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Figli del Monte Kenya. La guerriglia anticoloniale del movimento "Mau Mau" in Kenya (1952-1960)

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INDICE

INTRODUZIONE

CAP. 1: LA DOMINAZIONE COLONIALE

La penetrazione britannica e l‟East Africa Protectorate La Kenya Colony e i kikuyu

Gli anni Quaranta e i prodromi della rivolta

CAP. 2: LE PRIME FASI DEL CONFLITTO

Lo stato di emergenza Il processo a Kenyatta

L‟evoluzione dell‟intervento britannico e il massacro di Lari L‟organizzazione militare dei Mau Mau e il ruolo delle donne La riorganizzazione dell‟esercito britannico e il massacro di Chuka

CAP. 3: TRA NEGOZIATO E REPRESSIONE

Le divisioni interne al Kenya Land Freedom Army Il progetto di Thomas Askwith e lo “Swynnerton Plan” La cattura di Waruhiu Itote, “General China”

L‟operazione Anvil e la “villagization” Le ultime offensive di Erskine

CAP. 4: LA SCONFITTA E L’INDIPENDENZA

La cattura di Kimathi

Le vittime della “Pipeline” e il massacro di Hola Uhuru

L‟eredità dei Mau Mau e il dibattito storiografico

CONCLUSIONI

IMMAGINI

BIBLIOGRAFIA

LINKOGRAFIA

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7

7 16 25

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31 36 40 47 54

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59 63 68 74 83

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91 96 105 111

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INTRODUZIONE

Aimé Césaire, poeta e uomo politico originario della Martinica, scriveva poco più di sessant’anni fa, adottando una formula polemica e fortunata, che il nazismo applicò al continente europeo «quei procedimenti colonialisti che sino ad allora erano riservati esclusivamente agli arabi d'Algeria, ai coolie dell'India e ai neri dell'Africa»1. Centrato o meno che fosse il paragone, molte delle questioni riguardanti la stagione del coloniali-smo in generale e quello coinvolgente il continente africano in particolare, con la suc-cessiva appendice della decolonizzazione, rimangono tutt’oggi irrisolte. Di quella fase storica la rivolta dei Mau Mau in Kenya fu uno degli episodi più significativi e contro-versi. Significativo per la portata della crisi, che coinvolse la regione centrale della co-lonia keniana in un conflitto che durò più di 4 anni e che fu seguito da un eguale perio-do nel quale la legislazione d’emergenza rimase in vigore, coprenperio-do quasi tutto l’arco degli anni Cinquanta del XX secolo; e controverso poiché si trattò, in primo luogo, di fenomeno di non facile lettura a causa della sua complessità, e al tempo stesso poiché costituì un’evidente confutazione, nella sua palese virulenza2

, verso alcune raffigurazio-ni a lungo egemoraffigurazio-ni a proposito delle modalità con le quali si attuò la transizione tra il dominio coloniale britannico e le nuove realtà nazionali indipendenti del continente3. Quella dei Mau Mau fu la storia di un movimento di lotta che venne militarmente scon-fitto ma che lasciò un segno indelebile nel paese, rendendo di fatto impossibile un suc-cessivo ritorno allo status quo.

Per ciò che concerne questa tesi, l’interesse preliminare per i Mau Mau derivava, tra i tanti aspetti, dal fatto che la rivolta fu per certi versi un unicum, con caratteristiche del tutto peculiari che rispondevano alla particolare realtà sociale, politica, economica e cul-turale delle regioni centrali del Kenya e della Rift Valley, abitate dalle etnie kikuyu, embu e meru; e al tempo stesso un fenomeno che presentò tratti comuni ad altre

1

A. Césaire, Discours sur le colonialisme, https://dpearea.files.wordpress.com/2015/12/cesaire.pdf

2

Tra tutte le guerre di decolonizzazione che interessarono l’impero britannico fu senza dubbio la più im-portante, per l’entità delle forze impiegate dall’esercito e per il numero delle vittime sia militari (11.500 circa) che civili (il cui numero rimane tuttora difficilmente quantificabile) D. Anderson, Surrogates of the

State, Collaboration and Atrocity in Kenya‟s Mau Mau War, in G. Kassimeris (ed.), The Barbarization of Warfare, New York, New York University Press, 2006, p. 159.

3

Secondo tale raffigurazione i britannici sarebbero riusciti a realizzare una transizione sostanzialmente pacifica, salvo alcune localizzate eccezioni, radicalmente diversa dalle modalità con le quali si attuarono le liquidazioni degli imperi coloniali francese, olandese e portoghese.

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rienze di lotta per la liberazione di un paese dal dominio straniero. Si è perciò tentato di dar conto degli elementi che rientrarono nell’una e nell’altra categoria, senza tuttavia pretendere di vedere nella rivolta dei Mau Mau un paradigma archetipico di successive analoghe forme di lotta, né di trovare precedenti dai quali i protagonisti avrebbero tratto ispirazione.

Occuparsi dei Mau Mau significa anzitutto occuparsi dell’imperialismo coloniale bri-tannico. In questa sede si è tentato di evidenziare come esso fu capace di mettere in atto un uso della violenza su una scala senza precedenti nella regione4, completando negli ultimi anni dell’Ottocento, in una fase di piena competizione tra gli imperialismi colo-niali europei, l’occupazione di tutti i territori non ancora raggiunti da altri popoli del Vecchio Continente. L’ulteriore espansione che si ebbe con la fine della Prima guerra mondiale consentì all’impero britannico di raggiungere la sua massima estensione, gra-zie ai territori acquisiti dagli sconfitti imperi tedesco e ottomano. La regione dell’Africa orientale, nella quale la penetrazione economica e commerciale era iniziata più di 100 anni prima, rappresentava in quel momento l’anello di congiunzione tra i possedimenti a Nord (attuale Uganda, Somalia britannica, Sudan, Egitto) e la recente acquisizione della Tanganika e i territori della Rhodesia, già da tempo sotto la dominazione di Londra, a Sud. Con la conferenza di pace di Parigi si era così dunque realizzato l’antico progetto britannico di unificare la parte orientale del continente da Nord a Sud. Come si avrà modo di sottolineare, nella regione gli occupanti modificarono completamente l’ambiente, le relazioni tra i popoli autoctoni e costruirono un’unica entità politica, eser-citando una forma di dominio pervasiva, fondata su una retorica paternalista e sulla tota-le espropriazione deltota-le risorse. Il risultato fu l’instaurazione di una società di stampo razzista, la cui legislazione certificava le differenze di status che derivavano, e al tempo stesso si compenetravano in un rapporto biunivoco5, dalle differenze etniche.

Nelle pagine che seguono si è perciò tentato di restituire quello che fu il modello polit i-co, sociale, economico che i britannici realizzarono in Kenya, quale fu il prezzo pagato dalla popolazione locale e quali gli elementi che condussero alla formazione di un mo-vimento di lotta all’oppressione straniera, che assunse in pochi anni la forma di lotta armata per la liberazione della terra e per l’indipendenza, e che mise a nudo la brutalità

4

Come sottolineato in J. Lonsdale, The Conquest State of Kenya, 1895-1905, in B. Berman, J. Lonsdale (eds.), Unhappy Valley, Conflict in Kenya and Africa, Book One: State and Class, Oxford, James Currey, 1992, p. 13.

5

Tale per cui verrebbe da evocare la paradossale formula di Frantz Fanon sul colonialismo e sul dominio degli europei sui popoli autoctoni, «si è ricchi perché bianchi e si è bianchi perché ricchi». M. Mellino, La

critica postcoloniale: decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma,

(5)

5

dell’amministrazione coloniale. E al di là dell’efficacia dello sforzo britannico nel tra-sformare la realtà dell’Africa orientale, si è pure tentato di tratteggiare sullo sfondo, sempre presente anche se solo accennato, il tema del crepuscolo dell’impero britannico, che dopo quasi 4 secoli di egemonia sullo scacchiere internazionale affrontò un rapido declino fino alla sua dissoluzione. Quanto accadde in Kenya negli anni Cinquanta fu parte integrante di questo epocale processo storico. Le indipendenze dell’India, dell’Egitto, del Sudan e del Ghana aprirono la strada all’autogoverno delle colonie asia-tiche e africane, in una fase storica che come noto pose termine alla stagione dell’imperialismo coloniale europeo6

.

