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Etica e passività. La costituzione originaria dell'uomo in Emmanuel Levinas

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA

ETICA E PASSIVITÀ

La costituzione originaria dell’uomo in Emmanuel Levinas

RELATORE

Chiarissimo Professore Adriano Fabris

CANDIDATA

Sara Pautasso

Anno Accademico

2016/2017

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Etica e passività

La costituzione originaria dell’uomo in Emmanuel Levinas

Sommario

Introduzione ... 4

Note al testo ... 11

Biografia ... 12

1. LA PASSIVITÀ CORPORALE - ESISTENZIALE ... 17

1.1 Necessità di un rinnovamento del linguaggio: sensibilità ebraica e pensiero incarnato. .... 17

1.2 Oltre l’idealismo, l’egologia e l’ontologia... 21

1.3 La passività di essere inchiodati (être rivé) alla propria esistenza. ... 26

1.4 L’evasione dall’essere: la passività nel bisogno, nella vergogna, nella nausea e nel malessere. ... 31

2. LA SVOLTA DELLA PRIGIONIA E LA SCOPERTA DELLA CATEGORIA DELLA PASSIVITÀ ... 36

2.1 I Quaderni di prigionia. ... 36

2.2 L’il y a e il fenomeno dell’insonnia. ... 44

2.3 Il Tempo e l’Altro: la passività del soggetto al cospetto del Mistero. ... 56

2.4 Essere ebreo. ... 64

3. L’INCONTRO DELL’ALTRO E LA DISFATTA DELL’INTENZIONALITÀ, DEL POTERE E DELL’ATTIVITÀ DEL SOGGETTO: LA PASSIVITÀ ETICA ... 72

3.1 Il Desiderio, l’Infinito e il volto. ... 72

3.2 L’insonnia etica e la de-posizione dell’Io. ... 78

3.3 L’a-simmetria della relazione e il linguaggio come prossimità. ... 83

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3.5 Eros e fecondità: il Mistero della paternità e il non-ancora della morte. ... 92

3.6 Lo statuto del terzo, l’odio e la giustizia. ... 98

4. UN UMANESIMO DELLA PASSIVITÀ ... 103

4.1 Dall’Altro all’Io: il processo di “costituzione-sostituzione” dell’Io... 103

4.2 La passività del Dire e l’attività del Detto. ... 111

4.3 Dall’anonimato all’unicità di eletto e convocato: la traccia, l’enigma, l’illeità e il Bene. 117 4.4 La nascita dell’ontologia dalla passività etica: la giustizia oblativa della comunità fraterna. ... 126

4.5 Ritorno all’origine ebraica. ... 130

4.6 La passività e le sue declinazioni: verso una nuova etica. ... 134

4.7 Un Umanesimo originato dalla passività. ... 137

Conclusione ... 143

Bibliografia ... 146

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Introduzione

Non è possibile trovare un senso (senso alla “rovescia”, è vero, ma il solo autentico qui) alla libertà medesima, partendo proprio da quella passività dell’uomo in cui sembra che appaia la sua inconsistenza?

Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit.p.112.

Per comprendere la struttura della Tesi è di primaria importanza anticipare globalmente le differenti articolazioni della passività, attraverso le quali prende forma la costituzione stessa del soggetto e della sua soggettività nell’opera di Emmanuel Levinas. Nell’introduzione cercheremo di darne una definizione generale tenendo presente l’individuazione di quattro principali graduazioni della passività, distinte secondo una progressione di livelli intimamente connessi tra loro e configurati come momenti successivi di un percorso etico.

La passività è comunemente interpretata come l’atteggiamento di chi, anziché agire e reagire attivamente, subisce e accetta l’azione altrui. In Levinas, l’assenza di reazioni da parte del soggetto passivo si configura come la non-violenza per eccellenza, come bontà originaria, come innocenza e come propensione alla pace.

Per cambiare la struttura della relazione è indispensabile cambiare la logica che ha da sempre caratterizzato la modalità di approccio all’altro uomo: solo il pensiero della passività, interpretata come fragilità costitutiva dell’umano, diametralmente opposta all’attività del soggetto intenzionale, può scongiurare l’esito di un pensiero basato sull’Io e sul suo bisogno di possedere e conoscere.

La presente ricerca si configura come il tentativo di analizzare le diverse declinazioni della passività, sia nel ruolo etico di costituzione del soggetto, sia come paradigma per un ripensamento dello statuto stesso della relazione con l'altro uomo.

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L’obiettivo è stato quello di individuare, attraverso un’analisi cronologica delle opere del filosofo, l’evoluzione del concetto di passività, in virtù di un pensiero che è maturato progressivamente.

La successione di livelli in cui si articola la passività procede secondo un percorso di evoluzione-sublimazione. La prima forma di passività si potrebbe definire “passività esistenziale” per sottolineare in che modo il soggetto si trovi coinvolto in una situazione esistenziale che non ha scelto e nella quale non ha potere. Parallelamente a questa passività si delinea quella “corporale” che mette in luce un Io radicato al proprio corpo, dipendente dai propri bisogni, vulnerabile e impotente rispetto alla propria costituzione fisica. Al livello successivo troviamo la vera e propria “passività etica”, che prende avvio dall’incontro con l’altro uomo e dalla quale scaturiscono la responsabilità, la libertà e l’azione concreta, nonché la stessa etica. Tutte dipendono e si generano dalla primaria passività, quella “creaturale”, costitutiva di ciascun uomo e necessaria al superamento della fatticità heideggeriana e alla rottura con la totalità anonima e indistinta.

L’indagine sulla passività mi ha permesso di mettere in luce gli aspetti fondamentali del pensiero di Levinas e di comprendere fino alla radice le critiche mosse dallo stesso ai paradigmi della filosofia occidentale. La scoperta della passività originaria ha consentito al filosofo di spostare il baricentro dall’Io all’Altro, attraverso una strategia di de-costruzione e de-posizione dell’Io stesso. A tale scopo, Levinas cerca di recuperare una soggettività anteriore alla costituzione dell’Io, di oltrepassare l’ontologia heideggeriana, la coscienza intenzionale husserliana e la stessa concettualità occidentale, fino a risalire verso una nuova metafisica essenzialmente etica e a riportare in primo piano il giudaismo e il suo orientamento morale.

Ci accingiamo adesso a ripercorrere brevemente il disegno complessivo attorno al quale si è articolata la questione.

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Nel primo capitolo si è evidenziata la necessità, richiamata dallo stesso Levinas, di ricercare un punto di partenza alternativo a quello individuato nell’essere e nell’identità del soggetto, con lo scopo di abbandonare definitivamente la concettualità occidentale, accusata di aver favorito, se non addirittura originato, l’hitlerismo.

Il saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo (1934) approfondisce in che modo il diverso approccio all’essere condizioni la mentalità e l’avvicinamento all’altro uomo. Emergono principalmente due diversi orientamenti: quello heideggeriano, dietro al quale si cela la stessa filosofia dell’hitlerismo, che esalta la brutalità del fatto d’essere e che culmina nella chiusura identitaria e nell’esaltazione dei legami di sangue, e quello levinassiano, che lo rifiuta e ne reclama un’evasione.

In entrambi i casi il soggetto è passivo: è incatenato e inchiodato all’essere senza potersene in alcun modo liberare, ma i movimenti che si generano sono differenti. Nella filosofia dell’hitlerismo emerge un attaccamento all’atto di porsi e un’ebbrezza dell’auto-affermazione, che culmina in un movimento orizzontale di chiusura su se stessi. Contrariamente a quanto affiora nel saggio Dell’evasione (1935), in cui il malessere verso l’essere è già movimento di uscita e di ascesa. Nei sentimenti di impotenza, abbandono, soffocamento, disagio, vergogna, disgusto, orrore e nausea, collegati alla stessa “pesantezza” e “vischiosità” con cui si manifesta l’essere, si ritrova concretamente il primario livello di passività: quello esistenziale-corporale.

