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Antefatti “avanguardistici”

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 133-141)

Il capitolo precedente si è concluso con una constatazione molto significativa:

lʼarte si fa discorso e, in quanto tale, può ricorrere alle tecniche e ai media più disparati

(tra cui il corpo!) per trovare la propria espressione. La stessa storia dellʼarte, pertanto, può essere interpretata anche come una storia del linguaggio artistico, e uno dei tanti modi che possediamo per cogliere e comprendere la vera essenza dellʼarte risiede nella comprensione del suo peculiare “linguaggio”.

Date queste premesse, unʼanalisi critica che intenda avere delle solide basi dal punto di vista storico-culturale – anche quando riguarda una ricerca artistica ancora in atto come nel caso della Performance Art – non può prescindere dalla conoscenza degli “antefatti” del proprio oggetto di ricerca.

Volendo risalire alle origini, è possibile constatare che la grande svolta

dellʼarte, soprattutto a livello tecnico e formale, nasce dalle importanti innovazioni

apportate in pittura e scultura da parte degli Impressionisti alla fine del XIX secolo. Tuttavia, se con lʼImpressionismo si può parlare ancora di pittura a olio su tela e di scultura intesa in senso tradizionale, con le Avanguardie dei primi tre decenni del Novecento il linguaggio artistico viene totalmente stravolto, «attraverso un coinvolgimento concreto della realtà oggettuale quotidiana; unʼapertura provocatoria della cultura dʼélite allʼuniverso della cultura di massa; un nuovo e più diretto rapporto fra arte e vita, in termini di interventi performativi e di installazioni ambientali» (Poli 2016a, pp. 7-8). Il tutto prende forma «grazie anche allʼintroduzione di tecniche inedite e materiali estranei al dominio delle Belle Arti ma maggiormente affini a una sensibilità che vuole chiudere definitivamente con ogni forma di accademismo. La mimesi non è più un territorio di ricerca sufficiente e al realismo si preferisce il reale» (Pugliese 2012, p. 13). È con questo spirito, che già a partire dal 1912, Pablo Picasso (con la sua Natura

bicchiere; fig. 2) realizzano i primi collage, in cui, se si vuole, è possibile scorgere lʼatto

fondativo, il gesto seminale della performance.

È nel Collage che si realizza la prima incursione di un elemento reale, come un pacchetto di sigarette, la pagina di un giornale, una scatola di fiammiferi, una carta da gioco, un ritaglio di tessuto, nella finzione estetica; è nel collage che si inaugurano le premesse di una possibile equazione Arte=Vita, meglio definibile come attitudine di ricerca dellʼarte nella quotidianità della vita (Conti 2015, p. 12).

A dispetto di ogni ricerca illusionistica, infatti, la poetica cubista privilegia il

dispositivo della presentazione – di cui si approprierà anche Marcel Duchamp –, oltre

che lʼuso in scultura di materiali anomali e facilmente deperibili (come cartone, latta, filo di ferro), che scardinano lʼidea di “durata”, da sempre alla base della scultura tradizionale.150

Da un importante confronto con la ricerca cubista, pressoché negli stessi anni si sviluppa anche quella corrente artistica con cui lʼimportante teorica RoseLee Goldberg fa iniziare la “storia della Performance Art”: il Futurismo.151

Questʼultimo si sviluppa in Italia a partire dal 1909152 come unʼavanguardia artistica che “saluta” favorevolmente la modernità e i profondi cambiamenti che la tecnica già allora stava cominciando ad apportare pressoché in tutti gli aspetti della vita quotidiana dellʼuomo. Come ricorda De Micheli,

Il futurismo è stato un movimento polemico, di battaglia culturale; è stato il movimento sintomatico di una situazione storica; un coacervo di idee e di istinti, dentro il quale, sia pure non distintamente, si esprimevano alcune esigenze reali dellʼepoca nuova: il bisogno di essere moderni, di cogliere la verità di una vita trasformata dallʼera della tecnica, la necessità di trovare una espressione adeguata ai tempi della rivoluzione industriale (De Micheli 1981, p. 246).

150 Come fa giustamente notare Marina Pugliese: «Tra la scultura ottocentesca in bronzo e in marmo, monumentale e celebrativa, e gli assemblaggi, polimaterici, fragili e privi di piedistallo, lo iato è enorme» (Pugliese 2012, p. 15).

