La letteratura sullʼestetica è tutta un proliferare di tentativi disperati di rispondere alla domanda «Che cosa è arte?». Questa domanda, spesso disgraziatamente confusa con la domanda «Che cosa è arte valida?», è difficile quando si tratta di arte “trovata” – una pietra del lastricato di un viale esposta in un museo – ed è resa ancora più complessa dalla diffusione di quelle tendenze che vengono chiamate arte
environmental e arte concettuale. [...] Come osservavo allʼinizio, parte della
difficoltà dipende dal voler rispondere alla domanda sbagliata – non riconoscere, in sostanza, che qualcosa può funzionare come opera dʼarte in un certo periodo e non in altri. Nei casi cruciali, la vera domanda non è «Quali oggetti sono (permanentemente) opere dʼarte?», ma «Quando un oggetto è unʼopera dʼarte?» – o in breve, per riprendere il titolo di questo capitolo [il capitolo quarto di Vedere e
costruire il mondo], «Quando è arte?» (Goodman 1978, pp. 78-79).115
Secondo Goodman la risposta più consona a tale domanda sembra essere la seguente: «Esistere come opera dʼarte vuol dire funzionare esteticamente come simbolo in un sistema simbolico» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 37). Detto altrimenti, se si vuole sapere che cosa lʼarte “fa”, come e quando essa funziona, allora «è preferibile trascurare una riflessione sulla natura ontologica delle opere dʼarte e porre lʼaccento sul loro funzionamento simbolico» (p. 38).116
Se qualcuno è in cerca di unʼarte senza simboli, quindi, non ne troverà – se tutti i modi di simboleggiare vengono presi in considerazione. Lʼarte senza
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È la stessa Gilot a ricordare questo aneddoto nel suo libro, scritto assieme a Carlton Lake, Life with
Picasso.
115 «Se i tentativi di rispondere alla domanda «Che cosʼè arte?» mettono sistematicamente capo a un senso di frustrazione e di confusione, forse – come accade così spesso in filosofia – vuol dire che è sbagliata la domanda. Una preimpostazione del problema, congiunta allʼapplicazione di risultati proveniente da uno studio della teoria dei simboli, è in grado di aiutarci a chiarificare questioni controverse quali il ruolo del simbolismo nellʼarte e lo statuto artistico di tendenze come lʼarte “dellʼoggetto trovato” o la considetta “arte concettuale”» (Goodman 1978, p. 67).
116 Come riconosce lo stesso Goodman: «Dire che cosa lʼarte fa non è lo stesso che dire che cosa lʼarte è; ma non ho problemi ad affermare che il primo aspetto costituisce ciò che vi è di primario e di peculiare» (p. 82). Inoltre, secondo Goodman, accettare la funzione simbolica dellʼarte «ci fornisce una chiave di accesso al perenne problema di quando qualcosa è unʼopera dʼarte e di quando invece non lo è» (p. 78).
rappresentazione, oppure senza espressione, oppure senza esemplificazione – questo sì; ma lʼarte senza nessuna delle tre – questo no.
[...] E, allora, è proprio in virtù del fatto che funziona come un simbolo in un certo modo che un oggetto diventa, nel momento in cui funziona così, unʼopera dʼarte. Una pietra non è normalmente unʼopera dʼarte fin che sta in quel viale, ma lo può essere quando è messa in bella vista in un museo dʼarte. Nel viale, essa non realizza normalmente una funzione simbolica. Nel museo dʼarte, essa esemplifica qualcuna delle sue proprietà – che so, di colore, di forma, di struttura. Scavar buche, e ricoprirle [Goodman si riferisce qui al caso dellʼopera dʼarte di Claes Oldenburg, che consisteva nello scavare e ricoprire una buca a Central Park], funziona come unʼopera in tanto in quanto la nostra attenzione è a ciò diretta come a un simbolo che esemplifica qualcosa. Dʼaltra parte, un dipinto di Rembrandt può cessare alla sua funzione dʼopera dʼarte quando viene usato al posto di una finestra rotta o per coprire qualcosa (pp. 78-79).
