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Ontologia della Performance Art

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Academic year: 2021

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DOTTORATO DI RICERCA IN FILOSOFIA

Ciclo XXXI

ONTOLOGIA DELLA PERFORMANCE ART

Tesi di Dottorato di: Marta Rosa

Matricola: 540185

Tutor: Prof. Fabrizio Desideri

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Indice

Premessa ... 7

Parte Prima ... 11

Capitolo primo. Il problema della definizione dellʼarte ... 13

1. La questione dellʼarte nellʼestetica analitica ... 16

1.1. Morris Weitz e lʼarte come “concetto aperto” ... 17

1.2. Arthur C. Danto e il “mondo dellʼarte” ... 22

1.3. George Dickie e la teoria istituzionale dellʼarte ... 30

1.4. Jerrold Levinson e la “storia dellʼarte” ... 36

1.5. Noël Carroll e la teoria narrativa dellʼarte ... 41

2. La s-definizione dellʼarte ... 44

Capitolo secondo. Ontologie analitiche dellʼarte ... 47

1. Gli albori dellʼontologia analitica dellʼarte: Rudner vs. Lewis ... 48

2. Ontologia “platonica” ed ontologia “aristotelica” ... 51

3. Un nuovo modello ontologico: il modello type/token ... 56

4. Sviluppi contemporanei: lʼontologia dellʼarte di Amie L. Thomasson ... 66

5. Ontologia senza arte? ... 75

Capitolo terzo. La rappresentazione artistica ... 77

1. La svolta analitica contro la mimesi ... 77

2. Il “vedere rappresentativo” ... 85

3. I mondi di finzione ... 93

4. La teoria semantica della rappresentazione ... 96

5. Arte in azione ... 106

Parte Seconda ... 113

Capitolo quarto. Introduzione al concetto di Performance ... 115

1. Performance Studies ... 115

2. Richard Schechner e la teoria della performance ... 116

2.1. Il processo performativo: dallʼactual al restored behavior ... 118

2.2. Il performer ... 128

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Capitolo quinto. La Performance Art ... 135

1. Antefatti “avanguardistici” ... 135

2. Il corpo dellʼartista ... 143

3. Verso unʼontologia della Performance Art ... 164

Capitolo sesto. Ontologia della Performance Art ... 171

1. Estetica del performativo ... 171

1.1. Il carattere evenemenziale della performance... ... 179

1.2. ... e la sua forza trasformativa ... 182

2. Lʼ“essenza” della performance ... 192

3. Lo spazio della performance ... 202

4. Il tempo della performance ... 204

5. Marina Abramović: “la nonna della Performance Art” ... 206

6. Le “anime” della Performance Art ... 223

6.1. Performance minimaliste-concettuali ... 224 6.2. Performance tecnologiche... 227 6.3. Performance socio-politiche ... 233 6.4. Performance sciamaniche ... 238 Conclusioni ... 241 BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO ... 253 APPENDICE ICONOGRAFICA ... 297

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Premessa

Oggi a Firenze si è tenuto lʼevento Book Signing with Marina Abramović, organizzato da Palazzo Strozzi in coincidenza con la recente inaugurazione di The

Cleaner, la prima retrospettiva italiana dedicata proprio a questa grande artista. È in

questa occasione che ho avuto il grande piacere e onore di incontrare personalmente Marina Abramović, senzʼaltro un “pezzo di storia” della Performance Art, oltre che una figura indiscussa, cruciale e quasi mitica dellʼarte contemporanea. Proprio osservando il gran numero di persone che ha voluto prendere parte a questo evento – persone pressoché di tutte le età, accomunate da una sorta di euforia generale che si poteva quasi “respirare” nellʼaria e “toccare con mano” –, ho avuto unʼulteriore conferma di quanto la Performance Art dipenda essenzialmente dalla sua stretta relazione con il pubblico, e di come la vita – quella vera, di noi “comuni mortali”, con le nostre paure, le nostre debolezze, i nostri desideri e, in una sola parola, la nostra umanità – costituisca la premessa fondamentale e lʼoggetto privilegiato di questa peculiare forma artistica. La Performance Art, infatti, così come la vita stessa, richiede di essere vissuta intensamente ed intimamente: è una forma dʼarte che necessita della presenza, al tempo stesso fisica e mentale, dellʼartista, il quale, più che creare delle opere dʼarte nel senso tradizionale del termine, realizza degli eventi, che, a loro volta, coinvolgono in maniera diretta e, talvolta, totalitaria anche il pubblico che vi assiste. Questʼultimo, da parte sua, rivive su di sé la performance e, anzi, diventa co-produttore della performance stessa, dando così origine ad un autentico scambio energetico tra artista e pubblico, che soltanto la Performance Art sembra essere in grado di attivare con tale forza e successo.

In particolare, con il lavoro che segue ho cercato di offrire una risposta ad un grande interrogativo che, da sempre, si pone lʼEstetica: un interrogativo ontologico che può essere certamente rivolto a tutte le forme dʼarte (così come effettivamente sembra essere stato fatto), ma che forse sino ad oggi (soprattutto in Italia) ritengo non sia stato posto nella maniera più adeguata ed esplicita possibile nei confronti della Performance Art. La domanda attorno a cui ruota questo scritto risulta essere infatti la seguente: che

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Una domanda difficile, a cui non può che seguire una risposta complessa, che ho cercato di articolare suddividendo lʼintero testo in due parti, ciascuna delle quali composta, a sua volta, di tre capitoli.

La prima parte, segnatamente, costituisce una sorta di vademecum con cui cerco di chiarire ed avvicinarmi al discorso sullʼontologia della Performance Art, che verrà affrontato invece da punti di vista eterogenei, ma comunicanti tra loro, allʼinterno della seconda parte. Le due parti del testo, pertanto, non sono da considerarsi autonome e andrebbero lette in sequenza.

Premettendo che tutta la prima parte (di taglio squisitamente filosofico ed estetologico) è incentrata quasi esclusivamente sulla filosofia di matrice “analitica”, il primo capitolo è dedicato a quella che può essere considerata come la “questione principe” dellʼestetica analitica contemporanea: la questione della definizione dellʼarte. Si passano qui in rassegna, infatti, le definizioni più significative, tra cui quella di Morris Weitz – anche se più di definizione in questo caso si dovrebbe parlare di a-definizione dellʼarte –, Arthur C. Danto, George Dickie, Jerrold Levinson e Noël Carroll.

Dal momento che chiedersi che cosa sia lʼarte significa implicitamente interrogarsi anche sulla sua essenza, il secondo capitolo si propone di offrire una sorta di resoconto delle principali ontologie analitiche dellʼarte: dalla disputa tra lʼontologia di Richard Rudner e quella di Clarence I. Lewis, con cui generalmente si fa cominciare la storia dellʼontologia dellʼarte, si passa per la coppia antitetica – pensata per la prima volta da Richard W. Peltz – “ontologia platonica”/“ontologia aristotelica” e il tanto celebre, quanto discusso modello ontologico type-token, per arrivare, infine, alla più recente proposta ontologica di Amie L. Thomasson.

Il capitolo terzo si occupa del problema della rappresentazione artistica: questʼultima è stata a lungo associata al concetto di mimesis, visto che, almeno in origine, rappresentare qualcosa artisticamente significa copiare quanto già esiste nella realtà. Ciononostante, da Ernst Gombrich in poi – come cercherò di mostrare –, la rappresentazione artistica si apre al mondo dellʼillusione e della finzione, e lʼopera dʼarte in sé non solo diventa un modo per attivare dei riferimenti mentali diversi rispetto a quelli promossi dallʼoriginario processo mimetico, ma assume anche una nuova

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funzione, quella di (ri)organizzare la nostra esperienza artistica e, di conseguenza, la nostra comprensione del mondo.

La seconda parte del mio lavoro, dichiaratamente storico-artistica e consacrata alle teorie, alle poetiche e alle pratiche della Performance Art, inizia con unʼintroduzione al concetto di performance (capitolo quarto), che originariamente non viene concepito allʼinterno dellʼambito artistico, ma conosce delle risonanze e delle applicazioni in discipline socio-culturali differenti, come dimostrato chiaramente dallʼanalisi che qui dedico al pensiero e, più in particolare, alla nota teoria della

performance dello studioso americano Richard Schechner.

