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Il Desiderio, l’Infinito e il volto

3. L’INCONTRO DELL’ALTRO E LA DISFATTA DELL’INTENZIONALITÀ, DEL

3.1 Il Desiderio, l’Infinito e il volto

Totalità e Infinito si presenta come una “difesa della soggettività”217 nella misura in cui questa si oppone all’oggettività della guerra, alla totalità e all'indifferenza verso l’altro uomo. La soggettività umana, se considerata come coscienza, è sempre attività e, solo a fronte di una defezione della stessa coscienza-identità, si può pensare ad una nuova soggettività fondata sulla passività: soggettività che assume i tratti dell’accoglienza e dell’ospitalità.

Il movimento di chiusura, che abbiamo visto analizzando il bisogno, la juissance e la felicità egoistica dell’ipostasi, in Totalità e Infinito è superato attraverso la prospettiva etica del Desiderio. La categoria del bisogno e quella del desiderio rivelano le rispettive categorie di Medesimo (Même) e Altro (Autrui): il bisogno è l’esperienza che il Medesimo fa di se stesso, il desiderio è quella che lo porta ad incontrare l’Altro.218

L’emblema del bisogno è rappresentato dall’immagine di Ulisse,219

il cui viaggio ha il solo scopo di tornare a casa, quello del desiderio dal viaggio di Mosè, che non aspira ad un ritorno e ad una meta, ma vaga per terre sconosciute, sconosciute come l’altro uomo.220

La circolarità del viaggio di Ulisse, che vuole soltanto rientrare ad Itaca, simboleggia il movimento del soggetto che nel bisogno si dirige verso un oggetto determinato, spinto da

217 Totalità e Infinito; cit. p. 24: Questo libro si presenta come una difesa della soggettività, ma non la coglierà al livello della sua

protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella sua angoscia di fronte alla morte, ma come fondata nell’idea dell’Infinito.

218 Agata Zielinski, Levinas, La responsabilité est sans pourquoi, Presses Universitaires de France, Paris, 2004; p. 61. 219 Totalità e Infinito; cit. p. 25.

220 Ivi, p. 32:Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un

un processo biologico interno, ovvero, da un movimento che parte da se stesso per tornare a se stesso, in una sorta di circolo vizioso. Il movimento del desiderio, al contrario, non si origina da un processo interno, ma dall’esterno: il soggetto che desidera l’Altro non cerca soddisfacimento e sazietà perché è già soddisfatto.

Si delinea così la netta differenza tra il bisogno e il desiderio: il primo rivela una mancanza, diversamente dal secondo che, nella sua aspirazione all’Infinito dell’alterità, annuncia un eccesso. Nel desiderio si svela la non-intenzionalità del soggetto, la pura passività che precede la stessa presa di coscienza di tale passività, giacché, il principio del desiderio non è ritrovabile nel Medesimo, ma nell’Altro. È l’Altro che è causa e fine del movimento e che, in quanto tale, rende passivo il Medesimo. Il movimento che si genera dal desiderio dell’Altro rompe del tutto con la sfera dell’identità e con la chiusura su se stessi, inverte il movimento egoistico perché spinge il Medesimo ad aprirsi e ad incontrare l’Altro.

Nell’incontro e nel volto del prossimo Levinas scopre una significazione originaria e irriducibile, una sporgenza che non può essere ricondotta ad una totalità, una fessura che apre il sistema e che non lo lascia racchiudere in alcun concetto o rappresentazione da parte dell’Io: scopre l’eccedenza di Infinito propria di ciascun uomo. Nell’idea di Infinito si evidenzia la più intensa, totale e profonda passività del Medesimo; nell’impossibilità di ricondurre l’infinitamente Altro allo stesso, il soggetto si trova disarmato e costretto a deporre i suoi strumenti conoscitivi, in una dimensione che non è più quella del potere, ma quella della passività etica:

L’infinito si presenta come volto nella resistenza etica che paralizza il mio potere e si erge dura e assoluta dal fondo degli occhi senza difesa nella sua nudità e nella sua miseria.221

L’idea di Infinito appare a partire da se stessa, o meglio, appare nel volto dell’Altro, il Medesimo non può in nessun modo esserne la causa perché essa eccede tutte le rappresentazioni e le categorie del soggetto. È, dunque, nell’inafferrabilità dell’Infinito- Altro che si produce la passività e, al contempo, è proprio da questa passività che si origina la possibilità stessa di accogliere tale sovrappiù etico.

