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Quando Lathbury assunse la carica di comandante in capo delle forze armate, sia gli alti gradi dell’esercito che il governo ritenevano di essere ad un passo dalla conclusione del- le ostilità1. Figura di notevole esperienza, il generale aveva combattuto in Nord Africa e Sicilia durante la Seconda guerra mondiale; aveva poi assunto il comando della 1st Pa- rachute Brigade, partecipando alla battaglia di Arnhem, in Olanda, nel settembre del 1944. Pluridecorato, fu ritenuto l’uomo adatto per portare a termine l’opera di Erskine. In effetti sin da subito Lathbury si mosse nel solco tracciato dal predecessore, non inter- venendo a modificare, almeno nelle prime settimane, le direttive precedentemente con- cordate. Il nuovo surrender scheme stava infatti assottigliando le file del nemico e co- stringendo i ribelli a considerare l’ipotesi della resa. Le trattative proseguirono per tutta la prima metà di maggio. Il Major-General Heyman incontrò, intorno alla metà del me- se, tre comandanti Mau Mau, cui promise di posporre l’avvio dell’operazione Gimlet, offensiva che i britannici avevano intenzione di lanciare negli Aberdare onde assestare un colpo decisivo alla resistenza qualora le trattative fossero fallite. I Mau Mau accon- sentirono ad incontrare nuovamente i rappresentanti del governo, concordando dappri- ma la data del 18 maggio, termine poi prorogato di due giorni. I tre comandanti si impe- gnavano a condurre con loro, in segno di buona fede, almeno 50 guerriglieri, che si sa- rebbero consegnati e la cui resa avrebbe dovuto anticipare quella di tutto l’esercito ribel- le. Tuttavia nel giorno fissato i tre comandanti si presentarono all’appuntamento senza il seguito promesso, cosicché le trattative furono interrotte. L’operazione Gimlet fu lancia- ta il giorno stesso, per la soddisfazione di Michael Blundell e di buona parte dei coloni, che preferivano alla resa l’opzione dell’annientamento del nemico. L’offensiva continuò per 40 giorni, fino alla fine di giugno2.

Lathbury ad ogni modo non abbandonò l’idea di percorrere la strada dell’assottigliamento del nemico attraverso le offerte di resa. A dimostrare ciò vi fu la creazione, decisa in seno al War Council il 30 maggio, di un apposito comitato per

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Tanto più che il numero complessivo dei guerriglieri si era notevolmente ridotto, per effetto delle prece- denti offensive, potendo ormai il Kenya Land Freedom Army contare di non più di 5000 effettivi, D. A. Percox, Mau Mau and the Arming of the State, in E.S. Atieno Odhiambo, J. Lonsdale (eds.), op. cit., p. 131.

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l’organizzazione della propaganda nelle riserve e nelle zone occupate dal nemico, i cui componenti provenivano dai quadri dell’intelligence, delle forze di terra, dell’aviazione, e da esponenti del governo, da uomini dell’ambiente dei coloni e delle missioni. Questo organismo era strettamente coordinato al War Council, e rivelò tutta la sua efficacia nel- la fase finale del conflitto. Mentre l’offensiva militare proseguiva, la nuova strategia adottata da Baring e Lathbury faceva ancora perno su un nuovo surrender scheme, ma questa volta su base individuale, evitando di coinvolgere direttamente i leader della sol- levazione e tentando di rivolgere l’attenzione verso gli anelli più deboli dell’organizzazione Mau Mau, le reclute, i soldati semplici, i simpatizzanti. I termini del

surrender scheme furono riproposti pochi giorni dopo il fallimento del precedente nego-

ziato, e avevano validità fino al 10 luglio. Una robusta campagna mediatica fu avviata, con il lancio di volantini dagli aerei della RAF che sorvolavano le foreste, con la diffu- sione nei cinema di Nairobi di tre brevi film prodotti dal governo per screditare Kima- thi, Mathenge e gli altri leader Mau Mau, con l’intensificazione della propaganda nelle riserve. Il successo complessivo di questa e della precedente operazione fu indiscutibile: tra gennaio e luglio furono quasi 1.000 i ribelli che si consegnarono ai britannici3 . I leader Mau Mau non erano più in grado di interrompere l’emorragia. Nello stesso anno Stanley Mathenge abbandonò la lotta e riparò in Etiopia, attraversando la frontiera, alla guida di 300 uomini, presso Heret, nel nord del paese, e lasciando il solo Kimathi a capo di ciò che restava dell’esercito Mau Mau4

.

