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Il carattere evenemenziale della performance

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 177-190)

1. Estetica del performativo

1.1. Il carattere evenemenziale della performance

La materialità dellʼopera dʼarte, allʼinterno di questo particolare contesto, non si dà come artefatto o in un artefatto commercializzabile, bensì come evento, spettacolo, nella misura in cui la corporeità, la spazialità e la sonorità si producono

performativamente e i significati che lʼopera veicola affiorano e si determinano soltanto

nella relazione che viene ad instaurarsi tra artisti e spettatori. Gli spettacoli, di fatto, sono “oggetti” fuggevoli, transitori, unici ed irripetibili, che si esauriscono nella loro presenza attuale (Gegenwärtigkeit), ovvero nel loro divenire continuo per mezzo di quel più ampio processo che la Fischer-Lichte ha definito come autopoiesi del loop di

feedback.199

Certo, ciò non toglie che anche allʼinterno degli spettacoli possano essere utilizzati dei materiali – come, ad esempio, una scenografia, degli accessori o dei costumi di scena – che alla fine dello spettacolo rimangono come sue tracce. Allo stesso tempo, tuttavia, con la sua fine lo spettacolo viene perso per sempre, in maniera irrevocabile: da qui il suo carattere evenemenziale, su cui si fonda anche la sua specifica esteticità. Gli attori non potranno mai riprodurre lo spettacolo nello stesso modo in cui lo hanno realizzato e “vissuto” la prima volta e gli spettatori, da parte loro, non saranno verosimilmente gli stessi; pertanto, non potrà mai venire a ricrearsi la stessa “dinamica relazionale” tra attori e spettatori dellʼorigine. Infatti, secondo la Fischer-Lichte,

Ogni tentativo di fissarlo in un artefatto, sia esso una registrazione audio o una ripresa filmata, è destinato al fallimento e mette ancora più chiaramente in evidenza lʼabisso invalicabile tra lo spettacolo e un artefatto fissabile o persino riproducibile. Ogni tentativo di riprodurre uno spettacolo si capovolge, quindi, in un tentativo di documentarlo. [...] Una documentazione di questo genere rappresenta [...] la condizione perché sia possibile parlare degli spettacoli. In questo contesto è proprio la tensione riflessa tra la loro fugacità e lʼincessante tentativo di documentarli

199

Lʼautopoiesi del loop di feedback, «generata dalle azioni e dai comportamenti di attori e spettatori, fa sorgere lo spettacolo. Lʼidea che lʼartista sia un soggetto autonomo, che crea unʼopera dʼarte recepita dai fruitori in modo di volta in volta diverso e che essi non sono tuttavia in grado di modificare nella sua materialità, viene così abbandonata – anche se non ancora nella coscienza di gran parte del pubblico – (p. 282).

attraverso video, film, fotografie e descrizioni, a rimandare inequivocabilmente al loro carattere effimero e alla loro unicità (Fischer-Lichte 2004, pp. 133-134).

Lo spettacolo, per essere disponibile ed accessibile anche in un secondo momento – e , dunque, per avere dei documenti che ne attestino lʼoriginaria esistenza –, al di fuori del contesto in cui conosce il suo originario sviluppo, necessita di una

trasformazione in altre forme, siano esse delle fotografie, piuttosto che dei video o delle

descrizioni di vario genere; anche se non è da dimenticare il fatto che la specifica materialità dello spettacolo «si sottrae in sé ad ogni presa: è lo spettacolo che nel processo della sua esecuzione (Aufführens) la produce ogni volta come attualmente presente e perciò, nellʼistante in cui la produce, la distrugge di nuovo» (p. 134).