Il capitolo quinto ripercorre – in maniera volutamente schematica – la storia

della Performance Art, partendo da quelli che ho definito come i suoi antefatti

“avanguardistici”, per arrivare alle performance a noi più prossime e verosimilmente più conosciute, in cui il corpo dellʼartista, con forza sempre maggiore, diventa il medium privilegiato e il fine ultimo dellʼintervento artistico.

Si può dire, tuttavia, che è il capitolo sesto quello che entra effettivamente nel merito della questione, qualificandosi come il tentativo definitivo di caratterizzare lʼessenza della Performance Art. A tale proposito ho ritenuto imprescindibile un riferimento allʼestetica del performativo proposta dalla teatrologa tedesca Erika Fischer-Lichte, anche se certamente non mancano riferimenti importanti ad altri studiosi e filosofi che hanno saputo offrire, da punti di vista differenti, delle interessanti “delucidazioni” a proposito dellʼoggetto in questione. Una volta individuata nellʼarte occidentale una significativa svolta performativa, soprattutto a partire dai primi anni Sessanta del secolo scorso, la Fischer-Lichte sente la necessità di fondare unʼestetica che sappia confrontarsi con i profondi cambiamenti che questa svolta ha portato con sé; è così che nasce lʼestetica del performativo come risposta a tutte quelle forme artistiche – tra cui, in primis, la Performance Art – che sembrano non potere essere più “pensate” nei termini delle tradizionali estetiche della produzione e della ricezione. A testimonianza di quanto da me sostenuto a proposito dellʼontologia della Performance Art, ho deciso poi di dedicare una parte piuttosto sostanziosa di questʼultimo capitolo alla storia personale e allʼopera artistica di Marina Abramović, colei che ha saputo portare la Performance Art al centro delle più vivaci dispute contemporanee sullʼarte e che, soprattutto negli ultimi tempi, ha dimostrato uno spiccato interesse per il problema

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della “salvaguardia” della Performance Art e del suo inserimento allʼinterno della più generale storia dellʼarte. È seguita, infine, una specie di suddivisione della Performance

Art attraverso la definizione di specifiche “forme categoriali” – anche se a questo

termine ho preferito quello di “anime” della performance –: performance

minimaliste-concettuali; performance tecnologiche; performance socio-politiche; performance sciamaniche.

Le conclusioni a cui sono giunta le lascio, in quanto tali, alla fine e non è mia intenzione anticiparle nello spazio di questa concisa premessa, che, pertanto, non vuole essere altro che un modo per accendere lʼinteresse del lettore e – si spera – un invito alla lettura.

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Capitolo primo

Il problema della definizione dellʼarte

La questione della definizione dellʼarte può apparire antica quanto la stessa filosofia; tuttavia, continua a rimanere incessantemente al centro delle discussioni che contribuiscono ad arricchire la nostra riflessione estetica, dal momento che chiedersi che cosa sia lʼarte significa implicitamente interrogarsi anche sullʼessenza dellʼarte stessa.

Nella sua importante raccolta di saggi dedicata proprio a La Definizione

dellʼarte, Umberto Eco riconosce che una definizione generale dellʼarte può avere

certamente dei limiti:

e sono i limiti di una generalizzazione non verificabile ma tentativa; i limiti di una definizione gravata di storicità e quindi suscettibile di modificazione in altro contesto storico; i limiti di una definizione che generalizza per comodità di discorso comune una serie di fenomeni concreti che posseggono una vivacità di determinazioni che nella definizione vanno necessariamente perdute. E tuttavia una definizione generale dellʼarte sa di essere indispensabile: è un gesto che va fatto, un dovere che va compiuto; per cercare di porre un punto di riferimento a quei discorsi che invece di proposito sono storici, parziali, limitati, orientati ai fini di una scelta (critica o operativa). Ma cʼè di più: ed è che nel momento in cui si parla di arte, sia pure per negare la possibilità di definirla concettualmente, non ci si sottrae allʼesigenza della definizione (Eco 1983, p. 152).

La prima definizione di arte che possiamo incontrare nel pensiero filosofico occidentale è contenuta, presumibilmente, nella teoria imitativa di Platone, il quale, nel libro X de La Repubblica, afferma che lʼarte è mimesi, imperfetta, della realtà, e lʼopera dʼarte, dunque, uno “specchio” in cui il reale si può riflettere.1

Il concetto di mimesis – corrispettivo del latino imitatio – si ritrova pertanto alla base della riflessione teorica dellʼopera dʼarte sin dalle origini della cultura occidentale e corre immutato lungo tutta la storia dellʼestetica, pur variando profondamente nei suoi significati. Dalla metà del Settecento, ad esempio, a partire in particolare dal pensiero di Alexander G.

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Baumgarten, padre fondatore dellʼestetica come scienza della conoscenza sensibile (gnoseologia inferior),2 le opere dʼarte diventano innanzittutto rappresentazioni mimetiche di cose belle; ma, a partire almeno dallʼEstetica del brutto dellʼhegeliano Karl Rosenkranz3 – ed espresso chiaramente anche da gran parte della filosofia dellʼarte del Novecento –, lʼarte sembra congedarsi definitivamente da tutti gli antichi e profondi pregiudizi in favore della mimesi e del bello.

A tale riguardo appare interessante una riflessione che Martin Heidegger propone in Lʼorigine dellʼopera dʼarte (saggio pubblicato nel 1950 in Sentieri interrotti, ma risalente già al 1935):

Se guardiamo le opere nella loro realtà immediata e senza preconcetti, si fa chiaro che esse si trovano lì dinnanzi nella loro semplice-presenza né più né meno delle cose. Il quadro pende dalla parete allo stesso modo di un fucile da caccia o di un cappello. Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da una esposizione allʼaltra. Le opere sono spedite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera. Durante la guerra gli inni di Hölderlin erano impacchettati negli zaini accanto agli oggetti di pulizia. I quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina. Tutte le cose hanno questo carattere di cosa [dinghaft] (Heidegger 1935, p. 5).

Heidegger si dimostra chiaramente consapevole dei profondi cambiamenti che si stanno verificando intorno a lui: le Avanguardie artistiche di inizio Novecento hanno stravolto i modi tradizionali di concepire le opere dʼarte, che sempre più spesso vengono trattate come degli oggetti ordinari, quando non sono addirittura questi ultimi a diventare le opere dʼarte.4

2 Cfr. soprattutto Baumgarten 1735 e 1750. Come ricorda anche Jerrold Levinson: «Il termine “estetico”, almeno nella sua accezione moderna risale ad Alexander Baumgarten, filosofo tedesco del XVIII secolo, che definiva lʼestetica come “la scienza di come le cose sono conosciute tramite i sensi” (1735)» (Levinson 2002, p. 426). In particolare, Baumgarten si muove a partire dalla tradizione rappresentata dalla metafisica di Leibniz, che distingueva tra una conoscenza sensibile, estetica in senso lato, e una conoscenza intellettuale, maggiormente distinta. «Lʼestetica, come nuova disciplina, si affianca quindi ai superiori poteri della ragione, alle facoltà mentali superiori, disegnando lo spazio di un nuovo sapere sensibile, privo dellʼevidenza logica della conoscenza intellettuale, ma dotato di piena legittimazione teorica e di una propria autonomia scientifica» (Mazzocut-Mis 2015, p. 64).

3

Per Rosenkranz il brutto risiede nella natura stessa dellʼIdea che, lasciando libera la sua manifestazione, pone la possibilità del negativo; e se, hegelianamente parlando, il bello è il farsi sensibile della libertà, il brutto ne è la limitazione. Cfr. Rosenkrank 1853.

4 Lʼesempio più noto di tale gesto di “rottura” – centrale nella maggioranza delle discussioni circa la questione dellʼarte – è Fountain di Marcel Duchamp. «Duchamp è arrivato negli Stati Uniti da due anni

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In sostanza, il modello originario offerto dalla teoria imitativa platonica si dimostra sempre più insoddisfacente e sorge con estrema urgenza la necessità di tornare alle questioni legate alla definizione dellʼarte; e proprio questa necessità di porre mano alla questione della definizione si è significativamente acuita soprattutto nel momento in cui lʼarte, autointerpretandosi, ha preso consapevolezza del fatto che la sua finalità non consiste più nellʼimitazione della realtà: lʼarte ha cominciato a prendere sé stessa come oggetto (dimostrandosi in questo estremamente affine alla filosofia), e non più la vita quotidiana, come invece aveva fatto per secoli.

