanto attivamente esplichi un’attività di monitoraggio, di incidere effettivamente sulle scelte della società partecipata, poiché di norma l’entità della partecipazione posseduta non è tale da consentire di influenzare la gestione sociale. Ciò scoraggia ulteriormente dall’investire tempo e risorse in tale attività.

Il modello cui è riconducibile la relazione tra azionisti e amministratori è tendenzialmente, nelle ricostruzioni dottrinali, quello dell’agency,5 in cui il rapporto

2 A.F.A.F.CONARD, Beyond managerialism: investor capitalism?, in U. Mich. J.L. Reform, vol. 22

(1988-1989), p. 117.

3 A.A.BERLE,G.MEANS, The Modern Corporation and Private Property, Somerset, 1932. 4 S.M.BAINBRIDGE, Shareholder Activism and Institutional Investors, in papers.ssrn.com, 2005. 5 M.C. JENSEN, W.H. MECKLING, Theory of the Firm: Managerial Behavior, Agency Costs, and Ownership Structure, in J. Fin. Econ., vol. 3 (1976), p. 305; A.SHLEIFER,R.V.VISHNY, A survey of

corporate governance, in The Journal of Finance, vol. 52 (1997), 2, p. 737. D’altro canto, non mancano

proposte alternative, come quella che concepisce gli amministratori come stewards degli azionisti (c.d.

stewardship theory). Una prospettiva radicalmente diversa assume chi ritiene che in realtà i soci non

abbiano diritto a particolari poteri inerenti la gestione della società in quanto, in concreto, non sono questi ad assumersi i rischi dell’attività imprenditoriale che ricadono in effetti sui creditori o sui dipendenti, in generale su altri contributori all’attività sociale. Così L. E. MITCHELL, The legitimate

rights of public shareholders, in Washington and Lee Review, vol. 66 (2009), p. 1635, ed in generale

l’argomento che non possa leggersi propriamente il rapporto tra azionisti e amministratori in termini di relazioni tra proprietari e “agents” è mosso anche da altri autori critici dello shareholder activism, come ad esempio M.LIPTON,W.SAVITT, The many myths of Lucian L. A. Bebchuk, in Virginia Law Review, vol. 93 (2007), p. 733; L.A.STOUT, The mythical benefits of shareholder control, in Va. L. Rev., vol. 93 (2007), p. 789, a p. 804; M.BLAIR,L.A.STOUT, A Team Production Theory of Corporate Law in

Va. L. Rev., vol.85 (1999), p. 247. In particolare, nella dottrina nordamericana, si distingue tra una

“entity conception”, secondo la quale obiettivo della gestione è promuovere il benessere della società sul lungo periodo, a tutela di tutte le “constituencies” della stessa, e una concezione “proprietaria”, per cui la società deve tutelare gli interessi degli azionisti, in questo senso J.B.JACOBS, "Patient Capital": Can Delaware Corporate Law Help Revive It?, in Wash. & Lee L. Rev., vol. 68 (2011), p. 1645, a p.

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tra principale (azionisti) e agente (amministratore) vede quest’ultimo privo di controllo e quindi in grado di perseguire interessi propri, altri rispetto a quelli dei primi, che sono allora vulnerabili rispetto ad eventuali abusi e comportamenti opportunistici. È una situazione riconducibile al classico modello del moral hazard, in cui il comportamento dell’agente non è (perfettamente) osservabile. Tra gli interessi che questo può perseguire, ad esempio, rientrano l’ottenimento di salari elevati e scollegati dall’effettiva performance svolta. In più, l’amministratore potrà anche avere incentivo a massimizzare le performance della società in maniera “scorretta”, agendo ad esempio, in base a valutazioni di breve termine (utili dunque a fare apparire la sua gestione particolarmente positiva) invece che guardando alla sostenibilità delle sue decisioni sul lungo periodo (anche se questo, come si vedrà, è un rischio in parte attribuibile agli stessi azionisti).

Con il prevalere a livello globale di un modello di corporation in cui l’interesse ultimo da tutelare è quello degli azionisti6, gran parte dell’attenzione del dibattito in tema di

corporate governance si è dunque focalizzata sulle modalità tramite le quali ridurre i

disallineamenti di incentivi tra azionisti ed amministratori, riducendo i costi di agency derivanti dal mancato controllo dei primi su di essi.7 Una delle strategie per ridurre i problemi di agenzia sta nell’attribuire un compito di controllo agli altri membri, non esecutivi, del consiglio di amministrazione, che dovrebbero monitorare gli amministratori che assumono compiti gestionali; alternativamente, si sono costituiti organi che assumono il compito di controllo sulla gestione dell’attività sociale, a tutela dei soci.8

In aggiunta, un controllo di tipo esterno si ha nel mercato per il controllo societario, che dovrebbe segnalare – e risolvere - le inefficienze nella governance societaria o le condotte scorrette tenute nel board. Come noto, infatti, le offerte pubbliche d’acquisto hanno un effetto di disciplina sugli amministratori in quanto in corrispondenza di una loro gestione non soddisfacente il mutamento del controllo della società potrà comportare una loro sostituzione.9 Si tratta, però, di uno strumento non sempre perfettamente funzionale, anche alla luce del fatto che gli amministratori stessi tendono a proteggere la società (o meglio, la loro posizione nella stessa) ricorrendo a strategie difensive complesse. Tali strategie vanno spesso a danno degli azionisti, sia a causa del loro costo, sia per la perdita di plusvalore derivante dal fallimento dell’offerta

negli anni trenta che trova, nel nostro ordinamento, un corrispondente nella contrapposizione tra istituzionalismo e contrattualismo.

6 H.HANSMANN -R.KRAAKMAN, The end of history for corporate law, in Geo. L. Jour., vol. 89 (2001),

p. 439.

7 In generale, in tema R.KRAAKMAN -P.DAVIES -H.HANSMANN -G.HERTIG -K.J.HOPT -H.KANDA

-H.B.ROCK, Diritto societario comparato (a cura di L.ENRIQUES), Bologna, 2006, p. 29.

8 P.MONTALENTI, La Società Quotata, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G.COTTINO, vol.

IV, 2, Padova, 2004, p. 197 ss.; G.CAVALLI, I sindaci. Le funzioni del collegio, in Trattato della società

per azioni, diretto da G.E.COLOMBO e G.B.PORTALE, 5, Torino, 1998, p. 85.

