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Il dibattito illustrato tra le due differenti posizioni in tema di shareholder activism, imperniato sia su dati empirici che su riscontri dati dall’esperienza pratica della condotta degli investitori istituzionali, appare fondamentale per comprendere quali scelte di policy effettuare in quest’ambito, ed in particolare se incentivare ulteriormente la shareholder democracy, concedendo maggiori poteri agli azionisti e dunque consentendo una maggiore influenza degli stessi sulle società partecipate, o se ridurre tale influenza, ritenendosi essenziale che vengano lasciati più “liberi” gli amministratori di decidere quali scelte rispecchino il migliore interesse della società. Per limitarsi a qualche esempio, i sostenitori del carattere positivo dello shareholder

activism ritengono necessario rimuovere i sistemi di staggered boards al fine di una

più facile sostituibilità degli amministratori (obiettivo nella pratica conseguito in un gran numero di società proprio grazie all'impegno degli attivisti) e, conseguentemente, di una maggiore “leva” nei loro confronti da parte degli azionisti-investitori istituzionali, differentemente da quanto ritengono gli oppositori, secondo i quali

260 M.BELCREDI S.BOZZI A.CIAVARELLA V.NOVEMBRE, Say-on-pay in a context of concentrated ownership, cit. Nella stessa direzione anche S. BRUNO –F.BIANCONI, Il voto assembleare sulle politiche

di remunerazione degli amministratori, cit., che dà particolare rilievo all’opinione tendenzialmente

negativa espressa dai proxy advisors sulle politiche di remunerazione e nota come l’introduzione del

say on pay ed il giudizio degli investitori istituzionali sia riuscito a incidere in diversi casi e dunque a

produrre delle modifiche nelle determinazioni delle società, quantomeno di quelle di maggiori dimensioni, soprattutto per quanto concernente i piani di incentivazione variabile.

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sarebbe necessario garantire un mandato più lungo agli amministratori in modo da favorirne l’indipendenza e l’assunzione di una prospettiva di lungo periodo.261 Oltreoceano si pone anche il problema del proxy access, che facilita gli investitori istituzionali nel presentare dei propri candidati in sede di rinnovo del consiglio di amministrazione (che ha già visto vari tentativi di introduzione da parte della SEC, l’ultimo dei quali bloccato in sede giurisdizionale).262 In Europa si è già visto, descrivendo le barriere legali all’attivismo, come un gran numero di queste siano state ridotte nel corso degli ultimi anni al fine di consentire un più incisivo coinvolgimento degli azionisti di minoranza. L’idea sostenuta da chi ritiene l’attivismo un fattore positivo e da incoraggiare, dunque, è quella di agevolare il più possibile, tramite differenti regole e strumenti (ad esempio, la possibilità di votare “contro” un candidato), l’influenza degli investitori istituzionali sul board, agendo sulle modalità di nomina dello stesso, e contemporaneamente riducendo le possibilità che questo abbia voce in capitolo sull’opting out rispetto alle disposizioni statutarie che vadano nella direzione di uno shareholder empowerment.

Un approccio radicalmente differente è quello che considera il potere riconosciuto agli azionisti di minoranza eccessivo e da ridimensionare, limitando la possibilità di esercitare i diritti sociali e proponendosi un “disempowerment” delle minoranze azionarie. Si tratta però di un approccio che, per quanto rispondente ad esigenze almeno in parte reali, trascura forse la sussistenza di quel problema di agency per la risoluzione del quale un ruolo tanto di rilievo è stato attribuito agli investitori istituzionali.

Risulta ancora una volta opportuno chiedersi se effettivamente “one size fits it all”, se, cioè, il dibattito statunitense sul tema, che certo offre solide basi per valutare la funzionalità dello shareholder activism ad una più efficiente corporate governance sul piano teorico, possa essere importato di qua dall’Atlantico a prescindere dalle differenze che si hanno, e che sono fortemente presenti anche tra diversi Paesi dell’Unione Europea. Ed in effetti negli ordinamenti europei, come si vedrà, si tende oggi a promuovere un diverso ruolo degli investitori istituzionali attraverso regole ad

hoc e, soprattutto, comuni:263 l’ordinamento europeo sembra sviluppare un approccio teso a “regolare” la condotta degli investitori istituzionali che sembra almeno in parte distanziarsi dalle tendenze statunitensi, in virtù delle peculiarità dei nostro sistema. Ci si può chiedere se la soluzione al conflitto tra le due visioni appena indicate non possa stare nel più attento discriminare tra poteri e diritti attribuiti agli investitori istituzionali, limitando quelli che consentono di incidere in senso positivo sulla

governance ma agevolando l’esercizio dei diritti sociali utilizzati in chiave difensiva e

destinati ad evitare abusi. Opzione che però risulta difficile sia per la complessità di