In particolare sembra essere stata lʼarte astratta che, per prima, ha avanzato la pretesa di problematizzare il paradigma proposto dalla teoria mimetica5 (e, ovviamente, un ruolo importante in questo processo di “messa in discussione” è stato giocato anche dallʼinvenzione e dalla diffusione della fotografia e della cinematografia).6

In seguito, la pratica del ready-made ha scompaginato ulteriormente la scena teorica e a partire dal 1917, anno in cui Marcel Duchamp ha presentato alla Society of Indipendent Artists la sua celebre opera Fountain, di fatto, non esiste più alcuna differenza tra oggetto ordinario e opera dʼarte: le opere dʼarte non devono più imitare gli oggetti comuni, ma

sono quegli stessi oggetti. «Dal momento che gli oggetti quotidiani condividono (o

possono condividere) tutte le loro proprietà con le opere dʼarte, la distinzione proposta da Platone diventa inutilizzabile, e la domanda teorica va formulata in modo diverso» (Andina 2012, p. 49). Come si potrà definire, allora, la classe delle opere dʼarte,

quando matura lʼidea di lavorare allʼopera. A New York entra in contatto con il movimento Dada e con le avanguardie. Lʼidea di Fountain vede la luce quando Duchamp, accompagnato dallʼartista Joseph Stella e dal collezionista Walter Arensberg, acquista un orinatoio modello Bedfordshire, presso J. L. Mott Iron Works, bottega allʼangolo tra la 118ᵃ e la 5ᵃ strada. Dopo che lʼorinatoio fu consegnato nel suo studio, al numero 33 West 67ᵃ strada, Duchamp si limitò a ruotare lʼoggetto di 360 gradi e a inciderci sopra la firma che è poi uno pseudomino, “R. Mutt 1917”. In quel periodo lʼartista era da poco entrato a far parte del direttivo della Society of Indipendent Artists e decise di proporre lʼopera per lʼesposizione, utilizzando appunto un nom de plume. Dopo una lunga e serrata discussione che appassionò i membri del comitato scientifico – la maggior parte dei quali non aveva idea che lʼautore fosse Duchamp – lʼopera venne rifiutata» (Andina 2012, p. 86). È proprio con Fountain (e altri suoi readymades) che Duchamp ha sfidato ogni certezza riguardo a ciò che lʼarte poteva o doveva essere. Lʼidea secondo cui tutte le opere dʼarte debbano essere il prodotto della mano di un artista, esteticamente belle o emotivamente profonde, è infatti difficile da sostenere ancora, una volta che opere come questa siano state accettate nel novero delle opere dʼarte.

5 «Solo nellʼarte astratta lʼautonomia e il valore assoluto del fatto estetico hanno potuto affermarsi concretamente: era nata unʼarte pittorica nella quale solo gli elementi estetici hanno rilevanza. Lʼarte astratta valse pertanto come una specie di dimostrazione pratica di certe possibilità. Queste opere sembravano riprodurre direttamente sulla tela lo stesso processo realizzativo e ideativo; la pura forma, prima oscurata da un contenuto estraneo, veniva ora liberata, e la si poteva percepire direttamente» (Schapiro 1937, p. 21).

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distinguendola da quella degli oggetti ordinari; se, in effetti, sarà ancora necessaria tale distinzione? E se non lo fosse più, come ci si dovrebbe comportare per affrontare i problemi pratici che inevitabilmente sorgeranno?

1. La questione dellʼarte nellʼestetica analitica

«La definizione dellʼarte è uno dei problemi centrali dellʼestetica analitica, e per qualche tempo è sembrato esserne il problema, quello dal quale dipendono tutti gli altri» (DʼAngelo 2008, p. 5).7

Quasi paradossalmente, alla base delle discussioni sulla definizione dellʼarte in ambito analitico vi è un gruppo di saggi apparsi negli anni Cinquanta del secolo scorso, che ha come denominatore comune la diffidenza verso la forma tradizionale dellʼestetica e lo scetticismo circa la possibilità di definire che cosa sia lʼarte.8

7 In particolare, lʼesigenza di definire lʼarte si è dimostrata, da sempre, come lʼelemento principale con cui lʼestetica analitica si è potuta distinguere dallʼestetica continentale. Allʼinterno dellʼambito analitico (a partire dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri), gran parte del dibattito – condotto principalmente sulla rivista «The Journal of Aesthetics and Art Criticism» e sul suo omologo britannico «The British Journal of Aesthetics and Art Criticism» – si è concentrato infatti sulla definibilità o meno dellʼarte e sullʼadeguatezza delle definizioni via, via proposte. Come ricorda Stefano Velotti: «Niente di simile si è verificato nellʼestetica “continentale”, dove semmai si sono date caratterizzazioni che non avevano alcuna pretesa definitoria o classificatoria e che miravano, piuttosto, a mettere in rilievo le ragioni della sua esemplarità, o, se si vuole, la sua funzione allʼinterno della nostra esperienza, della storia, dellʼessere (arte come “espressione di idee estetiche”, come “manifestazione sensibile dellʼidea”, come “messa in opera della verità”, e così via)» (Velotti 2012, p. 131). Per unʼottima introduzione in lingua italiana allʼestetica analitica rimando certamente a DʼAngelo 2008b; ma si veda anche Cometti, Morizot, Pouivet 2000. Per una concisa, ma attenta ricostruzione delle principali problematiche affrontate dallʼestetica analitica rimando invece a Levinson 2002.

8 Cfr. Ziff 1953; Gallie 1956; Weitz 1956; Kennick 1958. In particolare, in questʼultimo articolo Kennick si interroga sullʼutilità dellʼestetica, proponendo una sorta di gioco mentale. «Supponiamo, scriveva, che una persona si trovi davanti allʼingresso di un grande magazzino, nel quale siano state accumulate opere dʼarte di ogni genere insieme ad altri oggetti – è chiaro che dobbiamo pensare a qualcosa di simile a un

department store del genere Harrodʼs a Londra, o KaDeWe a Berlino –, e che qualcuno le dica: vai

allʼinterno e tira fuori tutte le opere dʼarte, e solo esse. Se il malcapitato si orienta sulla base di un sapere minimo, anche solo quello fornito dalle conoscenze veicolate dalla sua lingua materna, è probabile che in qualche maniera se la cavi. Al di fuori del magazzino vedremo accumularsi progressivamente tele di dipinti, sculture, volumi contenenti romanzi e poesie, incisioni musicali, registrazioni di film. Supponiamo invece che il poveretto venga istruito sulla base delle teorie estetiche più influenti della filosofia occidentale. In questo caso il suo compito si trasformerebbe nellʼandare alla ricerca di oggetti che soddisfino le numerose definizioni dellʼarte che sono state offerte dai vari pensatori. [...] Negli anni in cui fu proposto, il gioco o esperimento mentale di Kennick aveva il senso di mettere in dubbio lʼutilità e la stessa possibilità di giungere a una definizione dellʼarte. [...] Ma non cʼè dubbio che, estrapolato dalla situazione dalla quale aveva preso avvio, esso abbia il sapore di un attacco molto diretto allʼestetica, la quale finisce per apparire un sapere non solo inutile ma addirittura dannoso quando si tratta di distinguere che cosa è arte da quel che non lo è» (DʼAngelo 2011, pp. 3-4).

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Gli autori cui si fa riferimento (variamente influenzati dalla riflessione di Ludwig Wittgenstein) sono infatti tutti antiessenzialisti9 – ritengono, cioè, che sia impossibile indicare lʼessenza o la natura dellʼarte e negano che se ne possa dare una definizione reale (una definizione che si riferisce alla res, alla cosa stessa).

I neo-wittgensteiniani ritengono che, fino al loro intervento, la filosofia dellʼarte si sia basata su un errore. Lʼerrore è stato quello di pretendere di definire lʼarte essenzialmente (ossia, in termini di condizioni necessarie che sono combinatamente sufficienti). Essi sono dʼaccordo sul fatto che abbiamo bisogno di identificare lʼarte in qualche modo, ma ritengono che il modo appropriato non sia quello di formulare una definizione generale di arte, per poi applicarla ai casi particolari. Seguendo Wittgenstein, pensano che la procedura che dovremmo seguire sia ciò che essi chiamano il metodo delle somiglianze di famiglia (Carroll 1999, p. 209).