151 Cfr. Goldberg 2001.

152 Come ricorda la stessa Goldberg, la storia del Futurismo «comincia il 20 febbraio 1909 a Parigi con la pubblicazione del primo Manifesto Futurista nel quotidiano di ampia distribuzione, Le Figaro. Il suo autore, il benestante poeta italiano, Filippo Tommaso Marinetti, lo scrisse dalla sua lussuosa Villa Rosa di Milano e scelse il pubblico parigino come destinario del suo manifesto di “incendiaria violenza”. Certi attacchi ai tradizionali valori della pittura e della letteratura accademica non erano infatti infrequenti in una città che veniva considerata come la “capitale mondiale della cultura”» (p. 11).

Secondo i Futuristi anche il linguaggio artistico deve adeguarsi al nuovo “ritmo” della vita moderna: lʼarte si fa rapida, caotica, incalzante; ed è così che in poesia nascono le parole in libertà, in musica gli intonarumori, in architettura si ha lʼutilizzo dei primi materiali metallici ed industriali, e un peculiare dinamismo plastico va a caratterizzare le arti visive.

Soprattutto la poesia, secondo Filippo Tommaso Marinetti – lʼindiscusso “inventore” del Futurismo – diventa un momento vitale di estrema importanza: attraverso la peculiare costruzione fonetico-rumoristica, lʼinnovativo gesto poetico e la dimensione strettamente teatrale, la poesia futurista si trasforma in vera e propria poesia

dʼazione, dissacrante e provocatoria, in grado di coinvolgere ed attizzare gli animi degli

ascoltatori, arrivando così ad anticipare, in parte, alcuni degli elementi che diverranno peculiari della Performance Art.

Segnatamente la prima declamazione dinamica e sinottica (così i Futuristi definiscono anche le loro composizioni parolibere) si tiene a Roma presso la Galleria Sprovieri il 29 marzo 1914. Durante questa performance collettiva ante litteram Marinetti declama la celebre Piedigrotta, scritta da Francesco Cangiullo, accompagnato da vari strumenti musicali, oltre che dalle voci di alcuni dei suoi compagni più rappresentativi tra cui Balla, Depero, Sironi e lo stesso Sprovieri.

Nei giornali dellʼepoca si è parlato di questa soirée come di un evento esilarante. La sala era illuminata da lampade rosse che esaltavano i valori dinamici di un fondale dipinto da Balla. La troupe degli artisti aveva fantastici cappelli di carta. Ammiratissimo era il vascello variopinto che Balla portava sulla testa. Ciascun artista suonava uno strumento della tradizione napoletana [tofa, putipù,

triccheballacche, scetavajasse], mentre Cangiullo si siedeva di tanto in tanto al

pianoforte (Fontana 2015b, p. 110).

Il passaggio da queste prime declamazioni dinamiche e sinottiche al Teatro

sintetico è stato pressoché immediato e proprio in questʼultimo i Futuristi possono

ritrovare il “collante” più efficace per la realizzazione della loro tanto auspicata opera

dʼarte totale, di wagneriana memoria. La simultaneità, infatti, diventa lʼaspetto

caratterizzante di questo teatro, che – come si ricorda nel manifesto del Teatro sintetico

situazioni, sensibilità, idee, sensazioni, fatti e simboli”, che non necessariamente devono essere compresi nella loro totalità dal pubblico: «Questo era il solo modo per trattenere i confusi “frammenti di eventi interconnessi” in cui ci si imbatte nella vita di tutti i giorni, certamente irraggiungibili ad ogni tentativo di appropriazione da parte del teatro realistico» (Goldberg 2001, p. 28).

Non è certo da dimenticare, tuttavia, che Cubismo e Futurismo sono stati i diretti riferimenti anche degli artisti dʼavanguardia in Russia. Nel dicembre del 1915, infatti, a San Pietroburgo lʼartista Ivan Puni e sua moglie Ksenija Boguslavskaja organizzano lʼ“Ultima mostra Futurista 0,10”, a cui partecipano, oltre a Michäil Larionov, Marc Chagall e Vasilij Kandinskij, anche Kazimir Malevič e il suo allievo, nonché futuro teorico del Costruttivismo, Vladimir Tatlin. Mentre Malevič cerca di semplificare e “ridurre al minimo” la propria pittura – raggiungendone la perfetta sintesi con Quadrato nero su fondo bianco (fig. 3) –, Tatlin, in maniera alquanto categorica, prende le distanze dalla pittura stessa; e proprio in seguito a questo “punto di rottura” tra i due artisti, anche gli spazi della mostra vengono divisi in modo netto: allʼingresso della sala riservata al proprio gruppo Tatlin affigge lʼinsegna “Mostra professionale”, insinuando così che le opere esposte al di fuori di quella stanza non meritino lʼattenzione del pubblico. Ciononostante è interessante notare che, «pur nellʼevidente differenza dei risultati formali, entrambi gli artisti scelsero lʼangolo per esporre le loro opere, ovvero la porzione di spazio occupata dalle icone nella tradizione ortodossa. Malevič appese il Quadrato nero su fondo bianco, appoggiando i lati del dipinto sulle pareti in modo da chiuderne lʼangolo, mentre Tatlin sospese il Controrilievo [una struttura composta di corde e vari oggetti; fig. 4] allʼaltezza dello spettatore, tendendo gli elementi metallici dellʼopera tra le pareti convergenti» (Pugliese 2012, p. 22).