9 H.G.MANNE, Mergers and the Market for Corporate Control, in 73 J. Pol. Econ. 1965, p. 110, a p.

119; Y.NILI, Missing the forest for the trees: a new approach to shareholder activism, in 4 Harv. Bus.

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pubblica d’acquisto, e ciò senza che gli azionisti stessi, in un contesto di azionariato disperso, abbiano gli incentivi ed i poteri sufficienti ad impedire tali condotte.

Centrale, nell’ottica della risoluzione dei problemi di agency, è poi l’attribuzione agli azionisti di poteri che consentano di influenzare gli amministratori in modo da allineare gli interessi di questi ultimi a quelli degli azionisti stessi. Tali poteri verranno esercitati soprattutto in caso di comportamenti scorretti o di una gestione poco efficiente dell’impresa sociale, ma anche in questo caso l’apatia razionale rende sovente inefficaci tali strumenti. Allo stesso tempo, un importante ruolo assume anche una più frequente e dettagliata comunicazione di informazioni sull’andamento della società agli azionisti, ma non sempre tali informazioni sono facilmente e pienamente comprensibili da soggetti non specializzati.

Il descritto paradigma di managerial capitalism si afferma in occidente in seguito ad un indebolirsi del potere delle imprese finanziarie sui board, fenomeno che prende piede negli anni tra il New Deal e Bretton Woods.10 Tale paradigma viene però a cambiare con l’evoluzione considerevole che hanno avuto i mercati finanziari a livello globale negli ultimi decenni. A partire dagli anni sessanta, infatti, sempre maggiore rilievo hanno, come detentori di partecipazioni azionarie, i cosiddetti investitori istituzionali, in quanto la proprietà azionaria, precedentemente dispersa tra un numero elevatissimo di piccoli azionisti, torna a concentrarsi nelle mani di tali istituzioni11, che possono dunque più facilmente avere accesso alle “stanze dei bottoni” ed esercitare pressioni nei confronti del management delle società di cui si possiedono i titoli, orientandone dunque la composizione e le scelte gestionali.

Quella degli investitori istituzionali è una categoria dalla composizione variabile, in cui si fanno rientrare vari tipi di collettori del pubblico risparmio, dalle banche alle assicurazioni, dai fondi pensione agli hedge funds ai normali fondi di investimento. Proprio i fondi, ed i relativi gestori, alla luce del loro ruolo centrale nel panorama attuale verranno analizzati in questo lavoro, e ad essi ci si riferirà richiamandosi alla categoria “investitori istituzionali”.

I soggetti citati sono caratterizzati dallo svolgere attività di investimento a livello professionale e quindi dall’adozione di un modello di attività che li porta ad acquistare pacchetti azionari di una certa consistenza. Di conseguenza, essi non hanno (rectius, hanno un minore) disinteresse per il monitoraggio, sia perché in grado di acquisire più informazioni e valutare più attentamente l’andamento delle società partecipate, e al

10 P.IRELAND, Financialization and corporate governance, in 60 N. Ir. Legal Q., 2009, p. 1.

11 R.MARTIN P.D.CASSON T.M.NISAR, Investor Engagement: Investors and Management Practice under Shareholder Value, Oxford, 2007, p. 37; A. PICHHADZE, The nature of corporate ownership in

the USA: the trend towards the Market Oriented Blockholder Model, in Capital Markets Law Journal,

vol. 5 (2010), p. 63;J.C.COATES, Thirty years of evolution in the roles of institutional investors in

corporate governance, in J.G.HILL –R.S.THOMAS (a cura di), Research Handbook on Shareholder

Power, Cheltenham - Northampton, 2015, p. 76, a p. 89; sul rilievo degli investitori istituzionali come

detentori del capitale azionario delle società quotate a livello globale OECD, The Role of Institutional

Investors in Promoting Good Corporate Governance, in www.oecd.org, 2011, p. 20; per una

panoramica a livello europeo, OEE, IODS, Under The Tender: Who Owns The European Economy?

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contempo di coordinarsi con altri investitori, sia perché la detenzione di partecipazioni di notevole entità – e sovente di non facile smobilizzo immediato – fa sì che essi siano maggiormente legati alle sorti delle società partecipate ed abbiano dunque un maggiore interesse alla loro corretta gestione.12 L’opzione della exit, vale a dire la possibilità che l’investitore istituzionale segua la c.d. Wall Street Rule e, dinanzi ad una società mal gestita, si limiti ad alienare i titoli posseduti, risulta limitata (ma non esclusa, ed anzi, evitare che essa venga preferita alla voice resta uno dei maggiori problemi). Ciò sia per la minore liquidità dell’investimento, e dunque per l’impossibilità che la cessione di un pacchetto azionario consistente non comporti una perdita a fronte della diminuzione del valore delle stesse, sia perché, ove l’informazione sulla strategia “critica” sia pubblica, il valore dei titoli potrebbe essere già in caduta prima che l’investitore istituzionale provveda ad alienarli,13 sia, infine, per la necessità di mantenere determinati investimenti in portafoglio (è il caso degli index funds).14 Gli investitori istituzionali, oltre ad avere un maggiore interesse ed una maggiore capacità di esercitare i propri diritti, assumono anche un dovere in questo senso nei confronti dei loro clienti. Come si vedrà più avanti, infatti, rientra tra gli obblighi del gestore di un fondo quello di gestire diligentemente anche i diritti partecipativi connessi agli strumenti finanziari di proprietà del fondo stesso. Di conseguenza, questo ha anche dei vincoli nell’esercizio dei poteri riconosciutigli dall’ordinamento, dipendenti dalla necessità di perseguire al meglio gli interessi dei propri clienti. La portata di tali obblighi – e la presenza di consistenti ostacoli al loro perfetto adempimento – comporterà necessariamente che questi vadano analizzati nell’ottica di comprendere il modo in cui i doveri gestionali dell’investitore istituzionale si contrappongono – o si compongono – con l’intento di garantire una migliore

governance della partecipata.

12 Gli studi dedicati alla tematica dello shareholder activism e che ne pongono le premesse teoriche non

possono materialmente essere citati tutti. Tra gli altri, E. B. ROCK, The Logic and (Uncertain)

Significance of Institutional Shareholder Activism, in Geo. L. J., vol. 79 (1991), p. 445; B. S. BLACK,

Agents watching agents: the promise of institutional investors voice e The Value Of Institutional Investor Monitoring: The Empirical Evidence in UCLA Law Review, vol. 39 (1992), p. 811; A. F.