1.1. Morris Weitz e lʼarte come “concetto aperto”

Morris Weitz, compiendo anchʼegli un gesto di esplicita ispirazione wittgensteiniana, rileva come la filosofia dellʼarte abbia sempre espresso (e continui ad esprimere) un tentativo di definire ciò che per sua stessa essenza è indefinibile, «di stabilire le proprietà necessarie e sufficienti di ciò che non ha proprietà necessarie e sufficienti, di concepire il concetto di arte come chiuso, mentre il suo stesso uso rileva ed esige quel carattere aperto che gli è proprio» (Weitz 1956, p. 19).

Segnatamente, Weitz incomincia il suo saggio The Role of Theory in Aesthetics (1956) – che può a buon diritto essere considerato il capostipite della discussione analitica sulla definizione dellʼarte –,10

riconoscendo che la principale preoccupazione della teoria dellʼarte (che ha sempre occupato una posizione centrale in estetica) è quella di chiarire la natura dellʼarte attraverso una sua definizione, in termini di condizioni necessarie e sufficienti.

9 «La discussione, nellʼambito dellʼestetica analitica, sul problema della definizione dellʼarte prende le mosse da un punto di vista scettico – quello scetticismo che affonda le proprie radici nellʼanti-essenzialismo di Wittgenstein» (Levinson 2002, p. 433).

10 Come si avrà presto modo di vedere, infatti, sebbene qui Weitz sostenga la non definibilità, in linea di principio, della nozione di arte, proprio questʼarticolo – quasi paradossalmente – costituisce lʼorigine di tutti i tentativi posteriori di fornire una definizione di arte in termini di condizioni necessarie e sufficienti.

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Inoltre, la teoria dellʼarte, stando allʼopinione comune, risulterebbe estremamente importante «non solo in sé e per sé, ma anche perché fornisce le fondamenta sulle quali costruire lʼapprezzamento e lʼattività critica» (p. 15).

Weitz arriva tuttavia a chiedersi se una teoria del genere sia davvero possibile; e la risposta che ci offre, attraverso questo suo articolo, è assolutamente negativa. Egli ritiene, infatti, che «dovrebbe essere la storia dellʼestetica stessa qui a consigliarci una lunga pausa di riflessione. Poiché, nonostante il proliferare delle teorie, non sembriamo più vicini oggi al nostro obiettivo di quanto lo fossimo ai tempi di Platone» (ib.). Risulterebbe, pertanto, più utile – e persino consigliabile – cercare di sostituire la questione sulla natura dellʼarte con qualche altro problema, in grado comunque di garantirci tutta la comprensione sullʼarte di cui abbiamo bisogno.

In particolare, secondo Weitz lʼinadeguatezza e il fallimento di tutte le teorie dellʼarte come definizioni11

non è il risultato di una mancanza di immaginazione, intelligenza o ingenuità da parte dei teorici in questione, ma «risiede invece in un sostanziale fraintendimento del concetto di arte» (p. 16). La teoria dellʼarte, infatti, ha sempre considerato il concetto di arte come un concetto chiuso, esplicabile per mezzo di proprietà necessarie e sufficienti, in grado di caratterizzarne la sua reale natura; in realtà, lʼarte, «come la logica del concetto stesso mostra, non possiede un insieme di proprietà necessarie e sufficienti, quindi una teoria che la riguardi è logicamente impossibile e non semplicemente difficile di fatto» (ib.).

Detto diversamente, la teoria dellʼarte rappresenta, da un punto di vista logico, un tentativo vano di definire ciò che non può essere definito, in quanto non possiede proprietà necessarie e sufficienti e, quindi, non può essere concepito come un concetto chiuso.

Ciononostante, pur riconoscendo la sua impossibilità di fatto in quanto ricerca di una definizione sullʼarte, Weitz non intende eliminare la teoria dellʼarte tout court dallʼestetica; desidera, al contrario, «rivalutarne il ruolo e il contributo, con lʼintenzione

11

A tale proposito, Weitz “passa in rassegna” alcune delle teorie dellʼarte più rilevanti e note: la teoria formalista di Bell e Fry; la teoria emotivista di Tolstoj e Ducasse; la teoria intuizionista di Croce; la teoria organicista di A. C. Bradley; la teoria volontarista di Parker. «Ora, tutte queste teorie prese ad esempio sono inadeguate in molti modi differenti. Ognuna pretende di essere unʼasserzione esauriente riguardo le caratteristiche definitorie di tutte le opere dʼarte e tuttavia ognuna di esse tralascia qualche elemento che le altre ritengono cruciale. […] Di conseguenza, seppure lʼarte dovesse avere un insieme di proprietà necessarie e sufficienti, nessuna delle teorie qui riportate o, se è per questo, nessuna teoria estetica mai proposta, è stata in grado di specificarlo in modo soddisfacente» (Weitz 1956, pp. 18-19).

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di mostrare innanzitutto come essa possa essere della massima importanza per la nostra comprensione delle arti» (ib.).

La questione “che cosa è lʼarte?” dovrà essere sostituita, allora, da “che tipo di concetto è arte?”: questʼultima deve diventare «la domanda iniziale, il solo punto di partenza, se non addirittura il punto conclusivo, di qualsiasi problema e soluzione filosofica» (p. 19).12

A tale proposito la risposta che offre Weitz è che al pari del concetto di “gioco” – così come veniva trattato da Ludwig Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche –13

anche il concetto di arte è un concetto aperto,14 che si esplica per somiglianze di

famiglia: tra i giochi esistono delle somiglianze, ma non tali da consentire

lʼesplicitazione di condizioni definitorie, così come tra i membri di una famiglia esistono delle caratteristiche che legano un membro a un altro, ma non tali che tutti e soli i membri di quella determinata famiglia debbano necessariamente possedere per appartenervi, o che siano sufficienti per appartenervi. La stessa cosa, secondo Weitz, vale per il concetto di arte: «Sapere cosʼè lʼarte non è apprendere qualche essenza manifesta o latente ma essere capaci di riconoscere, descrivere e spiegare quelle cose che chiamiamo “arte” in virtù delle loro somiglianze» (pp. 20-21).

12 In estetica il primo problema è «chiarire lʼeffettivo impiego del concetto di arte, dare una descrizione logica dellʼeffettivo funzionamento del concetto, inclusa una descrizione delle condizioni alle quali noi lo usiamo, con i suoi correlativi, correttamente» (pp. 19-20).

13 Wittgenstein, nelle sue Philosophische Untersuchungen, inserisce il termine «giuoco» tra i termini basati su «somiglianze di famiglia». In particolare, la metafora delle somiglianze di famiglia mostra come sia possibile usare sensatamente una parola come “gioco”, anche se in pratica non si è capaci di trovare un singolo denominatore comune a tutti i giochi, che possa servire a definirli. Come i membri di una famiglia, infatti, i giochi non hanno una singola caratteristica definitoria che sia presente in ciascuno di essi, ovvero non hanno unʼessenza comune. Piuttosto, come suggerisce Wittgenstein, ciò che vediamo quando osserviamo giochi di genere diverso, è «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo» (Wittgenstein 1953, pp. 46-47). Ne deriva che i concetti basati sulle somiglianze di famiglia non possono essere definiti – almeno non in termini di condizioni necessarie e sufficienti –, ma possono essere spiegati in modo adeguato soltanto per mezzo della presentazione di esempi. In seguito, i filosofi influenzati da Wittgenstein (etichettati spesso come “neo-wittgensteiniani” e tra cui si può inserire anche Morris Weitz) hanno suggerito che anche il termine “arte”, alla stregua di quello di “gioco”, non sia definibile, ma che sia un termine basato, appunto, su somiglianze di famiglia.

14

«Lʼargomento del concetto aperto di Weitz può essere posto come una reductio ad absurdum dellʼidea che lʼarte può essere definita: 1 Lʼarte può essere espansiva. 2 Perciò, lʼarte deve essere aperta alla possibilità permanente di cambiamenti, espansioni e novità radicali. 3 Se qualcosa è arte, allora deve essere aperta alla possibilità permanente di cambiamenti, espansioni e novità radicali. 4 Se qualcosa è aperto alla possibilità permanente di cambiamenti, espansioni e novità radicali, allora non può essere definito. 5 Supponiamo che lʼarte possa essere definita. 6 Perciò, lʼarte non è aperta alla possibilità permanente di cambiamenti, espansioni e novità radicali. 7 Perciò, lʼarte non è arte» (Carroll 1999, p. 212).