261 L.A.BEBCHUK -A.BRAV W.JANG, The long term effects of hedge fund activism, cit., p. 1150. 262 Sul punto K. KASTIEL, Proxy Access, SEC Uncertainty and Related Issues in 2015, in corpgov.law.harvard.edu, 2015.

263 Ad esempio, la forte presenza di investitori stranieri nel Regno Unito, a differenza da quanto avviene

negli Stati Uniti, richiede differenti approcci regolatori così come un sistema a proprietà concentrata ed un sistema a proprietà diffusa sollevano, come già più volte considerato, problemi assai diversi.

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una simile discriminazione,264 sia perché l’attribuzione di diritti che rendono possibile un’ingerenza nella gestione, all’esito dell’analisi effettuata e delle riscontrate difficoltà ad incentivare l’esercizio dei diritti di voice, costituisce forse il “prezzo” perché gli investitori istituzionali svolgano il ruolo di “watchdog” degli amministratori. Va considerato comunque che, al di là della fattibilità di tale discrimine, risulta necessaria un’indagine sul livello ottimale di diritti riconosciuti agli azionisti: un attivismo eccessivo può essere infatti sicuramente pregiudizievole per le società ed il sistema economico nel suo complesso, e può, come sembra emergere dall’analisi richiamata in tema di say on pay, addirittura scoraggiare gli investitori dall’utilizzo dei poteri riconosciutigli.

Una terza via, che sembra quella che il legislatore europeo (ma non solo) si avvia a perseguire e che, forse in misura minore, emerge anche nei codici di autodisciplina degli investitori istituzionali, sta nell’intervenire in senso migliorativo sull’engagement degli investitori istituzionali, nel senso di perseguire un attivismo che sia long-term e responsabile piuttosto che ridurre tout court i diritti degli azionisti di minoranza o agevolarne tout court l’influenza. Da questo punto di vista, si può dire, l’intento è quello di ricercare una forma di partecipazione alla governance sostenibile, unitamente alla ricerca di soluzioni volte a rendere il monitoraggio delle società partecipate appetibile, se non doveroso.

Esemplificativo è, in questa prospettiva, l’intervento avutosi con l’introduzione di

loyalty shares nel nostro ordinamento, stabilendosi il potenziamento del diritto di voto

per quegli investitori che detengano le azioni di una società per un periodo di tempo minimo di due anni, e che dunque assumano un ruolo di azionisti stabili (vale a dire con una prospettiva più tendente al lungo che al breve periodo) nella stessa.265 Il tentativo del legislatore, come già in parte visto criticabile nei suoi probabili esiti,266 risponde ad uno scopo di “selezione” dell’attivista, e non più di mera rimozione delle barriere per la sua partecipazione. Similmente avviene per quanto concernente la

264 A. DIGNAM, The future of shareholder democracy in the stadow of the financial crisis, cit., pp. 682-

688, ad esempio, dà una lettura della “shareholder spring” del 2012 nel Regno Unito secondo la quale il “say on pay” da strumento di controllo sulla remunerazione degli amministratori è diventato, per gli attivisti short-term, un cavallo di Troia per contestare su un piano più generale le strategie degli amministratori stessi e spingerli all’adozione di strategie di breve periodo, come voluto dagli stessi investitori istituzionali. Uno strumento di monitoraggio viene dunque in questo caso “piegato” allo scopo di esercitare una maggiore influenza sul board.

265 A. M. PACCES, Exit, voice and loyalty, cit., qualifica le loyalty shares come un modo di “optimize exposure to activism”, e le vede come uno strumento tramite cui la società può scegliere se e quanto

spazio dare all’attivismo, in quanto si tratta di strumento comunque più utile agli incumbents che ad investitori che vogliano partecipare alla governance.