CONARD, Beyond Managerialism: investor capitalism?, cit., il quale si focalizza sulla promozione dello

shareholder activism come evoluzione e miglioramento rispetto ad altre strategie volte a contenere il

potere degli amministratori che avevano avuto pochi risultati in precedenza; J. POUND, The rise of the

political model of corporate governance and corporate control, in N.Y.U. L. Rev., vol. 68 (1993), p.

1003.

13 Si tenga anche in considerazione che vi è una notevole somiglianza tra i portafogli dei vari investitori

istituzionali, e che, dunque, nel momento in cui uno di essi desidererà procedere alla vendita di azioni di un’emittente underperforming, troverà difficile anche solo rintracciare un acquirente, tenuto conto che pacchetti azionari delle dimensioni di quelli posseduti da un investitore istituzionale possono circolare sostanzialmente solo tra di essi.

14 A. F. CONARD, Beyond Managerialism: investor capitalism, cit., p. 145; G. JACKSON, A new financial capitalism? Explaining the persistence of exit over voice in contemporary corporate governance, in European Management Review, vol. 5 (2008), p. 23; per il minor ruolo dell’exit come alternativa alla voice nel contesto odierno si vedano anche le brevi considerazioni svolte da M. BIANCHI, L’attivismo

degli investitori istituzionali nel governo delle società quotate: un’analisi empirica, in M. MAUGERI (a cura di), Governo delle società quotate e attivismo degli investitori istituzionali, Milano, 2013, p. 8.

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Altri incentivi sono poi ricollegabili a esigenze di carattere reputazionale e financo ad una sensibilità di tipo “politico” degli investitori istituzionali, almeno di coloro tra essi che più facilmente sono ricollegabili ad altre istituzioni (si pensi ai fondi pensione).15 Gli investitori istituzionali sono dunque figure funzionali alla risoluzione del problema di agency sussistente tra azionisti e amministratori. Proprio in ragione di ciò, nella definizione delle policy volte a migliorare il funzionamento dei mercati finanziari e della governance delle società e, dunque, in ultima analisi, il sistema economico, risulta sovente evidenziato il loro ruolo.16

D’altro canto, come verrà approfonditamente analizzato, il ruolo degli investitori istituzionali è fortemente dibattuto, così come il fatto che il loro influsso sul board sia effettivamente positivo. Che la gestione della società sia ordinariamente affidata a quest’ultimo risponde, come noto, ad esigenze di carattere economico e di efficienza gestionale17, dato che gli amministratori assumono specifiche responsabilità e sono di norma scelti in base alle loro competenze nel settore specifico di operatività dell’impresa, che sono raramente patrimonio comune anche delle conoscenze degli

asset managers: l’amministratore deve essere lasciato libero di fare e persino di

sbagliare ed ovviamente, nel momento in cui il controllo su di esso diviene più stretto, la sua libertà viene meno ed è più forte il condizionamento sulle sue decisioni operato da altri soggetti. D’altro canto, quantomeno nelle public companies, gli amministratori possono essere visti anche come coloro che compongono differenti interessi all’interno della società, guardando alla tutela di tutti i vari stakeholders della stessa, mentre gli investitori istituzionali tendono fondamentalmente, se non esclusivamente, alla massimizzazione dello shareholder value. Il dibattito sullo shareholder activism diviene dunque, in qualche modo, dibattito sulla shareholder democracy, e sulla ripartizione di competenze e poteri all’interno della governance della società per azioni.

Il passaggio a questo (new) financial o investor capitalism, 18dunque, pone in evidenza nuove e complesse dinamiche e nuovi e complessi interessi dei soggetti che operano

15 J. POUND, The rise of the political model, cit., p. 1045.

16 La OECD, nei suoi Principles of Corporate Governance, afferma che “The effectiveness and credibility of the entire corporate governance framework and company oversight depend to a large extent on institutional investors’ willingness and ability to make informed use of their shareholder rights and effectively exercise their ownership functions in companies in which they invest.”

17 S. M. BAINBRIDGE, Shareholder activism and institutional investors, cit., p. 8. In questo senso basti

porre mente al fatto che, pur in un contesto in cui venivano notevolmente ampliati i diritti delle minoranze azionarie, come noto, la riforma del diritto societario italiana del 2003 ha rafforzato il ruolo dell’organo amministrativo a scapito delle competenze dell’organo assembleare.

18 Nozione, quella di “financial capitalism”, assai complessa e che incorpora diverse differenti tendenze

del capitalismo moderno. In tema G. R. KRIPPNER, The Financialization of the American Economy, in Socioecon Rev, 2005, p. 175 e G. A. EPSTEIN, Introduction, in G. A. EPSTEIN (a cura di),

Financialization and the World Economy, Cheltenham - Northampton, 2005, p. 3, che ne riporta il

significato a “the increasing role of financial motives, financial markets, financial actors and financial

institutions in the operation of the domestic and international economies”.Per un’analisi su come essa

si è sviluppata nel contesto economico italiano, come noto assai diverso da quelli anglosassoni per la presenza di assetti proprietari più concentrati e per il fatto che gli investitori istituzionali emergono

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nel mercato finanziario nell’esercitare un’influenza sulle società in cui acquisiscono titoli, anche alla luce della diversità degli stessi investitori per caratteristiche, clienti e strategie. Se l’obiettivo è quello di massimizzare l’interesse degli azionisti, non può non rilevarsi come questo possa assumere un carattere diverso a seconda di quale investitore istituzionale entra in gioco. Una definizione alternativa è quella di fiduciary

capitalism, che fa leva sui doveri fiduciari che i gestori hanno di operare nel miglior

interesse dei loro clienti.19

Il dibattito sullo shareholder activism storicamente nasce e si sviluppa in ordinamenti ove la proprietà azionaria è assai diffusa, e dove il modello principe è quello delle

public companies, sistemi cioè in cui, in virtù della rarità della presenza di azionisti di

controllo, più forte è il problema di agency sopra delineato tra azionisti proprietari e