Il secondo capitolo approfondisce gli anni di prigionia di Levinas: la provvisorietà della vita e la ricerca di un senso nell’insensatezza della Shoah permettono al filosofo di prendere atto della stessa costituzione passiva dell’umano e di scoprirne il significato etico.

Nei Quaderni di prigionia emerge per la prima volta la categoria dell’ebreo come categoria ontologica, come nuova dimensione dell’essere umano, che non nega la propria passività, ma la esalta nella sua funzione salvifica e morale. Nella passività più assoluta

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della persecuzione, l’ebreo scopre i segni della propria missione ed elezione: ritrova il senso e la dignità dell’essere umano.

Nel saggio pubblicato negli anni immediatamente successivi alla prigionia Dall’esistenza all’esistente (1947) la passività emerge nel carattere anonimo e indeterminato dell’esistenza, l’il y a, che pervade e spersonalizza il soggetto rendendolo impotente; ad esso si accompagna la metafora dell’esperienza-limite dell’insonnia, quale vigilanza passiva e senza scopo che non risponde ai comandi del soggetto di dormire.

Il concetto di il y a permette a Levinas di descrivere anche, e soprattutto, la dinamica attraverso la quale l’esistente si stacca dall’impersonalità dell’essere per ipostatizzarsi, in un processo passivo di nascita-creazione che si rinnova ad ogni istante.

La passività è poi ritrovata in alcuni fenomeni della vita quotidiana, quali la pigrizia, la stanchezza e la fatica. In questi fenomeni si coglie concretamente l’“inibizione” e la “spossatezza” dell’attività ma, la passività che ne deriva, non è passività etica, perché si definisce ancora come opposizione all’attività: come ricettività. In tali esperienze si rivela, dunque, una duplicità del soggetto che, nonostante si dica passivo, è potenzialmente attivo, perché conserva la capacità di trasformare la propria inattività in atto.

La vera passività, quella assoluta e radicale, che nega qualsiasi assunzione di potere, emerge soprattutto ne Il Tempo e l’Altro (1947). Nel saggio affiora per la prima volta il tema dell’ignoto e dell’assolutamente altro della morte, di fronte alla quale il soggetto si ritrova in una condizione di totale inconoscibilità e impotenza: di assoluta passività. Stessa impotenza che l’uomo sperimenta nella sofferenza e nel mistero dell’eros e della paternità-filialità. La passività al cospetto dell’ignoto e del mistero sembra già indirizzarci verso la sua svolta etica: in essa non troviamo più una semplice ricettività di stimoli esterni, né un’opposizione all’attività, ma un al di là della stessa esperienza umana.

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Nell’ultimo saggio analizzato, Essere Ebreo (1947), la passività raggiunge la piena significazione etica all’interno della dinamica della creazione, dell’elezione e delle esperienze traumatiche vissute dal popolo eletto.

Nel terzo capitolo, dedicato interamente a Totalità e Infinito (1961), è stata chiarita la differenza tra la passività esistenziale-corporale, identificata nei bisogni e nel godimento e proveniente da stimoli interni collegati alla sensibilità stessa, e la passività etica, proveniente dall’incontro con l’altro uomo, ma già presente nel Desiderio metafisico che ci indirizza ad incontrarlo.

Il Desiderio, nella sua valenza pre-gnoseologica e pre-riflessiva, innesca il movimento stesso che dà origine alla relazione etica: ancor prima di incontrare l’Altro, il Medesimo è già predisposto ad accoglierlo, in virtù di una propensione inscritta nella stessa struttura costitutiva dell’uomo. Il volto dell’Altro, nella sua sporgenza di Infinito, apre alla vera e propria Trascendenza, che disarma il Medesimo e che lo costringe a deporre i suoi strumenti conoscitivi. Il Medesimo è coinvolto in una dimensione che non è più quella del potere, ma quella della passività etica: passività che non consiste soltanto nel subire l’influenza dell’Altro, ma nel patire per-l’Altro. Solo la passività permette al Medesimo di subire il subire del povero, di provare la sua sofferenza, di mettere in questione il proprio diritto d’essere e, primariamente, di obbedire al comandamento di non ucciderlo.

Nel primordiale timore del Medesimo di essere l’usurpatore del posto di qualcun altro e nel sentimento di colpevolezza generato da tale timore, la passività assume i connotati del non-intenzionale, espresso nel malgrado-sé dell’accettazione dell’obbligo.

L’intero capitolo cerca di mettere in luce gli aspetti centrali della passività etica che, attraverso specifiche tematiche come quella della responsabilità, della gratuità, della donazione e dell’accoglienza, diviene aiuto e azione concreta: si trasforma in attività per il bene dell’Altro.

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Dopo aver analizzato le figure bibliche della passività, è stata presa in esame la passività originata nella relazione erotica e in quella filiale, senza omettere cenni alla fragilità, dolcezza e passività della dimensione stessa della femminilità.

Il capitolo si conclude con il superamento della fatticità dell’essere-per-la-morte heideggeriano attraverso la scoperta di un senso oltre la morte e oltre l’essere: quello che, nel non-ancora, nella pazienza e nell’attesa della morte, spinge il Medesimo a donarsi un’ultima volta all’Altro.

Il quarto capitolo si concentra prevalentemente sull’analisi di Altrimenti che essere (1974), integrata con riferimenti e citazioni di altre opere e saggi della maturità. L’analisi dell’opera è preceduta da un confronto con Totalità e Infinito, necessario per comprendere la differente articolazione che assume la passività nel passaggio da un’opera all’altra. Infatti, mentre Totalità e Infinito si presenta come un saggio sull’esteriorità, come trascendenza del volto e inafferrabilità dell’Infinito-Altro, Altrimenti che essere si presenta come un saggio sull’interiorità, come gestazione dell’Altro nel Medesimo. Nel primo caso, l’esteriorità riflette la passività che si produce in presenza dell’Altro, nel secondo, l’interiorità esprime un altro livello di passività, quello primordiale-creaturale, proveniente dal Bene stesso e antecedente l’incontro con l’Altro.

Nel capitolo ho cercato di mettere a fuoco il passaggio dalla struttura ontologica alla struttura etica dell’uomo, passando per un intreccio di tematiche, quale quella dell’ostaggio, del sacrificio, della sostituzione, dell’espiazione, della persecuzione, ecc. in grado di mettere a nudo la soggettività stessa del Medesimo.

La messa a fuoco della soggettività, come innata predisposizione al bene e come inversione dal per-sé al per-altri, fino alla possibilità di sacrificarsi e morire al loro posto, viene specificatamente alla luce nell’approfondimento di altre questioni indissolubilmente concatenate. Il Dire originario, la sincerità, la diacronia assoluta, la giustizia oblativa e

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la genesi dello Stato, fino al ritorno all’origine ebraica, sono solo alcune delle tante sfaccettature della passività.

Il soggetto passivo, modello della non-indifferenza e della non-violenza per eccellenza, ci ha permesso di raggiungere l’obiettivo prefissato di recuperare la dignità dell’uomo, insita nella sua stessa alterità, e di liberarlo dalla riduzione e dall’assorbimento nell’anonimato del sistema e della totalità. La brutalità dell’hitlerismo non può trovare accoglimento in un’anima che ha recuperato la sua genuina passività: la sua umanità.

Soltanto un’etica fondata sulla passività costitutiva dell’uomo può metter fine alle incomprensioni di senso, alla disumanità dell’Umanesimo moderno e sostituire al criterio dell’assurdo, troppe volte divenuto orientamento, il criterio della non-violenza e della pace.

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Note al testo

Per mantenere il significato originale nella traduzione dal francese all’italiano dei termini Medesimo e Altro è stato preferito l’utilizzo del carattere corsivo e della lettera maiuscola. Medesimo traduce il termine francese “Même” che esprime la soggettività dello stesso, che permane nonostante il divenire del tempo e la relazione che instaura con l’altro uomo; Altro e Altri derivano da “Autre” e “Autrui” che raffigurano l’esteriorità radicale, l’alterità assoluta e trascendente dell’altro uomo e di tutti gli uomini, che in nessun modo può essere riportata al Medesimo.