Rispetto ai collage di Picasso – che Tatlin aveva potuto vedere personalmente presso lʼatelier parigino dellʼartista – i Rilievi abbandonano ogni riferimento figurativo e, di conseguenza, la materia non presenta altro che se stessa: la struttura stessa diventa lʼopera e i nuovi materiali utilizzati (ferro, zinco e acciaio) assumono la funzione linguistica di rappresentare la natura innovativa e tecnologica dellʼarte. Inoltre, se Picasso con i suoi strumenti musicali affissi al muro era già arrivato ad eliminare il piedistallo (dispositivo simbolico per eccellenza della scultura tradizionale), creando una sorta di ibrido tra opera pittorica e scultorea, Tatlin con i suoi Rilievi inaugura

addirittura un nuovo tipo di relazione tra lʼopera dʼarte e lo spazio circostante: «lo spazio che circonda lʼopera diviene per la stessa un elemento significativo e vincolante» (p. 23).

A tale riguardo, un esempio emblematico deriva dal modello del Monumento

alla Terza Internazionale, una “torre proletaria” che doveva celebrare lʼUnione

Sovietica ma che non verrà mai costruita, sia per motivi economici, sia per la sua eccessiva innovatività.

La struttura inventata da Tatlin prevedeva un avvolgersi delle linee su se stesse fino a portarle in alto, generando un tronco di cono ideale spostato su un asse obliquo e composto di tre grandi volute. Questa struttura, realizzata in metallo, avrebbe dovuto dare lʼimpressione di un reticolo dinamico e sospinto da forze inevitabili. [...] In questʼopera, se realizzata, avrebbero dovuto entrare in gioco il movimento, il tempo nel suo scorrere, le onde radio, i visitatori come elemento non accessorio ma necessario, il dibattito. Tutto questo si sarebbe integrato su di una base di memorie formali stratificate nella storia e ricche di rimandi allʼarte di vari periodi e vari luoghi (Vettese 2010a, p. 67).

Dʼaltronde, soprattutto dopo la Rivoluzione dʼOttobre, la ricerca dei Costruttivisti russi assume con forza un valore politico di matrice antiborghese e anche i materiali e le tecniche artistiche impiegate vengono scelte secondo una precisa impostazione ideologica.

Soprattutto il fotomontaggio – tecnicamente molto simile al collage cubista – si è rivelato un mezzo molto efficace, tanto che le opere di Aleksandr Rodčenko, El Lissitzky e Gustav Klutsis, a differenza dei coevi fotomontaggi dadaisti, diventano un potente mezzo di propaganda, in cui spesso si associano parole e immagini per enfatizzare e chiarire il messaggio che lʼopera dʼarte porta con sé.

Nel 1928 il direttore del Landes Museum di Hannover, Alexander Dorner, il più giovane fra i direttori dei musei dʼarte della Germania, commissiona proprio a El Lissitzky quella che può essere vista come unʼinstallazione ante litteram (considerato il coinvolgimento fisico dello spettatore e la relazione complessa che viene a crearsi tra le varie opere dʼarte e lʼambiente museale che le accoglie), il Gabinetto degli astratti (fig. 5). Questa sala del museo, che doveva accogliere in modo permanente opere di artisti astrattisti, era fatta «di pareti scorrevoli, di spazi in cui si alternavano grandi

quadrangoli neri, grigi e bianchi secondo un ritmo sincopato, in cui un pavimento scuro e uniforme si poneva in contrappunto con una parete zigrinata. Le opere che vi trovarono posto, da Picasso a Mondrian, da Léger a Naum Gabo ad Archipenko, generarono un effetto dʼinsieme imponente» (p. 100). Grazie alla conformazione particolare di questo allestimento in luogo della contemplazione passiva si riesce a provocare lʼinteresse dello spettatore, che in questo modo diventa un partecipante attivo degli svolgimenti storici dell’arte e dei suoi significati conoscitivi.