management: si parla di assetti caratterizzati da un vero e proprio “controllo a

supervisione finanziaria”.20 Nonostante ciò, esso trova oggi spazio anche laddove il mercato per il controllo societario sia strutturato diversamente, e differenti siano le questioni di agency che vengono in rilievo. Da un lato, infatti, il problema del ruolo degli investitori istituzionali nella corporate governance si pone in concomitanza con la diffusione del modello delle public companies anche fuori dal mondo anglosassone; d’altro canto, anche ove, come in Italia, continua a persistere un controllo concentrato e non diffuso nella maggior parte delle società quotate,21 gli investitori istituzionali possono assumere una funzione che valga a monitorare il comportamento dei soci di controllo, piuttosto che degli amministratori, e conseguentemente ad evitare che tali soci si approprino dei benefici privati del controllo o, in generale, che si verifichino abusi da parte dei soci di maggioranza a danno dei soci di minoranza.22 Inoltre, la sempre maggiore disponibilità di strumenti di voice (vale a dire di diritti esercitabili dai soci allo scopo di provare a “cambiare le cose”)23 consente, anche in casi ove vi è una maggioranza azionaria stabile, di partecipare alla governance sociale, e tale possibilità può spingere gli investitori istituzionali a sopportare i costi dell’attivismo ed a tenere condotte “attive” anche in presenza di un socio di controllo.

Infine, va rilevato come oggi i fondi, fra cui anche e soprattutto quelli più attivi come i fondi speculativi, o hedge funds, tendano ad espandere le loro attività anche all’estero,

come azionisti di rilievo solo in tempi relativamente recenti, A. SALENTO, Financialization of

companies and shareholder value maximization in Italy, in papers.ssrn.com, 2014.

19 J. HAWLEY A.WILLIAMS, The rise of fiduciary capitalism How Institutional Investors can make corporate America more democratic, Philadelphia, 2000, p. 58 che a loro volta fondano la loro

definizione a partire da quella di “pension fund socialism”, suggerita da P. F. DRUCKER, The Unseen

Revolution: How Pension Fund Socialism Came to America, New York, 1976 basata sul fatto che con

l’evoluzione del sistema finanziario e la dispersione della proprietà delle grandi società, gli Stati Uniti sarebbero stati il primo Paese autenticamente “socialista”, in quanto i lavoratori avrebbero in un certo senso posseduto i mezzi di produzione.

20 A.CORTESI V.LAZZAROTTI, Lo Shareholder Activism e la tutela delle minoranza azionarie, in Riv. Dott. Comm., 1996, 5, p. 803.

21 CONSOB, Rapporto 2014 sulla corporate governance delle società quotate italiane, in www.consob.it, 2014.

22 OECD, The Role of Institutional Investors in Promoting Good Corporate Governance, cit., p. 21. 23 In tema A. O. HIRSCHMAN, Exit, voice and loyalty, Harvard, 1970.

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e dunque possano esportare i propri modelli di comportamento, tra cui la tendenza ad esercitare diritti di voice nelle società partecipate, anche in Stati dove i fondi domestici tendono a comportamenti passivi per motivi inerenti la struttura del mercato, la presenza di conflitti d’interessi o di altre barriere all’attivismo.

2. LE

“MAGNIFICHE

SORTI

E

PROGRESSIVE”

DELL’ATTIVISMO.

L’assunto alla base del ragionamento è quindi che gli investitori istituzionali possano influire sulle società partecipate, in particolare (ma non solo) in condizioni di struttura proprietaria non concentrata e ove la partecipazione raggiunga una dimensione di un qualche rilievo. Laddove vi sia un azionista di controllo è più difficile che le proposte degli investitori istituzionali, azionisti di minoranza, vengano accolte, né questi potranno credibilmente minacciare gli amministratori di lanciare una proxy fight per ottenerne la sostituzione (teoricamente, inoltre, la presenza di un’azionista di controllo dovrebbe ridimensionare i problemi di agency tra proprietà e organo amministrativo). Similmente, la dimensione della partecipazione deve essere tale da costituire una credibile minaccia per il management (o per il socio di controllo) e da “costringere” il gestore a preferire l’esercizio dei diritti di voice all’exit.

Tuttavia, anche in presenza di azionisti di controllo (come si vedrà nell’esaminare l’evolversi dell’attivismo nel nostro ordinamento) gli investitori istituzionali possono esercitare un’influenza sulla governance24e, allo stesso tempo, anche investitori istituzionali con partecipazioni di dimensione relativamente ridotta possono produrre danni, ad esempio di carattere reputazionale, alla società o trovarsi in condizione di non poter optare per l’exit.

Dunque, si può ritenere che, anche in presenza di un assetto proprietario non contendibile e di una partecipazione non particolarmente rilevante, gli investitori istituzionali possano avere un’influenza, sia ricorrendo ai diritti sociali esercitabili in quanto minoranza, sia poiché la segnalazione del loro dissenso rispetto alle scelte gestionali potrebbe comunque avere un impatto sul mercato e sul valore che esso dà alle azioni della società partecipata. Il problema su questo versante riguarda più l’incentivo ad intervenire attivamente, che è maggiore quanto più è rilevante la partecipazione dell’investitore istituzionale.

L’attivismo può esplicarsi in modi assai diversi tra loro, ed in particolare sia tramite un’influenza “indiretta”, data già dalla mera presenza di investitori “critici”, sia, ciò che risulta più interessante, in forma diretta: attivismo, nel senso che assicura una “disciplina” degli amministratori, può addirittura essere ritenuto l’exit dalla società25.

24 In tema K. KASTIEL, Against all odds: shareholder activism in controlled companies, in Columbia Business Law Review, 2016, p. 60.

25 A. ADMATI P.PFLEIDERER, The “Wall Street Walk” and Shareholder Activism: Exit as a Form of Voice, in The Review of Financial Studies, vol. 22 (2009), 7, p. 2445. Ciò sia perché l’exit influisce sul

valore dei titoli e quindi, laddove all’andamento di essi sia legata la remunerazione degli amministratori, incentiva questi ultimi ad evitarla; sia perché in un ordinamento in cui il market for corporate control risulta sviluppato la pressione informale che si fonda sulla minaccia di exit può avere buone possibilità