Il “dilemma-Mau Mau”, le cui coordinate nel corso del tempo non si limitarono al dibat-tito sulla natura del movimento ma investigarono tutti gli aspetti della questione7, ap-passionò gli studiosi sin dallo scoppio della ribellione nel 1952 e imbarazzò sia le auto-rità coloniali durante il conflitto che quelle che negli anni successivi governarono il Ke-nya indipendente dovendo gestirne l’eredità. In questo lavoro si è tentato di considerare la questione da tutte le possibili prospettive e angolazioni, nell’obiettivo di non trascura-re nessuna dimensione del fenomeno. Si è perciò analizzata la questione economica e sociale, in relazione alla formazione di una classe di contadini privati della loro terra e posti alle dipendenze dei coloni, gli squatter, con la trasformazione del modo di produ-zione e il passaggio da un sistema tribale ad un capitalismo agricolo; la penetraprodu-zione culturale realizzata dai britannici, attraverso l’azione delle missioni religiose che modi-ficarono completamente gli usi e i costumi dei popoli indigeni; la composizione sia et-nica che sociale del movimento Mau Mau e gli obiettivi della rivolta; l’aspetto militare, sia in relazione alle tattiche e alle modalità d’azione dei ribelli che al tipo di risposta che le forze armate britanniche opposero; la divisione interna alle comunità autoctone, parti-colarmente quella dei kikuyu, e in relazione a ciò la natura del conflitto, nel suo essere guerra di liberazione e guerra civile. Infine, si è tentato di analizzare quale fu il ruolo dei Mau Mau nell’indipendenza del Kenya, quanto dell’eredità del conflitto venne accolta nella nuova realtà post-coloniale, quanto il processo di decolonizzazione venne effetti-vamente completato, e quale fu nelle varie fasi della storia del paese la visione delle au-torità in relazione ad un tale importante passato. A proposito di tutti questi aspetti

6

Sul processo di decolonizzazione in generale si veda, tra gli altri, B. Droz, Storia della decolonizzazione

nel XX secolo, Milano, Mondadori, 2007.

7

Tra i quali anche l’interrogativo sull’origine del nome dato al movimento, quasi certamente spregiativo ma del quale esistono numerose versioni discordanti tra loro.

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6

biamo tentato di tenere conto dei contributi più utili che riteniamo la pubblicistica in materia abbia prodotto negli anni.

Si è infine tentato di restituire il clima dell’epoca, e in particolar modo quelle che furono le aspettative dei protagonisti, degli uomini e delle donne che abbracciarono la causa di una rivolta armata che ragionevolmente avrebbe potuto condurli alla morte, data la sproporzione di forze tra i Mau Mau e l’esercito britannico; e degli uomini dell’amministrazione e delle forze armate britanniche, che si trovarono ad agire in dife-sa di un impero ormai al tramonto e del quale probabilmente non intuirono l’imminente fine. Alla base della comprensione dei fatti storici vi è anche la comprensione delle mo-tivazioni dei protagonisti, in relazione all’ambiente sociale in cui essi agirono. L’adesione a tale convincimento ha guidato la stesura di questa tesi.

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CAP. 1: LA DOMINAZIONE COLONIALE

La penetrazione britannica e l’East Africa Protectorate

La trasformazione del territorio corrispondente all’attuale Kenya, da un coacervo di et-nie con lingue diverse in un coerente Stato nazionale, fu il risultato dell’uso della forza da parte di una potenza estranea alla realtà africana1, quella britannica, che dominò di-rettamente il paese per circa 70 anni. Il dominio coloniale fu dunque il fatto decisivo della storia contemporanea del Kenya. Territorio dell’Africa orientale, nel corso dei se-coli conobbe alterne fasi di sviluppo e diverse influenze esterne, l’intensità di queste ul-time profondamente diseguale, fino almeno a buona parte del XIX secolo, a seconda della diversa collocazione geografica. La principale linea di demarcazione fu quella che divise la storia della costa del Kenya da quella delle regioni interne. Se sin dall’antichità il territorio era stato raggiunto a sud da migrazioni di etnie di lingua bantu e a nord da popoli nilotici, nella costa, a partire dal IX secolo d.C. si affermarono popolazioni di lingua swahili2. I commerci che questi popoli intrattennero con l’Arabia e il Golfo Per-sico favorirono nei secoli successivi la diffusione della religione islamica nella regione. Dal XV secolo in poi gli europei entrarono in contatto con la realtà dell’Africa orientale, particolarmente quella costiera. Il 7 aprile 1498 Vasco da Gama, nel suo viaggio verso le Indie, approdò a Mombasa3, principale città della costa, a nord-ovest dall’isola di Zanzibar. I portoghesi furono i primi europei a condurre nell’Africa Orientale missioni cristiane e ad imporre la propria egemonia nei traffici commerciali dell’Oceano Indiano. Questa supremazia ebbe però termine nel corso del XVII secolo. Ad approfittarne furo-no dapprima gli Omaniti, che dettero il via ad una penetrazione commerciale a Zanzibar e poi nella fascia costiera, controllando i traffici che avevano come epicentro questi ter-ritori: materie prime, manufatti, e soprattutto schiavi4. Successivamente furono i britan-nici ad estendere con successo la loro egemonia nella regione, legandosi al sultanato

1

Come sottolineato in W.R. Ochieng’, E.S. Atieno-Odhiambo, Prologue, On Decolonization, in B.A. Ogot, W.R. Ochieng’ (eds.), Decolonization & Independence in Kenya: 1940-1993, London, James Cur-rey, 1995, p. xiv.

2

R.M. Maxon, T.P. Ofcansky, Historical Dictionary of Kenya, Lanham, Rowman & Littlefield, 2014, p. 4.

3

Ivi, p. xvii.

4

C. Brantley, The Giriama and Colonial Resistance in Kenya, 1800-1920, Berkeley, University of Cali-fornia Press, 1981, p. 17.

(8)

8

dell’Oman ed influenzandone la politica, forti di un impero talassocratico che consenti-va loro di assumere posizioni egemoni nei commerci marittimi di tutto il mondo, ivi compresi quelli dell’Oceano Indiano.

All’inizio del XIX secolo il Sultano dell’Oman Seyyid Sa’id Al-Busaidi acquisì la costa attorno a Mombasa e numerose isole strategiche per i traffici di schiavi e materie prime nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico5. L’impero commerciale creato da Seyyid Sa’id

si fondò inizialmente sul commercio degli schiavi, venduti soprattutto in Arabia e Per-sia; successivamente, attraverso una svolta economica caratterizzata dall’installazione di piantagioni di chiodi di garofano a Zanzibar e nella costa6, sull’utilizzo diretto di quegli stessi schiavi. All’ombra dei britannici, che all’inizio del XIX secolo avevano esteso i loro interessi alla costa orientale dell’Africa, con lo scopo di ottenere materie prime e trovare un mercato di sbocco per i loro prodotti, l’impero di Seyyid Sa’id prosperò. I britannici utilizzarono il legame commerciale col sultanato per espandere le loro attività nell’Africa orientale. Si rese tuttavia ben presto necessario, anche in virtù dell’azione della Anti-Slavery Society e del movimento d’opinione che promuoveva l’abolizione della schiavitù in tutti i domini britannici, tentare di sostituire il modo di produzione schiavistico che caratterizzava l’economia dell’Africa orientale con un sistema “legale” (cioè capitalistico)7. Nel 1807 la Gran Bretagna, attraverso la promulgazione dello Slave

Trade Act, aveva bandito la tratta degli schiavi in tutti i territori dell’impero; nel 1822

Seyyid Sa’id cedette alle pressioni britanniche, siglando un trattato con il quale si impe-gnava a rendere illegale il traffico di schiavi verso nazioni cristiane8. Lo stretto legame con l’Impero Britannico consentì al sultano importanti spazi di manovra. Nel 1837, do-po un conflitto con i mazrui, arabi-africani che controllavano Mombasa, anche la città cadde definitivamente sotto il suo dominio9. Nel 1840 Seyyid Sa’id trasferì la propria capitale a Zanzibar10. Sotto l’influenza britannica il sultanato fu suddiviso nel 1856, alla

5 Ivi, p. 18. 6 Ivi, p. 17. 7

Sul movimento abolizionista in Gran Bretagna, e a proposito del dibattito storiografico sul tema, si ve-dano tra gli altri S. Drescher, Capitalism and Antislavery: British Mobilization in Comparative

Perspec-tive, New York, Oxford University Press, 1987; D. R. Peterson, Abolitionism and Political Thought in Britain and East Africa, in D. R. Peterson (ed.), Abolitionism and Imperialism in Britain, Africa, and the Atlantic, Athens, Ohio University Press, 2010, p. 1-37; R. Huzzey, Freedom Burning: Anti-Slavery and Empire in Victorian Britain, Ithaca, Cornell University Press, 2012; J.R. Oldfield, Popular Politics and British Anti-Slavery: The Mobilisation of Public Opinion against the Slave Trade, 1787-1807, Abingdon,

Taylor and Francis Ltd., 1998.