Si è inoltre scelto di mantenere il termine francese “il y a” per esprimere la forma neutra, anonima e impersonale dell’ esistenza.

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Biografia1

Emmanuel Levinas è universalmente considerato uno dei filosofi di maggior spicco della cultura francese novecentesca. Per comprendere il nucleo della sua riflessione filosofica è di fondamentale importanza introdurre le esperienze cardine della sua vita, che tuttavia verranno approfondite in corso d’opera. Levinas è stato testimone della sete di potenza e della forza dei nascenti Stati, della violenza smisurata e sconfinata degli uomini e dei successivi disastri che ne sono derivati.

La duplice faccia del Novecento, definito “secolo breve” dallo storico britannico Eric Hobsbawm; “breve” per la presenza di grandi avvenimenti concentrati in un arco di tempo così limitato è, da un lato, quella di un secolo di conquiste civili, invenzioni e mobilitazioni di massa e, dall’altro, di indimenticabili tragedie. Le Due Guerre, i totalitarismi, il terrorismo, la guerra fredda, la minaccia nucleare e la caduta del muro di Berlino segnano il cammino di un uomo e del suo pensiero, ancor prima di quello di un filosofo e delle sue opere.

Fallimenti, tragedie, progressi e conquiste che non hanno soltanto modificato gli assetti politici ed economici del globo, ma anche la mentalità, lo stile di vita e la società nel suo complesso e nei suoi valori.

Nato a Kaunas, in Lituania, allora sotto la dominazione russa, il 12 Gennaio 1906 (30 Dicembre 1905 secondo il calendario gregoriano), Emmanuel Levinas è il primogenito di tre figli. Il padre, Yehiel Levinas, libraio di origine ebraica, assicura ai tre ragazzi la migliore istruzione, improntata sullo studio e sulla riflessione della Torah. La madre,

1 Biografia tratta da:

Salomon Malka, Emmanuel Levinas, La vita e la traccia, Editoriale Jaca Book, Milano, 2003. Marie-Anne Lescourret, Emmanuel Levinas, Flammarion, Paris, 1994.

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Dvora Gurvitch, trasmette al figlio l’amore per la letteratura, in particolare quella russa, e per i classici.

Levinas fa tesoro degli insegnamenti dei grandi autori, quali Dostoevskij, Tolstoj, Lermontov, Čechov, Turgenev, Puškin e molti altri, compresi quelli occidentali, tra i quali Shakespeare e Goethe, dalle cui opere apprende lezioni di vita che risuonano in tutto il suo pensiero.

All’epoca della nascita di Emmanuel la società lituana è molto eterogenea e non presenta profondi divari tra ebrei e non ebrei. Il filosofo vive in un ambiente sobrio, tradizionalista e praticante; la sua famiglia rispetta le usanze e celebra le feste ebraiche.

La guerra del 1914 costringe la famiglia ad abbandonare Kaunas e a rifugiarsi in Ucraina fino al 1920. E’ qui che Emmanuel frequenta il liceo.

Dopo il periodo di esilio torna con la famiglia in Lituania e riprende le attività svolte nel periodo precedente, termina gli studi al liceo lituano e cerca di iscriversi ad una Università tedesca, ma la sua richiesta viene rifiutata perché la maturità ottenuta in un liceo ebraico non era sufficientemente valida per accedervi. Decide quindi di frequentare l’Università francese e nel 1923 giunge a Strasburgo per intraprendere un percorso di studi in Filosofia.

Nei due semestri 1928 - 1929 si reca a Friburgo, in Germania, per seguire il corso tenuto da Husserl e, proprio in questo contesto, conosce l'altro suo grande maestro, Heidegger. La questione dell’essere sollevata in Essere e tempo è al centro della discussione filosofica nell’ambiente di Friburgo; in un articolo del 1931 il filosofo, parlando di Heidegger, afferma: “Je vais chez le plus grand philosophe au monde”2.

Nel Marzo del 1929 partecipa al ciclo di incontri franco-tedeschi a Davos, resi celebri dall’aspro dibattito fra Ernst Cassirer, esponente del neokantismo, e lo stesso Heidegger.

2 Emmanuel Levinas, Fribourg, Husserl et la Phénomenologie, “Revue d’Allemagne et des pays de langue allemande”, n.43, 1931; cit. p.

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Levinas è molto affascinato dal maestro Heidegger ma, all’entusiasmo giovanile, si contrapporrà la sua diffidenza con l’adesione di questi al nazismo.

Altrettanto determinante è l’incontro, nel 1935, con l’opera di Franz Rosenzweig La stella della redenzione, la cui eco si ritrova in tutti gli scritti di Levinas: in Totalità e Infinito ne riecheggia chiaramente l’ispirazione ricordando quanto il filosofo sia “troppo spesso presente in questo libro per poter essere citato”3. La filosofia di Rosenzweig è di notevole importanza nello sviluppo della riflessione levinassiana, soprattutto nella critica al concetto di “totalità” della filosofia hegeliana e nella possibilità di trovare un punto di incontro tra cristianesimo ed ebraismo, le cui diversità, dissonanze e tensioni trovano un’unità nell’etica.

Dopo aver sostenuto la Tesi di Laurea sulla Teoria dell'intuizione nella fenomenologia di Husserl, grazie alla quale ha il merito di far conoscere la fenomenologia husserliana nella cultura francese, nel 1930 si stabilisce definitivamente a Parigi e l'anno seguente ottiene la nazionalità francese. Nel 1932 si sposa con un'amica di infanzia e figlia dei suoi vicini, la musicista Raïssa, con la quale ha tre figli, la prima dei quali morta in giovane età. Negli stessi anni lavora a Parigi presso la Scuola normale israelita come segretario e tutor degli studenti.

Nel 1933 con l’ascesa al potere di Hitler, Heidegger aderisce al nazismo e Levinas prende progressivamente le distanze da quest’ultimo, come testimoniano le sue prime denunce pubbliche apparse nel 1934 nel saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, pubblicato sulla rivista “Esprit”. L’allontanamento dall’esistenzialismo heideggeriano risulta ancora più marcato nel saggio Dell’evasione comparso l’anno seguente sulla rivista “Recherches Philosophique”.

3 Emmanuel Levinas, Totalità e Infinito, Saggio sull’esteriorità, con un testo introduttivo di Silvano Petrosino, Editoriale Jaca Book,

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Allo scoppiare della Seconda Guerra Mondiale nel 1939, Levinas viene chiamato alle armi in qualità di sottufficiale e interprete di russo e tedesco, ma presto è fatto prigioniero. Seguono i cinque anni di reclusione in un campo di lavoro, dapprima a Rennes, in Francia, e poi a Magdeburg, in Germania, dove è impiegato a lavorare come boscaiolo. Durante il periodo di internamento ha anche la possibilità di fare molte letture; legge Hegel, Proust, Diderot, Rousseau, ma anche Dante, Ariosto ecc. e testi della tradizione ebraica e cristiana. Le testimonianze dell’esperienza di persecuzione vengono raccolte nei Quaderni di prigionia, nei quali sono presenti anche le trame di due romanzi scritti durante la prigionia, ma rimasti incompiuti, con i titoli Triste opulenza e La signora di casa Wepler.

Nella tragica esperienza della guerra Levinas vive sulla sua pelle il disconoscimento della propria persona e l’irrevocabilità della condizione di ebreo. Lo stato di precarietà e di abbandono vissuto dagli ebrei durante la guerra viene interpretato dal filosofo come la condizione stessa di provvisorietà e di passività dell’essere umano; tematiche cardine della sua riflessione e riecheggiate in tutti i suoi scritti.

Il filosofo, ricordando l’orrore subito, dirà in un'intervista trasmessa nel 1981 dalla televisione tedesca: «Fummo spogliati della nostra pelle di uomini. Non eravamo altro che una congerie di esseri inferiori. La mia biografia è dominata dal ricordo dell'abominio nazista».4

Terminata la Guerra, Levinas torna in Francia, ove ritrova la moglie e i figli, salvati grazie all'aiuto dell'amico e filosofo Maurice Blanchot, ma non ha modo di riabbracciare i genitori che, rimasti in Lituania, sono vittime dello sterminio dei nazisti.