Ciononostante, determinati oggetti possono funzionare come opere dʼarte soltanto se la loro funzione simbolica possiede certe caratteristiche, che Goodman riconosce come i «cinque sintomi dellʼ“estetico”» (p. 80)117 – densità sintattica; densità
semantica; pienezza relativa; esemplificazione; riferimento multiplo e complesso –, il
cui compito non è quello di demarcare lʼestetico dal non estetico, quanto quello di permettere una migliore comprensione del funzionamento estetico dei simboli.
Là dove non possiamo mai determinare con precisione quale simbolo del sistema abbiamo di fronte, o se è proprio lo stesso che torna a presentarsi in unʼoccasione successiva, dove il referente è così elusivo che adattare ad esso un simbolo in modo appropriato richiede una cura infinita, dove contano solo pochi aspetti del simbolo, dove il simbolo è un esempio della proprietà che simboleggia e può realizzare diverse funzioni referenziali interrelate semplici e complesse, in tutti questi casi non possiamo semplicemente guardare, attraverso il simbolo, ciò cui esso si riferisce così come facciamo quando osserviamo i segnali stradali o leggiamo i testi scentifici, ma dobbiamo prestare attenzione al simbolo stesso, come quando guardiamo un quadro o leggiamo una poesia (ib.).
117 Goodman li definisce “sintomi” proprio perché sono degli «indizi frequenti, ma non necessari né sufficienti per caratterizzare qualsiasi cosa come estetica» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 38); allo stesso modo in cui «un paziente può accusare dei sintomi senza essere malato, o essere malato senza accusarne i sintomi» (Goodman 1978, p. 81).
In questo modo si spiegherebbe il motivo per cui, secondo Goodman, la domanda essenzialista “Che cosa è lʼarte?” debba essere sostituita da quella, non ontologica, “Quando è arte?”:118
lʼattivazione119 delle opere dʼarte non è certamente meno rilevante della loro effettiva esecuzione;120 anzi, lʼattivazione costituisce una vera e propria condizione dellʼestetico, tanto che unʼopera dʼarte non attivata non si dà, propriamente, in quanto tale.
Diverse pratiche, come, per esempio, lʼinquadratura della luce, lʼesposizione al pubblico, la pubblicità e lʼ“educazione” dei fruitori, implicano «una fase esecutiva e sono destinate a rendere lʼopera “operativa”. Non si tratta solo di comunicarla, quanto di attivarla con pratiche aggiuntive di senso che ne esemplificano, determinano, orientano, approfondiscono il valore» (Fabbri 2008, p. XXVII): quello che le opere dʼarte sono dipende, in ultima istanza, da ciò che esse fanno.
Segnatamente, con il termine “esecuzione” Goodman intende «tutto ciò che rientra nella creazione di unʼopera, dalla scintilla di unʼidea al tocco finale» (Goodman 1984b, p. 46); mentre con il termine “attivazione” intende
tutto ciò che contribuisce a mettere in opera unʼopera, la quale opera, a mio modo di vedere, nella misura in cui viene compresa, nella misura in cui ciò che essa simbolizza e il modo in cui la simbolizza [...] sono discernibili e influenzano il modo in cui organizziamo e percepiamo il mondo (ib.).
118 In realtà, secondo Margolis, «sostituendo “quando” a “che cosa”, Goodman intende sostituire una
funzione che gli oggetti possono manifestare in un certo tempo alla natura che possiedono invece
invariabilmente; facendo questo, egli non ha abbandonato davvero lʼessenzialismo, ma ha trovato un modo ingegnoso per trattare la vecchia tesi in termini temporali (e funzionali)» (Margolis 1981, p. 267). 119
«Lʼimplementazione prima, lʼattivazione poi, sono le nozioni operative introdotte da Goodman in Of
Mind and Other Matters allo snodo tra lʼarte in teoria e quella in azione. Termini assenti ne I linguaggi dellʼarte, che sviluppano alcune definizioni e distinzioni fondative e caratterizzano le fasi del processo
simbolico e testuale dellʼopera» (Fabbri 2008, p. XXVI). A tale proposito Jean-Pierre Cometti, nel saggio che egli dedica esplicitamente alla nozione goodmaniana di attivazione dellʼarte, suggerisce: «Supponiamo di chiamare attivazione – in senso lato – ciò che aiuta un oggetto a funzionare esteticamente, senza essere parte dellʼoggetto come una delle sue proprietà fisiche o percettive, ma che si presenta in modo da fornire allʼoggetto alcuni caratteri selettivi e specifici in relazione alla sua attuale funzione, allora credo che dovremmo pensare allʼattivazione non solo come una condizione del funzionamento dellʼoggetto in questione, ma anche come una parte di ciò che fornisce ad un oggetto uno speciale statuto simbolico» (Cometti 2000, pp. 238-239).