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Per spiegare i concetti di “arte” e di “gioco” possono certamente essere portati dei casi paradigmatici, ma non può essere fornito un insieme di casi esaustivo, per il semplice fatto che esempi nuovi ed imprevedibili (di opere dʼarte e di giochi) si impongono continuamente. Secondo Weitz, infatti, è la creatività stessa, che caratterizza la produzione artistica, a non permettere la “chiusura” del concetto di arte:

Condizioni (e casi) nuovi sono costantemente comparsi e sicuramente continueranno ad apparire; nuove forme artistiche, nuove correnti emergeranno, che richiederanno decisioni da parte degli interessati, critici professionisti solitamente, che stabiliranno se il concetto debba essere esteso o meno. [...] Ciò che sto sostenendo, quindi, è che lo stesso carattere espansivo, avventuroso dellʼarte, le sue continue creazioni inedite e cangianti, rendono logicamente impossibile garantire alcun insieme di proprietà definitorie. Noi possiamo ovviamente decidere di chiudere il concetto. Ma fare una cosa del genere con “arte” o “tragedia” o “ritrattistica” ecc., è ridicolo dato che ostacola la condizione stessa della creatività nelle arti (p. 22).15

In definitiva, «il compito primario dellʼestetica non è quello di scovare una teoria ma di chiarire il concetto di arte» (p. 24), descrivendo le condizioni sotto le quali possiamo utilizzare correttamente tale concetto.

Inoltre, ciò che è davvero importante nelle grandi teorie dellʼarte del passato è, secondo Weitz, il loro tentativo di offrire delle argomentazioni valide a sostegno di alcuni criteri di valutazione (magari in precedenza trascurati o distorti) con cui “definire” – o meglio, valutare – le opere dʼarte. Come già visto allʼinizio, infatti, se prese alla lettera – e quindi in quanto definizioni reali –, tutte le teorie estetiche falliscono; ma se interpretate nei termini della loro funzione e del loro scopo, «come raccomandazioni serie e argomentate di concentrarci su certi criteri di eccellenza nellʼarte» (p. 27), allora è possibile constatare come la teoria estetica sia ben lungi dallʼessere inutile. Al contrario, essa diventa un contributo inconsapevole, ma fondamentale alla critica artistica, e comprenderne il ruolo «non vuol dire concepirla

15 Come ricorda anche Levinson: «Due degli argomenti con cui Weitz concludeva per lʼintrinseca apertura del concetto di arte, e pertanto per la sua resistenza a essere definito, erano che la creatività, inseparabile dallʼidea di arte, condanna necessariamente al fallimento ogni tentativo di rinchiudere il concetto dʼarte entro i termini di condizioni definite; e che i confini fra le sotto-categorie artistiche (per esempio il poema, la pittura, lʼopera lirica) sono sempre in movimento, e lo stesso deve valere anche per la categoria più ampia di arte, che di conseguenza sarebbe vano tentare di definire» (Levinson 2002, pp. 433-434).

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come definizione, logicamente condannata al fallimento, ma leggerla come la ricapitolazione di raccomandazioni fatte seriamente riguardo il modo di prestare attenzione a certe caratteristiche dellʼarte» (ib.).16

Anche in un suo saggio successivo, Art as an Open Concept: From the

Opening Mind (1977), Weitz enfatizza il carattere aperto del concetto di arte – già

messo in evidenza in The Role of Theory in Aesthetics – e ribadisce la sua tesi che tutte le teorie dellʼarte «falliscono e sono condannate a fallire nelle loro presunte definizioni reali dellʼarte perché fraintendono il concetto di arte» (Weitz 1977, p. 45). Secondo Weitz non esiste una teoria dellʼarte che sia vera, non perché questa non sia stata ancora concepita, ma perché preclude il concetto stesso di “arte”.

Una teoria dellʼarte - unʼasserzione vera sulle proprietà necessarie e sufficienti, sulla sua essenza, sulla sua natura, sul suo comune denominatore – non è semplicemente difficile da formulare, ma è logicamente impossibile, perché stabilisce i criteri definitivi di un concetto, lʼuso stesso del quale dipende dal fatto che non esiste un insieme di criteri del genere. [...] Il concetto di arte, come mostra il suo uso, è aperto (p. 46).

Ogni teoria dellʼarte che sia stata sviluppata sino a quel momento, dunque, non può che risultare falsa, dal momento che presuppone il fatto che il concetto di arte sia un concetto chiuso, con delle proprietà necessarie e sufficienti attraverso cui poterlo definire.

Tuttavia, pur riconoscendo il suo carattere di apertura, il concetto di “arte” – così come i concetti che ne derivano, come quello di “romanzo”, “pittura”, “scultura”, e così via – può ancora essere utilizzato per descrivere e valutare certi oggetti; e anche se la descrizione e la valutazione implicano generalmente dei criteri, questi ultimi non sono da considerarsi né necessari, né sufficienti. Il concetto di arte, infatti, può ancora svolgere i suoi compiti principali «alla condizione essenziale che i nuovi casi, con nuove proprietà, possano essere accolti grazie allʼaggiunta di nuovi criteri ad hoc» (p. 47). Dʼaltronde, la stessa storia dellʼarte è in continua evoluzione, ed è in parte la storia

16

Come suggerisce anche Carroll, la posizione dei neo-wittgensteiniani «non è semplicemente una posizione scettica, degna di nota soltanto per il suo rifiuto dellʼapproccio definizionale. È anche unʼidea filosofica coerente ed esauriente, che include una considerazione positiva del concetto di arte, una concezione di come classifichiamo lʼarte, e una rilettura della storia della filosofia dellʼarte» (Carroll 1999, p. 217).

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della creazione di nuove opere dʼarte, che, sino al momento in cui non vengono concepite e realizzate, non possono essere nemmeno previste. Il concetto di arte richiede, pertanto, di essere integrato continuamente ed è per questo che si presenta come un concetto aperto ed eternamente variabile.

Quello che conta allora, secondo Weitz, è che anche senza una teoria dellʼarte «possiamo continuare [...] a parlare ragionevolmente di arte – a domandare e a rispondere a “che cosa è lʼarte?”, a “questa è unʼopera dʼarte?” e a “perché questa è unʼopera dʼarte?” – in relazione a insiemi disgiunti di criteri non necessari e non sufficienti e alle loro proprietà corrispondenti nelle opere dʼarte che le possiedono» (p. 53).

In definitiva, la posizione di Weitz «non priva certo la nozione di arte degli usi cui essa abitualmente si presta, ma ci vieta di associarle un contenuto “essenziale”, determinato da proprietà che si riterrebbero condivise dagli oggetti appartenenti al suo campo di definizione» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 15).

1.2. Arthur C. Danto e il “mondo dellʼarte”

Reagendo allo scetticismo neowittgensteiniano, e con lʼintento di salvare la possibilità di definire lʼarte, intorno agli anni Sessanta alcuni teorici dellʼarte imboccano una strada diversa, ossia non vanno più in cerca dei tratti visibili comuni tra le opere dʼarte, ma cercano le condizioni di definibilità su di un piano non aspettuale: ciò che fa di un oggetto unʼopera dʼarte può anche non essere qualcosa che si vede con gli occhi.

È in particolare la teoria istituzionale che arriva a porre lʼaccento non più sulle proprietà manifeste ed osservabili delle opere dʼarte, bensì su «la loro posizione allʼinterno di un insieme di pratiche sociali coordinate – ossia, la loro posizione in un determinato contesto sociale» (Carroll 1999, p. 227) – che, come si vedrà, prenderà il nome di “mondo dellʼarte” –. La teoria istituzionale spiega che cosa le opere dʼarte hanno in comune tra loro richiamando la nostra attenzione sulle loro proprietà non esibite, e quindi sulle loro proprietà relazionali.17

17

«Che lo statuto dellʼarte possa fare affidamento sul possesso di certe proprietà non manifeste e non esibite da parte del candidato, è lʼidea che i teorici istituzionalisti hanno ripreso dalla critica di Mandelbaum allʼuso improprio dei neo-wittgensteiniani della nozione di somiglianza di famiglia» (p. 226). Carroll si riferisce qui al saggio Family Resemblances and Generalization Concerning the Arts (1965), in cui Maurice Mandelbaum sostiene che non sarebbe veritiero il fatto che vi sia incompatibilità

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Alcune persone, appartenenti al celebre, quanto discusso, “mondo dellʼarte”, hanno il potere di conferire lo status di opera dʼarte a qualunque artefatto: questa è lʼessenza della teoria istituzionale, e un modo di caratterizzare tale teoria è quello di descriverla come una teoria procedurale dellʼarte,18 ossia come una teoria che spiega perché qualcosa sia unʼopera dʼarte, facendo riferimento a pratiche sociali che modificano il suo statuto ontologico, piuttosto che alle caratteristiche intrinseche dellʼopera in questione.