Nel 1946 il filosofo lituano viene chiamato a dirigere la Scuola normale israelita orientale, con sede a Parigi, dove mantiene la direzione fino al 1980. L’impegno di

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Levinas di rinnovare e valorizzare la cultura ebraica si fa sempre più decisivo e costante: alla scuola tiene conferenze, colloqui con gli intellettuali ebrei, lezioni e commenti al Talmud; non tanto con lo scopo di recuperarne i dogmi, quanto di reindirizzare l’uomo verso una nuova socialità, attraverso i valori umani universali trasmessi dalla religione ebraica.

Negli anni successivi segue per circa tre anni i corsi di ermeneutica talmudica del grande maestro Chouchani, il cui influsso è determinante per la propria concezione dell’ebraismo e per l’interpretazione del Talmud.

Gli anni del dopoguerra sono anche gli anni di maggiore produzione filosofica e di concretizzazione delle proprie tesi essenziali.

Nel 1947 viene pubblicata l’opera Dall’esistenza all’esistente, scritta parzialmente durante la prigionia, che ben rappresenta la presa di distacco dall’esistenzialismo francese dell’epoca. Negli stessi anni Levinas tiene quattro conferenze dal titolo Il Tempo e l’Altro al Collège Philosophique, da poco fondato a Parigi dal filosofo Jean Wahl.

Dal 1964 al 1975 intraprende la carriera universitaria, insegnando dapprima all’Università di Poitiers, dal 1967 a Paris X Nanterre e dal 1973 alla Sorbona.

Tra le sue opere principali, che analizzeremo in corso d’opera, ricordiamo: Totalità e Infinito (1961), Difficile libertà (1963), Quattro letture talmudiche (1968), Umanesimo dell’altro uomo (1973), Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), Nomi propri (1975), Di Dio che viene all’idea (1982), L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici (1982), Dio, la Morte e il Tempo (1993).

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1. LA PASSIVITÀ CORPORALE - ESISTENZIALE

1.1 Necessità di un rinnovamento del linguaggio: sensibilità ebraica e pensiero

incarnato.

Gli orrendi crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale sono la prova più eclatante del sostanziale fallimento delle filosofie novecentesche. Lo sterminio degli ebrei ha manifestato l’avversione dell’uomo per l’altro uomo e il disprezzo per il diverso, il debole, lo straniero e l’estraneo.

Nella storia, come nella guerra, non esistono volti, nomi e cognomi, ma individui osservati, studiati e considerati come semplice quantità numerica. Il soggetto è assorbito in una concezione totalitaria e impersonale e, conseguentemente, privato della propria singolarità e interiorità. La guerra, non solo “sospende la morale”5, ma “la rende irrilevante”6, in virtù di un ordine oggettivo in cui tutto è permesso.

L’accusa di aver originato una tale mentalità e di aver condotto l’uomo ad instaurare una relazione distruttiva e violenta nei confronti dell’altro uomo è diretta verso la filosofia occidentale, il cui insegnamento “oppone l’uomo al mondo e non l’uomo a se stesso”7. Nella tradizione filosofica il concetto di Medesimo ha prevalso rispetto a quello di Altro fin dai tempi più antichi, risalenti al “conosci te stesso” socratico. Nel modello filosofico di Socrate e nell’autoreferenzialità dell’Io che da esso deriva, si trovano già le premesse dell’idealismo e dell’ontologia, giacché il soggetto non riceve niente dall’esterno e dagli altri, ma ritrova in se stesso le risposte di cui necessita. Tutto il pensiero occidentale si è

5 Totalità e Infinito; cit. p. 19. 6 Ibidem.

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quindi fondato su “un’egologia”8, un discorso basato sull’Io, sul suo bisogno di possedere, di conoscere e non di incontrare l’altro uomo.

Analogamente a molti pensatori ebrei del Novecento, Levinas affronta questa serie di problematiche e ricerca le ragioni di tale fallimento per individuare un punto di partenza alternativo a quello individuato nell’essere e nell’identità del soggetto e una differente origine del senso al di fuori dei paradigmi filosofici tradizionali. Per comunicare il senso dell’umano e per istituire una forma di relazione adeguata tra i termini del rapporto sono necessarie nuove modalità di linguaggio, che consentano di ripristinare le differenze di ciascun singolo e di esprimerle in concetti universali.

Il linguaggio della metafisica è incapace di rispondere a questa esigenza di universalità combinata alla particolarità perché assorbe e assimila i termini che entrano in relazione. Il logos greco crea di ogni dire un detto, riduce e fissa la realtà; costante timore che Levinas cerca di scongiurare attraverso la variazione del senso abituale dei vocaboli, le metafore, il dire che viene immediatamente disdetto e le domande rivolte direttamente o indirettamente al lettore.

Per ricostruire il corretto legame tra gli elementi del rapporto e per riuscire a dire il particolare senza assorbirlo nell’universale, la filosofia deve ricorrere ad una nuova concettualità; solo così si apre la possibilità di depurare la vecchia filosofia dalle sue pretese egemoniche di concettualizzazione.

Con questo proposito Levinas recupera i concetti della tradizione religiosa ebraica e le sue categorie che, pur non essendo categorie filosofiche, esprimono una concettualità valida universalmente. Nell’opera L’al di là del versetto, a proposito delle Scritture

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ebraiche, Levinas sostiene che l’universale di cui trattano sia “in grado di unire le persone senza ridurle a quell’astrazione che sacrifica la loro unicità di unico al genere”9. Non si tratta semplicemente di scostarsi dai termini tradizionali per nominare in modo differente, ma di esprimere temi che la concettualità greca non era in grado di fare: è soprattutto la metafora, come veicolo di senso, ad avere un ruolo decisivo nell’incontro tra la tradizione ebraica e quella greca.

Attraverso un pensiero non sintetico, come quello di matrice ebraica, Levinas rivendica i diritti della particolarità e della trascendenza e mira a recuperare l’alterità irriducibile di ogni uomo. È quindi il giudaismo l’elemento correttivo della tradizione filosofica occidentale, la possibilità di superamento dell’ontologia, di rottura con l’immanenza e con la totalità: il punto di partenza per un nuovo umanesimo.

Le radici religiose e culturali degli intellettuali e gli eventi del periodo storico in cui essi vivono incidono necessariamente sul loro pensiero e sulla loro riflessione filosofica. Levinas si approccia al mondo e alla realtà con una determinata ottica in base alla sua fede ebraica e alla sua esperienza concreta, ma ciò, non comporta una chiusura particolaristica. Se questo accadesse, la capacità di interagire con la filosofia e di dire qualcosa al di là del gruppo religioso specifico verrebbe meno, giacché verrebbe a mancare il terreno stesso della filosofia: l’universalità.

Al contrario, tale approccio evidenzia che qualsiasi pensiero sia incarnato e, in quanto tale, possa essere mediato e condiviso universalmente.

In tal modo anche il rischio di relativismo viene scongiurato: la prospettiva all’interno della quale il singolo filosofo elabora un pensiero universale è sempre un punto di partenza e mai di arrivo. Diversamente, nella riflessione relativistica, il punto di vista si configura come punto di arrivo e come dogma indiscutibile.

9 Emmanuel Levinas, L’al di là del versetto, Letture e discorsi talmudici (1982), a cura di Giuseppe Lissa, Guida editori, Napoli, 1986;

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Pertanto, questo “correttivo”, che si richiama ad una tradizione religiosa specifica, non deve essere considerato come un depotenziamento della filosofia, ma come un arricchimento. L’ebraismo delle scritture può offrire all’uomo moderno un aiuto fondamentale: quello dei suoi valori morali.

I grandi temi della religione ebraica, come quello della passività, e le esperienze di vita di Levinas, come quella di provvisorietà provata durante gli anni della prigionia, sono il punto di partenza per affrontare specifiche problematiche comuni e per comprendere come sia stato possibile legittimare determinati fenomeni quali la Shoah.

