È ora chiaro come di fronte ad una rappresentazione diventi necessario riconoscere «lʼespressione di un pensiero» (Wittgenstein 1953, p. 260); e ciò viene suggerito già dal celebre esempio che Ludwig Wittgenstein riporta nelle sue
Philosophische Untersuchungen:
Guardo un animale. Un amico mi chiede: «Che cosa vedi?». Rispondo: «Una lepre». – Vedo un paesaggio. Improvvisamente salta fuori una lepre. Esclamo: «Una lepre!» Entrambe queste cose – la comunicazione e lʼesclamazione – sono lʼespressione della percezione e dellʼesperienza vissuta del vedere. Ma lʼesclamazione lo è in un senso diverso da quello in cui lo è la comunicazione. Essa erompe da noi. – Sta allʼesperienza vissuta come il grido al dolore.
Ma poiché è la descrizione di una perceziome, possiamo anche chiamarla lʼespressione di un pensiero. – Non necessariamente chi guarda lʼoggetto deve pensare allʼoggetto; invece, chi ha lʼesperienza vissuta del vedere, di cui lʼesclamazione costituisce lʼespressione, pensa anche a quello che vede (ib.).
Analogamente al caso dellʼesclamazione, che è quindi il segno di unʼ«esperienza vissuta del vedere» (ib.), anche nel caso di una rappresentazione ci troviamo di fronte ad un vedere che ha a che fare con un riconoscimento. Vedere una rappresentazione significa, infatti, vedere attraverso un pensiero capace di dare interpretazione ad una forma e questo è proprio il senso di quel paradigma – la cui “eco” ha oltrepassato i limiti della tradizione analitica, per giungere sino ai territori della filosofia “continentale” – che considera la visione di una rappresentazione lʼesercizio di un vedere come.88
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La figura ambigua di Jastrow (cfr. Jastrow 1901) che è sia una lepre che guarda a destra, sia unʼanatra che guarda a sinistra – già ricordata da Gombrich e citata anche da Wittgenstein come «la testa L-A» (Wittgenstein 1953, p. 256) –, dimostra che sia quando vediamo la lepre, sia quando vediamo lʼanatra, uniamo un “pensiero” al “vedere”. Più specificamente, dire che vediamo una superficie segnata come una lepre significa dire che quando osserviamo la tela su cui si trova la figura non cerchiamo una corrispondenza tra la lepre sulla tela e la lepre nella nostra memoria, ma “vediamo” la lepre nella nostra memoria attraverso la lepre sulla tela; cioè caratterizziamo lo statuto ontologico della lepre nella nostra memoria attraverso la visione della lepre sulla tela (e lo stesso, ovviamente, vale anche nel caso dellʼanatra).
È stato soprattutto Richard Wollheim che, a partire almeno dal suo Art and Its
Objects (1968), ha saputo sviluppare tale paradigma, facendolo derivare da quella che
lui stesso ha definito come «ipotesi dellʼoggetto materiale» (Wollheim 1968, p. 16).
Tale ipotesi è un punto di partenza naturale: se non altro in quanto è plausibile assumere che le cose sono oggetti materiali a meno che non sia assolutamente chiaro il contrario. [...] Inoltre, e ciò ha unʼimportanza maggiore, lʼipotesi in questione è in accordo con molte concezioni tradizionali dellʼarte, delle opere dʼarte e della loro natura (ib.).
Ciononostante, lʼipotesi secondo cui tutte le opere dʼarte sono da identificarsi con degli oggetti materiali può essere messa in discussione ed è possibile riconoscere, in particolare, due obiezioni principali:
Nel caso di certe arti infatti, lʼobiezione che si solleva contro lʼipotesi dellʼoggetto materiale consiste nel rilevare che non esistono oggetti materiali che possano, con qualche plausibilità, essere identificati con lʼopera dʼarte stessa: non è cioè possibile individuare un oggetto esistente nello spazio e nel tempo (e ciò è un requisito essenziale per poter considerare materiale un oggetto) che possa essere pensato come un brano musicale o un romanzo. Per quanto invece concerne altre arti – in particolare la pittura e la scultura – si obietta che, sebbene esistano oggetti materiali che potrebbero essere, e che generalmente sono, identificati con le opere dʼarte, tuttavia tale identificazione è scorretta (p. 17).
