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Il progetto di Thomas Askwith e lo “Swynnerton Plan”

L’uso di misure detentive di massa nei confronti della popolazione kikuyu, che ha avuto inizio a partire della fine del 1952 con la pratica degli screening a tappeto e con la co- struzione di numerosi campi di detenzione, fu sin dalle prime fasi dell’emergenza uno dei più controversi strumenti della politica repressiva britannica. La generalizzazione degli arresti e la prassi di comminare pene detentive senza regolare processo furono alla base di molte critiche che da alcuni ambienti della società civile britannica, particolar- mente quelli vicini al Labour Party, giunsero all’amministrazione. Baring tentò di ri- formare la situazione ma, come vedremo, non nel senso sperato dai critici. In ottobre, poco dopo la partenza di Fraser per Londra, il governatore nominò un uomo dell’amministrazione coloniale, Thomas Garrett Askwith, quale Commissioner for

19 Ibidem. 20 Ivi, p. 135. 21

Si trattava del suo secondo viaggio in Kenya, dopo quello del febbraio dello stesso anno, nel quale ave- va potuto riferire a Lyttelton quali fossero le carenze della contro-guerriglia britannica.

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community development and rehabilitation22, al fine di affrontare il tema del recupero e della riabilitazione dei kikuyu detenuti. Asqwith era giunto in Kenya dopo la Seconda guerra mondiale. Qui aveva avuto modo di notare come le disuguaglianze create dalla dominazione coloniale fossero alla base di tutte le problematiche relative al rapporto tra nativi ed europei. Fermo sostenitore dell’eguaglianza tra uomini e razze, ottenne incari- chi nell’amministrazione, il principale dei quali quello a capo della Community Deve-

lopment Department. Diversamente da altri osservatori europei, Asqwith non vedeva

l’esplosione della violenza Mau Mau come un fenomeno psicopatologico, ma ne intuiva i presupposti politici ed economici, quali la scarsità delle terre e la disoccupazione gene- ralizzata23. Nell’agosto del 1953 ebbe modo di visitare la Malaya, dove i britannici sta- vano sedando con successo una delle più importanti rivolte anticoloniali del dopoguer- ra24, che univa all’afflato indipendentista una netta scelta di campo ideologica della fa- zione dei ribelli, schierati dalla parte del comunismo. Nella regione il Generale Templer era riuscito ad allestire un sistema di campi di detenzione e riabilitazione nei quali rie- ducare i ribelli caduti in prigionia, con progetti di recupero diversificati a seconda del grado del loro coinvolgimento nella sollevazione25. I rapporti tra detenuti e guardie, stando a quanto aveva avuto modo di constatare Asqwith, si differenziavano notevol- mente dalle dinamiche riscontrabili nella generalità delle altre esperienze in tema di pri- gionia durante un conflitto armato. I campi di detenzione erano al tempo stesso campi di lavoro, cosicché alla riabilitazione ideologica seguiva quella sociale. Gli ex ribelli cattu- rati svolgevano lavori di pubblica utilità nelle stesse regioni che avevano costituito l’humus per la nascita del movimento armato anticoloniale, contribuendo a favorirne la crescita e a riscattarle dalla povertà. La costituzione di piani di sviluppo economico per la crescita di quelle regioni rappresentava l’altra faccia della strategia di Rehabilitation. La possibilità di recuperare gli ex-ribelli e reinserirli in un contesto socio-economico, non più condannato a povertà endemica, costituiva l’elemento centrale del successo dell’operazione. L’azione del generale Templer fu dunque il modello per realizzare ana- loghi progetti in Kenya.

Asqwith ne fu infatti profondamente influenzato. In ottobre, non appena accettato l’incarico offertogli dal governatore, promosse il suo piano di riabilitazione dei detenuti

22

R. Guranatna, Terrorist Rehabilitation: Genesis, Genealogy and Likely Future, in R. Gunaratna, M. Bin Ali (eds.), Terrorist Rehabilitation: A New Frontier in Counter-terrorism, London, Imperial College Press, 2015, p. 10.

23

C. Elkins, op. cit., p. 108.

24

Sulla rivolta comunista nella Malaya e sulla risposta britannica si veda K. Ramakrishna, Emergency

Propaganda: The Winning of Malayan Hearts and Minds 1948-1958, Curzon Press, Richmond, 2002.

