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La passività del Dire e l’attività del Detto

4. UN UMANESIMO DELLA PASSIVITÀ

4.2 La passività del Dire e l’attività del Detto

L’ontologia, che si esprime nel Detto del linguaggio apofantico,332

che fissa gli oggetti e fa prevalere un pensiero dell'identità e della tematizzazione, è superata grazie alla prospettiva del linguaggio etico. Già in Totalità e Infinito era emersa l’esigenza di un nuovo lessico liberato da ogni contaminazione ontologica per tentare di enunciare la trascendenza.333 Soltanto un “altrimenti detto”, un Dire che si disdice e che esclude la rappresentazione, l’oggettivazione e la fissazione, permette l’incontro con l'alterità e la trascendenza assoluta dell'altro uomo. Ciò che la filosofia cerca di dire, in quanto detto, rientra necessariamente nell’ordine ontologico e, solo disdicendo quanto appena pronunciato, si supera la difficoltà e si entra nell’ordine etico del Dire. Per far sì che questo Dire non divenga un detto è necessario accordarlo alla passività.

Le potenzialità e i limiti del linguaggio sono ritrovabili già nel titolo dell’opera; l’espressione Altrimenti che essere ci chiarisce al meglio in che modo Levinas dica l’essere attraverso un linguaggio ontologico e immediatamente lo “disdica” attraverso quello etico:

L’altrimenti che essere si enuncia in un dire che deve anche disdirsi per strappare così l’altrimenti che essere al detto in cui l’altrimenti si mette già a significare un essere altrimenti.334

A questo proposito, sono particolarmente interessanti le osservazioni di Adriaan Peperzak335 che mette il risalto la necessità etica del disdire come unica modalità per

332 Ivi, cit. p. 54: Nel Detto si trova il luogo di nascita dell’ontologia.

333 Ivi, cit. p. 2: Intendere un Dio non contaminato con l’essere. 334 Ivi, cit. p. 6.

335 Adriaan Peperzak, Introduzione a Etica come filosofia prima, a cura di F.Ciaramelli, Ed. Guerini e Associati, Milano, 1989; pp. 113-

esprimere la soggettività come “sostituzione ad Altri”336. Lo studioso ritiene che Altrimenti che essere debba essere letto in chiave diversa rispetto a Totalità e Infinito, secondo uno spostamento che, dalla nudità e dalla trascendenza dell’Altro, si indirizza alla vera e propria trascendenza del Medesimo. Il motivo che principalmente evidenzia tale differenza è ritrovabile nelle parole chiave utilizzate nelle due opere, infatti, se in Totalità e Infinito i termini che ricorrono maggiormente si riferiscono per lo più all’altezza, all’esteriorità e alla trascendenza dell’Altro, in Altrimenti che essere, essi ci riportano al tema centrale della sostituzione del Medesimo all’Altro: ostaggio, persecuzione, ossessione, espiazione, ecc.

Altrettanto interessanti sono le considerazioni di Giovanni Ferretti che mette in risalto il metodo levinassiano dell’enfasi, dell’esagerazione e dell’iperbole come possibilità di tramutare concetti ontologici in concetti etici.

Sarebbero, infatti, “l’esasperazione come metodo della filosofia” 337 e la “sublimazione”338

, di cui parla Levinas, a dare un senso etico alla passività. Passare da un’idea semplice al suo superlativo, fino alla sua enfasi, permette di creare un’idea nuova: un’idea etica.339 Secondo Ferretti, è proprio l’esagerazione iperbolica della passività “la via che Levinas sceglie per caratterizzare eticamente la sua nuova concezione della soggettività”340.

Solo se teniamo presente il metodo dell’enfasi e la funzione del superlativo, come movimenti che ci aprono alla dimensione etica del linguaggio, ci avviciniamo al significato originario della “passività più passiva di ogni passività”.

336

Altrimenti che essere; cit. p. 2

337 Di Dio che viene all’idea (1982), a cura di S. Petrosino, traduzione di G. Zennaro, Jaca Book, Milano, 1983; cit. p. 113. 338 Ivi, cit. p. 112.