Il volere identificare La Velata di Raffaello con la tela su cui è stata dipinta, piuttosto che il S. Giorgio con il blocco di marmo scolpito da Donatello (stando agli esempi che riporta lo stesso Wollheim), non può che costituire un errore, che, a sua volta, può essere contestato da due punti di vista differenti, in base che si faccia riferimento alle proprietà rappresentative delle opere dʼarte o alle loro proprietà
espressive.89
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Pur non soffermandoci qui sulle proprietà espressive delle opere dʼarte, mi sembra utile, in via di chiarificazione, riportare una breve citazione ripresa dallo stesso Wollheim: «Quando conferiamo un significato espressivo a un oggetto naturale o artificiale, tendiamo a guardarlo come se fosse un corpo: tendiamo cioè a riconoscergli un aspetto particolare che ha una marcata analogia con un aspetto tipico del corpo umano che, in esso, è costantemente congiunto con uno stato inferiore» (Wollheim 1968, p. 45).
Si può cioè far rilevare sia che lʼopera dʼarte ha proprietà che sono incompatibili con certe proprietà possedute dagli oggetti materiali, sia che le sue proprietà sono di un tipo che gli oggetti materiali, in quanto tali, non possono avere. In entrambi i casi lʼopera dʼarte non potrebbe essere lʼoggetto materiale.
Unʼargomentazione del primo tipo si articolerebbe secondo questo schema: diciamo che il S. Giorgio è pieno di vita (Vasari), il blocco di marmo è invece inanimato [...]. Unʼargomentazione del secondo tipo seguirebbe invece questo diverso schema: diciamo de La Velata che esprime nobiltà e maestà (Wölfflin), ma è inconcepibile che una tela abbia queste proprietà [...] (p. 24).
Strettamente connessa alla questione delle proprietà rappresentative delle opere dʼarte – che è anche quella che più ci interessa allʼinterno di questo contesto –, appare la nozione da cui è iniziata la nostra analisi, ossia la nozione del vedere-come, che Wollheim definisce anche come «vedere rappresentativo» (p. 29)90 e che tenta di chiarire attraverso un esempio ripreso dalla stessa storia dellʼarte:
Si dice che Hans Hofmann, il decano della pittura newyorkese, fosse solito chiedere agli allievi, allorché entravano a far parte del suo studio, di fare una macchia nera su una tela bianca e poi di osservare in che modo il nero stesse sul bianco. Evidentemente, ciò che gli allievi di Hofmann dovevano osservare non era il fatto che una macchia nera si trovasse materialmente sopra una tela bianca. Così, per maggior chiarezza, modificherò un poʼ lʼesempio e farò lʼipotesi che ai giovani pittori sia stato chiesto di fare una macchia blu su una tela bianca e poi di osservare in che modo il blu stesse dietro (come infatti stava) al bianco. Il senso in cui “su” è stato usato nellʼesempio originale e “dietro” in quello modificato, ci dà, in forma elementare, lʼidea di che cosa sia vedere qualcosa come rappresentazione ovvero che cosa significhi per qualcosa avere proprietà rappresentative (p. 28).
Segnatamente, tale esempio serve a specificare il discrimen tra lʼesercizio del vedere puro e semplice e quello del vedere qualcosa come rappresentazione di qualcosʼaltro: quando gli allievi di Hofmann osservano lʼoggetto indicato loro dal maestro possono “vedere” una macchia nera su una tela bianca, in tutta la loro
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«In un passo famoso del Trattato della pittura, Leonardo raccomanda allʼaspirante pittore di “ravvivare lʼingegno inventivo” osservando pareti macchiate di umidità o pietre dalla superficie variegata per scoprire in esse paesaggi mirabili, scene di battaglia, forme bizzarre in movimento turbinoso. Questo passo trova molte applicazioni tanto in psicologia quanto in filosofia dellʼarte. Lʼho citato qui perché testimonia della presenza diffusa del vedere rappresentativo» (p. 29).
materialità, o “vedere” un oggetto “come” una macchia di colore nero dietro ad una tela bianca. Nel primo caso si avrà una mera percezione; nel secondo caso, invece, unʼautentica esperienza vissuta del vedere (per tornare a Wittgenstein).
In seguito, in particolare nella seconda edizione di Art and Its Objects (1980) – nel saggio Seeing-As, Seeing-In, and Pictorial Representation – e nellʼopera Painting as
an Art (1987), lo stesso Wollheim arriva a sostenere che il “vedere” un oggetto “come”
un altro implica, al tempo stesso, anche il “vedere” un oggetto “in” un altro; anzi, sarebbe proprio questo vedere-in ad adempiere pienamente al corretto funzionamento della rappresentazione e a costituire il “nocciolo” della stessa teoria della rappresentazione che Wollheim intende proporre.