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Il rapporto tra esecuzione e attivazione è tale che, se per un verso è necessaria lʼesecuzione di unʼopera dʼarte per la sua attivazione, dallʼaltro verso questʼultima può anche essere indipendente dalla prima; e ciò viene testimoniato continuamente dalle opere dʼarte contemporanea – dai readymades alle
performances –, quali esempi di opere «che sono attivati esteticamente “prima” o anche “senza” essere
E Goodman prosegue sostenendo che:
Le opere operano se, stimolando uno sguardo indagatore, acuendo la percezione, rafforzando lʼintelligenza visiva, ampliando le prospettive, portando alla luce nuove affinità e contrapposizioni e marcando generi significativi fino ad allora trascurati, cominciano a partecipare dellʼorganizzazione e della riorganizzazione dellʼesperienza, e in questo modo a fare e rifare i nostri mondi.
[...] Le opere operano quando informano la visione; informare non nel senso di offrire informazioni, ma di formare o ri-formare o trasformare la visione; e la visone si intende non limitata alla percezione ottica, ma come comprensione in senso generale.
[...] Le opere operano interagendo con tutte le nostre esperienze e tutti i nostri processi cognitivi in un costante miglioramento della nostra comprensione (pp. 91- 92).121
Lʼattivazione di gran parte dellʼarte dei giorni nostri sembra essere garantita, in
primis, dai mezzi di diffusione di massa,122 tanto che è assai improbabile che lʼestetica e la filosofia dellʼarte contemporanee «possano correre il rischio di non prendere in considerazione il fenomeno dellʼarte di massa» (Cometti, Morizot, Pouivet 2000, p. 49).
In particolare, «lʼattenzione per lʼarte di massa rappresenta un fenomeno relativamente recente nellʼambito dellʼestetica analitica» (DʼAngelo 2008a, p. 155) e proprio il termine “Mass Art” è stato adottato, verosimilmente per la prima volta, da Noël Carroll nel suo articolo The Ontology of Mass Art (1997) e, in seguito, nel suo più ampio e dettagliato studio A Philosophy of Mass Art (1998).
Carroll apre il suo articolo riconoscendo innanzitutto che, «nonostante lʼinnegabile rilevanza dellʼarte di massa per lʼesperienza estetica nel mondo come noi lo conosciamo, lʼarte di massa ha conosciuto scarsa attenzione nelle recenti filosofie
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Come sostiene anche Cometti, «la funzione estetica può avvenire soltanto nelle circostanze in cui un osservatore o un lettore sono coinvolti [...]. Questa è la ragione per cui il modo di Goodman di intendere lʼestetica non può essere confuso con le teorie oggettiviste o realiste, secondo cui i predicati estetici vanno a designare le proprietà dellʼoggetto indipendentemente dalla considerazione dei modi con cui qualcuno possa concepirli o sentirli» (Cometti 2000, p. 237).
122 Come suggerisce Noël Carroll, uno dei principali studiosi dellʼarte di massa: «La tecnologia in senso ampio è un mezzo protesico che amplifica le nostre forze. Per questo, le tecnologie che caratterizzano la rivoluzione industriale sarebbero protesi di protesi, aumentando la portata delle nostre già rinforzate forze di produzione e di distribuzione attraverso lʼautomatizzazione dei nostri mezzi tecnologici di primʼordine. Chiamiamo tali tecnologie “tecnologie di massa”. Lo sviluppo delle tecnologie di massa ha inaugurato lʼera dellʼarte di massa, opere dʼarte incorporate in istanze multiple e disseminate largamente nello spazio e nel tempo» (Carroll 1997, p. 187).
dellʼarte» (Carroll 1997, p. 187); ed è proprio per questo motivo che egli intende proporre qui una sorta di definizione dellʼarte di massa, così da potere introdurre, in un secondo momento, una teoria specifica sul suo statuto ontologico.