La strategia di Lathbury affiancò al surrender scheme una riorganizzazione delle pseu- do-gang e un’intensificazione del controllo dell’accesso del nemico alle risorse, in parti- colare del cibo. Già dalla fine di maggio il generale aveva ottenuto dal War Council il via libera per la creazione di 5 nuove squadre di special force, composte ciascuna da una decina di prigionieri passati dalla parte del governo e guidate da un ufficiale britan- nico. Questi piccoli reparti non vennero sottoposti all’autorità dell’esercito ma furono inquadrati all’interno della polizia, sotto la diretta responsabilità del Police Commissio- ner, Richard Catling. Nei fatti questi reparti agivano in continuità con l’esperienza pre- cedente delle pseudo-gang, operando nelle foreste a tentando di avvicinare i Mau Mau; nell’estate del 1955 oltre sessanta guerriglieri caddero in operazioni da loro effettuate5

. Quanto al secondo aspetto, relativo al controllo delle risorse, il generale incontrò più

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Ivi, pp. 144-145.

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C. Cooper, Kenya: The National Epic, Nairobi, Kenway Publications Ltd., 1993, p. 74.

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volte nel corso dell’estate i principali coloni delle regioni limitrofe agli Aberdare e della Rift Valley, onde intensificare il pattugliamento attorno alle terre più fertili e ai magaz- zini nei quali erano stoccati i raccolti. Ciò avrebbe prodotto anche un rallentamento dei commerci, ma i coloni dei distretti di Laikipia, Naivasha e Nakuru si dissero favorevoli al programma e dettero il loro supporto6. Il 12 luglio Lathbury chiese di estendere il programma a tutti distretti della Provincia Centrale, ma il War Council preferì inizial- mente mantenere l’indipendenza delle autorità amministrative locali, e optò piuttosto per la creazione di un comitato, diretto da Hinde, che investigasse la questione. Il comi- tato dette il proprio parere favorevole e suggerì di mantenere le misure di controllo sui raccolti fino almeno alla fine del 1955. L’obiettivo era utilizzare la leva dell’assenza di cibo per tenere sotto assedio i ribelli, ormai facilmente localizzabili data la resa di molti nemici, e confinati esclusivamente nella zona degli Aberdare.

Lathbury fu in grado di intensificare l’offensiva pur riducendo il numero delle forze ar- mate coinvolte nelle operazioni. Ciò fu possibile in prima battuta grazie alla “villagiza- tion”, che eliminò i residui legami tra l’ala militare del movimento e i sostenitori delle riserve. Soprattutto, molti dei ribelli che avevano in precedenza disertato accettarono di essere inquadrati nelle forze britanniche. Se un ampio numero di guerriglieri non fosse passato a partire dal 1954 dall’altro lato della barricata, l’efficacia delle pseudo-gang e poi degli Special force team sarebbe risultata assai modesta. A partire dall’autunno del 1955 il generale lanciò una serie di offensive nella regione dei Monti Aberdare. Il nu- mero delle squadre coinvolte nelle operazioni fu sensibilmente aumentato, e ognuna di esse era guidata non più da uno ma da due ufficiali britannici. L’obiettivo primario era catturare prigionieri, essendo considerata a quel punto del conflitto l’uccisione dei sol- dati nemici un’extrema ratio. Lathbury voleva la cattura di Kimathi e di Mathenge (del quale era ancora ignoto all’esercito britannico la fuga dal territorio keniano) e ogni sfor- zo doveva quindi essere rivolto in quella direzione. Dal febbraio del 1956 anche lo Spe- cial Branch fu coinvolto nelle operazioni. Ian Henderson guidò personalmente un grup- po di forze speciali promuovendo l’operazione Blue Doctor, alle pendici del Monte Kipipiri, un’offensiva finalizzata a catturare quanti più ribelli possibile per inquadrarli nell’esercito e nella polizia britannici7