Durante la prigionia Levinas sperimenta sulla propria pelle il significato più profondo della passività e della precarietà della vita, l’angoscia di sentirsi abbandonato all’anonimato dell’essere, alla nudità della sua esistenza e alla prossimità della morte. La ricerca di un linguaggio appropriato ad esprimere “la realtà senza realtà”10 di un mondo “infranto” e “rovesciato”11, come quello di un prigioniero di guerra, e la ricerca di un senso nell’insensatezza della pura esistenza, trovano paradossalmente il loro compimento proprio nell’esperienza concreta di provvisorietà della vita avvertita durante i cinque anni di prigionia.

L’ambizione di Levinas è dunque quella di tracciare una nuova via partendo dall’elaborazione delle sue tragiche esperienze per giungere ad affermare il carattere universale dell’etica, luogo di incontro tra il pensiero ebraico e quello cristiano, accomunati da un solo scopo: la realizzazione di un soggetto responsabile, libero e degno di essere definito uomo.

10 Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti (1937-1950), a cura di Silvano Facioni, Milano, Bompiani, 2011; Quaderno

4, cit. p. 60.

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1.2 Oltre l’idealismo, l’egologia e l’ontologia.

L’obiettivo di Levinas di fondare una via alternativa partendo dall’etica implica anzitutto un ripensamento della tradizione filosofica e un serio confronto con Husserl e Heidegger. Sulla scia di questi, il filosofo lituano prende le distanze dalla metafisica tradizionale e dall’ontologia greca, ma al contempo se ne allontana profondamente, giacché il suo scopo non è, come quello dei maestri, di ricercarne lo scacco per poi rifondarle, bensì quello di oltrepassarle e di orientare la filosofia verso il nuovo cammino dell’etica.

Nella conferenza inedita Pouvoirs et Origine12 Levinas sostiene che vi sia un forte nesso tra l’idealismo, la fenomenologia e la filosofia dell’esistenza: quello del potere. L’idealismo ritiene di esercitare una sorta di potere sull’essere grazie alla conoscenza e alla potenza infinita del logos, così come la fenomenologia attraverso la coscienza intenzionale e l’esistenzialismo tramite la comprensione dell’essere. Il mondo acquisisce un senso grazie al potere dell’uomo, ma la vita concreta dell’uomo non ha un vero e proprio senso.13

Sebbene risulti fondamentale il suo incontro con il pensiero di Heidegger e di Husserl, in entrambi i filosofi permane una difficoltà, quella che vede l’esistente in una posizione prevaricante e fondante rispetto al mondo. Questa problematica viene superata mediante la riflessione sulla passività. Grazie ad essa si determina una vera svolta, una variazione del cammino intrapreso dalla filosofia tradizionale, un superamento dell’ontologia heideggeriana, intesa come attività di comprensione e disvelamento dell’essere. La passività, come vedremo, non è un atto soltanto teorico, ma un evento fondamentale, Ereignis, che coinvolge l’uomo nel suo destino esistenziale.

12 Conferenza Pouvoirs et Origine contenuta in Parole et Silence et autres conférences inédites au Collège philosophique, Oeuvres 2,

prefazione di Rodolphe Calin et Catherine Chalier, Editions Grasset et Fasquelle, Imec Editeur, 2009; pp.105-150.

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Levinas manifesta per la prima volta la presa di distanza e il disaccordo con l’esistenzialismo ontologico heideggeriano in un articolo del 1932 Martin Heidegger e l’ontologia apparso sulla “Revue Philosophique”.14

Heidegger, contrariamente all’ontologia tradizionale, sostiene l’antecedenza dell’essere dell’ente sull’ente stesso ed è proprio questa relazione di preminenza dell’essere sull’ente che ne facilita il dominio e la supremazia. Il legame con l’altro uomo, che è un ente, viene determinato dal legame con l’essere impersonale dell’ente che abbraccia tutta la realtà e avvolge, ingloba e totalizza ciò che si configura come altro da sé.15

Se, come scrive Levinas: “l’essere determina la coscienza”16, quella di un uomo che esalta l’esistenza rispetto all’esistente in carne e ossa, non può che avere un esito violento.

Nella filosofia dell’esistenza dimora, pertanto, la filosofia della potenza: la relazione stessa con l’essere è una “volontà di potenza”17. In Totalità e Infinito Levinas parla dell’ontologia in termini di “filosofia della potenza”, “filosofia dell’ingiustizia” e “preludio del dominio impersonale”18

.

L’attitudine dell’uomo di fronte alla realtà e il risveglio dei bruti “sentimenti elementari”19 proviene da tale filosofia e prefigura il senso sbagliato che viene dato al destino dell’uomo e alla sua dignità. La filosofia non è solo alla base di una determinata concezione dell’uomo, ma ne orienta le scelte e le azioni.

Nei due scritti precedenti alla guerra, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, 1934, e Dell’evasione, 1935, emerge proprio la denuncia della cultura violenta che deriva

14 Emmanuel Levinas, Martin Heidegger e l’ontologia (1932), in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a cura di Federica Sossi,

Raffaello Cortina Editore, Milano,1998; pp. 59-87.

15 Totalità e Infinito; pp. 43 – 45.

16 Emmanuel Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo(1934),traduzione di Andrea Cavalletti e Stefano Chiodi,

introduzione di Giorgio Agamben, con un saggio di Miguel Abensour, Quodlibet, Macerata, 1996; cit. p. 30.

17 Parole et Silence; cit. p. 110. 18 Totalità e Infinito; cit. pp. 12, 18, 40.

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dall’ontologia heideggeriana. Una cultura siffatta non può che originare una civiltà che “merita il nome di barbara”20

.

Analogamente, nella coscienza riflessiva husserliana si rispecchia una sorta di estraniazione del soggetto dal mondo, una neutralizzazione degli altri, una vera e propria chiusura teoretica che allontana l’Io dal suo vissuto concreto e dalla sua socialità.

La riflessione e il pensiero si situano prima della socialità del soggetto, nel suo egoismo e nella sua sufficienza: “Husserl vede nel cogito una soggettività che non ha alcun fondamento all’infuori di sé (...)”21. È qui che Husserl rimane fedele all’idealismo: nel porre l’auto-relazione come fondamento della relazione e nel considerare l’altro uomo come un “alter-ego”22.

Husserl ritiene che nella coscienza dell’uomo siano presenti tutti gli strumenti necessari per la conoscenza del mondo e di se stesso: tutto viene ricondotto ad una conoscenza teoretico-rappresentativa, compreso l’altro uomo. Nella Quinta Meditazione Husserl scrive:

In quanto trascendentalmente atteggiato, io cerco innanzitutto di delimitare la sfera del mio proprio al di dentro del mio orizzonte trascendentale di esperienza. È la sfera, dico dapprima, del non-estraneo.23

La coscienza dell’Io è, quindi, una coscienza “dell’attività mentale”24. La coscienza esce da sé in un movimento illuminatore del mondo esterno che la riconduce ad un rapporto oggetto-soggetto: l’orizzonte luminoso sul quale si stagliano gli enti permette la conoscenza e la rappresentazione di essi e svolge lo stesso ruolo di comprensione che ha

20

Dell’evasione; cit. p. 45.

21 Totalità e Infinito; cit. p. 216

22 Ivi, cit. p. 160.

23 E. Husserl, Meditazioni cartesiane, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano, 1960; cit. p. 145.

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il concetto nell’idealismo classico. L’esito è la creazione di un Io autosufficiente e assoluto, che autonomamente costituisce la realtà che lo circonda: “nulla può entrare in lui, tutto viene da lui”25.

Ne deriva che il conferimento del senso alla realtà scaturisce sempre dalla coscienza intenzionale del soggetto, come dimostra il pensiero dell’epochè.