339 Ivi, cit. p. 113.

I termini centrali dell’opera si fanno eco reciprocamente e ruotano tutti intorno al perno della passività originaria; pensiamo ai significati di esposizione, denudazione, vulnerabilità, ostaggio, pazienza, destituzione, deposizione, ecc. L’intera opera è costernata di vocaboli che ci riportano al segreto della vulnerabilità e alla denudazione del soggetto che nel Dire e nel Dare si spoglia del suo sé per far spazio all’Altro, in un intreccio di articolazioni linguistiche originate dalla stessa passività etica che coinvolge ciascun singolo.341

Paul Ricoeur nella sua ricostruzione del discorso tenuto in occasione della presentazione di Altrimenti che essere fa coincidere il concetto di diacronia del Dire pre-originario con quello dell'incontro dell'Altro, della responsabilità e della sostituzione. Secondo il filosofo in entrambi i casi il soggetto rompe con il presente e con il tempo storico, in virtù di un passato pre-originale e diacronico. Nell’uno-per-l’altro della responsabilità, nella relazione a-simmetrica e nella sostituzione all’Altro, Ricoeur ritrova l’equivalente del Detto che diviene un Dire.342

La sofferenza provata per-Altri si converte in sostituzione del Medesimo all’Altro, analogamente al processo che converte il Detto in Dire. Ricoeur fa poi un passo ulteriore e paragona questi due momenti ai termini di un’equazione, la cui soluzione coincide per entrambi con la possibilità di un’al di là dell’essere e della tematizzazione.

L’Altro con cui il Medesimo entra in relazione è suo prossimo, ma non è suo contemporaneo; lo diviene solo con l’entrata in scena del terzo uomo che chiede giustizia e rivendica la necessità della sincronia e della comparazione: esige che il Dire divenga un Detto.

341

Altrimenti che essere; cit. pp. 63-64: La soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione dell’affezione, sensibilità, passività più

passiva di ogni passività, tempo irrecuperabile, dia-cronia non sincronizzabile della pazienza, esposizione sempre da esporre, esposizione da esprimere, e così, da Dire, e così, da Dare.

342 Paul Ricoeur, Autrement, Lecture d’autrement qu’être ou au-delà de l’essence d’Emmanuel Levinas, Presses universitaires de France,

Il Detto della giustizia, dello Stato, del discorso filosofico e della tematizzazione deve sempre derivare dal Dire originario e dalla relazione a-simmetrica con l’altro uomo. Solo così la prossimità può diventare visibilità senza trasfigurarsi in tematizzazione e gli incomparabili possono essere comparati senza trasformarsi in semplici elementi di un calcolo.

La distinzione tra Detto e Dire deve, allora, essere ricercata nella differente attitudine dell’uomo: la prima attitudine è ricondotta al Detto, all’attività del soggetto, alla tematizzazione e all’intenzionalità, ed è quella dell’ontologia; la seconda, quella dell’etica, è da ricercare nella passività del Dire e nell’esposizione del Medesimo all’Altro.343

Il Dire rispecchia il rovesciamento dell’intenzionalità, l’abbandono del nominativo, la passività estrema e senza assunzione: la responsabilità.

Il Dire è denudazione della denudazione, esso dà segno della sua significanza stessa, espressione dell’esposizione – iperbole della passività che disturba l’acqua che dorme, dove, senza Dire, la passività brulicherebbe di disegni segreti.344

È possibile accogliere il Dire originario unicamente se il Medesimo si mantiene nella passività della prossimità e se rinnega la coscienza attiva e sovrana. Solo un Dire senza concetto, che “non dà segno ma si fa segno”345, che è pura passività e che “nel dire questa passività significa, si fa significazione”346 può diventare vera comunicazione.

La comunicazione originaria del Dire si manifesta primariamente nel rapporto frontale di faccia a faccia in cui l’Io si trova senza alibi, all’accusativo, mentre l’Altro è al primo

343 Altrimenti che essere; cit. p. 6: L’esposizione ha qui un senso radicalmente diverso dalla tematizzazione. 344 Ibidem.

345 Ibidem. 346 Ibidem.

posto, al nominativo. Nell’accusa e nel comandamento il Dire non diviene in nessun modo tema, ma pura significazione: sincerità.

