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IN DETTAGLIO: LA PROSPETTIVA FAVOREVOLE

6. IL RUOLO DELL’ATTIVISMO LE DUE TESI CONTRAPPOSTE

6.2 IN DETTAGLIO: LA PROSPETTIVA FAVOREVOLE

Come accennato, l’attivismo può essere visto sia come una soluzione a malfunzionamenti del mercato che a problemi nella governance delle società.

Ciò si iscrive nella più generale tendenza a considerare gli azionisti soggetti vulnerabili, e quindi vittime di una crisi finanziaria dovuta a comportamenti scorretti dei loro agents, gli amministratori. Una simile ricostruzione, però non risulta coerente con i caratteri della specifica figura degli investitori istituzionali, come più volte detto tendenzialmente caratterizzati da una maggiore possibilità di esercitare i diritti loro riconosciuti e di monitorare l’andamento sociale. Nella prospettiva di chi guarda con favore alla promozione del loro ruolo nella governance, la crisi è stata dovuta non solo all’assenza di sufficienti poteri, ma anche alla mancanza di un incentivo al loro esercizio da parte degli investitori istituzionali.

Sul piano dei mercati finanziari, infatti, si può ritenere che una delle cause scatenanti di bolle speculative e conseguenti crisi sia riconducibile alla presenza di asimmetrie informative e ad una insufficiente circolazione e valutazione delle informazioni nel mercato.185

182 J. M. FRIED, The uneasy case for favoring long-term shareholders, in The Yale Law Journal, vol.

124 (2015), p. 1554, a p. 1569.

183 P. IRELAND, Financialization and corporate governance, cit., nota come negli ordinamenti

anglosassoni il “new financial capitalism” sia caratterizzato dal fatto che la partecipazione alla

governance degli investitori istituzionali non avviene “dentro” la società, ma fuori dalla stessa,

sfruttando prevalentemente la leva dei mercati, cui si deve aggiungere, quantomeno nel caso inglese, anche la presenza di incisivi diritti assembleari. Differente è (o dovrebbe essere) la situazione in altri ordinamenti, ove gli investitori istituzionali più facilmente possono esprimere membri del consiglio di amministrazione (caso paradigmatico è, da questo punto di vista, quello italiano).

184 P. SANTELLA E. BAFFI C.DRAGO D.LATTUCA, Legal obstacles to institutional investors activism, cit., p. 22. Si pensi, ad esempio al fatto che in molti ordinamenti europei i risultati del voto in

assemblea sono vincolanti per gli amministratori, differentemente da quanto avviene negli Stati Uniti.

185 In generale, sul punto, P. WOOLLEY, Why are financial markets so inefficient and exploitative, cit.,

che peraltro riconduce proprio ai convincimenti in tema di efficienza del mercato finanziario la tendenza alla deregolamentazione del settore. Si veda anche J. KAY, Review of UK Equity Markets, cit., p. 35.

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La teoria dei mercati finanziari efficienti si fonda sull’ipotesi che il prezzo degli strumenti finanziari venga definito in modo efficiente sul mercato dagli operatori finanziari i quali, nel far ciò, scontano i rendimenti attesi dello strumento finanziario stesso, incorporando tutte le informazioni pubblicamente disponibili: la “saggezza” collettiva degli investitori, si può dire, consente di giungere ad una corretta valutazione del valore dei titoli (anche incorporandovi le aspettative di lungo periodo), e dunque delle imprese in cui si investe.

Non sempre però ciò rispecchia la realtà: per quanto qui di interesse, si può notare come, a causa della presenza di un problema di agency tra clienti ultimi di un fondo di investimento ed asset managers, della non osservabilità della fedeltà e della razionalità della condotta di questi ultimi da parte dei primi (rafforzata dalla sempre maggiore complessità e conseguente opacità degli strumenti finanziari) e del fatto che i risultati degli ultimi sono valutati sul breve periodo,186 si accresce la tendenza dei gestori a seguire il momentum, cioè il trend sussistente sul mercato, a prescindere dal fatto che si tratti di una scelta razionale.187 Non aderendo ad esso, infatti, si verificherebbero profitti inferiori al benchmark stabilito, o comunque ad altri fondi che scelgano di investire in quegli strumenti i cui prezzi stanno, anche a causa di un mercato “irrazionale”, aumentando di valore. Ciò inevitabilmente comporta però un autorafforzarsi del momentum, che viene a costituire una sorta di self-fulfilling

prophecy, in quanto maggiore è l’incremento di prezzo degli strumenti finanziari,

maggiore è la loro attrattività per un investitore. Si sviluppa, di conseguenza, un’eventuale bolla generata dall’errata valutazione dell’effettivo valore degli strumenti.