Questo importantissimo ed essenziale aspetto dello spettacolo apre alla distinzione, ormai estremamente nota e di uso comune nel linguaggio corrente, tra

spettacolo live e spettacolo registrato. Innanzitutto è da far notare come prima della

nascita e dello sviluppo delle tecnologie fotografiche, audio e video – e, dunque, di riproduzione – non avesse senso parlare di spettacoli “live”, dal vivo, ma soltanto di spettacoli in quanto tali.200 Ora invece si hanno, da una parte, gli spettacoli live costituiti dalla co-presenza corporea di attori e spettatori e prodotti dal loop autopoietico di feedback e, dallʼaltra, gli «spettacoli mediatizzati in cui produzione e ricezione avvengono separatamente e dove il loop autopoietico di feedback viene annullato» (p. 121).

La formazione di “comunità estetiche”, il contatto e la relazione che viene ad instaurarsi tra attori e spettatori possono avvenire soltanto negli spettacoli del primo tipo, e non è stato certamente un caso il fatto che le prime performance degli anni Sessanta e Settanta, come ad esempio quelle di Schechner e del suo The Performance Group, piuttosto che quelle degli Azionisti viennesi, di Beuys o della Abramović, siano sorte proprio come reazione diretta e decisa contro la progressiva mediatizzazione della cultura occidentale, e che si siano servite dei caratteri di immediatezza ed autenticità come armi nella lotta contro una riproduzione sempre più “vorace” delle opere dʼarte contemporanee. La performance, sin da questo momento, diventa un vero e proprio modo di comunicare, la maniera privilegiata con cui lʼartista può entrare direttamente in

relazione con lo spettatore – lʼaltro grande protagonista della storia dellʼarte –, il quale, per lʼappunto, non necessariamente deve venire inteso come un antagonista, bensì come un irrinunciabile co-produttore allʼinterno della più ampia dinamica artistica: la performance, allora, non tanto come una fissazione oggettuale che impedisce qualsiasi possibilità di relazione con qualcosa di esterno da sé, bensì come un processo che coinvolge allo stesso tempo più soggetti, e lo fa a molteplici livelli. La comunicazione

interumana non mediata, che viene così a stabilirsi, diventa anche sinonimo del

tentativo costante da parte della performance di trasmettere delle autentiche esperienze umane ed artistiche, senza per questo dovere ricorrere a qualcosa di diverso dal corpo dellʼartista e dalla sua fondamentale capacità di intessere relazioni con il mondo esterno e con i più svariati soggetti umani. Ne deriva che, sebbene da una parte le prime performance abbiano contribuito attivamente a fare crollare tutte quelle dicotomie che rappresentano le “fondamenta” su cui si è eretta non soltanto lʼarte, ma lʼintera cultura occidentale tradizionale – la coppia concettuale arte/realtà, soggetto/oggetto, corpo/spirito, significante/significato, produzione/fruizione, dimensione pubblica/dimensione privata –, dallʼaltra parte sembra che esse abbiano partecipato energicamente alla costruzione di questa nuova dicotomia tra spettacolo live e spettacolo mediatizzato, in nome della critica e della lotta contro quella che Adorno e Horkheimer hanno riconosciuto sotto il nome di industria culturale.201

In una cultura sempre più commercializzata e mediatizzata, le performance “live” rappresenterebbero lʼultimo mezzo in grado di opporre resistenza al mercato e ai

media – e quindi alla cultura dominante. Solo nella performance “live”

apparirebbero i resti di unʼ“autentica” cultura (p. 122).202

201

Cfr. Adorno, Horkheimer 1947, soprattutto il celebre capitolo intitolato, per lʼappunto, Lʼindustria

culturale. Quando lʼilluminismo diventa mistificazione di massa, alle pp. 126-181.

202 Come riconosce la studiosa americana Peggy Phelan, una delle voci più autorevoli dei Performance Studies: «Lo spettacolo non può essere archiviato, registrato, documentato o partecipare in alcun modo alla circolazione di rappresentazioni: quando lo fa, diventa una cosa diversa dalla performance. Nella misura in cui la performance tenta di entrare nellʼeconomia della riproduzione, tradisce e sminuisce la promessa insita nella sua ontologia» (Phelan 1993, p. 146). Rimando, in particolare, a questo testo fondamentale per integrare e comprendere maggiormente quanto sostenuto finora a proposito della (im)possibilità di “riprodurre” una performance artistica.