Lʼidea secondo cui ciò che rende qualcosa unʼopera dʼarte può non essere visivamente osservabile è stata avanzata, per la prima volta, da Arthur C. Danto19 nel suo celebre articolo The Artworld,20 pubblicato nel 1964 e «direttamente ispirato dai

logica fra la creatività dellʼarte e una definizione della stessa in termini di condizioni necessarie e sufficienti; al contrario, è possibile trovare condizioni definitorie dellʼarte che non ne limitino necessariamente lʼincessante mutevolezza. Come riconosce anche DʼAngelo, Mandelbaum sembra «esprimere, e in qualche modo anticipare, lʼorientamento che le definizioni dellʼarte avanzate in ambito analitico stavano prendendo e avrebbero sempre più decisamente preso negli anni seguenti» (DʼAngelo 2008a, p. 10).

18 Cfr. Davies 1991, soprattutto pp. 23-47. Qui, in particolare, Davies divide le teorie dellʼarte in teorie

funzionali e teorie procedurali: le prime intendono lʼarte nei termini di qualche funzione essenziale che i

suoi oggetti adempiono o dovrebbero adempiere (un esempio deriva dalla definizione estetica di Monroe Beardsley o dalla definizione tradizionale di arte come rappresentazione); le seconde, invece, vedono lʼarte come definibile nei termini dellʼesercizio o della ricorrenza di certe procedure allʼinterno di una pratica sociale (ne sarebbe un esempio la definizione istituzionale di Dickie). Tuttavia, come ricorda anche Levinson, «non tutte le teorie correnti rientrano sotto lʼuna o lʼaltra di queste classificazioni, soprattutto le teorie storiche e quelle narrative. Inoltre, alcune teorie correnti, di carattere ibrido, includono congiuntamente considerazioni procedurali, funzionali e storiche» (Levinson 2002, p. 437). 19 Secondo Fabrizio Desideri: «Tenendo fermo che unʼopera dʼarte è un oggetto, Danto mira infatti a stabilire i criteri della sua ontologica specificità al di qua o al di là della sua estetica apparenza (del suo modo percettivamente sensibile di offrirsi). Esteticamente, anzi, unʼopera dʼarte può ben essere indiscernibile da un qualsiasi altro oggetto» (Desideri 2010, pp. 31-32). Sempre secondo Desideri, inoltre, Danto «è senzʼaltro lʼinterprete più acuto e discusso» (p. 25) di quella concezione statica dellʼontologia, «secondo la quale si tratta principalmente di cogliere le proprietà invarianti di qualcosa in quanto costituenti il suo profilo essenziale, la sua ontologica tipicità. Coerentemente con questo compito, lʼaver definito con successo le proprietà essenziali di unʼopera dʼarte fornirà il criterio della sua identità ontologica e del suo riconoscimento, quali che siano le forme fenomeniche con cui unʼopera dʼarte si presenta (linguaggio in cui si esprime, medium rappresentativo, tipo di supporto, contesto in cui si offre al pubblico ecc.)» (ib.). Unʼalternativa importante a questo tipo di ontologia “essenzialista” è offerta, invece, dallʼontologia dinamica proposta da Nelson Goodman: «A una ontologia descrittivistica degli oggetti Goodman oppone unʼontologia costruttivistica e nominalistica delle funzioni simboliche e della loro dinamica. Le proprietà, così, non sono più stabili, ma transitorie e del tutto correlate alle pratiche simboliche in cui si inscrivono, alla costruttività dei linguaggi» (p. 26); e alle proprietà stabili, valevoli in ogni contesto, subentrano quelli che – come si vedrà meglio più avanti – Goodman definisce come

sintomi dellʼestetico. Cfr. Desideri 2010, soprattutto pp. 26-31.

20 «Lʼarticolo sarebbe rimasto a sonnecchiare in qualche vecchio numero del sepolcrale “Journal of Philosophy” – scrive nel 1981 [Danto] – se non fosse stato per due filosofi intraprendenti, Richard Sclafani e George Dickie, che gli hanno conferito una modesta fama. Gliene sono molto grato, e sono ancor più grato a coloro che hanno eretto quella cosa che porta il nome di “teoria istituzionale dellʼarte” sulla base di unʼanalisi del Mondo dellʼarte, benché quella teoria sia lontanissima da qualsiasi cosa io sostenga: non sempre i nostri figli vengono fuori come avremmo voluto. Ciononostante, in un classico

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ready-made dadaisti di Duchamp e dai simulacri pop-art di Warhol» (Levinson 2002, p.

435). In quello stesso anno, infatti, la Biennale di Venezia consacra la Pop Art e Danto, alla Stable Gallery di New York sulla 74ᵃ Strada Est, si imbatte nellʼopera Brillo Box di Andy Warhol. Da questo “incontro” speciale deriva una delle sue riflessioni sullʼarte più emblematiche: come mai le scatole di Brillo esposte da Andy Warhol come Brillo

Box sarebbero “arte”, mentre le scatole di spugnette insaponate Brillo acquistabili da

chiunque in qualsiasi supermercato americano non lo sono? Detto in maniera più “tecnica”: perché due cose identiche e, dunque, percettivamente indiscernibili,21

possiedono uno statuto ontologico diverso?

La risposta, secondo Danto – come già anticipato –, non può trovarsi in qualche qualità visibile,22 ma in una proprietà rigorosamente indifferente alla percezione, quale è una proprietà relazionale:

proprio come, per esempio, grazie al fatto di avere un figlio, un uomo si “trasfigura” in padre – e, per quanto attentamente lo osserviamo, in lui non percepiamo alcuna differenza, e dobbiamo invece conoscere il lieto evento per cogliere il cambiamento di status –, così le proprietà decisive affinché qualcosa, qualsiasi cosa, diventi arte saranno proprietà “esterne” allʼopera, relazionali, e dunque irrilevabili, per ipotesi, anche mediante il più attento scrutinio percettivo (Velotti 2008, p. XII).

Occore spostarsi su di un piano diverso, un piano in cui si possono incontrare proprietà non aspettuali: «Vedere qualcosa come arte richiede qualcosa che lʼocchio non può afferrare – unʼatmosfera impregnata di teoria artistica, una conoscenza della storia dellʼarte: un mondo dellʼarte» (Danto 1964, p. 580). Secondo Fabrizio Desideri, infatti,

conflitto edipico, devo dare battaglia alla mia progenie, perché non credo che la filosofia dellʼarte debba cedere a quel che si dice che io abbia generato» (Danto 1997, p. 124).

21 Tra i primi a porre la “questione degli indiscernibili”, sotto il profilo logico, è stato certamente Gottfried W. Leibniz, con la sua celebre affermazione secondo cui se non cʼè modo di distinguere due enti, allora sono in verità un solo e identico ente; anche se già Descartes, allʼinterno delle sue Meditazioni, aveva intuito come la questione degli indiscernibili risultasse di grande rilievo filosofico e, segnatamente, epistemologico. Secondo Descartes, infatti, la nostra vita potrebbe anche essere un lungo sogno, per di più, sognato a nostra insaputa: potremmo non avere modo di distinguere lo stato di veglia dallo stato di sogno e potrebbe accaderci di stare sognando e non accorgerci che quel sogno esibisce le stesse identiche proprietà della vita reale, con lʼovvia conseguenza che la vita vera è, almeno in questo caso, sogno (cfr. Descartes 1942).

22 Certamente una differenza a livello di proprietà esiste – le Brillo Box di Warhol sono di compensato e di dimensioni maggiori rispetto alle scatole di sapone commerciali, più piccole e fatte di cartone; ma è una vera e propria trasfigurazione ad assegnare le prime ad una categoria ontologica diversa dalle loro controparti più “banali”, acquistabili in qualsiasi supermercato dʼAmerica.