Sempre nella stessa ottica, la non osservabilità del comportamento dei gestori conduce questi a ridurre l’attività di monitoraggio degli investimenti effettuati e dei prodotti di investimento. Si tratta, evidentemente, di un problema di moral hazard, in cui diventa sempre più costoso per il cliente incentivare il gestore a tenere condotte prudenti (e costose) invece di appropriarsi interamente delle commissioni pagate per lo svolgimento della propria attività.

Se dunque il disinteresse rispetto all’analisi dei fondamentali ed il tenere “herding

behaviours”188 mette a rischio il funzionamento dei mercati finanziari, la presenza di investitori che hanno l’interesse a raccogliere e correttamente valutare le informazioni,

186 J. KAY, Review of equity markets, cit., p. 40.

187 J. KAY, Review of equity markets, cit., p. 40, cita a riguardo Keynes “We have reached the third degree where we devote our intelligences to anticipating what average opinion expects the average opinion to be”. P. FRENTROP, Short-termism of institutional investors, cit., p. 47-48, ritiene che proprio ai comportamenti “da gregge” siano dovute molte fluttuazioni ed in generale la volatilità dei mercati finanziari, altimenti non spiegabili alla luce dell’ordinaria stabilità dell’andamento economico dei paesi occidentali.

188 Il fenomeno è così definito da H. MICKLITZ, Herd Behaviour and Third Party Impact as a Legal Concept, in S.GRUNDMANN –F.MÖSLEIN –K.RIESENHUBER, Contract Governance: Dimensions in

Law and Interdisciplinary Research, Oxford, 2015, p. 111, “The phenomenon of herd behaviour arises either when investors change their investment decision after learning what other investors have already done, or when third parties (such as corporate governance procedures) indirectly encourage investors to follow the behaviour of others”.

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a scegliere l’investimento da effettuare invece che essere meri follower, è funzionale ad un più efficiente funzionamento del mercato.189 Insomma, il verificarsi di bolle speculative risulta riconducibile a strategie miopi da parte degli investitori istituzionali, che, lungi dal prendere effettivamente in considerazione e dall’analizzare i fondamentali delle società partecipate, tendono a seguire il momentum e, anche per motivi di composizione del portafoglio, ad investire secondo le scelte effettuate anche da altri analoghi investitori190, alimentando la crescita di valore di titoli in modo del tutto scollegato dai presupposti che la giustificherebbero. Questo problema, dovuto ad asimmetrie informative nel mercato dei capitali, che non incorpora tali analisi sui fondamentali economici e sulla realtà effettiva dell’andamento delle imprese partecipate191, potrebbe essere risolvibile ricorrendo ad un più attivo monitoraggio delle società partecipate, volto proprio ad incorporare informazioni sul loro andamento nel lungo periodo nelle valutazioni fatte dagli investitori istituzionali, il che sarebbe utile a ricondurre il valore dei titoli ad una funzione prognostica sull’andamento delle stesse. Siamo su un versante più di “monitoring” che di “engagement”, ma non v’è dubbio alcuno che l’esito delle valutazioni svolte sia un maggiore e non un minore ruolo degli investitori istituzionali.192

Al di là dell’utilità sul piano di un migliore funzionamento del mercato, il ruolo degli investitori istituzionali risulta fondamentale per rimediare alle carenze rilevate sul piano della corporate governance dei singoli emittenti. Essi hanno, come già detto, la fondamentale funzione di vigilare sull’operato dell’organo amministrativo e, ove vi sia, del socio (o dei soci) di maggioranza, con la loro presenza dando effettività e peso alla dialettica tra governo della società e proprietà che sarebbe assente in presenza di un azionariato disperso, ricomponendo il problema di “agency” che caratterizza la

189 Complementare, in questo senso, è la proposta, fatta da alcuni autori, di agire sul piano

dell’informazione societaria, in modo da far sì che essa incorpori le informazioni sulle prospettive di lungo periodo della società e, di converso, riducendo il rilievo dato alle informazioni fornite a brevi intervalli di tempo, e in tema L. L. DALLAS, Short Termism, Financial Crisis and Corporate