266 E. MARCHISIO, La “maggiorazione” del voto: recompense al socio “stabile” o trucage del socio di controllo?, in Banca Borsa Tit. Cred., 2015, p.78, il quale condivisibilmente nota che in società aventi

un socio di controllo, come sono la maggior parte delle società quotate italiane, la maggiorazione del voto per gli azionisti di lungo periodo agevolerà in proporzione più il socio di controllo degli azionisti di minoranza, riproponendosi dunque il problema delle disposizioni che superano il principio di proporzionalità tra azioni detenute e diritti amministrativi come criticità ostativa alla partecipazione degli investitori istituzionali.

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maggiorazione del dividendo, anch’essa “premiale”267 nei confronti degli investitori di lunga durata, anche se in tale ultimo caso vi è un vizio genetico nella disposizione, quello del limite all’entità della partecipazione che ottiene il beneficio perché detenuta per almeno dodici mesi. L’intento è, evidentemente, quello di stimolare il coinvolgimento (ed un coinvolgimento specificamente orientato) nella società degli investitori istituzionali.268

Il riconoscimento della maggiorazione del dividendo e del voto, garantito dagli articoli 127-quater e 127-quinquies TUF, dunque, in quanto legato non alla partecipazione ma al socio, è volto a favore di azionisti “di lungo periodo” (e proprio per incentivare l’assunzione di tale visione) e risponde non più all’esigenza di attribuire determinati diritti alle minoranze “a prescindere”, ma contempla una scelta delle minoranze azionarie rispetto a cui va agevolata la partecipazione alla governance.269 Così, per certi versi, anche le accennate proposte in tema di regolazione delle modalità di comunicazione tra investitori istituzionali e board, in base alle specifiche dinamiche promosse, possono essere finalizzate sia ad aumentare il potere dei primi sui secondi, sia a porvi dei vincoli.270 Di converso, in maniera radicalmente opposta può essere letta l’adozione di un sistema quale quello della record date nel nostro ordinamento poiché consente la separazione tra titolarità del diritto di voto e della partecipazione azionaria,271 per quanto forse sia un prezzo necessario da pagare alla luce del positivissimo effetto che questo ha avuto nell’incrementare la partecipazione all’assemblea.

A questo tipo di “terza via” che si cerca di delineare paiono riconducibili diverse tipologie di approcci, da più parti promossi. Martin Lipton, già più volte citato come strenuo oppositore dello shareholder empowerment, nota la sussistenza di un “New

Paradigm for corporate governance” che sembra sostanziarsi in una maggiore

consapevolezza dei fondi “non hedge” quanto all’importanza della strategia di sviluppo di lungo periodo degli emittenti in cui si investe.272 Astraendo rispetto allo

267 In questo senso anche J. MUKWIRI –M.SIEMS, The financial crisis: a reason to improve shareholder protection in the eu?, in journal of law and society, 2014, p. 51, a p. 66, suggerisce l’adozione di misure

che “ricompensino” gli azionisti di lungo termine.

268 U.TOMBARI, “Maggiorazione del dividendo” e “maggiorazione del voto”: verso uno “statuto normativo” per l'investitore di medio-lungo termine?, in Banca Borsa Tit.Cred., 2016, 3, p. 303, ritiene

che lo scopo non sia quello di incentivare l’attivismo, ed in effetti non vi è un vero e proprio premio per condotte attive. L’incentivo è tuttavia indirettamente dato dalla possibilità che si riconosce agli azionisti di lungo periodo di esercitare una maggiore influenza nella partecipata.

269 Una simile proposta è fatta anche da L. L. DALLAS, Short termism, financial crisis and corporate governance, cit., p. 351, che ipotizza ulteriori metodi di selezione basati, ad esempio, sulle stesse

strategie di portafoglio degli investitori istituzionali.

270 L. M. FAIRFAX, Mandating board-shareholder engagement, cit., p. 842. 271 R. SACCHI, Voto in base alla data di registrazione, cit.