. Da quel momento in poi lo scopo primario di Henderson divenne la cattura di Kimathi8, obiettivo che rasentò l’ossessione. In aprile le

6 Ivi, p. 256. 7 Ivi, p. 157. 8

Henderson raccontò i mesi spesi nell’inseguimento di Kimathi in I. Henderson, P. Goodhart, The Hunt

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sue forze andarono ad un passo dal concludere positivamente la missione, ma il Field-

Marshal riuscì ancora una volta a sfuggire al nemico. In giugno le special force cattura-

rono Wambararia Kimathi, fratello del leader Mau Mau, che tuttavia nelle settimane successive riuscì abilmente a tenere sotto scacco i britannici fornendo loro informazioni del tutto false a proposito dei movimenti del fratello. La fine era comunque solo que- stione di tempo. Per tutta l’estate del 1956 Kimathi dovette nascondersi dal nemico; egli non era più il principale leader della guerriglia, ma un latitante ricercato da intelligence e polizia e circondato da pochi compagni rimasti fedeli. Braccato e affamato, la notte tra il 20 e il 21 ottobre abbandonò la foresta per riparare in un villaggio nelle vicinanze di Nyeri. La mattina seguente le forze di polizia lo intercettarono mentre tentava di tornare presso il proprio accampamento9. Nello scontro che ne seguì, Kimathi fu ferito e cattu- rato. La caccia di Henderson era terminata. Con la cattura dell’ultimo leader Mau Mau, il conflitto nelle foreste aveva virtualmente termine, ma non lo stato d’emergenza, che rimase in vigore fino al 1960. Nel paese era comunque a quel punto chiaro che le forze armate britanniche avevano avuto definitivamente la meglio10. Il 17 novembre le autori- tà richiamarono dalle foreste e dalle zone limitrofe gran parte degli effettivi. Lathbury aveva vinto la guerra.

Kimathi fu condotto presso l’ospedale di Nyeri, dove le sue ferite furono curate11

. Con- sentire che il Field-Marshal guarisse il prima possibile, onde poterlo sottoporre entro breve tempo alla giustizia coloniale, era una necessità particolarmente sentita dall’amministrazione. Poter celebrare il processo costituiva un importante successo pro- pagandistico. Una volta guarito, Kimathi fu imprigionato presso il carcere di Nyeri, chiuso in una cella sorvegliato notte e giorno da due soldati britannici, uno con lui die- tro le sbarre, l’altro appena fuori dalla porta. Per tre settimane ricevette quasi quotidia- namente la visita di un prete missionario con il quale ebbe modo di confidarsi12. Il 27 novembre si giunse a processo, sempre a Nyeri. I difensori di Kimathi impostarono la loro strategia sulla pretesa volontà dell’imputato, nel momento in cui veniva catturato, di arrendersi alle forze coloniali. Era in realtà ovvio, date le modalità della cattura, che Kimathi non avesse avuto alcuna intenzione di consegnarsi. Il dibattimento ebbe durata

9

D. Branch, Defeating…cit., p. 118.

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A proposito dell’effetto che la notizia della cattura di Kimathi ebbe in Kenya, sia tra i kikuyu che tra gli europei, si veda K. Wa Wamwere, I Refuse to Die: My Journey For Freedom, New York, Seven Stories Press, 2011, p. 110.

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T. Zuberi, African Independence: How Africa Shapes the World, Lanham, Rowman and Littlefield, 2015, p. 82.