Governance, cit., p. 326. Nella stessa direzione si muove, ad esempio, il recente provvedimento

legislativo di attuazione della direttiva 2013/50/UE che ha emendato la direttiva transparency, la quale è intervenuta sull’art. 154-ter TUF rimuovendo l’obbligo di presentare il resoconto intermedio di gestione con cadenza trimestrale, sulla base del fatto che, alla luce del considerando 4 della direttiva,

“tali obblighi incoraggiano i risultati a breve termine, a scapito degli investimenti a lungo termine. Per stimolare una creazione sostenibile di valore e una strategia d’investimento a lungo termine, è fondamentale ridurre la pressione a breve termine sugli emittenti e fornire agli investitori un incentivo ad adottare un approccio a più lungo termine. Pertanto, è opportuno abolire l’obbligo di pubblicazione dei resoconti intermedi sulla gestione”.

190 Si è già fatto cenno in precedenza a come le momentum strategies siano anche il risultato di una

tendenza all’high frequency trading ed al focalizzarsi di numerosi intermediari su variazioni del valore degli strumenti finanziari di brevissimo periodo, il che contribuisce alla formazione del prezzo degli stessi più dell’analisi sui fondamentali economici e allontana il prezzo di mercato dalla sua normale funzione di segnalazione del valore della partecipazione.

191 Sull’incapacità delle imprese operanti sui mercati finanziari di valutare la presenza di strategie

“miopi” delle società partecipate, N. MIZIK, The Theory and Practice of Myopic Management, in

Journal of Marketing Research, vol. 47 (2010), p. 594.

192 Va ricordato che proprio a tal fine si sono introdotte apposite regole sull’utilizzabilità delle

valutazioni delle agenzie di rating da parte dei gestori, ed in tema F. VELLA –R.GHETTI, Il rating nelle

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società. Così, si può attribuire agli stessi un compito di miglioramento della

governance degli emittenti, sia dal punto di vista dell’efficienza della gestione, sia dal

punto di vista della promozione dell’adozione di regole più adeguate di governo societario.

I sostenitori dello shareholder activism ritengono, da questo punto di vista, che vi sia una tendenziale superiorità dell’attivismo rispetto ad altri strumenti utili a monitorare ed influenzare la condotta degli amministratori. Se allora la crisi finanziaria è dovuta anche a difetti della corporate governance, tra cui l’eccessiva assunzione di rischi (soprattutto per quanto riguarda le imprese operanti nel settore bancario e finanziario), è anche sull’intervento dell’azionista che bisogna contare per rafforzare il monitoraggio della condotta degli amministratori. Proprio per questo, si focalizza l’attenzione sui diritti, attribuiti agli azionisti tout court nei sistemi ad azionariato disperso e a quelli di minoranza nei sistemi caratterizzati da una proprietà più concentrata.

Essenziale rispetto alla possibilità di influenzare le scelte del board è l’attribuzione di un effettivo potere di incidere sulla nomina degli amministratori per gli azionisti. Si considera che le proxy fights abbiano un effetto positivo sulla performance delle società partecipate, e che anche solo la “minaccia” della possibilità di una sostituzione costituisca strumento di incentivo ad una migliore condotta degli amministratori. Allo stesso tempo, si ritiene che la possibilità per gli azionisti di avere un maggior controllo sulla nomina degli amministratori e sulla loro rimozione sia inversamente proporzionale al fatto che questi si approprino di benefici privati o alle loro remunerazioni, in generale al fatto che essi tengano comportamenti opportunistici, oltre ovviamente a rendere gli amministratori ben più sensibili alle istanze degli azionisti stessi.193

Le regole che “isolano” gli amministratori rispetto agli azionisti contribuirebbero ad una peggiore performance della società, mentre l’evidenza consistente nella rarità di condotte aggressive da parte degli investitori istituzionali implicherebbe che essi mirano alla sostituzione degli amministratori solo quando effettivamente vi sono forti motivazioni ad un cambio gestionale, senza tendenzialmente avere un atteggiamento conflittuale con essi. 194 Ciò è tanto più vero negli ordinamenti dell’Europa