Sempre di stampo costruttivista è anche lʼutilizzo in arte dei primi materiali plastici in commercio. A partire dal 1915 Naum Gabo inizia a costruire una serie di

Teste costruite, con cui cerca di superare il problema della materia in scultura creando

un volume in cui alla leggerezza della costruzione possa corrispondere quella della materia: in Testa costruita n. 3 (Testa di donna), del 1917-1920 (fig. 6), ad esempio, Gabo utilizza la celluloide, con cui riesce ad ottenere la trasparenza e lʼinclusione del vuoto nellʼopera dʼarte.

Nel frattempo a Zurigo, presso il Cabaret Voltaire, un gruppo di intellettuali e artisti, tra cui Tristan Tzara, Richard Huenselbeck, Hans Arp e Hanna Hoch, danno vita ad un nuovo orientamento artistico (ma sarebbe forse più opportuno parlare di “stile di vita”) «anti-artistico, antiletterario, antipoetico» (De Micheli 1981, p. 156), caratterizzato essenzialmente da un forte sentimento antigerarchico e da un linguaggio provocatorio e, molto spesso, scandaloso: è questo il movimento Dada, 153 che in pochi anni arriva a “contagiare” anche le città di Parigi, Berlino, Colonia e Hannover.

La “libertà dadaista” si esprime concretamente nello smantellamento di tutti i sistemi logici tradizionali e di ogni genere di convenzione linguistica, «smantellamento ottenuto tramite un uso spregiudicato della frammentazione, dellʼinversione e della dissociazione. In questo senso, assemblaggio e fotomontaggio sono le tecniche che

153 «Dada è contro la bellezza eterna, contro lʼeternità dei principi, contro le leggi della logica, contro lʼimmobilità del pensiero, contro la purezza dei concetti astratti, contro lʼuniversale in genere. Esso è invece per la sfrenata libertà dellʼindividuo, per la spontaneità, per ciò che è immediato, attuale, aleatorio, per la cronaca contro lʼatemporalità, per ciò che è spurio contro ciò che è puro, per la contraddizione, per il no dove gli altri dicono sí e per il sí dove gli altri dicono no, è per lʼanarchia contro lʼordine, per lʼimperfezione contro la perfezione» (De Micheli 1981, p. 156).

meglio corrisposero a questa esigenza di decostruzione della realtà» (Pugliese 2012, p. 27).154

In seguito, la rivoluzione Dada approda anche a New York grazie al lavoro fotografico di Man Ray (non si possono non ricordare le sue rayographies), ma anche e soprattutto alla forte personalità di Marcel Duchamp. Proprio con Duchamp, del resto, si può dire che si esce dallʼarte in senso stretto e si entra direttamente nella vita:

Piuttosto che seguitare a elaborare tecniche atte a mantenere attivo il fantasma della vita nellʼarte, egli adotta la soluzione più semplice, dà allʼarte il senso della sua vita e in un certo qual modo ne afferma il dissolvimento nella sua persona e nelle sue scelte nel mondo. Egli si pone come un “homme comme un autre”, come uno che agisce e ha un contatto immediato con le cose, o “ready made”. Si pone anzi sullo stesso livello, mettendo il suo corpo tra le cose stesse (Celant 2008, p. 89).

Con Duchamp, cioè, si passa dalla rappresentazione pittorica tradizionalmente intesa alla manipolazione diretta del corpo dellʼartista, come testimoniano chiaramente i suoi celebri fotoritratti, scattati dallʼamico Man Ray, nelle vesti del suo alter ego femminile, Rrose Sélavy (fig. 8).

Inoltre il suo impegno verso lʼelevazione segnica della realtà attesta la sua esigenza a sfuggire al discorso settoriale e mitico dellʼarte. Il fine è lʼannullamento dellʼarte nella vita, o se si vuole considerare il problema da unʼaltra prospettiva, il riconoscere lʼarbitrarietà dellʼarte. Comunque la si veda, lʼarte perde valore, poiché lʼesperienza duchampiana dimostra che lʼarte è inutile e “in odio” alla vita. Se questo è vero, solo il capovolgimento dei termini potrà ridare vita allʼarte. Ecco il recupero dellʼinutile e dello scartato, cioè della cosa che lʼarte ha sempre teso a rappresentare e a mimare. E se la cosa si fa arte, significa che è creativa, sente ed esprime. Il cerchio si chiude. [...]

Questa inversione di segno non degrada o avvilisce lʼumanità del creatore, piuttosto la libera dalle angustie di un mondo di bisogni e di desideri che devono essere soddisfatti ad ogni costo. La cosa non è assunta più quale strumento e mezzo, diventa anzi il contrario, il fine (ib.).