Ciononostante, secondo uno dei massimi teorici della Performance Art, Philip Auslander, la performance live sarebbe oggi (e già da tempo) confluita e dissolta nella performance mediatizzata:

Qualunque distinzione possiamo aver supposto esistere [...] tra eventi live ed eventi mediatici essa sta scomparendo perché gli eventi live stanno diventando, via via, identici a quelli mediatici. [...] Paradossalmente, intimità e immediatezza sono esattamente le qualità attribuite alla televisione che le permettono di presentare performance live. Nel caso di spettacoli di massa [...] (come manifestazioni sportive, riviste di Broadway e concerti rock) la performance live sopravvive come evento televisivo. [...]

Nella nostra cultura, lʼubiquità delle riproduzioni di performance di ogni tipo ha portato a una svalutazione della presenza dal vivo (live) che può essere compensata solo rendendo lʼesperienza percettiva del live il più possibile simile a quella mediatica, anche nei casi in cui lʼevento dal vivo garantisca già un suo tasso di somiglianza (Auslander 1999, pp. 32-36).

Auslander, a tale proposito, introduce altre due argomentazioni estremamente rilevanti, con cui sarà necessario confrontarsi nel prosieguo della seguente analisi: innanzitutto, la differenza tra performance live e performance mediatizzata sembra essere scomparsa in favore di una mediatizzazione generalizzata;203 in secondo luogo, pressoché «tutte le performance live utilizzano oggi tecniche di riproduzione, come minimo usando lʼamplificazione elettronica, e qualche volta fino al punto che quasi smettono di essere live» (p. 58).

1.2. ...e la sua forza trasformativa

Mentre il concetto di opera richiede come suo complemento i concetti di produzione e ricezione, nei processi estetici il concetto di evento viene completato da quelli di messinscena e di esperienza estetica. Questa triade concettuale costituisce lʼimpalcatura fondamentale dellʼestetica del performativo (Fischer-Lichte 2004, p. 314).

203 Auslander sostiene che «lo stesso evento live si conforma alle esigenze di mediatizzazione [...] le performance live oggi emulano le rappresentazioni mediatizzate fino al punto di diventare una riproduzione di seconda mano di se stesse, di come sono riflesse dalla mediatizzazione» (Auslander 1999, p. 58).

In particolare, sebbene il concetto di messinscena sia stato coniato soltanto nel XIX secolo, il processo a cui esso si riferisce risale già molto indietro nel passato ed è presente dovunque abbiano luogo degli spettacoli ai quali partecipano più persone e che richiedono una preparazione meticolosa e un impegnativo lavoro di prove. Il concetto nasce nellʼambito del teatro letterario, riferendosi a quella particolare teoria dei due

mondi secondo cui, da una parte, vi sarebbe il mondo delle idee estetiche e, dallʼaltra, le

immagini create dalla messinscena per rappresentare e rendere manifeste tali idee. Nel XIX secolo, dunque, la messinscena indica il processo attraverso cui si rende visibile qualcosa di antecedente, qualcosa che esiste “altrove” – nel mondo delle idee estetiche o, più semplicemente, nel testo letterario del dramma da rappresentare –.

Tale accezione del concetto di messinscena viene modificata a cavallo tra XIX e XX secolo, quando alla messinscena viene riconosciuto per la prima volta lo statuto di

attività artistica: sono state soprattutto le Avanguardie artistiche di inizio Novecento a

riconoscere e dichiarare il teatro come forma dʼarte autonoma e indipendente dalla letteratura (come si è già potuto vedere in riferimento al “padre fondatore” della

Theaterwissenschaft, Max Herrmann).