193 L. A. BEBCHUK, The myth of the shareholder franchise, cit. Il saggio si focalizzava su una proposta

di riforma delle regole in materia di elezione del consiglio di amministrazione allo scopo di trasformare quello che – a parere dell’autore – è fondamentalmente un mito, il diritto degli azionisti di sostituire gli amministratori, in realtà. In sede di pubblicazione del saggio venivano ad esso aggregate numerose repliche che contestavano l’opportunità di un rafforzamento delle potestà decisionali dei soci. Tra le proposte di Bebchuk rientrava, ad esempio, quella di agevolare l’adozione del sistema del majority

voting – che assicura un maggiore controllo degli azionisti sull’elezione degli amministratori - negli

statuti, adozione che, facilitata già nel Delaware Code e nel Model Business Corporation Act, si è ampiamente diffusa in seguito a campagne in tal senso da parte degli stessi investitori istituzionali, come rileva L. M. FAIRFAX, Mandating Board-Shareholder Engagement, cit., p. 825. In tema anche S.CHOI –J.E.FISCH –M.KAHAN –E.B.ROCK, Does Majority Voting Improve Board Accountability?, inU.

Chi. L. Rev., vol. 83 (2016), p. 1119.

194 L. A. BEBCHUK, The myth of the shareholder franchise, cit. Lo stesso autore, d’altronde, rileva come

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continentale, in cui la frequente presenza di maggioranze di controllo induce a ritenere più rilevante il contrasto dei problemi di agency e la tutela delle minoranze azionarie rispetto all’eventuale promozione di condotte short term da parte degli asset

managers.195

L’attribuzione di poteri particolari agli azionisti – o il loro rafforzamento – rende necessario prestare attenzione al modo in cui tali poteri possono essere usati. I limiti alle partecipazioni che sono assunte da parte degli investitori istituzionali, però, rendono tendenzialmente necessario un certo grado di cooperazione tra azionisti, e dunque implicano la rispondenza dell’esercizio del potere non tanto all’interesse di uno specifico soggetto, che può divergere rispetto a quello a massimizzare il valore azionario, ma all’interesse di una platea più ampia di investitori istituzionali. In tale contesto, sembra difficile ritenere che vengano perseguiti interessi altri e differenti rispetto alla massimizzazione dello shareholder value.196

Allo stesso tempo, non può assumere rilievo decisivo la critica inerente la possibile tendenza allo short-termism degli investitori istituzionali, se non al fine di un miglior disegno del complesso di regole che riconoscono specifici poteri agli azionisti, e che devono tenere in conto anche il fine di incentivare condotte attente all’interesse di lungo periodo dell’impresa. Peraltro, va rilevato anche su questo versante che la tendenza al breve termine caratterizza solo alcuni, specifici, investitori, che tendenzialmente devono guadagnare il consenso di altri, più orientati al lungo termine, al fine di giungere al risultato che si prefiggono. Proprio per questo, il timore di una tendenza distruttiva allo short-termism trascurerebbe i vincoli derivanti dalla presenza di questi investitori long-term.

Venendo alle analisi empiriche del comportamento degli investitori istituzionali, in Europa uno studio in tema di proposte in assemblea formulate da investitori attivisti sembra segnalare che questi tendano ad intervenire effettivamente quando ciò risulta utile, sia per la natura dell’impresa target che per la materie su cui insiste il loro interesse.197

Un’analisi particolarmente interessante a riguardo, effettuata da Lucian Bechuk, uno dei maggiori sostenitori dello shareholder empowerment nella dottrina statunitense, con riguardo a tale ordinamento, prende spunto dal dibattito in tema di utilità dell’attivismo degli hedge funds198: attraverso un complesso studio empirico, che prende in considerazione la performance delle società199 nel periodo successivo a

comportamenti aggressivi non sia dimostrativa per forza di cose di un approccio prudente da parte degli investitori istituzionali, proprio in quanto questi tendenzialmente usano ben altre leve per difendere i propri interessi.

195 T. STRAND, Short termism in the European Union, cit., 34, che rileva come la maggior parte degli

scandali avvenuti negli ultimi anni in Europa siano avvenuti in società aventi un socio di controllo forte, responsabile di comportamenti opportunistici.

196 L. A. BEBCHUK, The myth of the shareholder franchise, cit.

197 L.RENNEBOOG P.SZILAGYI, Shareholder Engagement at European General Meetings, cit., p. 357. 198 L.A.BEBCHUK -A.BRAV W.JANG, The long term effects of hedge fund activism, cit.