8 C. Brantley, op. cit., p. 27

9 J. Jones, N. Ridout, A History of Modern Oman, New York, Cambridge University Press, 2015, p. 54. 10 C. Brantley, op. cit., p. 27

(9)

9

morte di Seyyid Sa’id, tra i due suoi figli11; a Thwain toccò l’Oman, a Majid Zanzibar,

che così divenne formalmente indipendente. La pressione britannica portò progressiva-mente all’abolizione del commercio di schiavi per mare, sancita poi ufficialprogressiva-mente nel 1873 da un trattato tra Burghash, successore di Majid, e i britannici12. Nel 1876 anche la tratta via terra fu resa illegale attraverso la promulgazione di due decreti sultaniali, e con la creazione di un primo esercito del sultanato atto a contrastare il fenomeno; questo esercito, guidato da un britannico, il Luogotenente William Lloyd Matthews, colpì si-gnificativamente nel tempo le carovane che dalla costa procedevano verso l’interno in cerca di schiavi13.

Accanto alla penetrazione commerciale, notevole importanza assunse l’attività delle missioni cristiane. La prima missione britannica a giungere nel territorio fu, nel 1844, la Church Missionary Society14. Le missioni svolsero un ruolo di primo piano nel combat-tere la tratta degli schiavi e nel realizzare una penetrazione culturale nella costa e nell’interno, portando da un lato il messaggio evangelico, onde cristianizzare la regione e sostituire i tradizionali culti locali (in verità il risultato più evidente di questa azione fu la proliferazione di un crescente sincretismo religioso, come avremo modo di vedere più avanti) e dall’altro anticipando le istituzioni dell’Impero nella conoscenza, e nella tra-sformazione in senso europeo, dei popoli indigeni.

La Scramble for Africa15 investì anche i territori dell’Africa orientale. I britannici pote-vano vantare un notevole vantaggio strategico, nella costa orientale come in altre regio-ni del continente, derivante da una più antica penetrazione in Africa rispetto ad altre po-tenze europee. In Africa orientale il principale antagonista dell’espansionismo britanni-co era la Germania: la penetrazione del Reich, iniziata in Tanganica, raggiunse anche Zanzibar, dove Carl Peters, rappresentante della “Società per la colonizzazione tede-sca”, aveva stretto i primi contatti col sultano16

. Ciò condusse inevitabilmente a una

11 Ivi, p.28. 12 Ibidem. 13

Il colpo finale al sistema schiavistico in Kenya fu assestato significativamente nel 1907, anno del cen-tenario dell’abolizione della tratta degli schiavi nei possedimenti britannici, con la promulgazione della

Abolition of Slavery Ordinance. A. Clayton, D. Cockfield Savage, Government and Labour in Kenya 1895-1963, Abingdon, Frank Cass and Co. Ltd, 1974, p. 4.

14

T. Rhodes, Building Colonialism: Archaeology and Urban Space in East Africa, London, Bloomsbury Academic, 2014, p. 23.

15

La “zuffa per l’Africa”, definizione resa celebre dal titolo di un articolo del “Times” del 1884, fu un processo che, tra spartizioni a tavolino del continente come quella stabilita durante il Congresso di Berli-no del 1884-1885 e conflitti latenti o effettivi, portò alla totale dominazione dell’Africa da parte delle po-tenze europee. W. Reinhard, Storia del colonialismo, Torino, Einaudi, 2002, pp. 248-260.

16

Ivi, p. 257. Sulla figura di Carl Peters si veda A. Perras, Carl Peters and German Imperialism

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scente rivalità anglo-tedesca, per la quale fu presto necessario addivenire a una sistema-zione, conseguita poi nel 1890, con l’accordo Helgoland-Zanzibar. L’Impero Britannico ottenne il riconoscimento della propria supremazia su Zanzibar e sui territori della costa formalmente appartenenti al sultanato; ai tedeschi spettò l’arcipelago di Helgoland, nel Mare del Nord, ceduto dai britannici al Reich17, e il riconoscimento dell’egemonia sul Tanganica.

A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo aveva iniziato a operare la British East Afri-ca Association, una compagnia che vantava importanti interessi economici nella regio-ne. Nel 1887 questa ottenne dal Sultano di Zanzibar piena libertà di movimento nei suoi possedimenti costieri18, purché essa li amministrasse e garantisse al Sultano entrate pari a quelle che aveva ottenuto fino a quel momento attraverso il diretto controllo dei terri-tori. L’anno successivo, la British East Africa Association mutò nome divenendo l’Imperial British East Africa Company, dotata di “Charter” regia, una formale autoriz-zazione ad operare per conto della Corona. Il principale progetto della compagnia era la realizzazione di una tratta ferroviaria che collegasse la costa Swahili con il Buganda (l’odierno Uganda, anch’esso territorio sottoposto all’egemonia britannica), da Momba-sa al Lago Vittoria. La Compagnia inviò nel 1890 il Capitano Frederick Lugard in mis-sione esplorativa nell’interno19

, onde stabilire quale fosse il percorso migliore per la rea-lizzazione dell’opera, 582 miglia20

di ferrovia da costruire in un territorio potenzialmen-te ostile. Lugard entrò in contatto con numerose popolazioni indigene, tra i quali i ki-kuyu. Da questi ottenne, dopo aver partecipato ad un giuramento con uno dei capi della popolazione, Waiyaki, di edificare nel loro territorio una stazione ferroviaria. I giura-menti, come vedremo più avanti, erano una pratica fondamentale nella società kikuyu, obbligando solennemente coloro che vi aderivano a rispettarne i termini e le finalità per le quali lo stesso veniva prestato. Nell’accordo Lugard impegnava se stesso e la Com-pagnia a non interferire negli affari dei kikuyu e a non espropriarne le terre. Successi-vamente, a compimento del giuramento, fu siglato un trattato scritto tra Lugard e i ki-kuyu21. La compagnia non considerò minimamente vincolante l’accordo. Già l’anno successivo, con l’arrivo in loco degli uomini dell’IBEAC per dare inizio ai lavori, la convivenza tra britannici e kikuyu si rivelò instabile: alle numerose angherie subite, i

17

W. Reinhard, op. cit., p. 263.

18 C. Brantley, op. cit., p. 36. 19

Ivi, p. 37.

20

C. Elkins, Britain‟s Gulag, The Brutal End of Empire in Kenya, London, The Bodley Head, 2014, p.1.

21

R. Mugo Gatheru, Kenya, From Colonization to Independence, 1888-1970, Jefferson, McFarland & Company, 2005, p. 17.

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kikuyu risposero cacciando gli stranieri dalla loro terra e dando fuoco alla stazione. Un perfetto “casus belli” che fornì un’occasione per pacificare la tribù. La compagnia inva-se nuovamente il territorio dei kikuyu, sconfiggendoli e catturando Waiyaki il 17 agosto del 189222. Egli fu sostituito con un esponente della tribù ritenuto più moderato e mal-leabile, disposto ad impedire che tra gli indigeni e la compagnia sorgessero nuove fri-zioni23. Fu questa in effetti una delle caratteristiche principali dell’imperialismo colonia-le britannico, ovvero la capacità di imporre alcolonia-le popolazioni sottomesse uomini di pro-pria fiducia ma appartenenti alle tribù locali, in modo da esercitare un controllo indiretto ma efficace. L’amministrazione della compagnia ebbe comunque vita breve; le disastra-te condizioni finanziarie condussero l’IBEAC al fallimento, e nel 1895 il disastra-territorio passò sotto il diretto controllo del Foreign Office24. Nasceva così il British East Africa Protec-torate, il cui primo commissario fu sir Arthur Hardinge.