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dal momento che «– soprattutto nel caso dellʼarte contemporanea – nessun motivo di ordine estetico-percettivo dallʼinterno di un qualsiasi oggetto costituisce un criterio distintivo capace di identificarlo come opera dʼarte, allora – sostiene Danto – lʼ“è” dellʼidentificazione artistica non può che consistere in una teoria che introduce lʼoggetto nel mondo dellʼarte» (Desideri 2010, p. 33). Ciò significa che le aspettative e le conoscenze a proposito di una determinata opera dʼarte non aiutano soltanto a comprendere ed interpretare ciò che si vede, ma concorrono in parte a costruirlo e categorizzarlo. Warhol, ad esempio, non avrebbe potuto creare le sue Brillo Boxes cinquantʼanni prima, perché nessuno avrebbe potuto interpretarle come arte, dato che mancava sia una riflessione teorica che le rendesse possibili, sia una produzione artistica che potesse costituire il loro antecedente. Lʼopera di Warhol, infatti, non sarebbe stata pensabile se non ci fosse stata prima lʼesperienza dei ready-made di Marcel Duchamp. Anzi, proprio il ready-made, da fenomeno estremo e parassitario dellʼarte tradizionale, è diventato il test case di tutta la teoria estetica successiva: molte delle definizioni dellʼarte sembrano pensate a partire dalla domanda “come posso definire lʼopera dʼarte in modo tale che un ready-made possa, sulla base della mia definizione, essere riconosciuto come unʼopera dʼarte?”

A tale proposito la risposta di Danto potrebbe articolarsi nel seguente modo: “perchè esso appartiene a un mondo dellʼarte”. Ma, concretamente, che cosʼè questo

mondo dellʼarte?

Secondo Danto esso si caratterizza, innanzitutto, come un mondo di idee,

pensieri e teorie sullʼarte. È importante ricordare, infatti, come lo stesso Danto,

soprattutto allʼinterno di un suo saggio successivo, The End of Art: A Philosophical

Defense (1998), voglia mettere in rilievo proprio lʼidea che lʼarte contemporanea sia

pervenuta ad una sorta di fine,23 entrando in quello che egli definisce come periodo

post-storico dellʼarte, in cui la riflessione filosofica sembra avere preso definitivamente

il sopravvento sullʼaspetto prettamente “estetico” dellʼarte.

In particolare, dichiarando la fine dellʼarte Danto intende affermare che le grandi narrazioni del passato – che definirino prima lʼarte tradizionale attraverso lʼimitazione, e poi quella moderna attraverso lʼideologia – sono giunte al capolinea e

23 È necessario ricordare, tuttavia, come la teoria sulla fine dellʼarte fosse già stata presentata da Danto allʼinterno del suo After the End of Art (1997) e come essa, a sua volta, dipenda apertis verbis da Hegel.

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che lʼarte contemporanea, diversamente, non si lascia più rappresentare da nessun genere di grande narrazione.

È importante sottolineare, infatti, come Danto, attraverso la sua tesi, non intenda assolutamente sostenere che lʼarte non sarebbe più esistita, bensì che qualunque arte fosse sopraggiunta da lì in avanti – ossia a partire dalla metà degli anni Sessanta, con la fine dellʼEspressionismo astratto e lʼinizio di un pluralismo stilistico sino ad allora sconosciuto –, non avrebbe certamente beneficiato della rassicurante “cornice narrativa” che avrebbe potuto presentarla come lo stadio successivo di una più ampia evoluzione artistica: è quella stessa cornice narrativa ad essere giunta al termine, non lʼarte in quanto tale.

Come aveva già esposto molto chiaramente in After the End of Art (1997), arte e filosofia possono andare finalmente in due direzioni diverse, e lʼarte, liberata dal “fardello” della storia, può diventare libera dallʼoppressione della filosofia, che le aveva sempre imposto di autocomprendersi filosoficamente: gli artisti diventano liberi di fare arte in qualunque modo e per qualunque scopo desiderino – «a eccezione di quello che avrebbe come obiettivo un progresso» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 154) –; e i filosofi, da parte loro, possono cominciare a fare filosofia dellʼarte in un modo che saprà fruttare sicuramente delle risposte interessanti ed innovative.

Per tornare però allʼoriginario problema di demarcazione avanzato da Danto: «Ciò che alla fine fa la differenza tra una scatola di Brillo e unʼopera dʼarte che consiste in una scatola di Brillo è una certa teoria dellʼarte. È la teoria che la eleva al mondo dellʼarte, e le impedisce di collassare nellʼoggetto reale che essa è» (Danto 1964, p. 581).

Con questa significativa affermazione Danto cerca innanzitutto di rispondere alla tesi dellʼindefinibilità dellʼarte sostenuta da Morris Weitz (in primis, ma anche da altri autori, sulla scorta di una ripresa di certe nozioni wittgensteiniane). Come si è già avuto modo di vedere, infatti, Weitz ritiene che, se la definizione di un concetto deve indicare delle condizioni necessarie e sufficienti, allora lʼarte, in linea di principio, non è un concetto che possa essere definito. Dʼaltronde, le opere dʼarte appaiono certamente molto eterogenee e, soprattutto, dipendono da unʼimprevedibile attività creativa: le opere dʼarte potranno mostrare fra loro alcune somiglianze di famiglia, ma non costituiranno mai una classe di oggetti propriamente definibili.

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Spostando il piano della definizione dalle proprietà manifeste delle opere a quelle relazionali, Danto pensa invece «di poter raccogliere e vincere questa sfida scettica» (Velotti 2008, p. XIV): la creatività artistica e la diversità che caratterizza le opere dʼarte non necessariamente devono rappresentare un problema nella ricerca di definizione dellʼarte, che, anzi, può essere definita in termini essenzialisti – ossia in termini di condizioni necessarie e sufficienti –, purché si miri a individuare, per lʼappunto, non le qualità manifeste delle opere, ma le loro proprietà relazionali.

Secondo Danto, non soltanto le opere dʼarte possono essere infinitamente eterogenee, ma lo stesso Warhol – in questo senso “allievo” di Duchamp – ci ha portato a considerare la possibilità che qualsiasi cosa possa essere unʼopera dʼarte, persino qualcosa che è così omogeneo a ciò che arte non è da risultare percettivamente indiscernibile da una “mera cosa”. «Non solo: mentre unʼopera dʼarte può essere indistinguibile da un oggetto reale, una serie di oggetti identici può costituire una serie di altrettante opere diverse tra loro (come Danto cerca di mostrare con la sua famosa galleria di quadri rossi che apre il capitolo 1)» (ib.).24

La trasfigurazione del banale (1981)25 è il risultato di quasi ventʼanni di rielaborazione delle idee abbozzate nel primo articolo di Danto dedicato esplicitamente allʼarte. Anche in questo caso, lʼidea di fondo della sua riflessione è che le proprietà di unʼopera dʼarte non coincidono con le proprietà dellʼoggetto in cui lʼopera è incorporata e con cui coincide materialmente; sono piuttosto delle proprietà relazionali a differenziare lʼautentica opera dʼarte dal mero oggetto e lʼintero libro di Danto è dedicato a individuarle, capitolo per capitolo, partendo da quello che è il sintomo più evidente di una distinzione ontologica fra unʼopera dʼarte e una cosa: il titolo.

La possibilità di avere un titolo conduce alla prima proprietà definitoria non manifesta delle opere dʼarte: unʼopera dʼarte è una struttura intenzionale, possiede una

aboutness, ovvero, ha la proprietà di essere a-proposito-di, che la mera cosa invece non

possiede; in questo senso, allora, lʼopera dʼarte costituisce una rappresentazione, che

24

Il riferimento qui è a Danto 1981, pp. 3-6.

25 Quando esce il suo libro, Danto è un affermato professore di filosofia alla Columbia University, che ben presto però travalicherà il mondo dellʼaccademia: nel 1984 è chiamato a collaborare come critico dʼarte per il settimanale radical newyorkese «The Nation», andando così ad occupare lo stesso ruolo che negli anni Quaranta aveva esercitato Clement Greenberg – maestro di molti e obiettivo polemico costante di Danto –. La trasfigurazione del banale viene considerato dallo stesso Danto come il primo e più importante membro di una sorta di trilogia, di cui fanno parte anche Dopo la fine dellʼarte (1997) e

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deve essere causata da un essere capace di produrre una rappresentazione

intenzionalmente (ad esempio, se una formica che cammina sulla sabbia lascia una

traccia identica a un disegno di Rembrandt, non significa che la traccia della formica sia unʼopera dʼarte). A sua volta, in quanto rappresentazione, lʼopera dʼarte richiede unʼinterpretazione che ne colga il significato e spieghi a proposito di che cosa è lʼopera.