199Ed in particolare dati si utilizzano come indici il Tobin’s Q, definito come “designed to reflect a company’s success in turning a given book value of assets into market value accrued to investor”, ed il

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campagne attiviste200 da parte di hedge funds, si dimostra come in media le società

target degli attivisti abbiano performance negative (e dunque gli hedge funds scelgano

come bersaglio società tendenzialmente non in salute) ma, successivamente all’intervento stesso, tendano ad un riallineamento verso l’alto, a livello di risultati economici, con altre imprese operanti nello stesso segmento di mercato.Non solo si conferma che nell’immediatezza successiva all’intervento dell’hedge funds vi è un incremento del valore dei titoli, risultato del fatto che questo è tendenzialmente assai ben visto da parte del mercato:201quel che appare più di rilievo è che il periodo successivo preso in considerazione è di ben cinque anni, il che minerebbe le convinzioni sull’eventuale portata esclusivamente short-term dell’attivismo degli investitori istituzionali, e specialmente della specifica categoria costituita dagli hedge

funds, visto che l’impatto delle loro campagne attiviste risulterebbe evidentemente

positivo anche sul lungo termine.202 Similmente, lo studio in questione mostra come i dati empirici non supportino l’ipotesi che sia a partire dal momento dell’exit di un

hedge fund dalla società che il valore delle azioni della stessa inizia a scendere (c.d. pump and dump theory), sostanzialmente lasciando gli azionisti di lungo periodo a

sopportare le perdite derivanti da scelte aventi effetti positivi solo sul breve termine.203 Sempre lo stesso studio tende a confutare le critiche mosse all’attivismo degli hedge

funds che fanno leva su specifiche condotte da questi tenute, quali quelle volte a

limitare gli investimenti futuri204 o quelle ostili nei confronti del management, ritenendosi come in entrambi i casi non si produca un effetto negativo sul lungo periodo ma l’effetto sia quello di una maggiore efficienza nella gestione degli investimenti, così come i dati evidenziati non suggeriscono che campagne attiviste abbiano indebolito le imprese colpite rendendole più vulnerabili alla crisi finanziaria.

ROA , cioè return on assets, definito come “the ratio of earnings before interest, taxes, depreciation,

and amortization to the book value of assets, significantly used by financial economists as a metric for operating performance”.

200 Laddove nello studio il termine di riferimento a tal fine è quello della comunicazione alla SEC da

parte del fondo dell’acquisto di una quantità di titoli pari ad almeno il 5% della specifica categoria degli stessi, soglia che fa, appunto, scattare tale obbligo di comunicazione.

201 I critici dello shareholder activism non ritengono però che l’innalzamento del valore dei titoli sul

breve periodo sia positivo, in virtù della già illustrata scarsa razionalità dei mercati finanziari.

202 M.BECHT J.FRANKS J.GRANT H.WAGNER, The Returns to Hedge Fund Activism, cit., notano

però come “abnormal positive returns” siano sostanzialmente riconducibili, nel lungo periodo, al conseguimento da parte degli hedge funds di risultati specifici come un takeover o cambiamenti nel

board, mentre in assenza di tali risultati i ritorni per l’impresa target sono addirittura negativi.

203 Per questo passaggio, L.A.BEBCHUK -A.BRAV W.JANG, The long term effects of hedge fund activism, cit., p. 1134. L’exit è così spiegata con il fatto che gli hedge funds perseguono risultati

“straordinari” e dunque, pur in un’ottica di positiva performance della società, i profitti conseguiti non risultano sufficienti a soddisfare i loro obblighi di rendimento o comunque risultano una scelta peggiore di quella di una maggiore diversificazione.

204 L.A.BEBCHUK -A.BRAV W.JANG, The long term effects of hedge fund activism, cit., p. 1140,

rilevano come solo una minoranza degli interventi degli hedge funds siano “investment-limiting” e che comunque anche questi non dimostrino di avere un effetto negativo sui risultati di lungo periodo dell’impresa. In tema supra, nt. 168. Va detto che centrale nell’analisi di Bebchuk è la convinzione che tra i primissimi problemi di agency da risolvere vi siano quelli derivanti da “over-investment” e

“empire-building” del management, dal che consegue un ovvio scetticismo sulla proficuità degli

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Ove si considerino queste conclusioni corrette, il che non è affatto scontato alla luce delle numerose critiche mosse nella dottrina statunitense allo studio descritto,205ne segue che risulta consigliabile un investimento sull’attivismo ai fini del miglioramento del rendimento delle società partecipate, e che dunque il legislatore debba tendere ad