I lavori per la costruzione della linea ferroviaria ripresero ufficialmente nell’agosto del 1896, stavolta sotto l’egida del protettorato. Un’opera che costò complessivamente più di 6 milioni e mezzo di sterline25 e che fu portata a termine il 20 dicembre 1901, quando la ferrovia raggiunse il Lago Vittoria26. La costruzione fu accompagnata, dovunque i la-vori giungessero, dalla requisizione delle terre dei nativi, dall’introduzione del lavoro forzato per molti di loro, dalla trasformazione della conformazione del territorio, se-guendo una dinamica molto simile a quella già sperimentata nei decenni precedenti nei territori occidentali del Nord America, acquisiti dagli Stati Uniti. Più di trentamila in-diani, la maggior parte provenienti dal Punjab, furono trasferiti in loco e utilizzati come forza lavoro per la costruzione della ferrovia, contribuendo così a formare la base di quella che sarebbe stata la futura cospicua comunità indiana nella regione27. Mentre i lavori proseguivano, sorse la necessità di attrarre coloni onde popolare le terre acquisite. Sin da prima dell’avocazione dell’amministrazione del territorio da parte del Foreign Office, l’IBEAC si era occupata della questione. La compagnia stessa aveva infatti sta-bilito alcuni termini per le concessioni delle terre, sia quelle già controllate che quelle che in futuro si prevedeva di acquisire. Nel 1897 un’ordinanza emanata dalle autorità

22 Ivi, p. 19. 23 Ivi, p. 20. 24

R. M. Maxon, T.P. Ofcansky, op. cit., p. 137.

25

C. Elkins, op. cit., p.2.

26

C. S. Nicholls, Red Strangers: The White Tribe of Kenya, London, Timewell Press Limited, 2005, p. 37.

27

Sull’importanza della comunità indiana in Kenya si veda S. Ayar, Indians in Kenya: The Politics of

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12

del protettorato disciplinò ulteriormente la materia, stabilendo nuovi termini per l’affitto delle terre e ponendo alcuni limiti, quali l’impossibilità di dare in concessione ai coloni i territori effettivamente controllati dai nativi, a meno che il Commissario non avesse constatato che queste terre fossero da tempo inoccupate o non coltivate28. Fu a partire dal 1902, dopo che un nuovo Commissario, sir Charles Eliot, era stato nominato in so-stituzione di Hardinge, e dopo la promulgazione della Crown Lands Ordinance29 (che dichiarava tutta la terra proprietà del governo imperiale britannico e di fatto consentiva al Commissario di dare in concessione le terre a sua discrezione senza altro riguardo per le popolazioni native30) che si assistette ad un massiccio afflusso di coloni nel territorio. Iniziarono a formarsi così, attorno alla ferrovia appena terminata, le cosiddette White Highlands, terre concesse a proprietari bianchi attraverso la cacciata dei nativi e, succes-sivamente, la loro chiusura in riserve.

Charles Eliot può essere a buon diritto considerato «il padre fondatore delle White Hi-ghlands31». Il suo mandato fu caratterizzato da una significativa accelerazione nel pro-cesso di europeizzazione del Kenya. Sin dal suo arrivo si costituì un’organizzazione, la Colonialists’ Association, la cui figura di riferimento era quella di uno dei maggiori proprietari, lord Delamere32, giunto nel territorio alla fine dell’Ottocento. Delamere ap-profittò del nuovo corso inaugurato da Eliot, ottenendo la concessione di oltre 100.000 acri. Non fu tuttavia il solo a beneficiare dell’espropriazione dei terreni degli indigeni; una robusta classe di nuovi proprietari andò a formarsi soprattutto nelle regioni centrali del protettorato, crescendo ulteriormente nei decenni a venire. Gli africani conobbero sin da subito gli effetti del colonialismo: nei primissimi anni del secolo fu approvata una prima tassa, applicata inizialmente solo in una piccola porzione di territorio, poi estesa a tutto il protettorato con la Hut Tax Ordinance del 1903. Si trattava di una normativa che imponeva ai nativi di pagare in denaro una “tassa sulla capanna”. L’idea alla base di questi provvedimenti era semplice: non avendo conoscenza fino ad allora delle dinami-che economidinami-che europee, basate sulla moneta come mezzo di pagamento, i nativi si sa-rebbero trovati costretti a prestare lavoro presso i nuovi coloni bianchi onde ricevere

28

R. Mugo Gatheru, op. cit., p. 25.

29

Tra i vari effetti della Crown Lands Ordinance, particolare importanza ebbe l’estensione della durata dell’affitto delle terre per i coloni da 21 anni (previsti in origine dall’ordinanza del 1897) a 99. S.S.S. Kenyanchui, European Settler Agriculture, in W. R. Ochieng’, R.M. Maxon (eds.), An Economic History

of Kenya, Nairobi, East Africa Educational Publishers Ltd, 1992, p. 114.

30

C. Brantley, op. cit., p. 55.

31

R. Mugo Gatheru, op. cit., p. 26.

32

Ivi, p. 26. Sulla figura di Delamere e sul background culturale della classe dei proprietari terrieri che andò a formarsi in Kenya nelle prime due decadi del XX secolo, si veda C. Elkins, op. cit., pp. 10-11.

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uno stipendio, peraltro modestissimo, al fine di poter pagare la tassa33. Questa politica funzionò soprattutto con i kikuyu, molti dei quali furono costretti a diventare squatter34, agricoltori alle dirette dipendenze dei proprietari che ricevevano piccoli appezzamenti di terra da coltivare e da cui trarre sostentamento, fermo restando che la gran parte del la-voro doveva essere prestato alla raccolta destinata ai proprietari bianchi.

Eliot lasciò l’incarico nel 1904, quando si andava profilando la questione dei masai, una popolazione nomadica e di fiere tradizioni guerriere, dedita alla pastorizia, le cui terre erano entrate nel mirino dei coloni e delle autorità del protettorato. Sul suo operato, e sui provvedimenti da lui adottati ed implementati, fu lo stesso Eliot a pubblicare un’opera, edita nel 1905, nella quale egli difendeva la sua azione come commissario e suggeriva alcune misure per la futura conduzione della politica e dell’economia del pro-tettorato. Sin dall’introduzione emerge la “forma mentis” dell’autore e dell’ambiente dei colonizzatori. Stando a Eliot, in Africa Orientale le autorità britanniche avevano «la ra-ra opportunità di fare tabula ra-rasa, in un paese quasi intonso e qua e là inabitato35», fa-vorendo l’immigrazione di coloni onde trasformare il territorio e renderlo nel tempo «una fiorente colonia europea36». Il pregiudizio eurocentrico, tipico del colonialismo, portava l’autore a tratteggiare l’Africa quale un continente oscuro, dominato dalle forze della natura, dalle asperità derivanti dalla presenza di deserti e paludi, ostacoli che gli indigeni, causa la loro arretratezza, non erano riusciti ad abbattere. Toccava dunque ai britannici assumersi il peso della civilizzazione dell’Africa, come già era accaduto in passato in altre regioni del pianeta37. La visione di Eliot, eufemistica e mistica allo stes-so tempo poiché taceva delle immense stes-sofferenze inflitte alla popolazione indigena, pre-tendendo di riscattare al genere umano in lotta contro le avversità della natura un intero continente, rispecchiava al meglio la concezione dominante della classe dirigente in di-venire del Protettorato dell’Africa Orientale. Lo spirito missionario del colonialismo britannico, che faceva sfoggio della retorica del “fardello dell’uomo bianco”, costituiva un’efficace copertura propagandistica all’espropriazione e all’asservimento degli indi-geni.

Nuovo commissario fu Donald Stewart che, non appena insediato, riuscì a raggiungere (ma è più opportuno dire estorcere) un accordo con i masai, il 10 agosto del 1904.

33 C. Brantley, op. cit., p. 56. 34

Ivi, p. 57.

35

C. Eliot, The East Africa Protectorate, London, Frank Cass & Co., 1966, p. 3.

36

Ibidem.

37 « Non c’è dubbio che buona parte dell’Africa sia arretrata e tropicale, e molti paesi siano nel migliore

dei casi non del tutto adatti alle razze più sviluppate, ma c’è una qualche ragione per la quale nel tempo non possa essere civilizzata come l’India meridionale?». Ivi, p. 4.

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toposti da anni alla pressione, anche sovente militare, britannica, i masai si ritrovarono costretti “obtorto collo” ad abbandonare la Rift Valley che occupavano da secoli per vi-vere nelle riserve, più a sud. Una clausola dell’accordo stabiliva che le terre in cui da quel momento i masai sarebbero stati confinati non avrebbero potuto essere oggetto di concessioni38. L’anno successivo l’amministrazione del protettorato passò dal Foreign Office al Colonial Office. Stewart cercò di affrontare la questione della tassazione nel protettorato, cui erano sottoposti quasi esclusivamente i nativi africani e non i coloni, ma morì quello stesso anno. Il suo successore, sir James Hayes Sadler, tentò di imporre ai proprietari il principio per cui era necessario che anche loro contribuissero alle pub-bliche spese del protettorato. I proprietari, con Delamere in testa, brandirono l’antico slogan liberale «No taxation without representation» e chiesero la costituzione di un or-gano legislativo, nel quale poter vedere rappresentati i propri interessi. Il governo della colonia acconsentì alla formazione del Legislative Council, passo importante verso la futura trasformazione del protettorato in vera e propria colonia regia, i cui lavori ebbero inizio nel 1907. Esso era composto da 8 membri più il Commissario, la cui qualifica era stata nel frattempo trasformata in quella di Governatore39. La composizione dell’organo sarebbe mutata nel corso degli anni, con la concessione di seggi anche alle comunità in-diane ed arabe (solo in ultimo agli africani) senza tuttavia scalfire il dominio dei bian-chi. Hayes Sadler operò anche nel fronte dei rapporti di lavoro tra proprietari e nativi: nel 1906 fu approvata la prima delle cosiddette Masters and Servants Ordinance40, un provvedimento che prevedeva per gli squatter, in caso di violazione delle condizione contrattuali di utilizzo delle terre, l’obbligo di rimborsare i proprietari o, qualora ciò non fosse stato possibile, una pena fino a due mesi di detenzione.