Il primo aspetto che Carroll sottolinea è che il termine “mass art” non può e non deve essere confuso con il termine “popular art”, per una serie svariata di motivazioni, che derivano essenzialmente dal fatto che “popular art” «è un termine astorico» (p. 188), mentre «ciò che è chiamato “mass art” non è esistito ovunque lungo tutta la storia dellʼuomo. I tipi di arte – di cui il cinema, la fotografia e il rock and roll sono esempi concreti – che eccedono la cultura contemporanea possiedono una certa specificità storica» (ib.).123
Lʼarte di massa, a differenza dellʼarte popolare simpliciter, non è quel tipo di arte che può essere trovata in ogni società. È lʼarte della massa, delle società industriali, ed è pensata per gli scopi di queste società. Certo, sebbene lʼarte di massa sia una specifica categoria storica, non è possibile datare con precisione il suo avvento. Dʼaltronde, la stessa società di massa inizia ad emergere gradualmente con lʼevoluzione del capitalismo, dellʼurbanizzazione, dellʼindustrializzazione [...] (ib.).
Quel che è indubbio è che lʼarte di massa si predispone ad un «consumo di massa» (ib.): «Questo è il motivo per cui lʼarte di massa rende possibile la fruizione simultanea della stessa opera dʼarte da parte di pubblici spesso molto lontani tra loro» (ib.), per mezzo delle «tecnologie industriali di massa, tecnologie in grado di recapitare istanze o esemplari multipli di opere dʼarte di massa a punti di ricezione ampiamente eterogenei» (p. 189).
Ciononostante Carroll ci tiene a ribadire che, sebbene la produzione e la distribuzione da parte delle tecnologie di massa sia una condizione necessaria per lʼarte di massa, queste non costituiscono anche una condizione sufficiente «per identificare un candidato come unʼopera dʼarte di massa» (ib.), visto che anche le opere dʼarte
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Tuttavia, lo stesso Carroll non nega che «cʼè di frequente una connessione storica tra lʼarte popolare, intesa in senso ampio, e lʼarte di massa. Molto spesso, lʼarte di massa emerge dallʼarte popolare già esistente. [...] Ma certo, non tutte le forme tradizionali di intrattenimento popolare, in senso generale, si trasformano in forme di arte di massa. [...] In breve, sebbene tutta lʼarte di massa possa appartenere alla più generale, astorica classe dellʼarte popolare, non tutta lʼarte popolare è arte di massa» (p. 188). Come suggerisce DʼAngelo: «lʼarte popolare (intendendo con essa unʼarte consumata, e talora prodotta, dagli strati più umili della società, spesso privi di cultura e per lungo tempo non alfabetizzati) è sempre esistita, mentre lʼarte di massa è un fenomeno tipico del Novecento» (DʼAngelo 2008a, p. 158).
dʼavanguardia – qui Carroll sembra fare riferimento alle opere dʼarte “dʼélite”, molto spesso di tipo performativo e non di immediata comprensione – possono fare uso delle medesime tecnologie di massa.124
Le opere dʼarte dʼavanguardia non sono pensate per essere immediatamente accessibili a pubblici di massa. Esse intendono sfidare o trasgredire le aspettative e i modi di pensare comuni che il pubblico consumatore di massa ha nei confronti delle principali forme dʼarte. [Lʼarte dʼavanguardia] richiede uno speciale background al fine di essere compresa, sebbene, certo, tale background possa essere acquisito autodidatticamente. [...] Lʼarte di massa, al contrario, è pensata per essere facile, accessibile immediatamente al più largo numero possibile di persone, con il minimo sforzo (pp. 189-190).
La definizione di Carroll si organizza enumerando una serie di condizioni disgiuntamente necessarie e congiuntamente sufficienti affinché unʼopera x sia arte di massa:
x è unʼopera dʼarte di massa se e solo se 1) x è unʼopera dʼarte ad istanza multipla o
a esemplare multiplo 2) prodotta e distribuita da una tecnologia di massa, 3) tale opera dʼarte è intenzionalmente progettata per orientarsi nelle sue scelte strutturali (per esempio, le sue forme narrative, il suo simbolismo, i sentimenti ai quali si rivolge, e persino il suo contenuto) verso quelle scelte che promettono accessibilità con il minimo sforzo, praticamente al primo contatto, per il più largo numero di fruitori relativamente privi di formazione (p. 190).