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All’attivismo possono però riportarsi soprattutto pratiche riconducibili all’esercizio di una voice nella società partecipata, sotto forma di interventi in assemblea, di partecipazione alle delibere mediante il voto, di proposta di nuove delibere, di esercizio di diritti esterni al momento assembleare (ad esempio l’azione di responsabilità). Un’altra tipologia di attivismo, o, meglio, di strumenti disponibili per gli attivisti, probabilmente più riconducibile a quanto avviene in concreto, è quella connessa all’esercizio di un’influenza informale da parte degli investitori istituzionali, che avviene dunque fuori dagli ordinari canali tramite i quali l’azionista partecipa alla gestione societaria, spesso attraverso colloqui e incontri più o meno informali (ad esempio i c.d. roadshow). Su questo versante, anzi, può ritenersi che un approccio riservato sia tendenzialmente la via preferenziale tramite cui si cerca di influenzare la

governance societaria, allo scopo di evitare che la sussistenza di criticità gestionali

emerga nel mercato. L’intraprendere una campagna attivista si configura solo come un esito eventuale in assenza di un accordo con i destinatari delle sollecitazioni informali stesse.26

Centrale per l’attribuzione di una funzione di monitoraggio del management agli investitori istituzionali è, ovviamente, l’esercizio dei diritti normalmente riconosciuti agli azionisti. Si è già fatto cenno all’importanza della facoltà, riconosciuta ai titolari delle partecipazioni azionarie, di nominare (e revocare) gli amministratori, ed in questo senso negli anni vari ordinamenti si sono preoccupati di agevolare le possibilità di partecipazione all’assemblea per gli investitori istituzionali, così come di contribuire all’elezione di membri dei consigli di amministrazione. Similmente, gli investitori istituzionali potrebbero assumere un ruolo attivo attraverso la stessa promozione di delibere in sede assembleare. Quel che più rileva è la funzionalità dell’attribuzione di poteri alle minoranze azionarie qualificate al fine di consentire loro di esercitare pressioni sull’amministrazione delle società, poteri che dunque, quanto più si è ritenuto utile la partecipazione alla governance degli investitori istituzionali, tanto più si è ritenuto dovessero essere estesi e di facile utilizzo.

L’esito dell’attivismo è, o dovrebbe essere, quello di influenzare - in senso migliorativo - la performance della società partecipata, per quanto in taluni casi esso si prospetti anche come funzionale al raggiungimento di obiettivi di natura diversa e non strettamente economici. Ciò tramite l’influsso sulla struttura della governance

di riuscita, in quanto ricollegabile ad un possibile ricambio dei vertici societari. Differentemente, in mercati caratterizzati da minore liquidità, come sovente sono quelli dell’Europa continentale, la minaccia dell’exit (come, in generale, la mancata reattività della società rispetto al monitoraggio degli investitori istituzionali), finisce per avere scarsi effetti, in quanto anche ove ciò abbia effetti sul prezzo delle azioni, minori sono i rischi che corre il management. E. MICHELER, Facilitating Investor

Engagement and Stewardship, in European Business Organization Law Review, vol. 14 (2003), 1, p.

29.

26 In generale, per “pesare” l’uso delle varie strategie attiviste, tra exit, voice “formale” e voice

“informale, si veda l’indagine di J. A. MCCAHERY -Z.SAUTNER -L.T.STARKS, Behind the Scenes: The

Corporate Governance Preferences of Institutional Investors, in Journal of Finance, vol. 63 (2015), p.

1729, tabella 2, il quale conferma che l’utilizzo di canali “behind the scenes”, come la discussione con gli amministratori, è privilegiato rispetto alla formalizzazione di proposte in assemblea.

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delle società partecipate (tattica, a ben vedere, più rispondente alle esigenze ed alle conoscenze di un investitore professionale) o, alternativamente, sulle stesse strategie commerciali o industriali degli amministratori.27 Ovviamente a ciò si uniscono effetti “indiretti”, in quanto anche società non target di attivisti potrebbero adeguare la loro struttura organizzativa a quella tendenzialmente promossa da essi allo scopo di non essere bersagli futuri.

Dal primo punto di vista, in particolare, l’investitore istituzionale avrebbe una funzione di disciplina sugli amministratori, simile ma meno “gravosa” rispetto a quella esercitata dalla disciplina delle offerte pubbliche d’acquisto nel “sanzionare” i casi di gestione inefficiente. Proprio il favorire le offerte pubbliche d’acquisto rappresentava, per i primi proponenti dell’attivismo, uno dei campi d’elezione dell’attività degli investitori istituzionali28, con lo scopo di migliorare la redditività delle società partecipate, mentre oggi, finita l’era delle takeover wars,29 l’attenzione si focalizza perlopiù sul miglioramento delle pratiche e degli standard di governance delle società partecipate30: tra questi, un ruolo particolare hanno le politiche di remunerazione degli amministratori delle partecipate, in quanto strumento per eccellenza utile ad allineare gli interessi di chi gestisce la società e quelli degli azionisti.31

Estraneo agli intenti di un investitore attivista dovrebbe invece essere qualsivoglia tentativo di assumere un controllo “industriale” della società partecipata, in quanto l’ottica in cui si assumono le partecipazioni è quella del ritorno finanziario dall’investimento. Come si vedrà, anzi, sussistono barriere strutturali alla possibilità per questi soggetti di assumere partecipazioni di una particolare consistenza nelle società partecipate, come è d’altronde assolutamente fisiologico in un’ottica prudenziale e di tutela dei clienti dei fondi, oltre che per la presenza di specifiche necessità di liquidità del fondo stesso.

D’altro canto, allo shareholder activism viene anche talvolta ricondotta un’attenzione ad obiettivi differenti da quelli specificamente economici. Si parla talvolta, in questo senso, di Environmental, Social and Governance (ESG) Issues, accostandosi dunque alle questioni in tema di governance anche quelle riguardanti temi ambientali e sociali come centro dell’attenzione del gestore.

Nonostante ampio sia lo spettro di questioni su cui un investitore attivista potrebbe focalizzare la propria attenzione, risulta comunque difficile ritenere che gli investitori istituzionali possano offrire un contributo su tutte le questioni inerenti la gestione di un’organizzazione complessa quale quella di una società quotata, specie laddove

27 P. ROSE B. S. SHARFMAN, Shareholder Activism as a Corrective Mechanism in Corporate Governance, cit., p. 1018.

28 A. F. CONARD, Beyond Managerialism: investor capitalism? , cit., p. 164. 29 J. HAWLEY A.WILLIAMS, The rise of fiduciary capitalism, cit., p. 79.

30 S. L. GILLAN -L.T.STARKS, The evolution of shareholder activism in the United States, in Journal of Applied Corporate Finance, vol. 19 (2007), p. 55. In quest’ottica assume un ruolo fondamentale

l’attribuzione ai soci del diritto di decidere sulle modifiche statutarie, J. B. Jacobs, “Patient Capital”,

cit., p. 1655.