Tuttavia, è soprattutto nel suo saggio On Pictorial Representation (1998) che, affrontando specificamente il problema dello statuto percettivo della rappresentazione pittorica,91 Wollheim cerca di approfondire la nozione del vedere-in nei termini di una capacità eminentemente percettiva tipica dellʼuomo, il quale, per lʼappunto, riesce a vedere in ciò che ha davanti qualcosa che viene rappresentato (ad esempio, un volto ritratto in una tela ricoperta di vernice), dando luogo ad unʼesperienza contrassegnata dalla duplicità, poiché chi guarda è insieme consapevole di vedere un oggetto e, in tale oggetto, di vedere una figura.
Chiamo questa esperienza «esperienza appropriata» del quadro e [...] se un osservatore adeguato guarda il quadro, egli, restando identiche le altre cose, farà lʼesperienza appropriata. [...] Infatti, se, guardando una rappresentazione, prima di poter fare lʼesperienza appropriata un osservatore altrimenti adatto deve possedere le capacità necessarie per effettuare il riconoscimento, allora, per corollario se gli mancano tali capacità può, guardando la rappresentazione e venendo sollecitato in maniera adeguata, acquisirle. Restando identiche le altre cose, egli farà simultaneamente lʼesperienza appropriata e acquisirà la capacità di riconoscere (Wollheim 1998, p. 259).
91 Secondo Wollheim «la rappresentazione pittorica è un fenomeno percettivo, e più strettamente visivo. Se si mette in questione lo statuto visivo della rappresentazione, anche lo statuto visivo delle arti pittoriche sarà a rischio» (Wollheim 1998, p. 258).
In particolare, il solo modo per riuscire ad acquisire la capacità di riconoscere risiede nella possibilità di fare unʼesperienza «in cui siamo visivamente consapevoli della cosa, del tipo di cosa, che riusciamo in tal modo a riconoscere» (p. 262).
Ciò che è peculiare del vedere-in, e dunque della mia teoria della rappresentazione, è la fenomenologia delle esperienze in cui esso si manifesta. Guardando una superficie opportunamente segnata, siamo visivamente consapevoli al tempo stesso della superficie segnata e di qualcosa che è posto di fronte o dietro a qualcosʼaltro. Chiamo questo aspetto di tale fenomenologia «duplicità» (p. 266).92
Il vedere-in, in sostanza, riesce a rendere conto dei due diversi meccanismi che entrano in azione simultaneamente durante una stessa rappresentazione: la percezione del mezzo espressivo e la percezione di ciò che viene rappresentato.93 Quando osserviamo unʼopera dʼarte, infatti, siamo consapevoli di trovarci di fronte ad una rappresentazione; anzi, dobbiamo esserlo, proprio perché «la sua “superficie”, le sue linee e colori, non possono e non debbono ritrarsi a esclusivo vantaggio del proprio contenuto. Lʼopera, insomma, non è “trasparente”» (Marchetti 2006, p. 66).
A tale proposito, Kendall Walton, in Mimesis as Make-Believe (1990),94 argomenta con ulteriore chiarezza:95
92 Levinson sottolinea il fatto che: «”Vedere-in” differisce da “vedere-come” almeno in due modi: in primo luogo, lʼuno si applica alle parti di una figura, lʼaltro solo alla figura nel suo insieme; secondariamente, il vedere-in comporta una consapevolezza della superficie della figura, a un tempo con la consapevolezza del suo contenuto figurativo. (Wollheim definisce “duplicità” (twofoldness) questo carattere del vedere-in)» (Levinson 2002, p. 442). E Wollheim specifica: «Il vedere-in è precedente, sia logicamente sia storicamente, alla rappresentazione. Logicamente, in quanto riusciamo a vedere le cose su superfici che non sono rappresentazioni e che neppure prendiamo per rappresentazioni, ad esempio un busto in una nuvola, o un ragazzo che trasporta una scatola misteriosa in un muro della città imbrattato. E storicamente, in quanto è indubbio che i nostri lontani antenati facessero queste cose prima di pensare di decorare le caverne in cui vivevano con immagini degli animali che cacciavano. Tuttavia, una volta apparsa la rappresentazione, è proprio al vedere-in che ciascuna rappresentazione deve la sua esperienza appropriata, che infatti consiste nellʼesperienza di vedere nella superficie pittorica ciò di cui il quadro è immagine» (Wollheim 1998, p. 262).
93 Come riconosce anche la Chiodo, durante il vedere-in «è in atto la percezione contemporanea del materiale di supporto e della figura e questa dinamica agisce sia nella visione dellʼintero sia nella visione delle parti» (Chiodo 2007a, p. XLVI).