Diventa subito chiaro che lʼobiettivo di Carroll non è quello di fornire una definizione di arte di massa che intenda anche giudicarla da un punto di vista morale, politico o estetico in senso stretto. Come suggerisce Paolo DʼAngelo, infatti, Carroll sembra porsi a metà strada tra gli “apocalittici” e gli “integrati” – così come li aveva concepiti Umberto Eco nel suo illuminante saggio del 1964 –; ossia, Caroll si mostra
124 Interessante, a tale riguardo, risulterebbe unʼanalisi sulla possibile relazione tra la Performance Art – lʼoggetto di studio di nostra competenza – e la più “generale” Mass Art, oltre che il tentativo di confrontare i modi con cui queste due moderne forme artistiche arrivano a rapportarsi con la tecnologia e i mezzi di comunicazione più avanzati. Per ovvi motivi di spazio, non potrò tuttavia sviluppare qui tali analisi, ma rimando certamente alla seconda parte del mio lavoro per una ricostruzione, almeno parziale, del dibattito storico-artistico sul rapporto tra performance e documentazione (questʼultima, inevitabilmente, sempre più di tipo tecnologico).
equidistante da chi pensa che i mass media ottundano i nostri sensi e ci rendano “cechi” e “aridi” di fronte alla possibilità di esperire il nostro futuro, così come da chi, al contrario, è pronto ad accogliere con entusiasmo la venuta di questi nuovi mezzi comunicativi e tecnologici, riconoscendo in essi delle importanti risorse, prima impensabili, per lʼuomo.
Questʼultimo aspetto viene esplicitamente chiarito soprattutto in A Philosophy
of Mass Art, in cui la prima parte «è occupata da un bilancio delle principali posizioni pro o contro lʼarte di massa» (DʼAngelo 2008a, p. 162).
Segnatamente, nel capitolo Philosophical Resistance to Mass Art Carroll fa i nomi di Adorno e Horkheimer, i quali almeno a partire dalla Dialettica dellʼIlluminismo (1947) hanno saputo rivolgere aspre critiche a quella che loro stessi hanno definito come “industria culturale”; ma è presente anche il nome di Clement Greenberg, che nel suo saggio Avanguardia e Kitsch (1939) arriva a riconoscere lʼessenza dellʼarte di massa proprio nel fenomeno del kitsch;125 e infine, quello di Dwight Macdonald, che nel suo Masscult & Midcult (1960) qualifica lʼarte di massa, addirittura, come anti-arte.
Nel capitolo Philosophical Celebrations of Mass Art, invece, Carroll riconosce Walter Benjamin de Lʼopera dʼarte nellʼepoca della sua riproducibilità tecnica (1935) e Marshall McLuhan di Understanding Media (1964) come fervidi sostenitori dellʼarte di massa.
Tutto questo ci porta alla significativa conclusione che (soprattutto) lʼarte contemporanea sembra caratterizzarsi essenzialmente come arte in azione, in un senso tuttavia più ampio rispetto a quello pensato dallo stesso Goodman. Lʼaspetto operativo dellʼarte sembra essere arrivato oggi sino al punto di “avere la meglio” sul suo aspetto esecutivo e le pratiche artistiche tendono a rendere le opere dʼarte sempre più effimere e “dislocate”... su ciò, tuttavia, si avrà modo di riflettere diffusamente, affrontando la seconda parte di questo lavoro, dedicata esplicitamente al fenomeno della Performance
Art.
125 «Il kitsch è lʼessenza dellʼarte moderna perché offre al pubblico, senza fatica, quello che il pubblico già sa: gli dà lʼillusione del valore senza farglielo autenticamente condividere, e quindi è intimamente falsificante. [...] Greenberg quando parla di arte di massa pensa soprattutto allʼarte fintamente popolare e in realtà pompier delle dittature del Novecento, del Nazismo o dello Stalinismo» (p. 161). Per un interessante analisi sul fenomeno del kitsch allʼinterno dellʼepoca moderna rimando anche al saggio
Capitolo quarto
Introduzione al concetto di Performance