A tale proposito il noto artista di teatro inglese Edward Gordon Craig arriva a sostenere che lʼattività del regista e, dunque, il mettere in scena, consiste nel rendere visibile lʼ“invisibile”. Craig, tuttavia, non sembra fare riferimento alla precedente teoria dei due mondi; egli infatti prosegue il suo discorso sostenendo che

Cʼè una cosa che lʼuomo non ha ancora appreso a padroneggiare, che non immaginava neanche stesse ad attenderlo, che le si accostasse con amore; era invisibile e pur sempre presente a lui. Una cosa magnifica, che lo seduceva e si ritraeva fugace, aspettando solo che le si avvicinasse lʼuomo giusto, pronto a innalzarsi a volo con lei per il cielo, lontano dalla terra – è il Movimento (Craig 1971, p. 27).

Ecco allora che per Craig il compito della messinscena è di portare a manifestazione, rendere attualmente presente il movimento. In un senso più generale, la messinscena «produce la presenza attuale (Gegenwärtigkeit) di ciò che mostra» (Fischer-Lichte 2004, p. 320) e, soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta, essa viene concepita come una strategia di produzione «secondo cui nello spettacolo lʼessere

presente dei fenomeni deve essere prodotto performativamente e presentato come transitorio ed effimero in una certa successione temporale e in una certa disposizione spaziale» (p. 321).204

La Fischer-Lichte, tuttavia, ritiene opportuno ribadire con forza la differenza tra messinscena e spettacolo: se la prima viene definita come «il processo della pianificazione, della prova e della determinazione delle strategie secondo cui la materialità dello spettacolo viene prodotta performativamente, di modo che, da una parte, gli elementi materiali possano manifestarsi come attualmente presenti nel loro essere fenomenico e, dallʼaltra, venga posta in essere una situazione che lascia libertà e spazio di manovra per azioni, comportamenti ed eventi non pianificati e non preordinati» (p. 323), lo spettacolo si dà in quanto evento, in continuo divenire e mai pienamente governabile e prevedibile.

Dʼaltronde, come ribadito più volte dalla stessa Fischer-Lichte, lʼesperienza

estetica possibile durante uno spettacolo «si può descrivere prima di tutto come

esperienza di uno stato di soglia capace di operare trasformazioni in chi la compie» (p. 301) – e, aggiungerei, in chi vi partecipa in quanto spettatore –.205

Lʼautentica esperienza estetica, di fatto, si realizza soltanto nel momento in cui lo spettatore vive lo spettacolo, in un senso strettamente corporeo: lʼesperienza «come

relazione originaria, antecedente ad ogni sapere e ad ogni linguaggio, è anzitutto

unʼesperienza che prende corpo, qualcosa di coestensivo alla nostra corporeità» (Desideri 2004, p. 8). Il corpo è il luogo stesso dellʼesperienza, ciò che caratterizza

204 «Se gli strumenti artistici e tecnici sono adoperati affinché lʼattore si manifesti come presente e le cose vengano colte nelle loro estasi, e affinché lʼattenzione dello spettatore sia indirizzata al loro essere fenomenico e proprio questo essere fenomenico salti allʼocchio, ecco che allora nel corpo vivo dellʼattore e attraverso di esso, nelle cose e attraverso di esse, non si manifesta qualcosa di altro, ma questo corpo vivo e queste cose stesse nel loro fugace essere presente» (Fischer-Lichte 2004, p. 321).

205 Il già ricordato antropologo inglese Victor Turner è arrivato a definire tale stato di soglia come uno

stato di liminalità (dal latino limen, soglia) e, più precisamente, «come stato di una labile esistenza di