Ad Hayes Sadler succedette sir Percy Girouard41, vicinissimo a Delamere e sostenitore entusiasta delle rivendicazioni dei grandi proprietari. Sotto il suo governo, ed in contra-sto con una pronuncia dell’Alta Corte del protettorato42

, le terre destinate nel 1904 ai masai furono requisite ed occupate da nuovi proprietari. I masai furono condotti in

38

R. Mugo Gatheru, op. cit., p. 28.

39

Ivi, p. 33.

40

B. Berman, Control & Crisis in Colonial Kenya: The Dialectic of Domination, London, James Currey, 1999, p. 146.

41 R. M. Maxon, Struggle for Kenya: The Loss and Reassertion of Imperial Initiative, 1912-1923,

Lon-don, Associated University Press, 1993, p. 36.

42

I masai erano riusciti ad ottenere dall’Alta Corte del Protettorato un’ingiunzione in cui si faceva divieto di requisire le terre loro destinate dall’accordo del 1904. Il governo del protettorato ignorò l’ingiunzione e procedette nel revocare le terre ai Masai. L’Alta Corte successivamente evitò di pronunciarsi nel merito, stabilendo la propria incompetenza in quanto il trattato ricadeva nell’ambito del diritto internazionale e non nel diritto interno, adeguandosi così in sostanza al fatto compiuto. R. Mugo Gatheru, op. cit., p. 34.

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ve riserve, più a sud, prive di acqua e infestate dalla malaria. Anche il successore di Gi-rouard, sir Henry Belfield43, divenuto governatore nel 1912, proseguì nella politica di sostegno alle rivendicazioni dei proprietari. Sotto il suo mandato, nel 1915, in piena Prima guerra mondiale, fu promulgata una nuova ordinanza, attraverso la quale tutti i terreni del protettorato divenivano “Terre della Corona” e i loro precedenti proprietari africani, di fatto, affittuari a tempo del governo britannico. Con la Native Registration

Ordinance44, invece, fu dato inizio alla pratica di registrare e schedare tutti gli indigeni maschi in età da lavoro, un sistema che sarebbe stato ulteriormente implementato negli anni successivi.

La Prima guerra mondiale interessò l’Africa Orientale, e soprattutto la frontiera a sud, confinante i possedimenti tedeschi. Al termine del conflitto, che vide la fine dell’impero coloniale tedesco e della sua presenza in Africa, dall’ambiente dei grandi proprietari partì la richiesta di costituire un governo militare anche in tempo di pace. Fu così nomi-nato governomi-natore il generale Edward Northey45. Nel 1919 venne modificata la composi-zione del Legislative Council, sempre per effetto della pressione dei grandi proprietari, con l’elezione diretta da parte dell’elettorato bianco di 11 rappresentanti, una modalità che andava a sostituire la nomina da parte del governatore.

L’inizio degli anni Venti coincise probabilmente con l’apogeo della dominazione bri-tannica nel Kenya. La guerra aveva consegnato ai proprietari un territorio ancor più pa-cificato, con la fine di quella che era sentita come una minaccia considerevole, rappre-sentata dall’Africa Orientale Tedesca, e con una popolazione indigena ormai stabilmen-te sottomessa. Gli africani invece, molti dei quali avevano svolto un ruolo considerevole nella Prima guerra mondiale, prestando servizio nei Carrier Corps con il compito di tra-sportare equipaggiamenti e beni di prima necessità alle truppe, non conobbero nell’immediato dopoguerra miglioramenti di condizione o di status. Essi rimasero non rappresentati negli organi istituzionali del protettorato, conobbero un ulteriore aumento della tassazione ed una sensibile riduzione del salario, continuarono a dover sopportare la piaga del lavoro forzato e, soprattutto, subirono l’introduzione del cosiddetto Kipande

System, promosso a partire dal 1921. Il Kipande era un ulteriore sviluppo del sistema di

schedatura della popolazione africana maschile adulta46, che prevedeva tra l’altro l’obbligo di fornire all’autorità le impronte digitali, e che i nativi elevarono a principale

43 Ivi, p. 37. 44 Ivi, p. 36. 45 Ivi, p.37. 46 Ivi, p. 41.

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simbolo dell’oppressione coloniale. Il Kipande assolveva al duplice scopo di favorire il controllo della popolazione e di certificare la quantità di manodopera cui i proprietari terrieri bianchi potevano attingere. Fu sotto questo scenario di diseguaglianza e dominio che nel 1920 il Protettorato dell’Africa Orientale venne formalmente annesso alla Coro-na. Nasceva così la Colonia del Kenya.

La Kenya Colony e i kikuyu

La requisizione delle terre dei nativi era sovente stata accompagnata da rapidi conflitti armati47 il cui esito scontato non aveva comunque impedito, negli anni successivi il “primo incontro” con i bianchi, il presentarsi di rivolte di tribù indigene. Tra le principa-li ricordiamo in questa sede: le rivolte dei nandi del 189548 e soprattutto del 1905, la seconda delle quali costò la vita ad oltre 600 nativi; la guerra dei mazrui contro gli in-glesi nel 1894-9549 che di fatto condusse alla completa pacificazione della regione co-stiera; la ribellione dei kisii tra il 1904 e il 190850, che portò alla completa devastazione delle terre e dei villaggi della tribù51; la ribellione dei kipsigi tra il 1902 e il 1905; la ri-volta dei giriama del 1914, per la quale si rimanda al già citato lavoro di C. Brantley52. Tra tutte le popolazioni del Kenya furono però i kikuyu a pagare il conto più alto in termini di vite umane, e forse proprio per questo, oltre che per la dimensione della tribù, una delle più grandi del paese, e per la sua centralità sia geografica che economica (le terre occupate dai kikuyu erano tra le più fertili dell’Africa orientale), è da loro che eb-bero inizio e si tentarono le più efficaci forme di resistenza organizzata al dominio colo-niale.

Da secoli occupanti le regioni centrali del Kenya, i kikuyu, che già avevano conosciuto un attacco della Imperial British East Africa Company nel 1892, furono oggetto di un’altra spedizione nel 1904, che completò la sottomissione della tribù. Durante la Pri-ma guerra mondiale circa 124.000 morirono per effetto di azioni belliche o di epide-mie53. Con il consolidamento della dominazione coloniale, i kikuyu si trovarono chiusi

47

Per un resoconto completo di tali conflitti, si veda J. Lonsdale, The Conquest…cit., in B. Berman, J. Lonsdale (eds.), Unhappy Valley, Book One…cit., pp. 28-29.

48

J. Newsinger, Il libro nero dell‟Impero Britannico, Palermo, 21 Editore, 2014, p. 247..

49

A. Clayton, D. Cockfield Savage, op. cit., p. 3.

50

J. Newsinger, Il libro...cit., p. 248.

51

Ibidem.