La sincerità è la modalità originaria con cui l’Io deve rispondere ad Altri del proprio essere e, al contempo, è proprio la sincerità ciò che permette al Dire di non convertirsi in attività e in detto: “Questa passività della passività è questa dedica all’altro, questa sincerità del Dire”347. La passività con cui il Dire si fa sincerità coincide con l’impossibilità del Medesimo di mentire, giacché è più originaria della menzogna. La sincerità è parte integrante del Dire, è vocativo che si identifica con la risposta stessa dell’Eccomi del Medesimo. Per questo, il Dire può essere definito come un parlare “per non dire niente”348, “semplice come un buongiorno”349 e “pura trasparenza della confessione”350 .

A questo punto ci chiediamo: se il Dire è esposizione all’Altro, testimonianza etica, sincerità, trasparenza e espressione originaria che parla ancor prima di parlare, come può diventare Detto nella giustizia senza ricadere nell’insensatezza dell’ontologia? Il passaggio dal Dire al Detto è molto delicato.

Con l’avvento del terzo che rivendica la giustizia nasce l’esigenza di tematizzare e comparare gli uomini, ma per far sì che il detto non perda il suo carattere di testimonianza, sincerità e passività, esso deve essere elaborato filosoficamente. Il detto deve narrare senza svelare, deve mantenersi in una dimensione di prossimità e a- simmetria che non lo riduca e riconduca al semplice dialogo: deve essere disdetto.

347 Ivi, cit. p. 179. 348 Ibidem. 349 Ibidem. 350 Ibidem.

Il metodo del “dire altrimenti” è tipico del linguaggio filosofico e, in particolare, di quello scettico, che “segue la filosofia come un'ombra”351: mediante il detto che viene disdetto non si arriva mai ad una formulazione finale, ma ad un’interpretazione “all’infinito”352 che rinnova il discorso, rimettendolo perennemente in discussione.

Il Dire originario ci riporta anche, e soprattutto, alla fluidità senza interruzione dell’interpretazione della Bibbia ebraica, alla “oceanicità”353

e “inesauribilità”354 del Talmud. Nell’impresa che non ha mai fine di interpretare le Scritture ebraiche il detto è disdetto e tradotto in infiniti altri modi. Per questo, il giudaismo si presenta come un “pensiero in discussione viva”355

: perché è Dire. Nel dogma del detto è insita la discordia, la divisione, l’intransigenza, mentre nel Talmud, pur essendo un’opera scritta, si sorpassa il sapere disteso nel libro, si annuncia il Dire:

Le pagine del Talmud fissano una tradizione orale e un insegnamento divenuti scritto per caso e che preme di richiamare alla loro vita dialogata e polemica, dove significati molteplici – ma non arbitrari – s’alzano e frullano da ogni detto. Quelle pagine cercano la contraddizione (…).356

I commentari talmudici e filosofici, in virtù della passività con cui vengono accolti nelle loro contraddizioni, rompono con la possibilità di oggettivazione, con l’essere e con la tematizzazione, riportandoci all’esperienza fondamentale dell’Io, quella della relazione con l’altro uomo:

351 Ivi, cit. p. 209. 352

Ivi, cit. pp. 210-211.

353 Alberto Moscato, in Prefazione a Quattro letture Talmudiche; cit. p. 13. 354 L’aldilà del versetto; cit. p. 56.

355 Laicità del pensiero giudaico, in Dall’Altro all’Io; cit. p. 86. 356 Quattro letture talmudiche; cit. p. 28.

Appello al Talmud e all’infinito rinnovamento della parola di Dio nel commento e nel commento del commento. Profetismo e talmudismo della Scrittura (…) coincidente con lo stesso processo della venuta di Dio all’idea nel volto dell’altro uomo.357

In conclusione, se da una parte, il Dire originario è tradito nel Detto perché diviene tematizzazione, dall’altra, grazie alla rimessa in discussione dell’elaborazione filosofica e dell’interpretazione della Bibbia ebraica, esso mantiene il suo carattere di testimone del Bene. La politica, le istituzioni e la società devono garantire la comparazione e la tematizzazione, ma in funzione della giustizia e della prossimità: “né il realismo né l’idealismo, fratelli gemelli, hanno il diritto di primogenitura”358

, ma l’etica.