Nel saggio Sull’idea dell’Infinito in noi222 Levinas, riferendosi all’idea di Infinito, parla di “passività dell’abbagliamento” e di “affettività d’adorazione” e scrive:

Nell’idea dell’Infinito si produce precisamente l’affezione del finito da parte dell’Infinito. (…) affezione irreversibile del finito da parte dell’Infinito. Passività che non si recupera in una tematizzazione, ma dove (…) l’idea di Dio è da cima a fondo affettività. 223

Nel soggetto manca del tutto una capacità pre-esistente e pre-definita di accogliere l’idea di Infinito paragonabile alla recettività dell’attività di comprensione. Il processo conoscitivo permette l’adeguazione dell’idea del soggetto all’oggetto in virtù di un Io già strutturato a riceverla; l’idea di Infinito, al contrario, non si adegua al proprio oggetto, perché pensa più di quanto possa contenere. Essa, in quanto non è riconducibile né al soggetto né alle sue capacità di comprensione, deve venirgli necessariamente dall’esterno, da qualcuno che già la possiede: dall’Altro.

Rifacendosi alla Terza Meditazione di Cartesio, in cui viene dimostrata l’esistenza di Dio attraverso la presenza dell’idea di perfezione e di infinito nel soggetto imperfetto e finito, Levinas dimostra che solo dal rapporto con l’assolutamente Altro ci può derivare l’idea di

222 Sull’idea dell’Infinito in noi, in Tra Noi; pp. 259-262.

infinito: “Significa dunque ricevere da Altri al di là della capacità dell’Io (...) avere l’idea dell’infinito”224

.

L’ideatum dell’idea dell’Infinito, che oltrepassa il contenuto mentale della sua stessa idea e trascende ogni sua possibile tematizzazione, ci riporta al “modo con cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’Altro in me”225

. In questo superamento delle capacità dell’Io si produce concretamente la passività del soggetto. L’Altro, che è al di là del soggetto, apre alla vera e propria Trascendenza, all’oltre metafisico che rende l’Io incapace di riportarlo a sé. Infatti, il volto non si inserisce nella trama di qualifiche che lo ricondurrebbero all’Io: il volto è “presenza viva”226 e “espressione”227 che disfa le forme che lo potrebbero oggettivare in categorie generali. Il volto è mistero e “noumeno”228, è la “cosa in sé”229

che non può essere svelata e riportata alla luce, è “rivelazione”230 che si presenta immediatamente senza alcuna mediazione riflessiva, è “kath’auto”231.

L’Altro esprime se stesso e si pone “all’origine di ogni significato”232

, è inarrivabile tramite la strada della luce che aveva permesso sia a Husserl di pensare l’Altro come un alter-ego sia a Heidegger di scoprire l’Essere. Il volto è nudo perché non può in alcun modo essere svelato, conosciuto o rappresentato: è esteriorità ed estraneità radicale.

Il volto, denudato da ogni senso che potrebbe attribuirgli il Medesimo, rivela un senso originario che si esprime a partire da se stesso, senza la mediazione dell’Io: l’Io che accoglie la significazione dell’Altro permane passivo e ricevente. Attraverso il pensiero

224 Totalità e Infinito; cit. p. 49.

225 Ivi, cit. p. 48. 226 Ivi, cit. p. 64. 227 Ibidem. 228 Ivi, cit. p. 65. 229 Ibidem.

230 Ivi, cit. p. 64: L’esperienza assoluta non è svelamento ma rivelazione (…).

231 Ibidem.

della passività del soggetto si esclude la deriva idealista e creazionista del senso e si smentisce la dinamica husserliana in cui è la coscienza attiva che costituisce l’Altro.