52

C. Brantley, op. cit., pp. 91-124.

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da un lato dalle White Highlands e da Nairobi, che conosceva proprio in quegli anni un intenso inurbamento, e dall’altra dalle foreste la cui proprietà spettava direttamente al governo della colonia. La creazione di riserve dove le popolazioni native venivano lette-ralmente ammassate fu particolarmente opprimente per i kikuyu, specie in una fase in cui la comunità conosceva un’intensa crescita demografica sempre più incompatibile con gli esigui spazi lasciati loro nei distretti di Fort Hall, Nyeri e Kiambu54. Nessun ma-schio adulto in età da lavoro poteva spostarsi anche solo temporaneamente dalle riserve se non si trovava in possesso di un documento, rilasciato dall’autorità nell’ambito del già citato sistema del Kipande, nel quale venivano riportati etnia di origine, precedenti impieghi, impronte digitali. Al di fuori delle riserve, nelle prime due decadi del Nove-cento moltissimi kikuyu divennero squatter. Tra il 1904 e il 1920 circa 70.000 kikuyu furono condotti presso alcuni terreni di proprietà dei coloni più ad ovest; era loro con-sentito vivere nelle terre acquisite dai bianchi e coltivare piccoli appezzamenti; in cam-bio, dovevano garantire 180 giorni di lavoro ai proprietari, per il quale ricevevano un modesto stipendio55. La progressiva crescita del numero degli squatter, se da un lato al-leviò la pressione demografica nelle riserve56, dall’altra creò una robusta comunità di kikuyu che si erano trovati sradicati dal proprio contesto, per necessità e non per scelta, e le cui vite erano completamente nelle mani dei proprietari che avevano sempre la pos-sibilità, sia in sede di rinnovo dei contratti o in caso di inadempimento vero o presunto delle condizioni degli stessi, di privarli delle terre. Il fenomeno degli squatter fu dunque alla base di quella che potremmo definire una diaspora dei kikuyu all’interno della co-lonia del Kenya, con lo spostamento di decine di migliaia di persone in regioni diverse da quelle loro abitualmente occupate, e dall’altra parte la realtà delle riserve i cui confi-ni, tracciati nei territori d’origine della tribù, penalizzavano oltremodo la popolazione. Il colonialismo britannico si basava sul cosiddetto Indirect Rule, un sistema di governo per il quale elementi preminenti delle popolazioni locali, cooptati dal governo coloniale, assumevano ruoli di responsabilità e di controllo della propria comunità. In tutti i di-stretti amministrativi africani, compresi quelli kikuyu, questa politica si tradusse nella nomina, in spregio alle tradizioni politiche locali, di capi che divenivano così responsa-bili della raccolta delle tasse, del governo delle tribù e della fornitura di manodopera per l’economia coloniale. Per i servigi resi questi capi conseguivano vantaggi considerevoli,

54

C. Elkins, op. cit., p. 14.

55

D. Anderson, Histories of the Hanged: The Dirty War in Kenya and the End of Empire, New York, W. W. Norton & Company, 2005, p. 24.

56

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spesso vedendosi assegnare appezzamenti di terra più grandi e più fertili all’interno del-le riserve, e conseguendo un forte potere personadel-le, anche se al prezzo di rendersi invisi alla comunità. Su loro comunque pendeva sempre la spada di Damocle di una possibile rimozione, qualora il loro operato o la loro capacità di controllo fossero stati considerati insufficienti. Questa forma di dominio, che andava a sostituire, nel caso dei kikuyu, una struttura sociopolitica molto meno verticistica, (ancorché non priva di consistenti diffe-renziazioni, come vedremo in seguito), inserì elementi di gerarchizzazione che condus-sero ad una divaricazione degli interessi all’interno della stessa comunità, con la forma-zione di una classe dirigente lealista contrapposta a forme di resistenza attiva al dominio coloniale57. A puntellare il sistema dei capi, la costituzione dei Local Native Councils nei vari distretti africani58, strutture collegiali di controllo delle comunità, permise di creare un più organico coordinamento tra le istituzioni della colonia e i capi, ormai as-similabili a tutti gli effetti a funzionari del governo.

Con la fine della Prima guerra mondiale, dalla comunità kikuyu emersero i primi mo-vimenti di lotta al dominio coloniale. Nel 1919 si formò la Kikuyu Association, la prima organizzazione politica a rappresentare le rivendicazioni della tribù. La Kikuyu Asso-ciation era tuttavia dominata dai capi nominati dall’amministrazione coloniale e legati alle missioni cristiane, come Mbiyu Koinange, Josiah Njonjo, Waruhiu wa Kungu e Philip Karanja59, e la sua azione si rivelò di modesta entità. Nel 1921 emerse una for-mazione più radicale, la Young Kikuyu Association, che subito mutò nome in East Africa Association60, a sottolineare la volontà di rappresentare non solo il popolo ki-kuyu ma tutte le etnie della regione, in Kenya come in Uganda e Tanganica. In poco tempo la vocazione multietnica consentì all’organizzazione di reclutare elementi esterni alla tribù, pur rimanendo indiscutibile in termini numerici la preminenza dei kikuyu. Il suo leader era Harry Thuku61, un membro della comunità tra i più eminenti, educato dai missionari Metodisti presso l’American Gospel Missionary Society di Kambui62

, una delle numerose scuole e chiese che si erano stabilite nella regione a partire dal XIX se-colo e il cui numero era vertiginosamente aumentato durante la Prima guerra mondiale. Thuku fu un infaticabile oratore. Nei primi anni Venti riuscì ad attrarre a sé la popola-zione della comunità e a creare contatti con altre etnie, amalgamando seguaci di diversa

57 Ivi, p. 19. 58 D. Anderson, Histories…cit., p. 17. 59

R.L. Tignor, Colonial Transformation of Kenya: The Kamba, Kikuyu, and Maasai from 1900-1939, Princeton, Princeton University Press, 2015, p. 227.

60

Ivi, p. 230.

61

Ivi, p. 229.

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estrazione grazie ad una piattaforma che si basava principalmente sui seguenti punti: l’abolizione del lavoro forzato, la fine del sistema del Kipande, la diminuzione delle tas-se, un consistente aumento dei salari degli squatter, che erano stati notevolmente ridotti dopo la guerra, il ritorno delle terre ai nativi63. Il programma politico fu formalizzato in un incontro nel distretto di Fort Hall del febbraio del 1922, quando Thuku, comparando-si con la figura di Sansone, disse che nel realizzare i propri obiettivi egli comparando-si sentiva ancor più forte e che non vedeva all’orizzonte alcuna Dalila in grado di fermarlo64

. Il governo, sfidato, reagì, e in una retata, la notte tra il 14 e il 15 marzo del 1922, arrestò Thuku e molti dei principali esponenti dell’organizzazione, conducendoli poi presso una stazione di polizia di Nairobi. Il giorno dopo oltre 7000 africani organizzarono una manifesta-zione di protesta il cui punto d’approdo era il luogo in cui Thuku era detenuto, al fine di costringere le autorità a rilasciare gli arrestati. I britannici reagirono sparando sulla folla e uccidendo, stando alle stime riportate dai nativi, almeno 150 persone65. Le cifre uffi-ciali si fermarono a 21 morti66. Thuku fu deportato più a nord, nella costa67, senza rego-lare processo, venendo così estromesso dalla lotta politica.

La crescita della East Africa Association non fu comunque ignorata. Le istituzioni della colonia compresero che un tentativo di distensione si era reso necessario, onde non ali-mentare ulteriormente le rivendicazioni della popolazione indigena. Nel 1923 fu con-cesso agli africani un seggio nel Legislative Council. Il rappresentante tuttavia non sa-rebbe stato nominato in seguito all’elezione da parte della popolazione, ma scelto dal governatore, il quale avrebbe indicato il nome ritenuto più consono tra i membri europei delle chiese missionarie in Kenya. La scelta cadde su J.W. Arthur68, che fu dunque il primo rappresentante dei nativi nel consiglio. Si trattava in sostanza di un gesto simbo-lico, e negli anni a seguire risultò evidente come il legame tra la rappresentanza conces-sa in sede legislativa e gli interessi della popolazione indigena fosse in realtà fittizio. Una nuova formazione politica, diretta erede della East Africa Association, fu fondata nel 1924, la Kikuyu Central Association69. Questa forza rappresentò negli anni a seguire il nazionalismo moderato della popolazione africana, recuperando rivendicazioni di

63 Ivi, pp. 43-44. 64 Ivi, p. 45. 65

T. Zeleza, The Colonial Labour System in Kenya, in W. R. Ochieng’, R. M. Maxon (eds.), op. cit., p. 187.

66

D. Anderson, Histories…cit., p. 17.

67

J. D. Hargreaves, Decolonization in Africa, Abingdon, Taylor and Francis Ltd., 1996, p. 19.

68

R. L. Tignor, op. cit., p. 357.

69

G. Sabar, Church, State and Society in Kenya, From Mediation to Opposition 1963-1993, Abingdon, Frank Cass Publishers, 2001, p. 39.