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detengano titoli riferibili a numerose società e quindi il monitoraggio debba concernere un (troppo) ampio ventaglio di situazioni. In particolare, come già accennato, è più facile che una loro partecipazione si concretizzi sul piano di carenze strutturali della

governance delle società (dunque prendendo posizioni generalmente replicabili in tutte

queste) piuttosto che su questioni c.d. firm-specific, inerenti appunto l’andamento della singola impresa. Si pensi in particolare, quanto al primo punto, ad ipotesi di influenza sulla composizione e struttura dell’organo amministrativo o sul sistema di difese

anti-takeover. Un aspetto che riguarda sia aspetti generali che firm-specific, e su cui è

possibile che gli investitori istituzionali si trovino a “dire la loro”, è come detto la remunerazione degli organi amministrativi stessi.32 Minor rilievo, tendenzialmente, ha la partecipazione degli investitori istituzionali alla gestione ordinaria dell’impresa, alla luce della scarsa conoscenza che gli asset managers hanno degli specifici problemi del tipo di attività imprenditoriale che viene in rilievo.

Proprio la difficoltà a svolgere, in tutte le situazioni, un efficace monitoraggio dell’andamento delle varie società i cui titoli sono detenuti in portafoglio attribuisce un ruolo di particolare rilievo al coordinamento svolto da associazioni di categoria (come Assogestioni in Italia) e ai suggerimenti provenienti da soggetti specializzati nel formulare raccomandazioni sull’esercizio del voto, i cosiddetti proxy advisors.33 È interessante notare come l’elaborazione teorica sull’importanza del ruolo degli investitori istituzionali abbia avuto un notevole influsso nel determinare l’evoluzione legislativa e regolamentare degli ultimi decenni in numerosi ordinamenti.34A lungo i sostenitori dello sviluppo dello shareholder activism hanno sostenuto misure che muovessero gli investitori a tenere un comportamento attivo e, al contempo, che

32 B. S. BLACK, Agents watching agents, cit, p. 836. In generale, l’autore svolge una ricognizione dei

vari aspetti su cui ci si potrebbe aspettare un ruolo attivo degli investitori istituzionali. Quanto all’influenza sul board, centrale nell’analisi di Black, si fa in particolare riferimento alla tendenza degli investitori istituzionali a promuovere l’integrazione nello stesso di amministratori indipendenti e ad eleggere loro stessi “institutional directors”.

33 B. S. BLACK, Shareholder activism and corporate governance in the United States, in P. NEWMAN (a

cura di), The new Palgrave Dictionary of Economics and the Law, Londra, 1998, p. 7. Si tratta di società che assumono l’incarico di consulenti sull’esercizio del diritto di voto ed eventualmente provvedono ad esercitarlo per delega, e dunque svolgono professionalmente quel lavoro di analisi e monitoraggio che spetterebbe agli investitori istituzionali. Tali soggetti risultano particolarmente utili laddove il voto deve essere esercitato a livello transnazionale, e dunque ove l’investitore istituzionale si trovi ad operare in un mercato e rispetto a società che non conosce particolarmente bene. D’altro canto, anche per quanto riguarda i proxy advisors, visto il servizio offerto e la necessità di offrire consulenze di voto che concernano un ampio spettro di società, si pone il problema della specificità dell’analisi e della possibile tendenza ad effettuare raccomandazioni assolutamente generiche senza prendere in considerazione le singole realtà rispetto alle quali si presta il proprio servizio. Allo stesso tempo, vi è anche il rischio che tali soggetti siano anch’essi portatori di conflitti di interesse.

34 Basti citare il terzo considerando della direttiva 2007/36/EC, c.d Shareholders’ Rights, che afferma “Holders of shares carrying voting rights should be able to exercise those rights given that they are reflected in the price that has to be paid at the acquisition of the shares. Furthermore, effective shareholder control is a pre-requisite to sound corporate governance and should, therefore, be facilitated and encouraged. It is therefore necessary to adopt measures to approximate the laws of the Member States to this end. Obstacles which deter shareholders from voting, such as making the exercise of voting rights subject to the blocking of shares during a certain period before the general meeting, should be removed”.

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facilitassero l’esercizio dei diritti sociali da parte degli stessi (in un dibattito ancora oggi vivissimo). Ciò si aggiunge, ovviamente, ad un cambiamento di tipo “culturale” che l’enfasi sul ruolo di tali investitori professionali ha comportato, così come essa ha mutato le relazioni sussistenti tra i gestori delle partecipazioni e gli amministratori delle società partecipate.35

Si va, in questo senso, dalla riforma della proxy regulation della SEC nel 199236 sino alle più recenti regole in tema di “say on pay”,37 volte ad agevolare la voice degli investitori istituzionali sui temi della remunerazione degli amministratori38, e simili tendenze si sono manifestate in altri sistemi di corporate governance, tra cui, come si vedrà, anche quello italiano. In generale, a livello legislativo, nel periodo di tempo in questione si sono andati attribuendo poteri di voice a minoranze qualificate, proprio nella speranza che queste potessero svolgere un efficace ruolo di monitoraggio nelle società partecipate.

Volgendo in particolare lo sguardo al nostro ordinamento, come già accennato, si può facilmente notare come proprio la possibilità che gli investitori istituzionali debbano, o vogliano, esercitare la propria influenza nella governance sociale ha improntato numerosi interventi legislativi tra i più importanti in materia di funzionamento dei mercati finanziari e degli intermediari o del diritto societario.39 Da questo punto di vista, anzi, si è passati da un contesto in cui l’attribuzione di diritti alle minoranze azionarie era “generalizzata” ad un uso di strumenti “di seconda generazione”, sempre più complessi e ricercati, volti a promuovere l’esercizio dei diritti di voice su specifiche materie sensibili ed a rimuovere gli ostacoli che sono emersi negli anni all’esercizio dei diritti sociali.

35 Sul punto la ricognizione di J. POUND, The rise of the political model, cit., p. 1046.

36 T. W. BRIGGS, Shareholder Activism and Insurgency Under the New Proxy Rules, in The business lawyer, vol. 50 (1994), 1, p. 99.

37 Si vedano, da ultimo, le norme introdotte dalla nuova direttiva sui diritti degli azionisti, su cui infra,

cap. II, para. 7.