La nudità del volto rivela una duplice accezione: essa è tale sia perché è libera da qualsiasi forma e spogliata da ogni categoria che potrebbe attribuirgli il Medesimo, sia perché è incarnazione della fragilità corporea: “la nudità del suo volto si prolunga nella nudità del corpo che ha freddo e che si vergogna della sua nudità”233. L’Altro, pur essendo esposto al potere dell’Io, ha un’autorità maggiore che deriva dalla sua stessa debolezza e che si manifesta come impotenza ad ucciderlo: il disarmo del povero è talmente potente da disarmare. Il volto è la parte del corpo più esposta all’attacco e, pertanto, è per eccellenza la parte che disarma: “questo sguardo che supplica ed esige (…) privo di tutto e avente diritto a tutto”234

.

La nudità primitiva del corpo biologico, dell’esposizione alla ferita e dell’impossibilità del povero di difendersi diviene interdizione all’attacco e ne trasforma la fragilità in Altezza che mortifica il Medesimo nella spontaneità dell’atto. Nudità che marca l’arresto dell’Io e che, al contempo, lo obbliga ad un atto: quello di provvedere al suo aiuto concreto.

Le figure bibliche dello straniero, della vedova, del povero e dell’orfano, 235

costantemente evocate da Levinas, incarnano visibilmente la passività insita nella sofferenza, nella debolezza, nella fragilità e nella massima esposizione al potere altrui, al mondo esterno e al male che compie l'uomo. È in questa manifestazione primaria di marginalità, vulnerabilità, impotenza e sofferenza che la fragilità diviene “signoria”.

233 Ibidem. 234 Ibidem.

235 Ivi, cit. p. 257:Altri in quanto altri si situa in una situazione di gloria e di umiliazione – gloriosa umiliazione; ha la faccia del

La passività originaria, scoperta in sé e nell’altro, riguarda entrambi i termini della relazione, non solo il Medesimo, ma anche il povero che appare nella sua fragilità concreta e nella nudità della sua carne.

A questo punto sembrerebbe sorgere una contraddizione: quella che vede il Medesimo passivo e vulnerabile di fronte all’apparizione dell’Altro e quella che lo vede sovrano e privilegiato. In realtà, questi due momenti non sono contraddittori, essi fanno parte di un unico movimento che ha come punto d’intersezione la passività costitutiva dell’uomo. Senza la passività, il Medesimo permarrebbe in una situazione di dominio del mondo, di egoismo senza ritegno, ma nel momento in cui incontra la fragilità dell’Altro, questa sovranità cessa. Il volto nudo del misero fa appello, anche senza parlare, alla ricchezza del Medesimo, richiede il suo aiuto e soccorso, ed è qui che si fa a pezzi l’egemonia dell’Io ed emerge la passività.

La relazione con la miseria dell’Altro è prima di tutto un patire che paralizza l’azione violenta e che diviene istantaneamente amore e abnegazione: attività nell’accoglienza dell’Altro.

La sofferenza che vediamo nel male del misero è insopportabile in virtù della nostra passività nei suoi confronti: del nostro subire il suo subire, per questo, la passività non è il rovescio di nessuna attività, come lo sarebbe la passività-recettività originata dall’affezione sensoriale. Il povero che si rivolge al Medesimo, nella sua indigenza e “santità”236

, smuove l’animo dell’Io che riconosce di dover fare qualcosa di tangibile per aiutarlo e per alleviare le sue pene: nasce in lui un sentimento di responsabilità generato dalla colpevolezza nei suoi confronti. Il Medesimo si sente colpevole per le proprie fortune e per avere più dell’altro senza meritarlo ed è da tale percezione che proviene la responsabilità, la spinta a provvedere alla sua fame, alla sua sventura e al suo bisogno.

Ricapitolando, l’io si volge e si ri-volge al povero in virtù della passività che lo coinvolge in una dimensione che è fin da principio etica. Chiudere gli occhi di fronte alla miseria significa rinnegare la propria passività, opporre una resistenza a colui che ci fa resistenza, ripudiare e misconoscere la propria umanità, in poche parole, essere un violento e non voler ascoltare la voce del cuore.