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Harry Thuku, come la questione della terra, e unendole a nuovi obiettivi, come la tradu-zione di tutte le leggi approvate dal Legislative Council nella lingua kikuyu. Nel 1927 la Kikuyu Central Association aprì una propria sezione a Nairobi, una città in costante espansione, soprattutto per l’afflusso di molti kikuyu attratti dalle possibilità di lavoro o semplicemente costretti ad abbandonare le riserve per sopravvivere alla scarsità di terre e alla crescita demografica. A Nairobi i militanti respiravano in prima persona la domi-nazione coloniale in tutta la sua evidenza, vivendo a contatto con la realtà dei business-men britannici, arabi ed indiani, e constatandone il tenore di vita, incomparabilbusiness-mente diverso dalla miseria dei nativi espropriati. Questo aspetto, al tempo stesso psicologico e materiale, contribuì a rinsaldare la consapevolezza politica all’interno dell’organizzazione. La Kikuyu Central Association si dotò di un proprio organo di stampa, il mensile “Muigwithania” (“Il Riconciliatore”)70

, sulle cui colonne scrivevano i principali esponenti del partito. Nei primi anni l’azione della Kikuyu Central Associa-tion si rivelò di modesta entità, non riuscendo a replicare l’incisività dell’azione della East Africa Association, né a porsi come forza in grado di rappresentare non soltanto i kikuyu ma tutte le genti del Kenya. Fu la figura di Johnstone Kenyatta, che assunse la carica di Segretario Generale dell’organizzazione nel 1928, a dare una spinta decisiva per la crescita del movimento. Kenyatta, come Thuku, era entrato giovanissimo in con-tatto con il mondo dei missionari scozzesi, presso i quali ebbe la propria educazione da bambino. Per l’innegabile carisma e per la conoscenza della realtà e della lingua inglese, Kenyatta era la personalità più idonea a rappresentare la causa dei kikuyu e dei keniani a Londra, verso cui partì nel 193071. Esclusi brevi ritorni in patria, Kenyatta, che assu-merà più tardi il nome Jomo, in sostituzione del troppo europeo Johnstone, trascorrerà oltre 15 anni in Gran Bretagna. Lì scrisse e pubblicò nel 1938 l’opera Facing Mount

Kenya, trattato antropologico fondamentale per la comprensione degli usi e i costumi

del popolo kikuyu. Da esso traiamo spunto, per meglio chiarire quali fossero le tradizio-ni sociali, economiche e politiche di questa tribù prima di essere sottoposta al domitradizio-nio straniero.

Al momento dell’avvento della colonizzazione britannica, il popolo kikuyu occupava i territori poi raggruppati nei distretti amministrativi di Kiambu, Fort Hall, Nyeri, Embu e

70

C. Pugliese, Complementary or Contending Nationhoods, Kikuyu Pamphlets and songs, 1945-52, in

E.S. Atieno Odhiambo, J. Lonsdale (eds.), Mau Mau and Nationhood, Arms, Authority and Narration, Oxford, James Currey, 2003, p. 97.

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Meru, nella parte centrale del Kenya72. Popolo di agricoltori, la complessa organizza-zione tribale ed un’economia strutturata consentirono ai kikuyu di prosperare per secoli. Gli europei ne fraintesero inizialmente i costumi, arguendo che la proprietà della terra fosse collettiva e che nella tribù si esercitasse una sorta di socialismo primitivo73. In realtà il concetto di proprietà era ben radicato, ma si basava su un sistema centrato sulle famiglie, le cui fortune in termini di ricchezza e di estensione delle terre coltivate pote-vano differire sensibilmente. Ad ogni modo, l’organizzazione politica della tribù non ri-sentiva di queste disuguaglianze economiche, ed anzi, la società tribale poteva essere definita democratica, a differenza della struttura di potere adottata dal governo coloniale che introdusse «un sistema di governo molto simile a quell’autocrazia che i kikuyu ave-vano abolito secoli prima»74.

Ma come funzionava la democrazia kikuyu? Se da un punto di vista sociale la coesione era garantita a tre livelli (la famiglia, il clan, che riuniva più famiglie, ed il cosiddetto

riika, un sistema di divisione dei compiti e dei connessi obblighi e benefici basato

sull’età), dal punto di vista politico le maggiori decisioni erano prese da un consiglio degli anziani, Kiama, i cui membri erano scelti tra coloro che per età avevano superato gli anni della militanza guerriera75. Tutti gli adulti, uomini e donne circoncisi godevano di quelli che potremmo definire “diritti di cittadinanza” ed erano membri a tutti gli effet-ti della tribù. Tuttavia, occorre ricordare come la società kikuyu fosse profondamente patriarcale: l’eredità della terra era patrilineare e la famiglia si fondava sulla poligamia (che i missionari britannici tentarono senza successo di sostituire con la monogamia76), con una divisione dei compiti tra i sessi molto marcata. La guerra era una prerogativa maschile; la sua conduzione episodica, con brevi incursioni nei territori dei nemici. Sul tema Kenyatta insisteva77, sottolineando la differenza tra le guerre europee, come la Prima guerra mondiale e la guerra civile spagnola, dove le sofferenze imposte dal con-flitto coinvolgevano l’intera popolazione, e le guerre combattute tra le diverse tribù del Kenya, che salvo rarissimi casi avevano per attori esclusivamente i guerrieri.

72

J. Kenyatta, Facing Mount Kenya, Ney York, Vintage Books Edition, 1965, p. xv.

73

Ivi, p. 23.

74

Ivi, pp. 188-189. Kenyatta ha sottolineato come l’Indirect Rule britannico, con la nomina di capi locali al servizio del governo coloniale, fosse del tutto incompatibile con la società kikuyu, e che la capacità di esercitare un effettivo controllo sulla comunità da parte di questi stessi capi fosse minima. Del resto, era-no gli stessi capi a comprendere di essere stati « era-nominati per rappresentare un particolare interesse, quel-lo del governo britannico», e che dunque le quel-loro fortune dipendessero dalla sopravvivenza del regime co-loniale. 75 Ivi, p. 181. 76 Ivi, p. 261. 77 Ivi, p. 202.

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La religione, collante sociale di primaria importanza, si fondava sull’adorazione della divinità (“Ngai”)78

e sul culto dei defunti, i cui spiriti venivano onorati attraverso appo-site cerimonie di “comunione con gli antenati”79

. La diffusione della Bibbia in Kenya attraverso l’azione dei missionari, che tentarono di sradicare i costumi dei nativi, con-dusse ad un marcato sincretismo religioso. Tra le usanze dei kikuyu, quella della clitori-dectomia fu alla base di un duro scontro tra la Kikuyu Central Association e le chiese missionarie protestanti80. Nel 1929 i missionari tentarono di proibire la pratica, ancora in voga pure tra i convertiti kikuyu cristiani81, facendo pressione sui capi e sul Local Native Council. J. W. Arthur fu tra i principali promotori dell’iniziativa, giungendo a chiedere alla KCA di schierarsi a favore dell’abolizione. La posizione dell’organizzazione e di Kenyatta era inconciliabile con quella dei missionari: i kikuyu consideravano quella pratica come facente parte imprescindibile delle loro tradizioni. La circoncisione maschile e femminile, e il rito di iniziazione ad esso collegato82, costitui-vano il necessario elemento per l’acquisizione della “cittadinanza” all’interno della co-munità, con le sue ricadute in termini sociali ed economici. La centralità della circonci-sione maschile e femminile nella comunità Kikuyu è ben indicata dal fatto che nessuno, uomo o donna, poteva contrarre matrimonio senza essere stato prima circonciso, e anzi, costituiva «tabù per un uomo o una donna kikuyu avere rapporti sessuali con qualcuno che non fosse stato sottoposto a questa operazione83». Se i missionari concentravano la loro azione contro tale pratica utilizzando l’arma retorica dei deleteri effetti che l’operazione chirurgica produceva sul corpo di una giovane donna, i kikuyu ponevano l’accento sulla necessità di difendere un’istituzione fondamentale per la comunità84

. L’abolizione di questa pratica avrebbe significato il definitivo smantellamento dei pre-supposti politici e sociali della tribù. I kikuyu reagirono all’offensiva, cui parteciparono non solo religiosi ma anche elementi dell’opinione pubblica britannica, in Kenya come in patria, attaccando le basi del predominio confessionale degli europei. Migliaia di ki-kuyu abbandonarono le chiese e le scuole protestanti per formarne di nuove (e con

78 Ivi, p. 223. 79 Ivi, p. 255. 80

C. Hornsby, Kenya: A History Since Independence, London, I.B.Tauris & Co Ltd, 2013, p. 34.

81

C. Elkins, op. cit., p. 21.

82

Per i dettagli della cerimonia di iniziazione legata alla pratica della circoncisione si rimanda a J. Ke-nyatta, op. cit., pp. 130-148.

83

Ivi, p. 127.

84

Scriveva infatti Kenyatta che l’elemento centrale della disputa non era la difesa dell’operazione chirur-gica in sé, ma il fatto che l’operazione fosse «legata ad una usanza avente enormi implicazioni educative, sociali, morali e religiose» e che costituisse ancora « il fattore decisivo nel concedere a ragazzi e ragazze lo status di uomo e donna nella comunità». Ivi, p. 128.