38 In generale, per una storia delle più recenti innovazioni nell’ordinamento statunitense volte ad

attribuire maggiori poteri agli investitori istituzionali o a rendere meglio esercitabili gli stessi L. M. FAIRFAX, Mandating Board-Shareholder Engagement, in University Of Illinois Law Review, 2013, p. 821.

39 Nel nostro ordinamento, rileva innanzitutto il Testo Unico in materia di intermediazione finanziaria

(TUF), per cui si veda la monografia di Antonia A. IRACE, Il ruolo degli investitori istituzionali nel

governo delle società quotate, Milano, 2001; L. ENRIQUES, Nuova disciplina delle società quotate e

attivismo degli investitori istituzionali: fatti e prospettive alla luce dell’esperienza anglosassone, in Giur. Comm., 1998, 5, p. 680; M. BIANCHI - L.ENRIQUES, Corporate Governance in Italy after the

1998 Reform: What Role for Institutional Investors?, in www.consob.it; A. MAZZONI, Gli azionisti di minoranza nella riforma delle società quotate,in Giur. Comm., 1998, 1, p. 490. Ulteriori interventi in questo senso hanno connotato la riforma del diritto societario del 2003 e il successivo intervento della legge 262/2005 (c.d. legge risparmio), e sul punto P. MONTALENTI, Amministrazione, controllo,

minoranze nella legge sul risparmio, in Riv. Soc., 2006, 5, p. 975, il quale ritiene “che dall'analisi della disciplina normativa, dalla legge Draghi, alla riforma societaria, alla legge sul risparmio, da cui emerge con chiarezza la tutela privilegiata delle minoranze qualificate, si possa trarre il convincimento, che proprio a quest'ultima categoria − cioè agli investitori istituzionali − il legislatore abbia inteso affidare le sorti della democrazia societaria nella versione del terzo millennio”.

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L’influsso positivo dell’attivismo sul governo societario non viene limitato, ma al contrario, è amplificato, dalla presenza di differenti tipologie di investitori istituzionali, con obiettivi e strategie differenti. Vi sono, infatti, investitori istituzionali quali, ad esempio, i fondi pensione, che tendono a caratterizzarsi per assumere prospettive più lungimiranti nell’attivismo, dovendo provvedere a liquidare a vantaggio dei propri clienti i frutti dell’investimento stesso solo nel lungo termine. Altri investitori sono invece caratterizzati da orizzonti che possono essere più di breve periodo. Allo stesso tempo, alcuni investitori tendono ad un attivismo “offensivo” (si pensi in particolare agli hedge funds) mentre altri propendono per un attivismo connotato da intenti “difensivi”.40 Anche al di là dello specifico tipo legale adottato, emergono differenze quanto ai modelli di investimento prescelti.41

Considerati insieme, teoricamente, gli interessi degli uni e degli altri, in quanto capaci di riflettere i vari interessi dei soci che devono essere composti nella gestione dell’impresa, consentirebbero un miglior bilanciamento degli stessi.42 D’altro canto, tale considerazione dà rilievo ad una delle più rilevanti questioni irrisolte concernenti l’attivismo: sebbene, in via del tutto teorica e, potrebbe dirsi, “ingenuamente”, si potrebbe ritenere che un comportamento attivo degli investitori istituzionali resti funzionale ad una migliore governance e ad una migliore performance della società partecipata, in concreto diversi sono gli interessi che possono venire in gioco, sia per quanto riguarda il ruolo dell’investitore istituzionale, che può contemporaneamente essere, oltre che detentore di azioni nella società partecipata per conto terzi, anche consulente o creditore della stessa, sia perché non è detto che l’interesse di lungo periodo e quello di breve periodo coincidano, sia perché, infine, possono assumere un ruolo interessi e scopi diversi da quelli al mero profitto economico.43 Su questo versante, risulta opportuno rilevare come a differenti tipi di attivismo (più o meno aggressivo, più o meno di lungo termine), ed a differenti scopi dello stesso, corrispondano inevitabilmente diverse forme di esplicarlo.

I postulati della necessità di un coinvolgimento degli investitori istituzionali nella

corporate governance si sono, come detto, tradotti in una tendenza legislativa che ha

40 La differenza sta principalmente nel fatto che fondi comuni e fondi pensione tendono ad intervenire

al fine di provocare dei cambiamenti laddove valutino la sussistenza di una cattiva performance da parte delle società i cui titoli sono detenuti in portafoglio. Di converso, gli hedge funds scelgono ex ante e programmaticamente di acquistare una partecipazione in società che rendono al di sotto delle loro potenzialità per attivamente influenzarne la gestione in modo da incrementarne il valore, e su questo

infra, para. 5.

41 B. J. BUSHEE, The influence of institutional investors on myopic R&D investment behaviour, in The Accounting Review, vol. 73 (1998), p. 305, divide gli investitori in transient (che hanno partecipazioni

di poco rilievo e un alto turnover di investimento, dunque prediligono l’exit piuttosto che la voice),

dedicated (aventi caratteristiche opposte) e quasi-indexed (che hanno caratteristiche intermedie, in

quanto hanno poco turnover di investimenti ma, al contempo, partecipazioni di piccola entità).

42 Si ritiene, su questo versante, che il modello teorico in cui inquadrare il rapporto tra azionisti e

amministratori non sia semplicemente quello dell’agency, ma quello della common agency, stante la non riconducibilità ad un unico modello delle varie tipologie di azionisti in competizione tra loro in quanto aventi interessi differenziati, P. ROSE, Common Agency and the Public Corporation, in

Vanderbilt Law Review, vol. 63 (2005), p. 1355. 43 Y. NILI, Missing the forest for the trees, cit., p. 172.