Lʼinterpretazione, quindi, può essere detta costitutiva dellʼopera – «lʼinterpretazione restituisce lʼoggetto a se stesso, dicendo che lʼopera è lʼoggetto» (Danto, 1981; trad. it., p. 152) – nella misura in cui si accorda con lʼintenzione dellʼautore (e di conseguenza con la sua teoria). Proprio qui si palesa il limite dellʼintenzionalismo di Danto e lʼinsostenibile leggerezza dellʼessenzialismo che ne consegue. Questo limite consiste nel presupporre che il peso del significato gravi tutto sul lato di unʼintenzione autonoma dallʼesistenza dellʼopera: intentio auctoris piuttosto che

intentio operis (Desideri 2010, p. 36).

Detto altrimenti, il valore delle opere dʼarte sta nella loro capacità di dire se

stesse, di significare di per sé, anteriormente ad ogni significato o contenuto

determinato, in forza della loro attiva ed enigmatica presenza; al punto che «la tesi relativa al loro incorporare un significato va intesa come un incorporarlo di proprio pugno: in una forza di apparire, di farsi apparition nel senso di Adorno, ben più decisiva della trasfigurazione di un oggetto o di un “luogo” comune» (ib.).26

Unʼaltra proprietà non manifesta dellʼopera dʼarte deriva invece dal suo essere una cosa essenzialmente storica: le opere dʼarte non sono cose che sono “possibili in ogni tempo” (ad esempio, anche solo qualche anno prima della sua apparizione nel mondo dellʼarte, lʼorinatoio di Duchamp sarebbe rimasto un mero oggetto e non unʼopera dʼarte). Ciononostante, non basta che una cosa sia una rappresentazione interpretata e storicamente condizionata affinché sia unʼopera dʼarte: deve possedere anche una struttura metaforica «e, come lʼentimema aristotelico (un sillogismo da completare, al quale manca una premessa)» (Velotti 2008, p. XVI), richiede essenzialmente il contributo del fruitore per essere riconosciuta in quanto tale.

26 «La natura complessa di questa “forza”, di questa energetica del senso compressa nelle opere dʼarte, dice il loro non poter essere definite risolutivamente come meri oggetti, semmai come oggetti che svolgono attivamente una funzione dʼimmagine, come più-che-oggetti, oggetti che trascendono la sfera dellʼoggettualità. Oggetti immanentemente critici, si potrebbe dire, che incorporano unʼintenzione “come se”: non più e non semplicemente quella dellʼautore, ma il principio che le governa dallʼinterno» (Desideri 2010, p. 36). A tale proposito, cfr. anche Desideri 2011.

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Infine, nelle opere dʼarte non conta soltanto ciò a proposito di cui la rappresentazione è, ma il modo in cui la rappresentazione è a proposito di qualcosa: ed è questo ciò che Danto definisce “stile”.

E lo stile in contrapposizione alla maniera, afferma kantianamente Danto, è “dono” e come tale non può essere appreso. Kantianamente, perché questa non è altro che unʼevocazione della teoria kantiana del genio. Al punto che anche Danto, abbandonando per un momento lʼessenzialismo che persegue, si appella in proposito alla “potenza”, espressione dello stile, che deve essere sentita nellʼopera (Desideri 2010, p. 34).

Più specificamente, con il termine stile Danto intende quellʼinsieme di proprietà condivise da un complesso di opere, che diviene poi un modo per definire, filosoficamente, in che cosa consista unʼopera dʼarte: mentre lʼimitazione aveva costituito la risposta filosofica ovvia alla domanda sulla natura dellʼarte da Platone sino a buona parte del XX secolo, con lʼavvento del Modernismo, grande “epoca dei manifesti”, viene introdotta, per la prima volta, la dimensione filosofica nel cuore della produzione artistica e la mimesi diventa così soltanto uno dei tanti stili possibili.

Tuttavia, come si è potuto ben vedere, questa epoca di cambiamento, inaugurata con lʼarte modernista, è destinata ben presto a conoscere la sua fine: nel momento in cui il divario tra opera dʼarte e mero oggetto reale non si può più articolare in termini visivi, diventa necessario abbandonare lʼestetica, tradizionalmente intesa, e predisporsi ad accogliere con favore unʼautentica filosofia dellʼarte.

La vitalità filosofica dellʼarte sta [...] nella sua capacità di porre e riproporre autonomamente, dallʼinterno del suo linguaggio, problemi genuinamente filosofici, tra i quali spicca senzʼaltro il problema dellʼoggetto. Se non altro proprio perché tale problema è posto per così dire allʼinterno e dallʼinterno di unʼimmanente polemica con quellʼoggetto “critico” che è lʼopera dʼarte stessa nella sua pura esistenza: presenza che sovverte di per sé una logica servile della rappresentazione (Desideri 2011, p. 254).

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1.3. George Dickie e la teoria istituzionale dellʼarte

George Dickie27 sviluppa la sua teoria istituzionale proprio a partire dalle argomentazioni dantiane: «In Dickie si assiste [...] alla riduzione dei vari contesti chiamati a raccolta da Danto per stringere dʼassedio lo sfuggente concetto di arte – le relazioni dellʼopera con il mondo, con il suo autore, con il suo interprete – a un contesto di un unico ordine, quello, appunto, “istituzionale”» (Velotti 2012, p. 133).

Attraverso la prima formulazione della sua teoria egli sostiene che:

Unʼopera dʼarte [...] (1) è un artefatto (2) a un insieme dei cui aspetti è stato conferito lo statuto di candidato allʼapprezzamento estetico da parte di una persona, o di alcune persone, che agiscono per tramite di una determinata istituzione sociale (il mondo dellʼarte) (Dickie 1974, p. 34).

Lʼidea che vi sottende appare abbastanza semplice: gli artisti assegnano una

funzione28 (“essere candidato allʼapprezzamento estetico”) a un oggetto qualunque (un dipinto, piuttosto che uno scolabottiglie o una scatola di saponette), purché sia un

artefatto;29 e gli artisti possono operare in questa direzione in virtù di una particolare autorità che è stata conferita loro dallo stesso mondo dellʼarte, che, a sua volta, parrebbe possedere tutte le caratteristiche di unʼautentica istituzione sociale.

27 Per una “visione dʼinsieme” sulla sua teoria estetica, cfr. almeno Dickie 1969 e 1984.

28 Come ricorda Andina, lʼassegnazione (o imposizione) di funzioni è un concetto centrale anche nellʼontologia sociale di John Searle, il quale, nella sua opera La costruzione della realtà sociale, lega questa abilità alla capacità che hanno tutti gli uomini (e alcuni animali) di imporre funzioni agli oggetti – tanto oggetti naturali, quanto artefatti –. «Si tratterebbe dellʼabilità di associare oggetti a scopi o, anche, di immaginare oggetti per rispondere a scopi» (Andina 2012, p. 63). Cfr. Searle 1995, soprattutto pp. 21-32. Nel caso specifico dello Scolabottiglie di Duchamp, per esempio, lo Scolabottiglie è un oggetto ordinario che possiede la funzione che è propria di tutti gli scolabottiglie, in più però gli è stata imposta la funzione di essere unʼopera dʼarte e questa operazione ha fatto sì che lʼoggetto, che è sempre stato considerato un semplice scolabottiglie, da un certo momento in poi – un particolare istante in cui una persona che agisce per tramite del “mondo dellʼarte” ha decretato il suo fiat – sia diventato lo Scolabottiglie di Duchamp. Lʼimposizione di funzione, pertanto, è resa possibile dal fatto che esiste un mondo sociale – quale è il “mondo dellʼarte” – in cui sono in opera regole e procedure comuni e accettate da una comunità ben determinata.

29 Come suggerisce Carroll, «secondo la teoria istituzionale, unʼopera dʼarte deve essere un artefatto. [...] Essere un artefatto richiede che il candidato sia in qualche modo un prodotto del lavoro umano, anche se lʼentità del lavoro può risultare estremamente minima. [...] Una performance può essere un artefatto in questo senso, dal momento che è il prodotto del lavoro umano; non soltanto oggetti, cioè, soddisfano la condizione di artefattualità. Inoltre, la condizione di artefattualità è anche indice del fatto che lʼopera in questione deve essere accessibile pubblicamente» (Carroll 1999, pp. 227-228).

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