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straordinario successo, tanto che già a metà degli anni Trenta erano state fondate 44 chiese cristiane indipendenti85 che ammettevano la circoncisione) e rompere così il mo-nopolio dell’educazione che i missionari avevano stabilito nelle loro terre. Lo scontro, che assunse anche risvolti tragici (come la morte di una missionaria, nel 1930, presso la missione di Kijabe, trovata uccisa nel proprio letto a seguito di un tentativo subito di cli-toridectomia)86 fornì alla Kikuyu Central Association un sempre più ampio seguito di massa, e dimostrò che la visione paternalistica dei missionari e del governo coloniale non fosse riconosciuta dalla larga maggioranza dei kikuyu.

In quegli stessi anni l’azione politica della Kikuyu Central Association si concentrò sul-la battaglia per il riconoscimento dei diritti dei nativi sulle terre espropriate. La realtà che si era progressivamente consolidata era quella di una diseguaglianza insopportabile tra le terre occupate da pochi bianchi, le White Highlands, e il sistema delle riserve che ufficiosamente si erano andate a formare a partire dalle ordinanze del 1902 e del 1915, e che poi era divenuto ufficiale nel 1926, con la creazione delle “African Reserves” riser-vate alle varie tribù87. Il Paramount Chief 88 del territorio dei kikuyu, Koinange, prece-dentemente membro della Kikuyu Association ed avvicinatosi alla KCA negli anni ’30, partì per Londra alla testa di una nutrita delegazione, al fine di dare testimonianza delle terribili condizioni in cui versava la popolazione delle riserve, racchiusa in uno spazio ristretto e sfiancata dalla miseria e dalla crescita demografica. Il governo britannico in-sediò una commissione, la Kenya Land Commission89, che nel 1932 visitò le terre dei kikuyu, oltre a quelle dei nandi, degli akambe e dei masai, ascoltando le rimostranze sia della KCA che dei Loyal Kikuyu Patriots (la nuova denominazione che aveva assunto la Kikuyu Association fondata nel 1919) e constatando in molti casi la violazione, da parte dei coloni, delle stesse precedenti normative che il governo coloniale aveva adottato in tema di suddivisione delle terre tra europei e indigeni. I kikuyu pretendevano la restitu-zione di 60.000 acri. La Commissione, composta da personalità vicine alla causa dei co-loni europei, concludendo i propri lavori nel 1934, previde compensazioni di entità

85

C. Hornsby, op. cit., p. 34.

86

Come la morte di una missionaria nel 1930 presso la missione di Kijabe, trovata uccisa nel suo letto a seguito di un tentativo subito di clitoridectomia. D. Anderson, Histories…cit.,p. 20.

87

Ivi, p. 21.

88

Il Paramount Chief era il massimo grado della gerarchia dei capi all’interno della stessa comunità, figu-ra nominata dal governo coloniale in ogni distretto per amministfigu-rare i territori abitati dalle popolazioni indigene nell’ambito del già citato sistema dell’Indirect Rule.

89

La commissione era composta da tre membri, Sir Morris Carter, che la guidava, un ex-giudice; R.W. Hemsted, un proprietario terriero che aveva a lungo servito per il governo coloniale del Kenya, F. O’B. Wilson, importante personalità nell’ambiente dei proprietari terrieri. R. Mugo Gatheru, op. cit., p. 87.

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gua, assegnando ai kikuyu territori di scarsa fertilità e di limitata estensione, cui i bri-tannici potevano rinunciare senza eccessive recriminazioni. E difatti la situazione dei kikuyu non conobbe significativi miglioramenti, se è vero che anche dopo l’annessione dei territori alla comunità l’estensione della riserva era di circa «2350 miglia quadrate a fronte di una comunità di 600.000 persone»90 e che la stessa Kenya Land Commission, nel suo rapporto conclusivo, riportava che «anche se misure per porre rimedio sono state prese, uno stato di generale congestione minaccia di persistere per trent’anni»91.

Se l’offensiva della Kikuyu Central Association non aveva prodotto risultati apprezza-bili, la contro-offensiva dei proprietari si abbatté sulla popolazione africana in tutta la sua efficacia. Il rapporto redatto dalla Kenya Land Commission suggeriva la necessità, attraverso l’adozione di un Order in Council (un provvedimento avente forza di legge adottato sulla base delle indicazioni di un’istituzione, il Privy Council, senza che av-venga dibattito parlamentare), di definire i confini sia delle riserve africane che delle White Highlands. Nel 1938 furono approvati due Order in Council che stabilirono i nuovi confini, aumentando da 10.000 a 17.000 miglia quadrate di terra l’estensione del-le White Highlands, cosa che condusse all’ulteriore espropriazione deldel-le terre di più di 3 milioni di africani92. Per normare le questioni relative alle terre, furono costituiti un Hi-ghlands Board, composto da sette membri con lo scopo di rappresentare gli interessi dei proprietari bianchi, ed un Native Lands Trust Board composto da 5 membri, tutti bian-chi, per l’amministrazione delle terre assegnate agli africani93

.

Con l’Ordinanza n. 2 del 1938 furono invece disciplinate le condizioni di lavoro dei na-tivi, particolarmente gli squatter, con la previsione di nuove fattispecie di reato all’interno di una realtà lavorativa che già non consentiva la presenza di organizzazioni sindacali, la costituzione delle quali era illegale. L’ordinanza introdusse pene detentive fino a 6 mesi (o in alternativa, il pagamento di 150 sterline, una cifra che era fuori dalla portata di quasi tutti gli africani) per chiunque avesse «indotto, o tentato di indurre un servitore ad abbandonare il lavoro in circostanze che costituiscono una violazione del contratto per il quale il lavoratore è occupato»94 oppure chiunque, senza il permesso del proprietario, avesse tentato di convincere il lavoratore a lasciare l’occupazione prima o dopo la fine del contratto. Come dire che si faceva divieto di suggerire ad un lavoratore di non rinnovare il contratto dal momento in cui i termini dello stesso fossero scaduti.

90 Ivi, p. 100. 91 Ibidem. 92 Ivi, p. 104. 93 Ivi, pp. 109-110. 94 Ivi, p. 113.

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Le conseguenze furono terribili, anche perché l’Ordinanza si inseriva in un contesto in cui non era fatto divieto di impiegare ragazzini, purché avessero compiuto 12 anni; que-sto consentiva al proprietario, qualora lo avesse ritenuto, di poter denunciare il padre che avesse avvicinato il ragazzo durante o dopo le ore di servizio, accusandolo di aver tentato di incitare il figlio ad abbandonare il lavoro95. Pene minori erano previste per chi rifiutava di obbedire a determinati ordini, per chi forniva prestazioni considerate inade-guate dal padrone, per chi avesse offeso il padrone con linguaggio o comportamento in-sultante96.

In questo contesto, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale molti nativi prestarono servizio nelle forze armate britanniche. Nel 1940 la Kikuyu Central Association fu mes-sa fuorilegge97 con l’accusa di mantenere contatti con tedeschi e italiani onde favorire un’invasione del Kenya e la liberazione delle popolazioni indigene sottomesse. All’apice della repressione contro la popolazione nativa, il contesto della guerra sugge-riva un ottimo espediente per la liquidazione di un movimento politico divenuto nel tempo ingombrante.

Gli anni Quaranta e i prodromi della rivolta

Numerosi keniani combatterono nei teatri di guerra dell’Africa orientale e del sud-est asiatico, distinguendosi per coraggio e sacrificio. Come modesta ricompensa, nel 1944, a guerra ormai prossima alla conclusione, fu consentita la presenza di un rappresentante indigeno nel Kenya Legislative Council, ancorché non eletto dai nativi stessi, ma nomi-nato dal Governomi-natore della Colonia. La scelta cadde su Eliud Wambu Mathu98, un ki-kuyu del Distretto di Kiambu che era stato educato alla Church of Scotland Mission. I modesti miglioramenti istituzionali giunsero tuttavia in ritardo rispetto all’evoluzione economica e sociale del Kenya. Alla fine degli anni Trenta il numero degli squatter ki-kuyu era salito ad almeno 150.000 unità99, molti dei quali si trovavano ad ovest, lontano dalle terre d’origine. Nel 1937 la Resident Native Labourers Ordinance aveva concesso

95 Ibidem. 96 Ivi, p. 115. 97

B. Grob-Fitzgibbon, Imperial Endgame: Britain's Dirty Wars and the End of Empire, Houndmills, Pal-grave Macmillan, 2011, p. 213.

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In verità egli per 3 anni, fino al 1947, rappresentò la popolazione africana in coabitazione con un mis-sionario britannico, il Reverendo L. J. Beecher, che era stato nominato rappresentante degli africani dal Governatore nel 1943. R. Mugo Gatheru, op.cit., p. 123.

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