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breve, e si concentrò più sul fatto che l’imputato fosse stato trovato in possesso di armi e munizioni che sul suo ruolo di comandante Mau Mau e sulla sua partecipazione alle operazioni militari. Tanto bastava per condannarlo alla pena capitale. Dopo poche ore, il giudice O’ Connor emise il verdetto che tutti si attendevano. Kimathi ricorse in appello. Nell’attesa che si celebrasse fu condotto presso il carcere di Nairobi, dove trascorse i tre mesi successivi. Alla fine dell’anno la Corte d’Appello confermò il verdetto sancito in primo grado. Restava un’ultima possibilità, ricorrere al giudizio del Privy Council, a Londra. Una via che fu percorsa nel gennaio del 1957, ma che non condusse al risultato sperato13. Anche un’eventuale grazia di Baring era da escludersi: la situazione era assai diversa da quella che due anni prima aveva condotto alla scelta di commutare la pena del generale China. I coloni pretendevano la testa di Kimathi, e lo stesso governatore non dovette dubitare della necessità di far eseguire la condanna. La mattina del 18 feb- braio la sentenza venne eseguita. Dedan Kimathi morì per impiccagione presso il carce- re di Kamiti. Aveva 36 anni.

Kimathi fu probabilmente il più controverso leader della sollevazione. I britannici si erano convinti, a torto, che egli fosse l’indiscusso comandante in capo dei Mau Mau, ruolo che come abbiamo visto in realtà non gli fu riconosciuto dagli altri principali lea- der, Mathenge e China su tutti. Ad ogni modo, forse proprio per questa errata percezio- ne, Kimathi fu bersaglio di una campagna propagandistica di dimensioni tali da non aver trovato corrispettivo analogo all’interno del gruppo dirigente del Kenya Land Freedom Army. Delineato quale comandante selvaggio e sanguinario, incomparabile per crudeltà e ferocia14, divenne poi per contrasto, specie negli anni successivi alla ditta- tura di Kenyatta, un eroe nazionale. Chi fu realmente Kimathi? A ben vedere la stessa memorialistica di parte britannica, Henderson in testa, contribuì ad accrescerne il mito. L’inafferrabilità del Field-Marshal, la sua capacità di sfuggire per mesi alla cattura han- no fatto sì che le operazioni militari durassero oltre l’effettiva capacità di resistenza dei Mau Mau, la cui rivolta poteva dirsi ragionevolmente sconfitta già molti mesi prima dell’ottobre del 1956. Tuttavia il dibattito sulla sua figura fu da sempre polarizzato tra i sostenitori e i detrattori, mentre è mancata un’analisi obiettiva dei suoi meriti, come dei limiti della sua azione. Alle numerose opere apologetiche ha negli anni fatto da contral-

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Ivi, p. 290.

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La propaganda britannica dovette avere particolare successo, specie in Occidente, se anche un intellet- tuale non particolarmente sospettabile di simpatie filo-imperialiste come Alberto Moravia nel 1972 lo de- finì «un megalomane sanguinario e nevrotico», dotato di scarsi pregi e sostanzialmente «poco coraggioso e sleale». A. Moravia, A quale tribù appartieni?, Milano, Bompiani, 1972, p. 62.

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tare una robusta bibliografia che lo dipinse come un aspirante dittatore della comunità kikuyu e di tutti gli africani del Kenya. I governi che si susseguirono alla guida del pae- se dopo l’indipendenza tentarono in qualche modo, se non di obliarne completamente la figura, quantomeno di ostacolarne il ricordo. Ad un’analisi il più possibile obiettiva, se è vero che Kimathi fu incapace di assumere la guida effettiva del movimento e di coor- dinarne l’azione e la strategia militare, e se è vero che la sua leadership si rivelò partico- larmente autoritaria, con la comminazione sovente di punizioni eccessive verso i com- militoni (fino ad un uso disinvolto della pena di morte, fatto che può aver contribuito a favorire le numerose defezioni tra le sue truppe, specie alla fine del conflitto) è altrettan- to vero che non è imputabile a Kimathi l’abbandonò del teatro di guerra, cosa che fece Stanley Mathenge; né può essergli contestato di aver collaborato col nemico come fece China. Questa coerenza e devozione alla causa contribuì senz’altro, forse più delle sue effettive capacità di leadership e più del suo carisma, a farne un simbolo tra i compatrio- ti. Kimathi fu l’ultimo grande leader della sollevazione ad essere giustiziato dai britan- nici. Le esecuzioni di altri soldati Mau Mau continuarono nei mesi successivi. In totale, tra il 1952 e il 1958 il numero dei soldati del Kenya Land Freedom Army che salirono sul patibolo superò le 1000 unità.