mezzo, “uno spazio intermedio (betwix and between) tra le posizioni assegnate e distribuite dalla legge, dal costume, dalle convenzioni e dal cerimoniale”» (p. 302). Proprio allʼinterno di questo spazio interstiziale, lʼ“essere tra” viene promosso a categoria privilegiata e le trasformazioni che avvengono in esso riguardano di solito tanto lo status sociale di colui che si sottopone al rituale, quanto lʼintera società: da una parte, ad esempio, un giovane adolescente viene trasformato in guerriero, una donna nubile e un uomo celibe in una coppia di sposi, un malato in una persona sana; dallʼaltra parte, si compie implicitamente un rinnovamento della società e si stabiliscono dei nuovi “nuclei comunitari” con cui si va a cancellare definitivamente i confini che in precedenza separavano gli individui tra loro. Similmente, ma traslando lo stesso concetto allʼinterno di una riflessione di tipo puramente estetico, Desideri descrive lo stato di soglia (anche se più che di “soglia”, Desideri preferisce parlare di “passaggio”) anzitutto come una cesura – «rottura di habitus percettivo, puro discontinuum nel flusso del sentire, origine di un sentimento nuovo» – (Desideri 2018a, p. 90).

lʼuomo in quanto essere sensibile, costantemente aperto alla relazione e al dialogo con qualcuno o qualcosa di esterno e di altro da sé. Nellʼesperienza estetica – in maniera ancora più accentuata rispetto a qualsiasi altro tipo di esperienza quotidiana – emerge proprio questo nostro essere parte di un mondo con cui potere entrare in contatto e scambiarsi vicendevolmente degli “sguardi”: la nostra attenzione si concentra verso qualcosa di diverso dagli oggetti a cui abitualmente ci rivolgiamo e si effettua così una sorta di passaggio, che Fabrizio Desideri definisce, per lʼappunto, passaggio estetico.

Nel passaggio estetico, sigillato dal piacere, si stabilisce un circolo virtuoso tra la nostra attenzione e le proprietà aspettuali di quel qualcosa dʼaltro, di quellʼalterità che ci viene incontro. Lʼesperienza estetica si presenta, dunque, come lʼesperienza di un passaggio. È come se, al di là di ogni sforzo, aintenzionalmente attraversassimo una soglia. La soglia della gratuità. Qualcosa, nella nostra relazione percettiva con il mondo, ci viene dato in sovrappiù alle nostre aspettative. Potremmo dire che qui lo sguardo è sorpreso (p. 29).

La sorpresa – o, se si preferisce, lo choc, di benjaminiana memoria – deriva dal fatto di comprendere che la propria soggettività e un “ritaglio di mondo”, per quanto minuscolo – lʼopera dʼarte nel caso specifico – possono entrare in intima connessione tra loro, determinando unʼesperienza di armonia «che squarcia lʼabitudinarietà del percepire» (p. 30). La funzione di questo choc, infatti, tipico dellʼattivarsi della funzione artistica in unʼopera dʼarte, «non è solo quella di disarticolare e sciogliere vincoli percettivi già stabilizzati, ma anche quella di tessere in maniera nuova la trama di connessioni e vincoli tra la mente e il mondo» (Desideri 2006a, p. 92).206

Lʼesperienza estetica insiste e persiste proprio su questa soglia, quella di un circolo dinamico di scambio tra interno ed esterno (tra soggettività dellʼimplicazione in prima persona e alterità capace di destare lʼattenzione). Questa soglia è il medium stesso in cui consiste il passaggio, gratuito e gradito, che assume la misura di un istante (Desideri 2004, p. 30).

206 E Desideri prosegue: «A tale proposito si potrebbe anche sostenere che lʼarte visiva (ma ad un certo livello tutta lʼarte) può fare ciò, in quanto il suo spazio di efficacia sta proprio nella differenza tra lo strato primariamente percettivo dellʼesperienza (il terreno dellʼesteticità stricto sensu), il linguaggio-mondo nel quale ogni esperienza si dispone e si organizza e la sua categorizzazione. Agendo nello spazio di questa differenza, lʼopera dʼarte funziona appunto nel produrre continui spostamenti di confine e, quindi, di livelli di comprensione tra il campo estetico e la rete linguistico-concettuale condivisa dalle nostre forme di vita» (Desideri 2006a, p. 92).