Nell’epochè l’Io sospende il proprio giudizio sulla realtà e compie un percorso di ascesi per arrivare ad un Io puro da cui ripartire per ricostruire le relazioni con il mondo esterno. La scoperta della coscienza come intenzionalità si raggiunge unicamente con la messa tra parentesi del mondo ovvio; essa appare solo a fronte di una riduzione fenomenologica:

Io, l’uomo-io ridotto (io psicofisico), sono qui costituito come membro del mondo, con il mio molteplice “esser-fuori-di-me”; ma sono io stesso che nella mia psiche costituisco tutto ciò e lo porto intenzionalmente in me.26

Levinas si mostra profondamente perplesso di fronte a tale esito del pensiero husserliano, così come di fronte all’ipotesi di una coscienza che si costruisce senza gli altri.

Infatti, se l’intenzionalità che spinge il soggetto ad aprirsi al mondo si attua come conoscenza, il risultato è la costituzione di una coscienza egologica e solipsistica che si concretizza come dominio del mondo. Risultato analogo alla filosofia fichtiana, che considera come ostacolo tutto ciò che si configura come non-Io, compreso l’altro uomo, e alla filosofia razionalista, che esalta una ragione avvilente e arida di sentimenti e, in questo modo, genera un rapporto di indifferenza verso il prossimo. L’io si chiude in una beata “pace interiore”27, cieca di fronte ai mali altrui, ma di sguardo aguzzo verso i propri. Dimenticare la sofferenza dell’altro significa ridurlo a puro concetto, o guardarlo lateralmente, come accade nell’ontologia heideggeriana.

25 Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (1949); cit. p. 47. 26 Edmund Husserl, Meditazioni Cartesiane; cit. p. 148. 27 Dell’evasione; cit. p. 11.

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Alla coscienza intenzionale e conoscitiva, Levinas contrappone quella pre-riflessiva, che precede ogni intenzione, concetto e teoria; che è confusa, passiva e spontanea. È proprio il rinvio al prefisso “pre” che implicitamente esclude l’intenzione del soggetto perché si pone su un piano che non è quello della comprensione, in un movimento che non è quello della riflessività, ma della quiete, della fragilità, della vulnerabilità e della passività assoluta: “La coscienza confusa, coscienza implicita che precede ogni intenzione – o rinvenimento di ogni intenzione – non è atto, ma passività assoluta”28.

Ma se da questa prospettiva della passività Levinas si distacca profondamente da Husserl, dall’altra, vi rimane radicalmente legato. Infatti, seguendo il ragionamento di Bernard Casper, Levinas avrebbe fondato l’idea di passività proprio a partire dalla temporalità della stessa intenzionalità husserliana e dalla dipendenza dell’atto intenzionale dalla sensazione.

La passività riguarda allora la sensibilità che lega il soggetto agli stimoli esterni: le sensazioni provenienti dal mondo esterno, non sono già date, ma sono conosciute temporalmente, in virtù della ricettività-passività dell’Io.29 Analizzeremo nelle pagine seguenti la costituzione vulnerabile del soggetto di fronte agli stimoli provenienti dall’esterno.

28 Di Dio che viene all’idea; cit. p.200.

29 Bernard Casper, Passività̀ e trascendenza nel pensiero di Emmanuel Levinas, in Etica, Religione e Storia. Studi in memoria di

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1.3 La passività di essere inchiodati (être rivé) alla propria esistenza.

Per Levinas l’esistenza nasconde “un elemento tragico”30, ma non per la sua finitezza e nemmeno perché, come vorrebbe Heidegger, in essa si rivela il nulla, bensì per il fatto stesso che avvertiamo che c’è dell’essere. La concezione heideggeriana dell’esistenza è agli antipodi di quella levinassiana; la prima, rivela la possibilità dell’impossibilità, della morte e del niente, la seconda, l’opportunità della possibilità più propria, ovvero, la possibilità di essere.

Simultaneamente a questa verità se ne svela un’altra altrettanto fondamentale: l’irreversibile attaccamento ad essa. L’uomo non può sottrarsi al fatto di essere esposto all’ordine oggettivo dell’essere: “l’essenza dell’uomo – scrive Levinas – non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento”31.

Di fronte a tale evidenza il soggetto è impotente e passivo ma, proprio in questa condizione di estrema passività, gli si presenta una scelta: esaltare la propria fatticità o evadere da essa.

Nel primo caso riconosciamo gli esiti dell’ontologia heideggeriana, nonché dell’hitlerismo, analizzati nel saggio Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo. Il Dasein non solo accetta e glorifica la brutalità della sua fatticità ma, come suggerisce Miguel Abensour, prova una sorta di “ebbrezza”32nell’essere inchiodato alla propria esistenza, che si traduce in una pratica di autoaffermazione e di esaltazione della propria finitezza, dei legami di sangue e della razza. L’accettazione dell’esistenza si concretizza

30 Parole et Silence; cit. p. 111.

31 Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo; cit. p. 35.

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in un vero e proprio sentimento di attaccamento al corpo biologico, al suolo e al tempo, in poche parole: nel motto nazista “Blut und Boden”33.

Un tale presupposto non può essere privo di esiti catastrofici; un popolo che sostiene l’identità dell’Io al corpo osanna la discriminazione e accetta la malvagità e i delitti commessi dal nazismo contro i “diversi”. In un tale pensiero sono insiti i drammi del secolo breve: quelli della scissione dell’umanità in autoctoni e stranieri e della conseguente aspirazione alla “pulizia etnica”34.

Il sentimento di aderenza al corpo rivela un movimento di ripiegamento del soggetto su se stesso, che consiste nell’identificarsi il più possibile a sé escludendo gli altri. Questo passaggio mette a nudo la drammatica evidenza della fatticità del soggetto, la sua inconsistenza temporale e la sua fragilità biologica.

La questione dell’essere non è solo un problema teorico, ma coinvolge l’uomo in carne ed ossa; il diverso approccio del soggetto ad un tipo di pensiero condiziona la relazione con l’altro uomo. La cura identitaria del Dasein, che presuppone un attaccamento alla propria esistenza, alla propria finitezza e alla propria identità, genera inevitabilmente un rapporto di autoaffermazione e di chiusura nei confronti dell’altro uomo. In Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo emerge la concezione del corpo biologico ridotto a pura materialità, della fatticità dell’io che non prova orrore, vergogna, dissenso, né desiderio di uscire da questa situazione di aderenza e richiudimento in se stesso.

Il corpo diviene il mediatore del rapporto di passività che ci lega all’esistenza: il fatto di avere un corpo palesa “un’aderenza alla quale non si sfugge (…) un’unione il cui tragico

33 Il sintagma tedesco Blut und Boden, tradotto come «sangue e suolo», è impiegato per indicare l’ appartenenza del popolo tedesco alla

propria nazione.

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sapore di definitivo nulla potrebbe alterare”35; il dualismo tra res cogitans e res extensa scompare.36 Il soggetto si sente un tutt’uno con il proprio corpo.

Il forte e imprescindibile nesso tra corporeità ed esistenza rinvia alla considerazione del corpo come strumento di partecipazione all’essere e di attaccamento ad esso.

Come emerge da questi primi cenni, il filosofo nega un io disincarnato e astorico e, al contempo, si distanzia sia dalla posizione della tradizione che considera il corpo come la prigione dell’anima, sia da quella materialista che lo esalta nella sua valenza positiva. Mentre i materialisti “confondevano l’io con il corpo a prezzo della negazione pura e semplice dello spirito”37, nella tradizione antica il sentimento del corpo si accompagnava per lo più ad un sentimento di estraneità e di svalutazione di esso: “Il corpo pesa a Socrate come le catene che costringono il filosofo nella prigione d’Atene; lo rinchiude come la tomba che gli è destinata”38.

Nella mortalità del corpo e nella dinamica dei bisogni si svela allora la passività originaria, quella insita nella natura umana e nella sua appartenenza all’essere fisico. Parallelamente a questa passività originaria si delinea quella esistenziale, manifestata proprio nella dimensione primordiale e inalienabile dell’esistenza: nella “verità elementare che vi è essere, un essere che vale e che pesa”39.