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visto aumentare le disposizioni volte ad attribuire poteri di azione e reazione a minoranze qualificate. A tale tendenza non sempre sono seguiti risultati positivi, sia in termini di un’effettiva partecipazione, sia quanto al risultato che questa ha conseguito. A livello empirico, in particolare, non sembrano esserci dati uniformi in merito all’esito dei comportamenti attivisti. Si è già detto che risulta assai difficile misurare con precisione tali effetti, soprattutto per il fatto che spesso le istanze degli investitori istituzionali si collocano ad un livello informale, il che peraltro induce a ritenere che un’aperta manifestazione di dissenso o, in generale, il fatto che tali istanze trovino sfogo nel concreto esercizio dei poteri dell’azionista, consegua ad un fallito tentativo di agire dietro le quinte. Una panoramica generale dei vari studi empirici su vari risultati dell’attivismo – in termini di effetti di breve periodo sul valore dei titoli, di adesione degli altri azionisti alle proposte, di effetti di lungo termine – si deve a Gilian e Starks, che nell’effettuare tale ricognizione sembrano riscontrare la presenza di dati assolutamente non univoci, ma che comunque suggeriscono l’idea di un attivismo che ha effetti positivi o neutri sulle società partecipate.44 Più innanzi si vedrà come un recentissimo studio concernente lo specifico tema dell’attivismo degli hedge funds suggerisca conclusioni ben più radicali nel senso della bontà degli effetti dell’attivismo.Quanto agli effetti positivi per l’investitore istituzionale, recenti studi suggeriscono che il monitoraggio e la partecipazione attivi alla governance abbiano risultati positivi, ma anche in questo caso l’evidenza pare essere tutt’altro che univoca.45

3. L’EVOLUZIONE STORICA DELLO SHAREHOLDER ACTIVISM

Le prospettive teoriche delineate non riflettono sempre quanto poi dimostrato dalla realtà, ed in effetti risulta assai controversa la questione dell’effettiva messa in pratica di un attivismo degli investitori istituzionali: per alcuni esso sembra configurabile, nella realtà odierna, solo da un punto di vista teorico46, vista la sussistenza di numerose barriere, di carattere legale e economico, all’attivismo degli investitori istituzionali. Anche su un piano empirico, per quanto in aumento, la partecipazione di tali tipologie di investitori alle assemblee ed in generale ai momenti decisionali delle società appare ridotta rispetto a quanto auspicato. D’altro canto va rilevato come, ad un’osservazione più approfondita, e soprattutto differenziando le varie tipologie di investitori istituzionali, non possa essere disconosciuto il frequente coinvolgimento di taluni di essi (si pensi, soprattutto, agli hedge funds) in “campagne attiviste” volte a produrre

44 S. L. GILLAN -L.T.STARKS, The evolution of shareholder activism in the United States, cit.

45 P. ILIEV M.LOWRY, Are mutual funds active voters?, in Rev. Financ. Stud., vol. 28 (2015), p. 446,

rileva come l’evidenza empirica suggerisca migliori risultati per gli investitori che esercitano attivamente i loro diritti amministrativi rispetto agli altri.

46 P. MYNERS, Speech to the Association of Investment Companies, in http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/+/http://www.hm-treasury.gov.uk/speech_fsst_210409.htm,

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mutamenti consistenti nelle società partecipate,47 così come non sempre i dati sulla partecipazione degli investitori a momenti “formali” dicano tutto sulla loro effettiva influenza sulla governance degli emittenti.

La storia dell’attivismo degli investitori istituzionali è assai lunga e risalente nel tempo, in quanto soprattutto nei primi decenni del novecento assai forte era il ruolo di banche, assicurazioni e fondi nella corporate governance delle società partecipate.48A tale fase seguirono però numerosi interventi regolamentari che ebbero l’effetto di limitare notevolmente tale influsso degli intermediari finanziari, allargando il “gap” tra proprietà e controllo.49 In seguito a questa fase di declino tale gap è tornato a colmarsi solo a partire dagli anni ottanta, in parte in coincidenza con lo sviluppo del mercato per il controllo societario, e in parte a causa della successiva fase in cui si è avuta una riduzione del numero di takeovers,50che ha visto dunque il superamento di soluzioni di mercato ai problemi della governance a favore di soluzioni basate su un controllo come “political process”, vale a dire in cui gli azionisti agiscono tramite l’esercizio di diritti formalmente riconosciuti (come il diritto di voto) ed informalmente esercitati per monitorare l’andamento della gestione sociale51: si passa da un “market for corporate control” ad un “market for corporate influence”.

In una prima fase, l’attenzione, quantomeno quella della dottrina d’oltreoceano, si è concentrata sui risultati ottenuti dai grandi fondi pensione, ed in particolare di quelli pubblici:52 caso di scuola è quello del CALPERS, il fondo pensioni pubblico dei dipendenti della California. Tale ruolo era indiscutibilmente agevolato anche da specifiche previsioni regolamentari in tema, come lo Employee Retirement Income

Security Act del 1974 (ERISA).53

47 Y. NILI, Missing the forest for the trees, cit., p. 166, traccia una netta differenza tra l’attivismo delle traditional institutions e quello di hedge funds and private equity funds.

48J.ARMOUR B.R.CHEFFINS, Offensive Shareholder activism in U.S. public companies, 1900-1949,

in papers.ssrn.com, 2011.

49 S. L. GILLAN -L.T.STARKS, The evolution of shareholder activism in the United States, cit., per una

efficace narrazione della storia dello shareholder activism e delle modalità utilizzate per esercitare la propria influenza nelle società da parte degli investitori istituzionali. In tema ancha la ricostruzione effettuata da J. G. HILL, Images of the Shareholder – Shareholder Power and Shareholder

Powerlessness in J.G.HILL –R.S.THOMAS (a cura di), Research Handbook on Shareholder Power,

cit., p. 53.

50 J. POUND, The rise of the political model, cit., p. 1039.

51 In termini di passaggio da un sistema di governance-through-politics (cioè di partecipazione e

controllo degli amministratori tramite gli strumenti della “democrazia azionaria”) ad uno di

governance-by-takeover, tra gli anni ’50 e gli anni ’80, “e ritorno” si esprime J. POUND, The rise of the political

model, cit., il quale analizza vantaggi e svantaggi dei due modelli, e all’esito di tale valutazione ritiene

la superiorità del primo, alla luce della natura estrema e generante instabilità di un modello di controllo basato sui takeovers e della capacità di un modello basato sul monitoraggio di affrontare problemi specifici senza “rivoluzionare” l’assetto della società.

52 In generale, in tema, R. ROMANO, Public Pension funds in corporate governance reexamined, in Columbia Law Review, voò. 93 (1993), 4, p. 795.

53 A partire dal 1994, infatti, il Department of Labor stabilisce che rientra tra i doveri fiduciari di un

fondo anche quello del voto rispetto ai titoli posseduti dai fondi pensione stessi. La presenza di tale obbligo è stata determinante per lo sviluppo dell’industria dei proxy advisors.

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