272 M. LIPTON, Will a new paradigm for corporate governance bring peace?, succeeding in the new paradigm for corporate governance, in corpgov.law.harvard.edu, 2015; The new paradigm for corporate governance, nello stesso sito, 2016, che si focalizzano su quello che sembra un rilevante

mutamento di approccio da parte di rilevanti investitori istituzionali “tradizionali” quanto all’attivismo asseritamente short term degli hedge funds e all’importanza di un approccio di lungo periodo alla

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specifico aspetto dell’activism, una funzionalizzazione delle scelte di investimento degli investitori istituzionali ad un maggiore sviluppo economico – dunque il tentativo di individuare regole che promuovano un orientamento verso lo sviluppo economico di lungo periodo – è riscontrabile in documenti di policy a livello europeo273 ed evidentemente impronta anche la nuova direttiva che ha modificato la shareholders’

rights directive, con il tentativo non solo di incentivare ma anche di regolare la

modalità con cui sono esercitati i diritti sociali, stabilendo degli obblighi in termine di politiche di voto e di impegno nelle società partecipate sugli investitori istituzionali.274 Da ciò deriva la tentazione di chiedersi – in una prospettiva forse “avveniristica” ma non utopica - quanto il rapporto privatistico che lega l’investitore alla società sia permeabile al pubblico interesse che transita forse dal piano della migliore governance dell’emittente a quello del miglior funzionamento del sistema economico complessivamente inteso.

Le soluzioni proposte sono dunque, tendenzialmente, ricollegabili ad un miglioramento della qualità dell’engagement più che ad un’assoluta promozione dello stesso275 ed all’idea che un contesto in cui la shareholder democracy sembra irrinunciabile non implica una rinuncia a definire e regolare il modo in cui tale democrazia viene esercitata.276 Ciò può essere visto anche nell’ottica di “selezionare” l’an e il quomodo dell’attribuzione dei diritti sociali alle minoranze.277

Nel senso indicato, va la tendenza a riconoscere la sussistenza di specifici principi inerenti sia l’an che il quomodo dell’esercizio dei diritti sociali: i cosiddetti “stewardship principles”. Questi esprimono la tendenza a perseguire una maggiore

accountability degli investitori istituzionali, e come loro anche di altri soggetti, come

i proxy advisors, essenziali nel determinare le modalità di esercizio del diritto di voto.278 Ad essi si affianca la possibilità di prevedere nuove regole inerenti le politiche

273 Anche nel recente COMMISSIONE EUROPEA, Action plan on building a capital markets union, in ec.europa.eu, 2015, si afferma che “The EU should support institutional investors to allow their exposure to long-term assets and SMEs, while maintaining sound and prudent asset-liability management”. In questo senso anche la recente Public consultation on long-term and sustainable investment.

274 T. STRAND, Short-termism in the european union, cit., p. 21, notando come nella nuova direttiva sui

diritti degli azionisti si faccia ancora di più strada l’idea che gli azionisti attivisti non solo debbano seguire determinati principi nel relazionarsi con il management delle società partecipate, ma debbano anche dialogare con gli altri stakeholders della società.

275 M. LIPTON, Empiricism and experience, cit. 276 J.C.COFFEE -D.PALIA, The wolf at the door, cit.

277 M.EREDE G.SANDRELLI, Attivismo dei soci e investimento short-term, cit., accennano diverse

proposte sul punto, esperibili dall’autonomia statutaria.

278 Il tema non ha ancora trovato una sistemazione legislativa in Italia, così come mancano riferimenti

specifici al riguardo anche in altri ordinamenti europei, anche se tale situazione ovviamente muterà con l’entrata in vigore della nuova direttiva. Negli Stati Uniti, invece, la SEC tramite linee guida pubblicate nel 2014 ha dettato una prima disciplina della relazione tra investitori istituzionali e proxy advisors, sostanzialmente stabilendo che il ricorrere ad un proxy advisor non libera l’investitore istituzionale da qualsiasi responsabilità nell’adempimento dei propri doveri fiduciari, e che questi ha anzi il dovere di controllare l’opera dello stesso consulente.

Al momento negli Stati Uniti è stato proposto un apposito Proxy Advisor Firm Reform Act, volto a dare trasparenza al modo in cui i proxy advisors esercitano la loro attività, mentre a livello europeo la nuova

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di investimento e di impegno degli azionisti che disciplinino il modo in cui essi influiscono sulla governance delle società partecipate, al momento espressa dalla nuova direttiva sui diritti degli azionisti: ciò esprime un cambio di paradigma, in cui ad una regolazione “market-invoking”279 si sostituisce un approccio, come si vedrà, che per quanto ibrido tende alla creazione di stewardship duties (la cui natura è tutt’altro che chiara) in un contesto di quasi-hard law (ricollegabile forse alla prospettiva avveniristica poc’anzi richiamata).