Nel saggio Dell’evasione viene analizzata la struttura esistenziale del bisogno che svela la natura di asservimento del proprio corpo all’essere. In essa si rivela una situazione di “pienezza”40

dell’essere, non una mancanza, come potremmo essere portati a interpretarla

35 Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo; cit. p. 33. 36

Ivi, cit. p. 32: (…) ogni dualismo tra l’io e il corpo deve scomparire.

37 Ivi, cit. p. 29. 38 Ivi, cit. p. 31

39 Dell’evasione; cit. p. 14.

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in modo classico. La soddisfazione del desiderio non lo distrugge, ma lo fa rinascere e conferma la nostra urgenza di doverlo soddisfare nuovamente.

In questa prima rappresentazione, il bisogno si rivela nella sua valenza negativa di dipendenza del soggetto dall’elementale; si tornerà sulla nozione di bisogno con valenza positiva analizzando, dapprima, il suo rapporto con l’il y a, come possibilità di distaccarsi dalla fatticità puramente biologica per darsi un fine e, in un secondo momento, approfondendo il binomio bisogno-godimento presente in Totalità e Infinito.

Per focalizzare al meglio la tematica della passività è necessario fare una digressione proprio sulle necessità vitali e sulla costituzione vulnerabile e fragile del soggetto.41 La costituzione dell’uomo è tale da avere in sé la persistente minaccia della possibilità di essere distrutta, ferita e danneggiata: la minaccia del “non-essere-più”42. Questa costitutiva precarietà e fragilità dell’umano mette in risalto proprio la passività in quanto vulnerabilità.

L’uomo è vulnerabile giacché può essere colpito, attaccato o leso in ogni momento: è esposto a forze che non può controllare, allo stesso modo in cui è esposto al male e all’essere. L’incapacità di negare l’essere è qualcosa che il soggetto scopre in se stesso nel momento in cui comprende di essere inchiodato ad esso.

La vicinanza della filosofia e dell’hitlerismo, apparentemente contraddittoria, si manifesta proprio in queste premesse. L’accettazione della violenza e dello sterminio degli ebrei, non deriverebbe secondo Levinas da una “contingente anomalia della ragione” né da qualche “malinteso ideologico accidentale”43, ma dall’esaltazione della situazione di

41 Per un maggiore approfondimento della costituzione vulnerabile del soggetto si veda Laura Pialli, Fenomenologia del fragile,

Fallibilità e vulnerabilità tra Ricoeur e Levinas, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1998.

42 Ivi, cit. p. 27.

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essere legati indissolubilmente al proprio corpo e alla propria esistenza. La possibilità del nazismo e del razzismo sarebbe allora inscritta nella mentalità occidentale; nella concezione positiva, veicolata dall’ontologia, dell’aderenza dell’essere al corpo.

Ad una analisi superficiale la tematizzazione della passività presente nei primi scritti sembrerebbe caratterizzarsi come negatività, come oppressione di fronte all’essere anonimo e alla sua brutalità, come inattività di fronte all’inevitabile accettazione dell’esistenza del male e del nostro coinvolgimento con esso. Succube della propria fatticità, l’unica attività dell’uomo risiederebbe allora nell’accettazione del fatto bruto di esistere.

In realtà, nella passività è insita un’enigmatica tensione interna che prefigura la necessità di evasione e che spinge il soggetto all’attività, al movimento e alla “rivolta”. L’essere che si rivela al soggetto è nel medesimo tempo “un’esperienza della rivolta”44, giacché, nel momento in cui si manifesta, viene vissuto con dissenso e ribellione.

In questi primi scritti, nella nozione di passività non si produce una vera e propria opposizione di positività e negatività, ma le due nozioni sembrerebbero richiamarsi a vicenda, in un duplice movimento che le implica entrambe.

Se nell’essere è insito il male è necessario evadere da esso ed è proprio nel rifiuto di permanervi che si scopre quello stesso movimento di uscita. Un’uscita che non prevede una meta,45 perché qualsiasi punto di approdo sarebbe un rifugio illusorio che ci ricondurrebbe al circolo dell’essere e ci farebbe ricadere in un’altra ontologia. Torneremo su questo movimento di escedenza analizzando il saggio Dall’esistenza all’esistente. È dunque la tragicità dell’essere a determinare una svolta e, paradossalmente, è proprio la guerra che ha permesso all’uomo di conoscere l’orrore dell’accettazione dell’essere,

44 Dell’evasione; cit. p. 15.

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aprendogli così la strada per la premessa dell’evasione, considerata “l’evento fondamentale del nostro essere”.46Nel momento in cui “tutto è consumato”47, quando “non-c’è-più-niente-da-fare”48

, resta soltanto un tentativo: uscire dall’essere.

1.4 L’evasione dall’essere: la passività nel bisogno, nella vergogna, nella nausea e nel

malessere.

Ne saggio del 1935 Dell’evasione emerge per la prima volta il pensiero che Levinas va maturando: la scoperta dell’essere e l’urgenza di evadere da esso.

Il filosofo analizza diversi momenti in cui si rivela la necessità di evadere dalla “pesantezza dell’essere”49

, ma non arriva ancora ad una vera e propria soluzione o alla teorizzazione di una via d’uscita. Come osserva Jacques Rolland50: la scelta del titolo non è casuale, è mirata ad avere un carattere polemico verso Heidegger ma, nonostante il riferimento al tema ontologico sia presente in tutto il testo, i nomi di Heidegger e di Husserl non compaiono mai.51 All’inizio del saggio Levinas descrive la struttura del bisogno come “intimamente legata all’essere”52 che, come abbiamo visto, ben lontana da manifestare una deficienza d’essere, ne rivela una pienezza.53 Il bisogno, nell’espressione di un sentimento di malessere che non trova pace, “non è uno stato puramente passivo”54,

46 Ivi, cit. p. 25. 47 Ivi, cit. p. 36. 48 Ibidem. 49 Ivi, cit. p. 16. 50

Jacques Rolland, Uscire dall’essere per una nuova via, in Emmanuel Levinas, Dell’evasione; pp. 73-74.

51 Ibidem.

52 Dell’evasione; cit. p. 22.

53 Ivi, cit. p. 39. 54 Ivi, cit. p. 24.

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ma dinamico: “il fatto di essere a disagio - scrive Levinas - è essenzialmente dinamico”55. In esso si prefigura già un movimento verso l’esterno che ci riporta alla categoria dell’evasione, ma questa uscita è provvisoria. Il tentativo di evadere dall’essere attraverso il soddisfacimento immediato del bisogno e del piacere si rivela fallimentare perché è incapace di compiere un’uscita duratura. L’immediatezza del piacere e il suo irraggiungibile divenire rivelano una costante delusione insita in esso.

Il piacere, descritto come “un abbandono, una perdita di sé, un’estasi”56, non può mantenere la sua promessa perché è caratterizzato da un movimento vertiginoso che non ha né un approdo né una fine: “nel fondo stesso del piacere si aprono, per così dire, delle voragini sempre più profonde in cui precipita perdutamente il nostro essere, che non oppone più resistenza”57. Più avanti leggiamo: “il piacere non è lo sbocco del bisogno, poiché non ha termine. (…) È un’evasione che naufraga”58. Esso conduce di fatto ad un risultato contrario al trionfo che prometteva: a quello della delusione e della vergogna per il suo fallimento.

Dunque, accompagnato allo scacco del piacere troviamo sempre il sentimento della vergogna. La vergogna è rivelatrice della presenza dell’essere a noi stessi: di un’esistenza che vorremmo nascondere, che “cerca per sé delle scuse”59 e che, pertanto, non rivela la nostra nullità, ma il nostro irremissibile attaccamento ad essa. La vergogna denuda l’essere e ci permette di vedere ancor più direttamente il nostro incatenamento ad esso: “ciò che la vergogna svela è l’essere che si svela”60

. Tale evidenza ci opprime fino alla

55 Ibidem. 56 Ivi, cit. p. 28. 57 Ibidem. 58 Ivi, cit. p. 29. 59 Ivi, cit. p. 33. 60 Ibidem.

(33)

nausea, non perché impone dei limiti all’esistente, ma per il fatto stesso che in nessun modo possiamo sfuggirvi; nemmeno con la morte.61

In questa prima fase la passività è percepita come “impotenza ad uscire da questa presenza”62 e la nausea ne è proprio l’esperienza rivelatrice. Nel medesimo tempo in cui è vissuta la nausea imprigiona in un “cerchio stretto che soffoca”63. Lo sforzo disperato di uscire dalla sensazione di nausea o da uno stato di malessere, non solo rivela il rifiuto a permanervi e l'inutilità di qualsiasi tentativo di ovviare a tale situazione, ma la nostra totale passività: passività che si presenta come una “condanna ad essere se stessi”64. Non possiamo pretendere di spogliarci della nostra identità, essa ci appartiene.