94 Per sviluppare un confronto diretto tra la teoria di Walton e quella di Wollheim si veda anche Walton 2002.
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Come sugerrisce Velotti, Walton «cerca di assorbire in un diverso assetto teorico la prospettiva di Wollheim. Walton ha insistito sulla capacità di dar conto, con la sua teoria generale di una “mimesis” interpretata in termini immaginativi o di “far finta”, dellʼintera fenomenologia della pittura descritta da Wollheim (e, a suo vantaggio, dellʼintero ambito delle arti e in connessione con lʼesperienza umana nel suo complesso) in maniera più semplice e persuasiva» (Velotti 2012, p. 90).
In Quadro suprematista (1915) di Kasimir Malevich “vediamo”, nella parte superiore della tela, una forma rettangolare in diagonale di colore giallo di fronte a una linea orizzontale (o a un rettangolo allungato) di colore verde, a propria volta di fronte a un grande trapezio nero orientato sulla diagonale opposta. Questo è come vediamo il dipinto, non come il dipinto è. In realtà, il giallo, il verde e il nero sono tutti (virtualmente) sullo stesso piano. Ci sono due forme orizzontali di colore verde, non una, separate da un angolo del rettangolo giallo. E il nero non è un trapezio, ma una forma complessa che circonda una selezione di aree rettangolari (Walton 1990, p. 194).
Quello che intende suggerirci Walton tramite questo esempio è che quando descriviamo una parte dellʼoggetto rappresentato sulla tela, che vediamo come un rettangolo giallo sopra un trapezio nero, diamo una sorta di interpretazione ad un angolo di superficie in parte gialla e in parte nera; ossia immaginiamo che sotto il giallo ci sia il nero a formare un trapezio, perché vediamo la superficie di colore nero come un trapezio e sospendiamo la percezione di una forma complessa che, in realtà, senza essere un trapezio, circonda una selezione di aree rettangolari.
Tuttavia, per comprendere pienamente ciò che Walton intende, è necessario ripercorrere velocemente i punti essenziali della sua teoria della rappresentazione, la quale viene enucleata, in particolare, partendo dal «problema dello status ontologico delle entità fittizie» (p. 437). Egli riconosce infatti che, da una parte, siamo soliti parlare di tali entità facendo riferimento ad esse come a «degli ordinari particolari concreti» (p. 442) e, dallʼaltra, sosteniamo che non esistono nella realtà. Come è possibile, allora, risolvere la questione del loro statuto ontologico?
Secondo Walton non si presenta la necessità di affermare lʼesistenza delle entità finzionali, dal momento che una certa cosa è unʼentità finzionale, o una
rappresentazione (dato che Walton arriva a far coincidere i due termini), se e solo se è
stata progettata per agire da simulacro «in giochi di simulazione» (p. 190), ossia, in giochi visivi di finzione che consistono nellʼimmaginare le proposizioni che la rappresentazione stessa veicola.
Questo è quel che sono le bambole, i camion giocattolo, i paletti nel gioco di Eric e Gregory e anche le formazioni nuvolose e le costellazioni di stelle quando
«vediamo» in loro facce o animali, se le consideriamo capaci di dirigere le attività di immaginazione che sollecitano. [...]
I paletti sono simulacri ad hoc, cioè forzati a essere impiegati, in unʼoccasione specifica, in un gioco di simulazione specifico. Le bambole e i camion giocattolo, invece, sono pensati per essere simulacri: sono costruiti esattamente a questo scopo. La loro funzione, cioè la ragione per la quale sono stati costruiti, è analoga alla funzione delle sedie, costruite per sedercisi sopra, e delle biciclette, costruite per essere usate come mezzo di trasporto. Inoltre, le bambole e i camion giocattolo sono pensati per agire non semplicemente da simulacri, ma da simulacri in giochi di un certo genere, cioè giochi nei quali generare una sorta di verità di finzione: le bambole sono pensate per «agire da» neonati e i camion giocattolo sono pensati per «agire da» camion (pp. 190-191).