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kikuyu, sulla base di quello implementato da Templer: non solo detenzione, ma un pro- cesso di rieducazione, fondato sul lavoro quotidiano e socialmente utile, seguendo l’obiettivo di un rapido reinserimento nella società. Questa era la raffigurazione utopi- stica e filantropica di tale sistema, che avrebbe preso il nome di “Pipeline”. In concreto, esso si basava su una fitta rete di campi di transito, di lavoro e di detenzione, costruiti in tutta la Provincia Centrale e nella Rift Valley. Nei primi si svolgeva la scrematura ini- ziale, attraverso una rapida indagine con la quale i sospetti venivano classificati in base al grado del loro coinvolgimento nella sollevazione. La dicitura “White” denotava un livello di adesione basso o nullo: il sospetto doveva essere ricondotto nelle riserve; “Grey” classificava coloro che avevano prestato il giuramento Mau Mau ma erano di- sposti a sconfessare la scelta fatta e a riabilitarsi: questi sarebbero stati condotti nei campi di lavoro, destinati a prestare la loro opera nei progetti di sviluppo promossi dall’amministrazione; “Black” era la classificazione utilizzata per coloro il cui coinvol- gimento era tale da necessitare un trattamento più incisivo: questi erano condotti nei campi di detenzione speciale per scontare una pena generalmente assai lunga, essendo ritenuta improbabile la loro riabilitazione26. Nelle intenzioni di Asqwith la “Pipeline”, collegandosi ad un progetto di lungo respiro di sviluppo economico, doveva fornire la base per una pacificazione in tempi ragionevoli della Provincia centrale. Il Commissio-

ner era persuaso che fosse possibile, una volta terminata la guerra, giungere ad una so-

cietà multirazziale, con l’effettiva partecipazione dei nativi nell’amministrazione e con il loro accesso ai settori più remunerativi dell’economia coloniale. Alla prova dei fatti il progetto si discostò notevolmente da quanto auspicato, e il motivo era da ricercarsi in due differenti considerazioni. La prima fu relativa alla “forma mentis” che sottintendeva la concezione stessa della Rehabilitation, un paternalismo benevolo che si fondava su una non troppo celata convinzione a proposito della superiorità morale degli europei. L’effettivo esito di un processo di rieducazione su larga scala quale quello teorizzato da Asqwith non poteva che essere il tentativo di realizzare un lavaggio del cervello di mas- sa, attraverso l’ulteriore imposizione forzata dei valori e dei costumi europei.

In secondo luogo, al momento di porre effettivamente in atto la “Pipeline” ogni conside- razione umanitaria dovette cedere il passo sia alla scarsità dei fondi27 che, soprattutto, alle necessità della coercizione. Lo dimostra il fatto che il Department of Community

Development and Rehabilitation guidato da Asqwith non fosse la struttura cui erano

26

Ivi, p. 109.

27

P. Whaley Eager, From Freedom Fighters to Terrorists: Women and Political Violence, Ashgate, Al- dershot, 2008, p. 101.

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demandati l’amministrazione e il controllo dei vari aspetti del programma. Tutte le atti- vità relative ai campi di detenzione e lavoro, tutto ciò che riguardava la responsabilità del trattamento dei detenuti, venne affidato al Prisons Department, alla cui testa vi era John Lewis28, un uomo la cui formazione e i cui valori differivano palesemente da quelli di Asqwith. Era evidente la scelta fatta da Baring: la retorica di Asqwith poteva avere un valore sul piano propagandistico, specie nel tacitare le critiche provenienti dagli am- bienti anti-imperialisti in madrepatria, ma lo scopo primario del sistema detentivo e concentrazionario in Kenya doveva essere quello di reprimere. Di fatto Asqwith non ebbe mai alcun controllo sulla sua creatura. Pure le diverse classificazioni tra i nativi in relazione al loro coinvolgimento nella rivolta si rivelarono spesso lettera morta, tanto che 12.000 kikuyu, anche tra coloro rientranti nella voce “White”, furono permanente- mente detenuti. Prevaleva su ogni considerazione alternativa la visione della maggior parte dei coloni, per i quali ogni ipotesi di riabilitazione dei Mau Mau risultava ridicola e impossibile.

A fianco della progressiva istituzione della “Pipeline”, Baring tentò di pacificare la po- polazione indigena attraverso le riforme economiche. Le terre coltivabili nelle riserve abitate dai kikuyu non bastavano a garantire la sussistenza della comunità. Alla fine del 1953 fu lanciato un piano quinquennale di sviluppo agricolo, lo Swynnerton Plan, dal nome del suo promotore, il funzionario del Department of Agriculture Roger Swynner- ton29. Il piano doveva contribuire ad elevare la crescita dell’economia agricola nelle ri- serve attraverso l’introduzione di una struttura fondata sulla proprietà privata, in sostitu- zione del precedente sistema tribale nel quale convivevano sia la proprietà familiare che l’utilizzo collettivo di alcuni terreni. Secondo Swynnerton era necessaria una vera e propria rivoluzione agricola, con la costituzione di una nuova economia fondata sulla proprietà individuale del suolo e sulla concentrazione delle terre in un numero inferiore di proprietari. Lo scopo ultimo era quello di creare una nuova classe di ricchi proprietari africani, che costituissero la colonna portante e l’elemento propulsivo della futura eco- nomia agricola della regione30, aperta alle leggi di mercato, col corollario che una paral- lela classe di contadini salariati si sarebbe formata e avrebbe prestato la propria opera

28

C. Elkins, op. cit., p. 115.

29

Direttamente incaricato da Baring, Swynnerton produsse un rapporto, il Plan to Intensify the Deve-

lopment of African Agriculture in Kenya, che elenca le cause del sottosviluppo agricolo nelle riserve e de-

linea le possibili soluzioni. K. Kanyinga, Re-distribution from Above: The Politics of Land Rights and

Squatting in Coastal Kenya, Uppsala, Nordiska Afrikainstitutet, 2000, p. 43.