154 Non si può non ricordare, a tale proposito, il “padre del fotomontaggio”, John Heartfield, noto soprattutto per i suoi duri fotomontaggi contro il regime nazista (cfr. Hitler mangia soldi e sputa

Sarà proprio questa “estetica totalizzante” (dal momento che ogni cosa sembra poter diventare unʼopera dʼarte) a sviluppare una conciliazione delle arti con il mondo: arti visive, teatro, musica, danza trascendono con sempre maggiore forza i loro confini tradizionali e, commistionandosi le une con le altre, danno vita a nuove dinamiche relazionali con la realtà, che troveranno presto il loro emblema nelle performance e nei pionieristici happening Fluxus.

Lo stesso Duchamp, inoltre, può essere considerato come «un elemento di continuità tra Dadaismo e Surrealismo» (Pugliese 2012, p. 31) – questʼultimo fondato nel 1924 per mano di André Breton, Paul Eluard e Louis Aragon –. «Il Surrealismo, nato dalla costola del Dadaismo, colorò lʼarte di psicologia e favorì la diffusione delle teorie freudiane sul sesso, i sogni e lʼinconscio, poi incarnati da opere come Pietà o

Rivoluzione di notte (1923) di Max Ernst» (Warr 2000, p. 11; fig. 9).

È stato proprio Max Ernst, amante del misterioso e dellʼocculto, lʼiniziatore della scrittura automatica (detta anche automatismo psichico) e, dunque, di molte delle tecniche artistiche surrealiste più importanti: il frottage, che consiste nellʼappoggiare un foglio di carta su una superficie con rilievi (come pezzi di legno, foglie, tela di sacco sfilacciata), per poi passarvi sopra la mina della matita o i pastelli (cfr. Foresta, 1927; fig. 10); il grattage, con cui invece si raschia la parte più esterna della pellicola pittorica in maniera da movimentare la superficie; ma anche – precorrendo in ciò il celebre

dripping di Jackson Pollock – la tecnica dellʼoscillazione, con cui una sorta di tubo

attaccato al soffitto con un filo e contenente colore liquido viene fatto penzolare sulla tela lasciandovi sgocciolare direttamente e in maniera incontrollata delle macchie di colore.155

È possibile, inoltre, ricordare i numerosi paradossi visivi surrealisti, noti più semplicemente come oggetti surrealisti, pensati per inquietare, piuttosto che per spingere lʼosservatore al motto di spirito:

gli occhi di civetta conservati in una scatola come una reliquia, su cui lʼautore André Breton scrive una nota di spiegazione del suo romanzo Nadia; due scarpe da sposa ribaltate posate su di un piatto e decorate come le cosce di un pollo arrosto, quasi a

155 Tutte queste tecniche – che sembrano derivare direttamente dal mondo dei bambini – dimostrano implicitamente il fatto che i surrealisti, anche a livello pratico, intendono rifarsi a una qualche creatività vergine, non mediata dallʼesperienza o dai pregiudizi derivanti dal modo consueto e tradizionale di vedere e rappresentare la realtà.

suggerire che la proprietaria è stata cucinata a dovere e pronta per essere divorata, di Meret Oppenheim; il pane blu di Man Ray che rievoca lʼespressione di stupore «parbleu» (perbacco) e tutte le composizioni nate per essere fotografate che egli chiamò «Oggetti di affezione»; la cornetta del telefono a forma di aragosta, opera di Salvador Dalì, che con le chele evoca il carattere fastidioso della voce allʼaltro capo del filo; i teatrini in cui Joseph Cornell assemblò giocattoli, cassette, personaggi, chiavi eccetera (Vettese 2010a, p. 60).

Arrivati a questo punto, allora, si può sostenere con certezza il fatto che gli artisti delle Avanguardie di primo Novecento ci hanno lasciato, nel bene e nel male, degli insegnamenti importanti e che gli artisti di oggi e del futuro (come suggerisce anche De Micheli)

non potranno dipingere o scolpire [operare, in senso più generale] senza avere assimilato quelle verità “parziali” che le avanguardie di questo secolo, così faticosamente, tra errori e disperazioni, hanno conquistato.

[...] Assimilare le verità dellʼavanguardia, oggi, vuol dire [...] qualcosa di profondamente diverso dalla riduzione dellʼavanguardia in formule di comodo: vuol dire soprattutto portare a conclusione le sue reali istanze di libertà, al centro delle quali sta lʼuomo col suo carico di sentimenti e il suo destino storico (De Micheli 1981, p. 290).

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 133-141)