Lo stesso “meccanismo”, secondo Walton, sembra attivarsi anche con le opere dʼarte in genere: quando leggiamo un romanzo, osserviamo un quadro, o guardiamo un film facciamo lo stesso tipo di giochi che i bambini fanno con le loro bambole o i loro camion giocattolo; ovvero facciamo finta che esista qualcosa che, in realtà, non esiste. Questo “far finta”, tuttavia, non pretende di ingannare nessuno;96
esso, piuttosto, costituisce un tratto saliente dellʼattività umana e ciò viene dimostrato dal fatto che emerge già in tenera età e permane anche quando si diventa adulti, attraverso forme sempre più complesse e raffinate. Più specificamente, il far finta si delinea come una specie di attività immaginativa, che per funzionare deve fare uso di supporti,97 i quali, a loro volta, generano delle verità di finzione,98 sulla base di principi di generazione che
96 Nel caso specifico di Quadro suprematista, infatti, Walton ritiene che «anche se è in atto unʼillusione, questo non significa che gli osservatori non immaginano il giallo di fronte al verde. Lʼillusione, se è unʼillusione, non ci inganna: capiamo perfettamente che la superficie del dipinto è piatta. Perché non dire, allora, che [il dipinto] sollecita unʼattività di immaginazione? Dire una cosa del genere sarà particolarmente ragionevole se, piuttosto che ignorare o cercare di aggirare lʼ“illusione”, cioè lʼ“apparenza” che il giallo sia di fronte al verde e così via, lʼosservatore la coltiva, indugiandoci sopra. Così, [...] un disegno ci farà immaginare un quadrato, ad esempio, quando ne contiene soltanto qualche accenno. I dipinti di Jackson Pollock, sui quali il colore viene spruzzato e fatto grondare, potrebbero dare vita a qualche verità di finzione sullo spruzzare e sul far grondare» (Walton 1990, p. 195).
97 «In La Grande Jatte a rendere fittizio che una coppia passeggi nel parco è il quadro stesso [...]. Dipende dalle parole che costituiscono I viaggi di Gulliver se, in maniera fittizia, esiste una società di persone alte sei pollici che si battono su come debbano essere rotte le uova» (p. 38).
98 La verità di finzione è «metaforica e non letterale. È un modo per dire qualcosa, a proposito della realtà, passando per enunciati o immagini letteralmente scorretti, ma metaforicamente molto suggestive. La nostra comprensione del mondo reale se ne nutre abbondantemente. Sembra proprio che i bambini imparino il mondo che li circonda giocando a fare finta, con bambole, automobili, essendo quello che sanno bene di non essere: un cow boy, un extraterrestre, una principessa; più avanti, continuano a capire molte cose leggendo romanzi, guardando film o quadri» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, pp. 111-112). Le rappresentazioni, infatti, specificano delle proprietà, ma non le attribuiscono a delle cose realmente
vengono stipulati socialmente99 (anche se non sempre ne siamo pienamente consapevoli).
Ciononostante, secondo Walton esiste una differenza – che potremmo definire “sostanziale” – tra Quadro suprematista e La Grande Jatte (che è lʼaltro dipinto che egli prende ad esempio): il funzionamento della raffigurazione astratta appare diverso da quello della raffigurazione non astratta. La Grande Jatte, infatti, domanda un esercizio di immaginazione che rimanda a qualcosa di “esterno” alla tela; mentre
Quadro suprematista dirige atti di immaginazione che hanno a che fare esclusivamente
con le conformazioni e i colori del dipinto:
le attività di immaginazione che Quadro suprematista prescrive hanno a che fare con le parti dellʼopera stessa. Immaginiamo che la macchia rettangolare di colore giallo sulla tela stia di fronte a quella verde e così via. Questo distingue Quadro
suprematista da La Grande Jatte, allineandola con le bambole e le sculture. Non
immaginiamo alcunché di La Grande Jatte o delle sue parti, ma immaginiamo che una bambola sia un neonato e (credo) che un busto di bronzo di Napoleone sia (una parte di) Napoleone. Ma in ciascuno dei due ultimi casi lʼoggetto delle nostre attività di immaginazione è immaginato essere qualcosa di assai diverso da quel che è – qualcosa che necessariamente non è. Un pezzo di plastica modellato, ad esempio, è immaginato essere un neonato in carne e ossa. Il rettangolo giallo in Quadro
suprematista, invece, è immaginato essere quel che è: un rettangolo giallo. Inoltre, è
immaginato essere in rapporto ad altri oggetti con modalità di relazione che non sono reali: essere di fronte a un rettangolo orizzontale verde, ad esempio. [...] Potremmo tradurre questo suggerimento dicendo che i dipinti figurativi «puntano oltre» se stessi in un modo che non appartiene a Quadro suprematista. La Grande
Jatte ritrae persone e oggetti distinti dal dipinto in sé (probabilmente fittizi), mentre Quadro suprematista semplicemente presenta i propri elementi in un certo modo. La Grande Jatte sollecita e prescrive attività di immaginazione che hanno a che fare