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presso i nuovi proprietari31. La riforma avrebbe modificato radicalmente e per sempre non solo la struttura dell’economia ma anche l’organizzazione sociale della comunità32. In un orizzonte di vent’anni il piano, che sarebbe stato seguito da nuovi programmi coe- renti con tale politica, avrebbe dovuto produrre effetti straordinari, tanto che Swynner- ton era convinto di poter decuplicare la produttività media di ogni agricoltore33. Di fatto, il piano condusse ad una nuova distribuzione della terra, con la previsione della regi- strazione dei nuovi proprietari e la confisca delle terre precedentemente appartenute agli aderenti del movimento Mau Mau. Logicamente la classe dei nuovi proprietari finì per essere composta da lealisti, uomini delle Home Guard e capi locali, e anzi, l’elemento punitivo verso i sostenitori della sollevazione era decisivo per far sì che il piano svol- gesse la sua funzione anche in chiave contro-insurrezionale34, tanto che le stesse autorità enfatizzarono tale aspetto. In concreto, per la realizzazione del piano, Swynnerton ot- tenne dal Colonial Development and Welfare Fund un credito di 5 milioni di sterline35. I progetti comprendevano bonifiche e occupazioni di terreni fino ad allora non adibiti alla coltivazione. Non era prevista alcuna estensione dei confini delle riserve, ancora una volta per non incorrere nelle proteste della comunità britannica, nonostante l’evidenza che la concentrazione di popolazione fosse ormai insostenibile. Ad ogni modo doveva essere trovata una soluzione per ovviare alla disoccupazione cui erano destinati gli oltre 80.000 kikuyu rimpatriati dalla Rift Valley e dalle “White Highlands” a partire dall’inizio degli anni Cinquanta, cui si dovevano aggiungere altre decine di migliaia di

squatter da ricondurre nelle riserve36. Baring trovò la risposta nel cosiddetto Four-Point

Plan, un programma basato sui seguenti quattro punti: l’utilizzo dei campi di transito

come campi di accoglienza permanente fino a che nuove terre non si fossero liberate nelle riserve; la preminenza concessa a quei kikuyu che nella fase di screening si fosse- ro dimostrati particolarmente collaborativi; la manodopera kikuyu sarebbe stata destina- ta esclusivamente a lavori previsti dallo Swynnerton Plan; la creazione di campi di lavo- ro dove i detenuti kikuyu avrebbero prestato gratuitamente la loro opera, non solo in re- lazione ai progetti sorti nell’ambito dello Swynnerton Plan ma anche a quelli proposti

31

Questo risultato, come scrisse lo stesso Swynnerton nel Plan, rappresentava ai suoi occhi «un normale stadio nell’evoluzione di un paese». D. A. Low, The Egalitarian Moment: Asia and Africa, 1950-1980, Cambridge, Cambridge University press, 1996, p. 42.

32

K. Kanyinga, Politics and Struggles for Access to Land: „Grants from Above‟ and „Squatters‟ in

Coastal Kenya, in C. Lund (ed.), Development and Rights: Negotiating Justice in Changing Societies,

Abingdon, Routledge, 2013, p. 52.

33

B. A. Ogot, The Decisive Years 1956-63, in B.A. Ogot, W.R. Ochieng’ (eds.), op. cit., pp. 48-49.

34

D. Branch, Defeating…cit., p. 121.

35

C. Elkins, op. cit., p. 125.

36

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dagli altri dipartimenti37. Era una mossa con la quale, di fatto, Baring rendeva legale su grandissima scala il lavoro forzato. Lo Swynnerton Plan si collegava così al sistema concentrazionario, in un circolo vizioso in cui politiche di sviluppo economico e brutale coercizione andavano a costituire senza apparente contraddizione la vera cifra della do- minazione coloniale. Tanto più che l’impossibilità di rimpatriare la stragrande maggio- ranza dei kikuyu cacciati dai coloni della Rift Valley contribuì a trasformare i campi di transito in campi permanenti. Come vedremo più avanti, le operazioni Anvil e il pro- gramma di “villagization” estenderanno l’insostenibilità della situazione al massimo grado. L’intera comunità kikuyu, fatta esclusione per la componente lealista, si sarebbe trovata negli anni a seguire in stato di prigionia.