Il soggetto non può assumere un comportamento che gli permetta di negare il malessere o la nausea, così come non può disconoscere l’essere: egli è coinvolto in una situazione che non ha scelto e nella quale non ha potere.

La nausea e il sentimento di disgusto non hanno un significato solo negativo, anzi, sono proprio ciò che ci spinge ad andare oltre, verso l’evasione e verso un nuovo significato di passività.

Anche la vergogna ha una valenza positiva, giacché permette all’uomo di vedere se stesso, di scoprire l’essere nella “sua più brutale espressione”65 e di prenderne atto. L’Io è nudo, non nel corpo fisico, ma nella sua “ultima intimità”66, nella nudità dell’esistenza, che non è tanto quella dell’indecenza, dell’oscenità e della mancanza di costumi che

61 Ivi, p. 36. 62 Ivi, cit. p. 40. 63 Ivi, cit. p. 36. 64 Ivi, cit. p. 40. 65 Ivi, cit. p. 33. 66 Ibidem.

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minaccerebbe di “offendere le convenienze sociali”67, ma quella che si prova di fronte “al fatto stesso d’avere un corpo, di essere là”68.

La struttura paradossale della passività si esplica proprio nella duplicità di piani su cui si pone: da una parte, come impotenza e inerzia e, dall’altra, come movimento interno di antagonismo a tale condizione.

Le qualifiche negative che le vengono attribuite nella descrizione dei sentimenti ad essa collegati, quali “impotenza”69, “abbandono”70 e “soffocamento”71, trovano la loro positività all’interno di una prospettiva più ampia, negli sviluppi etici degli scritti posteriori, in particolare in Altrimenti che essere, allorché la passività subirà una vera e propria metamorfosi e un’inversione di significato.

Nel saggio ivi analizzato manca del tutto l’aspetto etico, la categoria della relazione e il riferimento all’Altro: le situazioni affettive descritte – il bisogno, il piacere, la vergogna e la nausea – confermano la procedura sostanzialmente solipsistica ripresa dai due maestri Husserl e Heidegger.

In questi primi scritti siamo ancora lontani dalla svolta etica di Altrimenti che essere, ma la tensione verso un altrove dall’essere e dall’identità del soggetto è già ben definita, così come è già indicato il percorso teorico lungo il quale Levinas continuerà a transitare.

In conclusione, ci potremmo chiedere verso quale direzione sia necessario evadere; Pier Aldo Rovatti ipotizza che tale direzione sia proprio quella della passività.72

67 Ivi, cit. p. 36. 68 Ivi, cit. p. 37. 69 Ivi, cit. p. 39. 70 Ivi, cit. p. 28. 71 Ivi, cit. p. 36.

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Levinas cerca una strada diversa da quella della dialettica filosofica: alla passività dell’essere non oppone un’attività, come saremmo portati a pensare dalla tradizione, ma un’altra passività, quella etica.73 Si tratta di una soluzione che viene elaborata a partire dall’esperienza di passività dello stesso Levinas, provata durante i cinque anni di prigionia.

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2. LA SVOLTA DELLA PRIGIONIA E LA SCOPERTA DELLA CATEGORIA DELLA PASSIVITÀ

2.1 I Quaderni di prigionia.

Emmanuel LEVINAS Prigioniero rimpatriato dallo Stalag XIB Rds 1492 Matr. II607874

L’esperienza della guerra e, in particolare, quella della prigionia dello stesso Levinas hanno un ruolo fondamentale nello strutturarsi del pensiero del filosofo, nella scoperta della categoria della passività originaria e nel radicale allontanamento dalla filosofia tradizionale. Dopo la guerra, la fenomenologia husserliana, quella heideggeriana e nel complesso tutta la tradizione greca appaiono ancor più responsabili del fallimento della civiltà occidentale.

Le riflessioni sull’il y a, sull’insonnia, sulla genesi dell’esistente, sulla categoria dell’ebreo e sulle tematiche cardine del pensiero levinassiano si comprendono solo a fronte della drammatica e tragica esperienza vissuta nel campo di concentramento. Nel trionfo del non-senso e dell’anonimato di cui parla Levinas riferendosi all’il y a e nella de-personalizzazione che tale condizione procura al soggetto, si può ben figurare la stessa situazione che il giovane filosofo dovette subire negli anni di reclusione nel campo di concentramento.

Internato, Levinas si ritrova totalmente passivo, in balìa di forze e voleri esterni, catapultato in una situazione che non avrebbe mai immaginato di sperimentare: situazione che, proprio in virtù della sua assurdità e drammaticità, consente una piena visibilità sulla precarietà della morale occidentale e ne determina le condizioni per un superamento.

(37)

La prigionia è dunque il momento traumatico centrale per un ripensamento e approfondimento di problematiche che fino a quel momento non erano mai totalmente emerse nella storia del pensiero europeo.

Secondo Giovanni Lissa75 sarebbe stata proprio l’esperienza della prigionia ad aver rivelato concretamente a Levinas la categoria della passività assoluta. Scrive Lissa:

(…) la guerra mise il soggetto umano di fronte allo specchio della sua impotenza, e l’obbligò a gettare uno sguardo acuto sul fondo oscuro del suo essere e a prendere atto di quanto estesa sia l’area di passività che vi annida. (…) nei campi di prigionia esso era sottoposto a una pressione formidabile che addossandolo al nudo fatto di esistere lo spogliava della sua soggettività di soggetto, gli impediva di ricompattarsi, di reagire, di essere qualcuno e, abbandonandolo al fluire delle emozioni, ne disintegrava completamente la libertà. 76

È nella situazione concreta della guerra, descritta da Levinas come la “fine del mondo”77, e nell’esperienza vissuta sulla propria pelle della perdita del senso, della “provvisorietà della vita”78, della minaccia sempre prossima di morire solo e lontano dalla famiglia79 che “si afferma la relazione fondamentale che ci ricollega all’essere”80

.

Negli anni della guerra l’oscurità dell’essere comincia a far sentire sempre più il suo brusio e, tanto più si rende soffocante, quanto più reclama la necessità di un’evasione da tale situazione insostenibile.

Nella prigionia l’uomo è passivo, vive nell’incertezza e non ha la sicurezza di un avvenire: ciò che gli rimane è il disincanto verso la realtà. Il mondo perde la sua

75 Giovanni Lissa, Critica all’ontologia della guerra e fondazione metafisica della pace in E. Levinas, in “Giornale critico della filosofia

italiana”, fondato da Giovanni Gentile, G.C. Sansoni – Editore, Sesta serie, Volume VII, Anno LXVI, Gennaio-Aprile 1987; pp. 119-174.

76 Ivi, cit. p. 131.

77 Emmanuel Levinas, Autrement que savoir, con degli studi di Guy Petitdemange et Jacques Rolland, Editions Osiris, Paris, 1988; cit.

p.60: Il est cependant exact que le génocide ou la Shoah, comme on l’appelle en Israel, dans son horreur de « fin du monde (…) ».

78 Francois Poirié, Emmanuel Levinas, Actes Sud, Arles, 1996 ; cit. p. 74 : C’est paradoxale, tout était provisoire en quelque manière, on

se demandait à quoi cela servait, et si on s’en sortirait.

79 La spiritualità del prigioniero israelita in Quaderni di prigionia; cit. p. 213: Ero solo con la morte. 80 Dall’esistenza all’esistente; cit. p. 15.

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