È in questo medium dellʼesperienza che si costituisce lʼoggetto estetico, le cui proprietà sono, per lʼappunto, relazionali e non oggettive – come già messo magistralmente in evidenza da alcuni esteti fenomenologici del Circolo di Monaco, tra cui spiccano i nomi di Waldemar Conrad e Moritz Geiger –.207 Soltanto allʼinterno di una relazione lʼopera dʼarte può manifestare la propria autonomia, la propria funzione prettamente artistica, grazie a cui «può significare di per sé, in maniera per così dire metafunzionale e cioè in maniera autonomamente simbolica» (p. 96), offrendosi per se stessa allʼattenzione estetica.208

È in questo senso che Desideri arriva a pensare allʼopera dʼarte – in quanto esplicarsi oggettivo della funzione artistica – come un «simbolo attivo o, se si vuole, simbolicamente costruttivo» (Desideri 2006a, p. 91):

Nella simbolicità dellʼopera dʼarte risuona, infatti, sia il senso dinamico del “formare” (nel suo essere una forma simbolica per così dire formans) sia il senso del congiungere, del far da ponte tra mente e mondo producendo simboli dellʼoltrepassamento del loro reciproco confinare, nella presupposizione della permanenza della loro distinzione. Unificando i campi di senso della mente e del mondo in una formazione simbolica autonoma, lʼopera dʼarte esprime, così, tanto la dimensione della loro effettiva unità quanto quella della distanza, della costitutiva polarità (ib.).209

Lʼopera dʼarte, nella sua simbolica autonomia, si pone in attrito sia rispetto al mondo, sia rispetto alla mente: nei confronti dei campi di senso immanenti a questi due

207 Per quanto riguarda il primo rimando certamente al saggio Der ästhetische Gegenstand (1908-1909); per il secondo rimando, invece, almeno a Beiträge zur Phänomenologie des ästhetischen Genusses (1913).

208 «Questʼultima segue lʼopera, sta in qualche modo al suo servizio; ma ciò non significa che sia secondaria rispetto al costituirsi di un artefatto come opera dʼarte. Per certi versi, anzi, è presupposta nellʼorigine intenzionale dellʼopera che, nella sua effettività, la reclama. Il senso di questo reclamare, di questo appello, non dipende dallʼeffettività e dalla diffusività della risposta. Al punto che spesso unʼopera dʼarte può non essere riconosciuta come tale oppure può essere avvertita come dissonante con il gusto dei suoi fruitori. Ciò, però, conferma, anziché smentire, lʼautonomia della funzione artistica come autonomia del senso di unʼopera (Desideri 2004, p. 97).

209

«Lʼopera dʼarte come unità formale di un oggetto simbolico sarebbe, in altri termini, una forma

formans che congiunge e intreccia mente e mondo producendo simboli dotati di una autonoma vitalità;

simboli attivi, appunto, e come tali capaci di oltrepassare la stessa distinzione tra mente e mondo (tra soggettuale e oggettuale), pur presupponendola come condizione del funzionamento simbolico dellʼarte stessa in tutte le sue manifestazioni oggettive. Un funzionamento che riguarda la produzione di senso in unʼaccezione più ampia di quella che lo identifica con un contenuto intenzionale, avendo esso a che fare primieramente con lʼallentare e riannodare vincoli percettivi nei confronti del mondo, stabilizzando e/o destabilizzando relazioni genericamente cognitive (fino ad instaurarne di nuove)» (Desideri 2006b, p. 65).

termini, essa «esplica la sua funzione simbolicamente costruttiva con lʼassumere in maniera eminente il carattere dellʼipoteticità e, dunque, ponendosi oggettivamente come

experimentum in re» (p. 92), capace di trovare delle risposte a dei questiti che non

necessariamente derivano esclusivamente dallʼambito di ricerca, dal linguaggio e dalla

Nel documento Ontologia della Performance Art (pagine 177-190)