Gli stewardship principles e la nuova direttiva schiudono un’altra prospettiva, cui pure si è in precedenza accennato, che è quella della (ri)costruzione di specifici doveri del gestore. Su di esso sicuramente gravano degli obblighi nei confronti dei propri clienti che, come si vedrà nel secondo capitolo, a ciò dedicato, riguardano anche il modo in cui sono esercitati i diritti sociali, e che si specificano poi in puntuali regole che riguardano anche i singoli aspetti in cui si “scompone” tale gestione.

Alla luce di quanto descritto finora, la questione dei doveri si fa ancora più stimolante, in quanto tali obblighi possono non essere letti solamente nei termini di un incentivo all’esercizio dei diritti sociali, ma anche come risposta ai vari problemi di governance individuati.280 In questo senso, la sempre maggiore diffusione di codici di condotta, oltre a disposizioni di carattere legislativo, va dettagliando il modo in cui l’investitore esercita i diritti amministrativi coerentemente con il mandato di investimento conferitogli.

Lo studio di come si configuri il dovere fiduciario di esercitare i diritti sociali potrebbe, ad esempio, anche consentire di comprendere come i fondi “tradizionali” debbano porsi rispetto ad iniziative di hedge funds che possano essere dannose per l’emittente sul lungo periodo – con danni che si riflettono sul fondo comune piuttosto che sull’hedge fund. Su questo versante, allora, si pone il problema di allineare il comportamento dell’asset manager con gli interessi dei suoi clienti, che spesso sono rivolti al benessere economico dell’impresa sul lungo periodo, e di fare in modo che le loro scelte inerenti l’esercizio dei diritti sociali riflettano tali necessità ed interessi.281 La duplicazione del livello di agency, che si esplica non solo nelle società ma anche tra beneficiari della gestione in monte del risparmio e gestori, può costituire un problema per quanto concerne l’adempimento dei doveri fiduciari di gestione della partecipazione (in cui rientra l’esercizio dei diritti sociali) e, conseguentemente,

direttiva sui diritti degli azionisti dedica l’articolo 3j ai proxy advisors, affermandovi delle specifiche disposizioni concernenti, fondamentalmente, la trasparenza delle modalità con cui essi esprimono i propri giudizi e l’adesione a specifici codes of conduct. In maniera più simile a quanto previsto dalla SEC, la stessa nuova direttiva, all’art. 3i c. 1, obbliga gli asset managers a comunicare agli investitori istituzionali l’eventualità che si avvalgano di proxy advisors per le loro engagement activities, ed entrambi tali soggetti a dare notizia del ricorso ai consulenti in materia di voto nella loro “politica di impegno” (art. 3 g c. 1 lett. b).

279 I. CHIU D.KATELOUZOU, From shareholder stewardship to shareholder duties: is the time ripe?,

in H. S. BIRKMOSE (a cura di), Shareholder's Duties, Zuidpoolsingel, 2016.

280 F. DENOZZA, Logica dello scambio e contrattualità, cit., nota come “l'obiettivo dell'Unione Europea, e non solo suo, sembra essere quello di indurre tutti i gestori professionali di risparmio altrui a sentirsi obbligati ad esercitare i diritti che hanno nelle società in cui partecipano”.

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affrontare tale problema di agency può essere una chiave di lettura anche nella direzione di un migliore engagement.282 Proprio in questo senso, si pone il problema di una ridefinizione dei doveri fiduciari degli asset managers e, in generale, dei gestori, nei confronti dei loro clienti utili a considerare anche la prospettiva di lungo termine nelle loro scelte di investimento e di engagement283, nell’ottica di una più generale necessità di agire non tanto sul piano degli incentivi, che possono essere insufficienti o distorti, quanto sul piano dei doveri dei gestori del risparmio.284 Si consuma, insomma, il passaggio da un approccio “quantitativo” ad uno “qualitativo”. Al contempo, lo sguardo si può spostare, poi, sulla possibilità di rintracciare specifici doveri fiduciari dell’investitore istituzionale nei confronti della società e del mercato. In conclusione, si ritiene opportuno, all’esito dell’analisi svolta, esaminare l’emergente orientamento a regolare l’esercizio dei diritti sociali ed il modo in cui essi